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1 Fidenza, 25.10.2002 La famiglia fra dinamismo giuridico e problemi epocali. Dimensioni di una sfida di Giuseppe Limone 1. Una premessa. “Famiglia aperta” è, come è noto, una delle pochissime Associazioni di livello nazionale che ha maturato, nella storia della sua metodologia formativa, la consuetudine virtuosa di fare Convegni a partire da una stratificazione di lavoro vivo sul campo che ne prepari gli stimoli e i confini. In questo senso, essa è una singolare testimonianza e un campione dei bisogni della nostra società – questa nostra ‘società dell’apparenza’ – perché risponde col suo operare a una precisa emergenza: la necessità di compiere, in umiltà ma con tenacia, il quotidiano lavoro della talpa che scava per aprire al futuro.

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Fidenza, 25.10.2002

La famiglia fra dinamismo giuridico e problemi epocali.

Dimensioni di una sfida

di Giuseppe Limone

1. Una premessa.

“Famiglia aperta” è, come è noto, una delle pochissime

Associazioni di livello nazionale che ha maturato, nella storia della sua

metodologia formativa, la consuetudine virtuosa di fare Convegni a partire

da una stratificazione di lavoro vivo sul campo che ne prepari gli stimoli e

i confini.

In questo senso, essa è una singolare testimonianza e un campione

dei bisogni della nostra società – questa nostra ‘società dell’apparenza’ –

perché risponde col suo operare a una precisa emergenza: la necessità di

compiere, in umiltà ma con tenacia, il quotidiano lavoro della talpa che

scava per aprire al futuro.

2

In questa sua direttrice di lavoro, ‘Famiglia aperta’ si è occupata,

fra l’altro, come è altresì noto, di identità personale, di lavoro, di

convivialità, di solidarietà, di gratuità. Sempre intrecciando percorsi

precedenti e sempre incrociando nuovi compagni di strada. Oggi l’approdo

è all’interno di un orizzonte che di tutti i precedenti costituisce, per dir

così, un centro di collaudo essenziale. Perché una famiglia può e deve

essere fucina di tutto questo: di identità personale, di processualità

formativa, di etica del lavoro, di solidarietà, di spirito conviviale, di

gratuità.

Ma perché “Famiglia aperta” pone proprio la ‘famiglia’, oggi, al

centro del proprio interesse tematico? Sarebbe troppo banale dire che lo fa

perché questa è la sua dichiarata matrice. Ci sono invece, ad avviso di chi

parla, ragioni più profonde, che vanno messe opportunamente allo

scoperto.

A guardarla bene nell’orizzonte contemporaneo, la famiglia non

può essere un semplice tema. Potrebbe dirsi anzi, di più, che la famiglia,

oggi, non è una pura formazione sociale – per strutturale e fondamentale

che sia. Essa è diventata un laboratorio-test cruciale per la società in cui

viviamo. Di una società di cui essa non è solo luogo germinale, ma spia.

3

Laboratorio e spia, la famiglia è diventata, all’altezza dell’oggi, il

luogo in cui collaudare i quesiti essenziali che riguardano l’uomo, nella

sua concretezza e radicalità. Mi si passi l’immagine. Gli aruspici

leggevano le sorti del mondo dal ventre caldo della vittima o dal volo degli

uccelli. Noi oggi dalla famiglia possiamo forse vedere la società al grado

futuro.

Ma dobbiamo distinguere. Tra la famiglia come formazione sociale

e la famiglia come istituzione giuridica. Non nel senso che queste due

dimensioni siano separate, ma nel preciso senso che, per comprenderle

insieme, bisogna saperle – contemporaneamente – distinguere e correlare.

E la storia della famiglia come istituto giuridico è, per certi versi, la

storia della società vista da dentro – la storia del suo vissuto sociale.

2. L’istituzione sociale. I volti della libertà.

Il diritto, come si sa, è la messa in forma della vita sociale. E,

d’altra parte, ciò che produce mutamenti nelle strutture del diritto, in ogni

tempo, è una catena di sismi sociali che lasciano – per così dire – tracce

geologiche nelle sue ossa.

4

Saremo costretti a vedere solo dall’alto – e per vasti scorci – questo

percorso. Anche perché – come crediamo – questo è anche il modo

migliore per vederne il senso – la direzione di senso.

E vorremmo, in proposito, trarre spunto da alcune intuizioni di ieri,

lucidamente svolte in questo Convegno. C’è da domandarsi, infatti. Perché

la famiglia è – oggi più di ieri – luogo privilegiato da cui guardare la

società? Diremmo che è tale perché la guarda, per così dire ‘a testa in giù’.

Come dalla camera oscura di un fotografo di professione.

Vediamola, questa famiglia. Essa che è, al tempo stesso, elaboratore

dei primi conflitti identitari e terminale di scarico di quelli sociali. Matrice

di percorsi e collaudo di identità. Scudo protettore e foyer di formazione

civile. Possibile tana di rifugio e insospettabile nido di vipere. In ogni

caso, luogo di partenza e di arrivo di un sociale in cui vive, da cui parte e a

cui senza sosta ritorna.

Non a caso, la famiglia è il primo luogo di formazione. Di intelletto

e di affetti. Di intenzioni e di costumi. Di sviluppo o di pericolo. Si pensi

alle scaturigini dei primi disturbi personali, dei primi guasti, dei primi

disagi, delle devianze, del crimine, della stessa pedofilia. In questo senso,

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la famiglia è il medesimo luogo in cui si vivono e si scaricano –

all’ingranditore – i problemi e i vissuti della ‘società dell’apparenza’.

Bene ha fatto “Famiglia aperta”, quindi, a tornare alla sua fonte

germinale. Emilio Baccarini diceva – benissimo – ieri che la famiglia è il

luogo della ‘sincerità’. Aggiungerei: non solo della sincerità come dover

essere, come meta, come ideale, ma della sincerità come essere, come

realtà. Nell’essere sinceri, ci si può infatti rivelare per quelli che si è. Nel

bene e nel male. In questo senso, nella famiglia si dà il sociale in presa

diretta, senza maquillage. Il sociale come si alza dal letto la mattina. E la

‘sincerità’ e la famiglia sono, a ben vedere, i luoghi nevralgici in cui

meglio si vede quanto sia stupefacente e ambivalente il nome della

‘libertà’. Che cosa è mai questa ‘libertà’? Tutti sembrano conoscerla. Tutti

ne parlano. Gli esperti la definiscono nei vocabolari. I filosofi la discutono.

Ma di che cosa precisamente si tratta quando si parla di ‘libertà’? Si tratta

di una vera zona omogenea del vissuto o si tratta, invece, piuttosto, di un

valore ottativo, di un puro urlo emozionale con cui affermiamo

semplicemente – e tautologicamente – di poter volere e vivere nient’altro

che ciò che vogliamo?

6

Forse – a ben guardare – si potrebbe dire della libertà ciò che

Agostino aveva detto del tempo. Se non mi chiedono che cosa sia, la

conosco benissimo. Ma, appena me lo chiedono, non la conosco più.

Si pensi alle varie classificazioni con cui si è cercato di entrare nei

labirinti del suo significato. Si pensi a ‘libertà di’ e a ‘libertà da’:

coordinate fondamentali di cui parlano i filosofi politici e i politologi.

Oppure si pensi a ‘libertà da’, a ‘libertà di’ e a ‘libertà per’ nei termini in

cui ne ha scritto Emilio Baccarini. O – ancora - si pensi alla libertà come

mero non condizionamento e alla libertà come autorealizzazione, di cui

parlano alcuni dizionari filosofici.

Eppure, se la guardiamo – questa ‘libertà – nel luogo germinale che

è la famiglia come seme di ‘sincerità’, ci accorgiamo che siamo davanti a

un intreccio di termini e di situazioni difficilissimo da districare, perché si

tratta sempre di fili sfuggenti, tutti degni di specifica percezione teorica e

tutti irrimediabilmente connessi. Si pensi. Libertà, nei luoghi in cui si può

essere liberamente sé stessi, è non essere disturbati. Ma libertà è anche

essere messi nelle condizioni per cui, non disturbati, si possa fare ciò che

si vuole. Ma, per essere messi in tali condizioni, possiamo dover essere

aiutati. E – intanto – chi ci aiuta ad essere liberi non dovrà ‘disturbarsi’ ad

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aiutarci? E non va mai dimenticato: una libertà, spesso, la si conquista

pagandola con un’altra. La libertà rivela, così, la sua natura complessa.

Una fetta di libertà può essere scambiata con un’altra, allo scopo di

realizzarne una terza, ritenuta più adeguata. E certamente la famiglia è il

primo luogo per l’apprendistato di questa esperienza originaria:

l’esperienza, contraddittoria e complessa, della libertà – anzi, delle libertà.

Perché la libertà è l’esperienza di tante cose che stanno insieme – e che

non sempre sono compatibili fra loro. E – alla fine – libertà è anche

scegliere fra le libertà – e fra i vari possibili dosaggi di esse.

Ci domanderemmo, a questo punto, traendo spunto dall’esperienza

che è la famiglia. Perché mai si usa, ancora oggi, collocare ai poli opposti

‘libertà’ e ‘solidarietà’? Non si tratta per caso di un errore? La libertà non è

anche quella consistente nel poter dare e ricevere solidarietà – anzi nel

presupporre solidarietà?

E’ a questo punto che vorremmo compiere il passo successivo.

Consistente in una costatazione decisiva. E’ nella famiglia che può

sperimentarsi, fin dall’origine, la frantumazione della libertà nelle sue

sfaccettature più concrete. Perché in nessun luogo meglio che nella

famiglia si scopre che la libertà è l’insieme di tante libertà – e che la libertà

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è relazione. E, infatti, nella famiglia s’impara in concreto la logica della

relazione come costitutiva della persona. Come ricordava Baccarini, la

libertà dell’altro è il presupposto della mia. E la famiglia è giacimento di

relazioni – il primo giacimento di relazioni. Ed è, come tale, sfida perenne

alle possibilità propiziatrici e regolatrici del diritto.

E’ nella famiglia che s’impara a capire l’importanza del ‘sé’ in

relazione all’importanza dell’‘altro’. E’ nella famiglia che s’impara il ‘chi

sono’ in relazione ai tanti possibili ‘tu’. E’ nella famiglia che si impara ad

esprimersi in relazione a chi ascolta. Ed è nella famiglia che non si rischia

di essere schiacciati nell’anonimato. Si può essere discriminati, non

ignorati. Nella famiglia – come si è detto con frase pittoresca e alla moda –

‘ognuno è un vip’. Ognuno ha la sua visibilità originaria. E, se non riesce

ad averla, porterà dentro di sé una costellazione di guasti per sempre.

Ma il mondo preme contro le pareti domestiche. Preme incoercibile,

attraversandolo senza sosta. E’ la ‘società dell’apparenza’. E’ il sistema

lavorativo. E’ il sistema massmediatico. E’ il sistema del tempo libero. E’

il ‘gruppo dei pari’. In questo senso, non solo la tua libertà è il presupposto

della mia, ma anche l’intera società è il presupposto della famiglia – di

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quella famiglia in cui imparo progressivamente a chiamarmi e ad essere

‘io’.

Questo apprendistato alla sincerità – quale che sia il suo valore –

non è un dato originario: va appreso. Perché questa famiglia sta nella

‘società dell’apparenza’ non come il contenuto nel contenente, ma come il

termometro nell’acqua, come il cristallo nella luce, come la terra nel seme,

come il seme nella terra che lo nutre.

Ma – attenzione! – non si può e non si deve demonizzare

l’apparenza. Almeno in certi limiti, la libertà ha bisogno anch’essa –

essenziale bisogno – di apparenza. Di apparire. Perché apparenza è anche

esperienza, espressione, manifestazione, In che cosa, oggi, questa ‘società

dell’apparenza’ vive, invece, un invisibile morbo specifico?

Si noti. A ben guardare, si tratta di un’apparenza che non è

esprimente, che non è liberante. Si tratta di un’apparenza malata e

generatrice di mali perché costrittiva. Costrittiva nella misura in cui crea

condizioni in cui non tanto debbo fare, ma, piuttosto, non posso non fare.

Si tratta di un’apparenza malata e generatrice di mali nella misura

in cui sono gli altri a decidere della mia identità. Si pensi alla necessità

della ‘griffe’ come luogo-campione di questa esperienza. Io esisto non

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come atto della mia libertà relazionata, ma a condizione. A condizione che

mi sottoponga alle regole di chi decide della mia identità. Posso, dal punto

di vista simbolico, solo decidere fra il sì e il no: il che significa fra l’essere

apolide o schiavo.

E, alla fine, credo anch’io a questo gioco. Faccio me ingiusto contro

me giusto. Perché imparo progressivamente – e progressivamente mi

convinco – che debbo appartenere a questo apparire per essere. Perché

l’apparire è l’essere. E’ diventato il medesimo esistere. Chi non ‘appare’,

non è. E, d’altra parte, sperimento che, per apparire, debbo asservirmi alla

potenza. Perché – l’imparo a mie spese – l’apparire è continuativamente

sostenuto da un atto di potenza invisibile. Se l’esistere è visibilità, la

visibilità è l’esistere. E questo ‘esistere’ diventa l’unica dignità. Nulla di

sconcertante, dunque. Rassegniamoci al gioco. Uccido, ergo sum.

Si pensi ai punti simbolici che guadagna il piccolo delinquente

arrivando sui giornali. Si pensi alla necessità di essere forti, visibili, veloci.

Si pensi alla strutturale mancanza di tempo condiviso. Si pensi alla fretta

come sindrome psichiatrica non dichiarata. Si pensi al chiasso come

sindrome di una paradossale mistica disturbata. Si pensi alla strutturale

difficoltà di trovare, per rapporti veri, luoghi e tempi condivisi.

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Tutto questo lascia una traccia profonda nella famiglia – in ogni famiglia.

Così, diventiamo portatori sani di guasti profondi – tutti costretti a vivere

senza tregua in un carcere di superficie.

L’apparenza ci costringe. Ci fa cattivi. Così come il prigioniero –

‘captivus’ – è cattivo perché è prigioniero. E il cattivo è prigioniero,

perché l’hanno convinto che l’unico luogo suo naturale è questa prigione.

Diveniamo tutti inquieti. E l’inquietudine attiva il pregiudizio.

Diveniamo tutti inquieti. E l’inquietudine toglie lo spazio simbolico

che è necessario al parlare.

In questa situazione in mutamento, la famiglia, come luogo

originario, chiede soccorso al diritto. Non dobbiamo, a questo punto,

domandarci solo sui meccanismi del diritto, ma dobbiamo domandarci –

come direbbe Walter Benjamin – su quale sia la loro verità.

3. L’istituzione giuridica. I due assi dei valori.

A guardare l’evoluzione dell’istituto familiare come istituto

giuridico negli ultimi quarant’anni, si potrebbe collocarne la storia lungo

due assi: due assi che appaiono – oggi – assolutamente divergenti,

rivelando così anche la gravità dei problemi dell’epoca in cui viviamo.

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Si tratta di due assi che potremmo vedere quasi come

perpendicolari fra loro, sui quali vengono a incidere valori molto diversi

nel loro significato: l’asse della coppia e l’asse della filiazione.

Guardiamo lungo l’asse della coppia. A partire dalle dichiarazioni

di incostituzionalità di alcuni articoli del codice penale, l’evoluzione dei

rapporti intrafamiliari giuridicamente regolati ha dato sempre più spazio

all’autonomia dei soggetti della relazione.

Se guardiamo, invece, lungo l’asse della filiazione, assistiamo

progressivamente ad eventi di segno molto diverso. Infatti, da questo punto

di vista, l’evoluzione dei rapporti intrafamiliari, a partire dalla tutela dei

figli – dentro e fuori il matrimonio –, ha dato sempre più spazio all’azione

del giudice a tutela della centralità del minore (vedi anche quegli episodi

clamorosi di azione pubblica con cui si sono sottratti minori alla famiglia,

episodi che tanto hanno colpito la pubblica opinione).

A partire dalla legge sull’adozione legittimante (1967), sempre più

spazio infatti ha acquisito l’azione pubblica (giudice) per tutelare il

minore. Si è passati, come è stato ben detto, dalla tutela dell’interesse

dell’adottante alla tutela dell’interesse dell’adottato. Il che ha significato,

in molteplici casi, riconoscere potere in capo a un terzo – il giudice – il

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quale viene a inserirsi nella tutela del minore anche contro la volontà di

uno dei titolari della potestà – al limite, contro quella di tutti e due.

Si guardi. Un lungo percorso culturale e simbolico è stato compiuto

dalla sentenza della Corte Costituzionale (1961) che ancora sosteneva la

legittimità della normativa sul trattamento diversificato dell’adulterio alle

sentenze n. 126 e n. 127 del 1968 della Corte Costituzionale sulla

illegittimità di questo trattamento normativo che distingueva fra marito e

moglie. Questi eventi, apparentemente di scarso respiro e quasi di puro

costume, hanno aperto la strada a fenomeni di ben più ampia portata.

Da qui parte infatti, come è noto, un lungo processo punteggiato di

eventi: la legge sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio (1970),

il fallimento del referendum abrogativo del 1974, la riforma del diritto di

famiglia del 1975.

Il senso lungo il quale questa direttrice giuridica si muoverà sarà, da

questo momento, sempre più stringente e preciso: da un lato, la

sottolineatura dell’autonomia e della parità fra i coniugi; dall’altro, la

responsabilità, sorvegliata e sanzionata, nella tutela dei minori.

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La legge sull’aborto del 1978 e il fallimento del referendum

abrogativo connesso segnano un ulteriore evento in questo processo.

Lungo il primo asse, quindi, – quello della coppia – si delinea un

processo che non è soltanto di crescita di parità, ma di progressiva crescita

di autonomia tra i contraenti. Al punto che, in tempi recenti, giuristi e

sociologi del diritto ne hanno indicato esplicitamente i connotati

individuando gl’indici di un passaggio cruciale dell’istituto giuridico del

matrimonio: un passaggio epocale – nella configurazione matrimoniale –

dal modello dello status al modello del contratto1.

Vediamo più da vicino le caratteristiche della riforma del diritto di

famiglia (1975), con le successive modificazioni che, d’altra parte,

incorporeranno tutti i mutamenti giuridici accaduti lungo il percorso.

Quali, queste caratteristiche? Senza entrare nei tecnicismi delle formule,

potrebbero esprimersi così: grande spazio all’autonomia dei contraenti il

rapporto di coniugio; ampia possibilità di scioglimento del rapporto stesso;

attribuzione ad entrambi i genitori della potestà parentale, in titolarità e in

1 V. POCAR, P. RONFANI, La famiglia e il diritto, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 208-209 e passim. Per gli aspetti pi tecnico-giuridici, vedi anche Marcella FORTINO, Diritto di famiglia. I valori, i princìpi, le regole, Giuffrè, Milano 1997, p. 83 e passim.

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esercizio; affiancamento a questa potestà di un intervento pubblico terzo

attraverso la figura del giudice e dei suoi eventuali collaboratori;

possibilità per i coniugi di fissare patrimoni separati e residenze separate.

Come è stato efficacemente osservato, adesso “l’autonomia dei coniugi

(…) è il valore intorno a cui ruota l’intera regolamentazione del

matrimonio”2.

Come è noto, fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, la

legge aveva sancito che la potestà fosse esercitata esclusivamente dal

padre, pur spettandone la titolarità anche alla madre. La ‘patria potestà’ –

eredità romanistica – viene, quindi, a mancare. La potestà è attribuita, di

norma, a entrambi i genitori ed è da loro esercitata in modo congiunto. Il

che significa – ancora una volta – che fra marito e moglie c’è assoluta

parità.

Dall’altra parte, grande spazio viene dato alla tutela della centralità

del minore. Né va dimenticata, intanto, su questo tema, la grande

importanza assunta dalla Convenzione internazionale di New York sui

diritti dell’infanzia (1989), con la quale si è sancito il diritto del bambino a

godere del pieno diritto alla salute – a vivere cioè in una condizione, sia

fisica sia psichica, ottimale. Si tratta di una Convenzione ratificata 2 Marcella FORTINO, Diritto di famiglia. I valori, i princìpi, le regole, Giuffrè, Milano 1997, p. 83 e passim.

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dall’Italia con la legge 27.5.1991, n. 176, che le ha dato riconoscimento

nell’ordinamento. In questa direzione, come è noto, si è mosso anche il

piano sanitario nazionale per il progetto ‘materno-infantile’ – e varie sono

le iniziative, anche regionali con cui si mettono al centro dell’interesse

pubblico il primario rapporto madre-bambino e forme di tutela della

maternità.

Siamo, quindi, davanti a un processo a due facce. Da un lato, un

tendenziale slittamento dell’istituto matrimoniale verso la

‘privatizzazione’. Dall’altro, un tendenziale slittamento verso la

‘pubblicizzazione’ (competenze del giudice tutelare, competenze del

tribunale dei minorenni, forme di collaborazione da parte di esperti, istituti

sostitutivi dei rapporti familiari, in via provvisoria o definitiva).

Non c’è da stupirsi se da tali tendenze siano nati processi sociali e

giuridici ulteriori. Da una parte, la progressiva tendenza a dare un nome

giuridico alle unioni non matrimoniali (convivenza more uxorio, ‘relazione

ancillare’, relazione fra omosessuali), insieme col connesso problema di

tutelare in termini di responsabilità le nuove tipologie di convivenza.

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Dall’altra parte, l’assegnazione di poteri pubblici crescenti ai giudici

nell’interesse del minore – poteri, per la verità, non sempre ben chiari nella

ripartizione delle competenze. Ma – su questo secondo versante, quello

dell’interesse del minore – una domanda sembra decisiva. Sono, allo stato,

i giudici attrezzati quanto basta per entrare nel meccanismo delicatissimo

delle relazioni affettive, delle relazioni primarie, che, come si sa,

strutturano da sempre e ab imis la ‘scatola nera’ della persona? Certo, oggi

sta entrando, fra molti contrasti in verità, sulla scena giuridica una nuova

importante figura, la mediazione familiare – nella forma del mediatore

familiare3. Ma ha raggiunto il giudice oggi una professionalità sufficiente

per rivolgersi a queste forme di collaborazione peritale? E ha maturato

ancora il mediatore familiare tutta la complessissima professionalità

necessaria per mettere le mani, senza far disastri inconsapevoli, nel

patrimonio simbolico dei rapporti umani familiari – patrimoniali o non

patrimoniali che siani (tutti pur sempre con valore simbolico forte)? Non si

può certo sottacere, in proposito, che la problematica dello sviluppo del

minore è sottoposta da anni a un’esplorazione plurisettoriale, che mette

non a caso in rilievo l’influenza decisiva del ‘gruppo dei pari’4. Ma le

3 Sul punto, vedi Stefano CASTELLI, La mediazione. Teorie e tecniche, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. 4 Sul tema, vedi Judith Rich HARRIS, Non è colpa dei genitori. La nuova teoria dell’educazione: perché i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia, Mondadori, Milano 1999.

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stesse analisi non delegittimano certo l’importanza della famiglia e del

ruolo-guida di chi dovrebbe farne le veci. Anzi, paradossalmente, questo

ruolo, nel bene e nel male, risulta potenziato5.

4. Alcune osservazioni.

Quali osservazioni sono, a questo punto, possibili su una realtà così

complessa e delicata – per giunta in corso di svolgimento?

La prima. Il nostro diritto disciplina in modo abbastanza puntuale i

rapporti fra le persone che appartengono alla famiglia intesa in senso

classico, ma restano ancora in attesa di una compiuta disciplina le relazioni

che si stabiliscono nelle famiglie cosiddette ‘allargate’6.

La seconda osservazione. E’ stato sottolineato dagli studiosi che,

per tutelare i minori, siamo passati dalla costruzione piramidale alla

regolazione a cerchio e dalla regolazione a cerchio alla regolazione a

stella7. L’iconografia geometrica intende mostrare, in realtà, l’evoluzione

dei rapporti delle coppie nei confronti dei loro figli e la condizione

5 Vedi, nella stessa op. cit., pp.325 ss. E pp.369 ss. Per altri aspetti della vasta problematica educativa, si richiama qui l’attenzione su testi di matrice e di formazione diversa: Giuseppe FIORAVANTI, La famiglia istituzione educativa, Japadre editore, L’Aquila 1993 e Anna Maria NICOLO’, A. Francesca ZAMPINO, Lavorare con la famiglia, Carocci, Roma 2002. 6 Sulle questioni vedi Marcella FORTINO, I valori, i princìpi, le regole, Giuffrè editore, Milano 1997. 7 V. POCAR, P. RONFANI, op. cit., p. 207 e passim.

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correlativa di questi, passati progressivamente da strutture bipolari a

strutture multipolari.

Una domanda sorge, a questo punto. Può oggi la famiglia essere

intesa ancora soltanto nel senso in cui espressamente dice la nostra

Costituzione, ossia come “una società naturale fondata sul matrimono”?

Oppure, come alcuni invece incominciano a sostenere, il concetto di

famiglia deve essere più estensivamente inteso come ‘insieme di persone

legate da vincoli di sangue ovvero da un rapporto stabile riconosciuto dalla

legge’8?

Qualunque sia la soluzione prospettica adottata, il problema della

famiglia appare oggi – nell’orizzonte delle generazioni future – cruciale.

E’ inutile nascondersi, d’altra parte, che, alla radice, siamo davanti

a due interpretazioni della famiglia. O, se si vuole, ad almeno due

interpretazioni.

Da un lato, infatti, sembra interpetrarsi il ruolo dello Stato nei

confronti della famiglia nel senso di una sostanziale non ingerenza. Una

non ingerenza che lasci le relazioni di coppia nella loro sostanziale

privatezza. Da un altro lato, sembra invece interpretarsi nel senso che lo 8 Maria Sivia SACCHI, Anna Galizia DANOVI, Una famiglia per tutti, Etas, Milano 2001, p. 149.

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Stato deve, sì, intervenire nei confronti delle famiglie, ma secondo

modalità strategiche che vengono concepite secondo criteri

sostanzialmente alternativi. C’è, infatti, chi ritiene che l’intervento verso la

famiglia debba essere indirizzato verso la famiglia come tale, salvandone il

ruolo specifico nell’ambito della struttura sociale. E c’è chi, invece, ritiene

che l’intervento verso la famiglia sia solo lo strumento obliquo per

raggiungere gl’individui, essendo gl’individui e solo essi i portatori

degl’interessi sostanziali in una società.

In ogni caso, l’attenzione della legislazione verso il minore mette in

atto quello che è stato affermato come il paradosso del démariage, per cui,

continuando di fatto ad affermarsi “l’indissolubilità della coppia

genitoriale, si mantengono, intorno al minore e in nome del suo interesse,

le relazioni familiari che il divorzio avrebbe interrotto”9.

Si pensi, d’altra parte, allo stesso istituto dell’adozione. Essa,

profondamente innovata, con la ‘nuova adozione’, dalla legge 5 giugno

1967, n. 431, è stata poi sottoposta a trasformazioni ulteriori (1983, 2001),

9 V. POCAR, P. RONFANI, op. cit., p. 217.

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accompagnate, fra l’altro, dall’affiancamento di un altro istituto giuridico:

l’affido (1983, 2001).

Innovazioni importanti, queste, in cui, mentre la nuova adozione

mette al centro l’interesse del minore rispetto all’interesse dell’adottante,

l’adozione tende a spezzare il rapporto coi genitori naturali, laddove

l’affido no. Ma, d’altra parte, come è stato osservato, l’adozione tende a

pur sempre a ricostruire giuridicamente la stessa situazione della famiglia

naturale – mentre si discute se frustri il bisogno di conoscere le proprie

origini10. E, d’altra parte, l’affido crea troppo spesso il grave disagio

psicologico del rientro del minore nella famiglia genitoriale di

provenienza.

A ben guardare, i due assi individuati – quello della coppia e quello

della filiazione – segnalano non solo due tendenze precise e perplesse del

mondo contemporaneo, stretto fra le necessità dell’autonomia e le

necessità delle generazioni future, ma – nel divergere di questi assi –

mettono al tempo stesso alla luce la radice di un guasto sociale profondo.

Un guasto profondo in rapporti in cui appare sempre più difficile porre

rimedio. 10 Maria Silvia SACCHI, Anna Galizia DANOVI, Una famiglia per tutti, Etas, Milano 2001, p. 51.

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Potrebbe, forse, per certi aspetti, oggi vedersi nella divergenza fra

questi due assi un’interrogazione fondamentale all’homo sapiens sapiens,

esprimibile nella forma: occorre, all’altezza della nostra epoca, privilegiare

l’asse dell’autorealizzazione o quella delle generazioni future?

Naturalmente una tale alternativa, se configurata in tanta brutale

semplicità, è solo una provocazione a pensare. Nelle cui pieghe, in ogni

caso, riposa la presa di coscienza della fondamentalità civile e politica dei

bisogni, umani e sociali, messi in campo dal problema.

E il quesito, a questo punto, diventa, al tempo stesso: la famiglia è

formazione sociale reale oppure momento ormai effimero di

un’organizzazione sociale che va superandone le ragioni?

5. Per una prospettiva.

E’ stato ben detto che la famiglia è non solo una formazione sociale

ma un sistema simbolico (Pierpaolo Donati). Incomincia ad essere

rilevante oggi, in Italia, una linea di provvedimenti, legislativi e non

legislativi, che intendono corresponsabilizzare la famiglia in processi

sociali ed economici cui essa possa partecipare in nome della

23

‘sussidiarietà” – se non anche del cosiddetto ‘terzo settore’. Sussidiarietà

da guardare, in ispecie, sia in senso verticale che orizzontale.

Ma la tendenza, intanto, non può far dimenticare quelle che sono

alcune linee di fondo oggi emergenti sulla scena internazionale.

Non va trascurato infatti, in questo scenario, che sono in via di

sviluppo concezioni molto diverse della famiglia. Quella che guarda ad

essa come a una semplice formazione contrattuale, tutta pensata in

funzione dei singoli che la costruiscono e la dissolvono secondo gli stessi

interessi che l’hanno costituita (c’è una tendenza giuridica che tende a

costituire contratti matrimoniali a tempo, come ‘piani di relazioni’), e

quella che continua, invece, a guardare ad essa – alla famiglia – come a

una formazione sociale e a un sistema simbolico in cui la stessa è chiamata

ad allevare la società al livello delle relazioni primarie: ad alimentarla, per

così dire, al grado futuro.

Sono leggibili in realtà in queste tendenze alcune opinioni radicali,

che qui solo per sondaggio d’epoca registriamo. Si guardi, ad esempio, a

quella della studiosa Martha Albertson Fineman che nella direttrice sociale

contemporanea legge un’evoluzione verso l’abolizione del matrimonio

come istituto giuridico e, al tempo stesso, verso l’enucleazione forte di un

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sol rapporto fondamentale e nucleare degno di futuro: quello madre-

bambino11.

E si guardi, inoltre, allo studioso inglese Eric Clive, che pensa a un

ordinamento giuridico in cui il matrimonio non sia più contemplato come

categoria specifica.

Si citano queste opinioni come avvisaglie di una crisi d’identità, che

non è solo nazionale ma internazionale.

La società d’oggi si muove in un pulviscolo di contraddizioni: fra le

famiglie dei ‘singles’ e le ‘famiglie di fatto’, tra le ‘famiglie di fatto’ e le

famiglie ‘allargate’12. Dovranno queste condizioni e queste relazioni avere

un nome giuridico e una tutela – e, se sì, quale e quanta tutela? O

dovranno essere consegnate al regno dell’irrilevante e dell’effimero in

nome di frantumate libertà – regno di cui il diritto sarebbe chiamato a

diventare il puro registratore di cassa del futuro?

Qualunque sia la risposta a queste domande – complesse – che

investono l’etica e le prospettive dell’uomo come tale, un fatto non è

discutibile: la famiglia come istituzione sociale è sconvolta da una crisi

che investe, stavolta alla radice, la sua funzione nella società

11 V. POCAR, P. RONFANI, op.cit., p. 212. 12 Sul tema della famiglia di fatto vorremmo qui richiamare l’attenzione su una tesi di dottorato: Davide BARBA, La famiglia di fatto: una problematica socio-giuridica, Università degli Studi del Molise, XII ciclo, a.a. 1998/99.

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contemporanea. Ma la famiglia può riprendere la sua funzione se sia messa

nelle condizioni di operare come luogo di formazione delle relazioni

primarie – cioè delle relazioni affettive – e, al tempo stesso, di quelle

relazioni che implicano un duro e duraturo apprendistato alla libertà. Alla

libertà come esperienza forte di tempo condiviso. Una famiglia che non

fosse messa più in queste condizioni – a cui mancassero cioè gli alimenti

essenziali per vivere e per far vivere questo tempo – diventerebbe

rapidamente un puro simulacro. Non è un caso che oggi qualcuno sia

arrivato a pensare che la famiglia sia una pura ed effimera addizione di

individui e di rapporti. In queste condizioni, il diritto non potrebbe far

altro che registrare questa assenza.

Appare oggi singolare che, anche nella computazione anagrafica e

statistica delle famiglie, stia prendendo corpo la tendenza a considerare un

‘single’ – cioè un unico uomo – una famiglia. Una famiglia a carattere

‘unipersonale’. In questo senso, le famiglie in Italia e nel mondo

starebbero crescendo. Appare chiaro che un tal modo di numerare il

fenomeno rischia di perderne il significato.

Certo, ciò – ad avviso di chi parla – non significa che la famiglia sia

morta. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che, nella storia

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dell’evoluzione umana, secondo studi accreditati che non a caso

richiamano anche Giambattista Vico, la famiglia è una formazione storica,

che è stata preceduta dalla centralità della gens13.

La famiglia può essere certo un luogo cruciale di civiltà. Ma,

abbandonata e rinchiusa in sé stessa, è solo genitrice di guasti.

Nella famiglia – non vogliamo qui troppo dettagliatamente

richiamare Giambattista Vico – si forma l’ ‘aidòs’, il ‘pudore’. Il pudore

inteso come presidio e rispetto della libertà sperimentata nel concreto del

sociale.

Chi vi parla non vorrebbe qui citare sé stesso, ma non può non

ricordare – anche a sé stesso – che nel vivo delle relazioni primarie

allevate dalla famiglia ne va della libertà in senso pieno. E in senso

concreto. Come in altri contesti abbiamo avuto l’occasione di dire, la

famiglia – e ogni aggregazione primaria – è il luogo in cui si forma, in

lessico greco, l’ ‘aidòs’ – ossia quel foyer primordiale da cui nascono una

società, un’etica e una civiltà. Che cos’è mai questa ‘aidòs’? Essa è, in

realtà, solo apparentemente termine univoco. Ed è infatti, innanzi tutto –

equivoco e polìvoco. ‘Aidòs’ è, sì, ‘pudore’. Ma è anche ‘rispetto’. L’uno e

13 Sul punto vedi Gennaro FRANCIOSI, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, Jovene, Napoli 1989. Su Giambattista Vico, vedi Gennaro FRANCIOSI, Cittadinanza e formazioni minori in Giambattista Vico, Metis, Napoli 1999 e Giuseppe LIMONE, Cittadinanza e formazioni minori in Giambattista Vico. Per una lettura dell’interpretazione di Gennaro Franciosi, Edizioni Palazzo Vargas, Vatolla (Salerno) 2002.

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l’altro significato alludono, a ben guardare, alla distanza mentalmente

necessaria nella vita di un rapporto civile. Ma il primo termine si riferisce

al proprio ‘timore’ in quanto chieda all’altro la distanza desiderata – la

distanza-vicinanza di cui abbisogna. E il secondo, dal canto suo, allude al

proprio ‘timore’ in quanto percepisca la distanza che l’altro, intanto, gli

chiede, proprio nello stesso tempo in cui gli chiede vicinanza. ‘Pudore’ e

‘rispetto’ appaiono, qui, nella loro perfetta simmetria. Ma ‘aidòs’ è anche

‘vergogna’. E infatti la ‘vergogna’ – sia che riguardi il proprio

‘vergognarsi’ sia che riguardi l’altrui – intercetta un medesimo fenomeno

interpersonale: il bisogno e il desiderio, nella vicinanza, di un’area tutta

propria, intangibile, ‘sacra’. Siamo come davanti al pathos di due timori

che si guardano allo specchio. Si tratta del pathos costituito da quel

‘timore dell’altro’ in cui appare quasi un corrispettivo del sentimento

civile. Non solo. Se leggiamo nel monumentale Vocabolario delle

Istituzioni indoeuropee di Emile Benveniste, scopriamo che l’ ‘aidòs’

viene frequentemente connessa a ‘philos’. ‘Aidòs’ …., – dice Benveniste

–, associata a ‘philos’, testimonia che le due nozioni erano ugualmente

istituzionali e che indicavano dei sentimenti propri ai membri di un

raggruppamento limitato14. All’interno di una comunità, ‘aidòs’ è rispetto, 14 E. BENVENISTE, Vocabolario delle Istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, p. 261.

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reverenza, considerazione, pietà, ma anche onore, lealtà, ‘con-venienza

collettiva’, interdizione di certi atti e di certi modi15. E perciò anche

vergogna – forte segnale individuale e sociale. Nell’ ‘aidòs’ – potrebbe

dirsi – si realizza una specialissima congiunzione civile fra una relazione

d’intimità e una relazione di ‘con-venienza’ nei confronti degli altri16.

Non va dimenticato che, per Platone, l’‘aidòs’ è appunto, insieme

con la giustizia, una fondamentale virtù in una società civile. Data da Zeus

agli uomini – da uno Zeus impietosito degli uomini perché, inermi e

disorganizzati davanti alle fiere, perivano. E’ il Platone di un grande

dialogo: il Protagora.

Certo, Platone è stato, come è noto, un critico radicale della

famiglia. Eppure – potremmo domandarci a questo punto – quale potrebbe

essere oggi il luogo in cui allevare l’essenzialità imprescindibile dell’

‘aidòs’, ove mai questo non fosse più la famiglia?

Ma, a tal punto, un’altra domanda, di tutt’altro genere, spunta. Può

essere considerato veramente ‘famiglia’ un luogo sociale in cui la società

politica non consenta di fatto l’esistere di uno spazio relazionale preciso in

cui possano accadere cure e tempi condivisi? E, d’altra parte, può una

15 Op. cit., p.261. 16 Op.cit., p. 28.

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famiglia aspettare che sia la società politica a intervenire, senza che essa

stessa – la famiglia come tale – decida di esigerne e di provocarne una

responsabile strategia interventrice?

La domanda è, a questo punto, cruciale – e a orizzonte di millennio.

Quale che sia il giudizio di fatto che possiamo formulare oggi sulla

famiglia, sulla sua capacità di rispondere ai bisogni di crescita dell’uomo

d’oggi, non va mai dimenticato che è una precisa necessità dell’uomo e

della società umana che ci siano luoghi di formazione delle relazioni

primarie. Senza l’apprendistato a queste relazioni, la società civile torna

alla selva. E, caduta la famiglia, altre strutture certamente ne

prenderebbero il posto – non necessariamente migliori. Perché l’esigenza

delle relazioni primarie, affettive, è imprescindibile – e, per così dire, al di

là del bene e del male. Il varco è lì, strutturato perennemente nella radice

di ogni uomo. Attende solo che si colmi – e chi e come lo colmi …

Il sogno antico – addirittura platonico – di superare la famiglia deve

oggi essere attento alle sfide della realtà – e alle responsabilità enormi

caricate senza sconti sulle nostre fragili spalle. Le esigenze degli uomini

stanno, oggi, fra la tutela delle proprie autonomie e le nuove possibilità

indefinite di crescita delle libertà relazionate. Fra la tutela delle

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autovalorizzazioni e la tutela delle generazioni future. Fra il presente e il

futuro.

La famiglia è, in questo senso, un preciso test del diritto – un test

delle possibilità del diritto. Perché è un laboratorio delle libertà relazionate

– le attuali e le future. C’è un possibile accordo fra loro? Potrà esserci mai

senza che nessuna fallisca nella sua vocazione essenziale?

La domanda non è più sulla società – è sull’uomo. Sull’uomo che

chiediamo all’uomo di essere e rappresentare. Ma, a questo punto, un

nuovo pensiero si fa strada. Perché, a guardar bene, le libertà relazionate

degli uomini non possono semplicemente fondarsi sul mero bisogno – esse

non sono esaurite dall’idea del mero bisogno. C’è altro nei rapporti umani

di cui l’uomo, per restar tale, deve nutrirsi – sente in profondo di dover

nutrirsi. E quest’altro non ha nome giuridico – non può averlo. Il diritto

può aprirgli, forse, un varco, solo un varco – a indicarne sfondi, a

collocarne confini, a stimolarne condizioni in cui eventualmente apparire.

Quest’‘altro’ è il difficile apprendistato alla gratuità.

Vladimir Jankélévitch ha scritto: “La complementarità organica è il

pericolo più grande che possa minacciare l’amore e i rapporti dell’uomo

con la sua compagna. Il bisogno di complementarità è un desiderio; si

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desidera ciò di cui abbiamo bisogno, io desidero ciò che mi manca. E, al

contrario, amare è desiderare senza averne bisogno” 17.

Giuseppe LIMONE

17 Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica, La Giuntina., Firenze 1986, p. 119