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1 La Littérature, c’est le possible infini. Entretien avec Nicole KRAUSS, Le Nouvel Observateur du 2 au 8 juin 2011, n°2430, p.104. L’écriture est une manière pour moi de conserver des objets personnels, et surtout des histoires familiales. Tout se mélange à l’intérieur de mon livre, moments d’inventions ou de souvenir…Un livre est la meilleure manière de preserver des choses fragiles et précieuses. Les histoires une fois racontées, ne peuvent disparaître. Entretien avec Nicole KRAUSS, op. cit., ibidem. Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote con una botte in testa, cosa la leggiamo a fare? Franz KAFKA, Lettera a Osckar POLLAK, 1904. …uno scrittore deve essere insofferente di qualcosa per poter vedere. Uno scrittore ha bisogno di veleni..spesso l’antidoto ai veleni è un libro. Claudia ROTH PIERPONT, Roth Unbound. A writer and his books (tradotto in italiano: Roth scatenato- uno scrittore e i suoi libri), Edizioni Einaudi, Torino, 2015, p.177). L’irriverente e folle carriera narrativa di PHILIP ROTH tra fatti e finzioni. PHILIP MILTON ROTH (Newark, 19 marzo 1933) è uno scrittore statunitense figlio di immigrati galiziani di origine ebraica, uno dei più noti scrittori viventi della sua generazione (ha ricevuto numerosi attestati di stima di grande rilievo internazionale tra i quali spiccano il Man Bouker International Prize nel 2011 e il Premio Principe delle Asturie nel 2012 e per ben tre volte il Premio PEN/Award per la narrativa: nel 2006, il Premio PEN/Nabokov , e nel 2007, il Premio PEN/Samuel Bellow e il Premio PEN/Faulkner for fiction, nel 2002 il più alto riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal in Fictions e nel 2013 La Legion d’Onore della Repubblica francese) ma é ingiustamente dimenticato per essere insignito del prestigioso Premio Nobel per la Letteratura che ancora oggi tarda stranamente ad arrivare dopo che per più volte lo scrittore era stato proposto all’attenzione della Commissione di Stoccolma. In H. Melville e J. Conrad c’è il mare, in Mallarmé l’azzurro del cielo, in H. de Balzac il pensiero, il più pericoloso dei fluidi, in Philip ROTH, uno tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese, c’è la solitudine e la malinconia con l’ossessionata voglia di studiare la condizione umana, di conoscere un po’ meglio l’uomo e se stesso cercando di difendersi dai troppi schemi o facili stereotipi largamente diffusi con superficialità e cattiveria sulla sua persona e da periodici attacchi per il linguaggio considerato troppo aperto e a volte triviale che nel corso della sua lunga vita lo hanno amareggiato. L’ebreo Roth si sentì apostrofare come un traditore antisemita, un misogino, un dileggiatore delle religioni, un artista che ricorre nei suoi libri ad espressioni di una volgarità sguaiata e disgustosa. Insomma Philip ROTH ha sempre cercato di presentarsi diverso da quello che era astutamente dipinto e cioè un uomo scorbutico, ostinato, solitario. Alla fine del lungo percorso Roberto Saviano e Philip Roth

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Page 1: L’irriverente e folle carriera narrativa di PHILIP ROTH ... · 2 creativo, da GOODBYE a NEMESIS, si delinea un ritratto di ROTH del tutto diverso di un uomo capace di tenerezza,

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La Littérature, c’est le possible infini.

Entretien avec Nicole KRAUSS, Le Nouvel Observateur du 2 au 8 juin 2011, n°2430, p.104.

L’écriture est une manière pour moi de conserver des objets personnels, et surtout des histoires familiales. Tout se

mélange à l’intérieur de mon livre, moments d’inventions ou de souvenir…Un livre est la meilleure manière de

preserver des choses fragiles et précieuses. Les histoires une fois racontées, ne peuvent disparaître.

Entretien avec Nicole KRAUSS, op. cit., ibidem.

Credo che dovremmo leggere solo quei libri che ci mordono e ci pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci scuote

con una botte in testa, cosa la leggiamo a fare?

Franz KAFKA, Lettera a Osckar POLLAK, 1904.

…uno scrittore deve essere insofferente di qualcosa per poter vedere. Uno scrittore ha bisogno di veleni..spesso

l’antidoto ai veleni è un libro.

Claudia ROTH PIERPONT, Roth Unbound. A writer and his books (tradotto in italiano: Roth

scatenato- uno scrittore e i suoi libri), Edizioni Einaudi, Torino, 2015, p.177).

L’irriverente e folle carriera narrativa di PHILIP ROTH

tra fatti e finzioni.

PHILIP MILTON ROTH (Newark, 19 marzo 1933) è uno scrittore

statunitense figlio di immigrati galiziani di origine ebraica, uno dei più

noti scrittori viventi della sua generazione (ha ricevuto numerosi attestati

di stima di grande rilievo internazionale tra i quali spiccano il Man

Bouker International Prize nel 2011 e il Premio Principe delle Asturie nel 2012 e per ben tre volte il

Premio PEN/Award per la narrativa: nel 2006, il Premio PEN/Nabokov , e nel 2007, il Premio

PEN/Samuel Bellow e il Premio PEN/Faulkner for fiction, nel 2002 il più alto riconoscimento

dell’American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal in Fictions e nel 2013 La Legion

d’Onore della Repubblica francese) ma é ingiustamente dimenticato per essere insignito del

prestigioso Premio Nobel per la Letteratura che ancora oggi tarda stranamente ad arrivare dopo che

per più volte lo scrittore era stato proposto all’attenzione della Commissione di Stoccolma.

In H. Melville e J. Conrad c’è il mare, in Mallarmé l’azzurro del cielo, in H. de Balzac il pensiero, il

più pericoloso dei fluidi, in Philip ROTH, uno tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua

inglese, c’è la solitudine e la malinconia con l’ossessionata voglia di studiare la condizione umana,

di conoscere un po’ meglio l’uomo e se stesso cercando di difendersi dai troppi schemi o facili

stereotipi largamente diffusi con superficialità e cattiveria sulla sua persona e da periodici attacchi

per il linguaggio considerato troppo aperto e a volte triviale che nel corso della sua lunga vita lo

hanno amareggiato. L’ebreo Roth si sentì apostrofare come un traditore antisemita, un misogino, un

dileggiatore delle religioni, un artista che ricorre nei suoi libri ad espressioni di una volgarità

sguaiata e disgustosa. Insomma Philip ROTH ha sempre cercato di presentarsi diverso da quello che

era astutamente dipinto e cioè un uomo scorbutico, ostinato, solitario. Alla fine del lungo percorso

Roberto Saviano e Philip Roth

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creativo, da GOODBYE a NEMESIS, si delinea un ritratto di ROTH del tutto diverso di un uomo

capace di tenerezza, spiritoso, di una persona più delicata dei suoi personaggi, attaccato alla

famiglia, al fratello e ai genitori, più di quanto spesso e malignamente si era immaginato e mostrato,

un artista completo con lo sguardo feroce quanto analitico sulla società americana e non solo, un

romanziere inteso a capire profondamente il rapporto tra la vita e la Letteratura, ad esaminare quel

pericoloso confine tra immaginazione e realtà così cruciale nell’America del XX° secolo e ancora

oggi di grande attualità nella letteratura europea.

L’immaginazione secondo ROTH è un macellaio spietato, brutale e crudele, che dà una randellata in testa ai

fatti, gli taglia la gola e poi, a mani nude, li sventra. Tutto il suo lavoro narrativo nasce dai fatti, dalle cose

vissute. In un’intervista del 1960 al New York Post, Roth sosteneva che i suoi libri parlavano

prevalentemente di gente in difficoltà, di giovani angosciati, eternamente tormentati e repressi alle

prese con dilemmi morali ma anche con questioni contingenti. Lo scrittore ha ventinove anni

quando pubblica nel 1962 Letting Go (Lasciarsi andare), la storia di due giovani specializzandi

all’Università dell’Iowa: Gabe Wallach, aspirante romanziere e Paul Herz, aspirante accademico;

un testo scritto sotto l’influenza di Henry James, onnipresente in questa fase nella sua letteratura

anche se i personaggi ricorrono al monologo interiore caro a Joyce. Nelle oltre seicento pagine

troviamo rappresentate non solo le due anime rothiane ma gran parte delle sue tematiche: un ricco e

denso affresco del momento sociale contemporaneo, una descrizione puntuale della piccola

borghesia di Brooklyn, il tema della responsabilità etica e sul versante famigliare la distanza tra sé e

i loro ambigui genitori. Il libro fu una delusione sul piano della critica e su quello commerciale ma

dimostrò il talento di uno scrittore che sperimentando identità diverse era alla ricerca della propria.

Quando sposò nel febbraio del 1959 a New York Margaret Martinson Williams davanti ad un

giudice di pace con l’approvazione della nonna di Maggie dicendo degli ebrei che sono bassi e

bruttini ma con le mogli e i figli si comportano bene , Philip ROTH sentì di aver raggiunto ciò che cercava

da quando si era distaccato dalla sua famiglia di origine. Era contento sul piano professionale

perché era stato assunto all’Università di Chicago per un laboratorio di scrittura (il suo primo e vero

incarico). Con i soldi guadagnati scrivendo anche recensioni cinematografiche per il New Republic

aveva comprato un completo principe di Galles e una macchina usata. Si sentiva un giovanotto di

successo. Ma l’incubo e la turbolenta relazione che ne seguì con Maggie lo riportarono sulla terra

cambiandone subito l’umore e in poco tempo il ritratto affettuoso della moglie che passò da

l’insegnante di creative writing più grande di tutti a un vero incubo. Philip ROTH fu costretto a sposarla

perché lo aveva ingannato. Una mattina del 1959, infatti, si era presentata senza soldi, con una

valigia nel suo appartamento di Manhattan chiedendogli di ospitarla perché era sicura di essere

incinta di lui. Per il ventiseenne Philip con in tasca il National Book Award vinto con il suo primo

libro, con pochi soldi e l’intenzione di dare una svolta alla sua infanzia felice, fu un momento di

grande disperazione. Lo scrittore patteggia la via di uscita con Maggie: l’immediato aborto (mai

avvenuto) per un immediato matrimonio. La sua vita è così trasformata in un inferno anche dopo il

divorzio, un incubo che è interrotto solo dalla morte della donna per un incidente. In qualche modo,

lei ruba a Roth la giovinezza ma gli regala la letteratura perché la rabbia divorante che alimenta i suoi

romanzi ha origine da questa triste vicenda e l’evento personale diventa parte della sua opera con

l’esplorazione dell’interiorità di personaggi che hanno perduto qualcuno improvvisamente, ne

cercano una ragione o si domandano se ne hanno qualche colpa. In particolare, è possibile

riconoscere la sua prima moglie dietro i personaggi di Lucy NELSON, donna molto bella ma dai

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più considerata instabile, nel romanzo Quando lei era buona e di Maureen TARNOPOL ne La mia

vita di uomo (My life as a man), un vecchio romanzo di Roth scritto e pubblicato nel 1974, cinque

anni dopo il suo capolavoro Il lamento di Portnoy (Portnoy’s Complaint), e di Martha

REGANHART personaggio di Letting Go, bella, sexy, ironica e intelligente ma dolorosamente

falsa e inaffidabile come la sua Maggie. Philip ROTH scoprì la vera identità di Maggie, figlia di un

padre alcolista in prigione per furto, che era una donna divorziata con due figli dell’ex marito e che

lavorava da poco come cameriera in una tavola calda e non all’università. Insomma il loro ménage

che subiva continui scossoni (litigavano per qualsiasi cosa) fu devastante. Più volte si lasciavano

per poi ricongiungersi per poi separarsi ancora. La verità è che Roth non sapeva fare a meno di lei,

era emotivamente troppo coinvolto, non se la sentiva di abbandonare i due figli di Maggie, Holly,

dieci anni e David di dodici al loro destino. Particolarmente interessante è l’intervista a David

Williams, il figlio di Maggie, pubblicata nel 1975 ne il St. Louis Jewish Light in cui sua mamma é

descritta non soltanto come una donna molto sexy e una persona intelligente, era anche molto

distruttiva. Cercava di distruggere chiunque le passasse vicino. Comunque quando il figlio la criticava Philip

prendeva sempre le sue difese. Quanto a Philip David ricorda che lo aveva aiutato a prepararsi per

entrare in un buon collegio. Lo aveva seguito in letteratura proponendogli libri da leggere per poi

discuterne insieme finché non era sicuro che David avesse compreso le motivazioni reali che

avevano spinto l’autore a scriverli. Philip si adoperò anche perché David ricevesse una preparazione

anche in matematica e in grammatica ma lui restò il suo tutore principale. Insomma Maggie era una

donna che portava scritto in fronte VIETATO L’ACCESSO, PERICOLO, un personaggio danneggiato fino al

midollo da un’educazione genitoriale irresponsabile che Roth credeva di dominare ed invece come un

allocco era caduto nella sua trappola rimanendone profondamente scottato e dipendente tanto sul

piano personale e relazionale quanto su quello letterario e produttivo. È lei la vera eroina della sua

vita, quella che Philip stava cercando, la psicopatica grazie al cui intervento si era affrancato dall’obbligo di

essere un bravo ragazzo, simpatico, analitico e affettuosamente impiccione, che non sarebbe mai diventato un

grande scrittore. In breve a lei Roth doveva tutto e per lei era disposto a fare qualsiasi cosa ed è ciò

che fece senza il più piccolo ripensamento quando all’ennesima minaccia di suicidarsi di Maggie,

Roth tornò sui suoi passi soprattutto per i suoi figli ai quali era molto affezionato e quando alla

morte della sua donna per un incidente automobilistico a Central Park, inatteso quanto liberatorio

evento (poté così riacquistare quella libertà e indipendenza che il suo personaggio Alex non fu

capace di realizzare e scrollarsi di dosso il senso di colpa che lo aveva rinchiuso in quel bizzarro

rapporto), Roth provvide all’organizzazione del funerale. Intanto aveva cominciato a frequentare

una delle sue studentesse, aspirante scrittrice di ventidue anni che vedremo col nome di Karen

Oakes in My life as a man con cui aveva iniziato una relazione passionale ma Roth era ben lontano

dall’essere libero e indipendente, era sempre alla ricerca di qualcosa di difficile e pericoloso. Il libro

racconta ancora una volta la storia di un matrimonio, di una famiglia teatro di conflitti di ogni

genere formata dallo scrittore di fama crescente, Peter TARNOPOL, ennesimo alter ego di Philip

ROTH e da sua moglie Maureens che ingabbia il suo uomo fingendosi incinta (ecco la bugia della

gravidanza con il racconto del campione di urina comprato dietro l’angolo e l’aborto mai avvenuto)

e minacciando il suicidio, poi realmente avvenuto anni dopo. Il loro rapporto nato attraverso una

frode, sviluppatosi tra rancori, finzioni e infruttuosi tentativi di migliorare le cose, si rivela oltre

misura sbagliato. Per difendersi da un matrimonio chiaramente fallimentare e principalmente dai

fantasmi della propria infanzia Peter si rivolge ad uno psicanalista freudiano di New York, il dottor

Otto SPIELVOGEL, lo stesso che comparirà in Lamento di Portnoy, il libro universalmente

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riuscito di Roth. Questi lo tradisce analizzando il suo caso, maldestramente mascherato, in un

articolo apparso su di una rivista scientifica sul tema del rapporto tra narcisismo e creatività.

Tarnopol parla delle sue donne, compresa un’altra relazione aggrovigliata di Peter con Susan,

reduce a sua volta di un coniuge suicida e anche di Maureen che diventerà sua moglie con un

matrimonio fondato sulla truffa, lo riscatterà e infine lo lascerà libero a causa di un incidente

stradale dove perderà la vita.

Il libro si compone almeno nella prima parte di due brevi racconti distinti di cui lo stesso Peter è

autore, e cioè Anni Verdi e Corteggiare il disastro e vi ritroviamo il giovane Natan ZUCKERMAN,

il personaggio-protagonista di tanti romanzi di Roth e qui proiezione letteraria di Peter stesso il

quale finge di essere frutto della penna di Tarnopol e quindi inerenti all’insieme del testo.

L’impressione che il lettore ha nel leggerlo è di trovarsi di fronte a un libro fortemente

autobiografico che racconta come un rapporto di coppia, una banale relazione tra una donna e un

uomo possa trasformarsi in un inferno. È una narrazione che si snoda avvincente, piena di

autenticità, di umorismo, di comicità e anche di amarezza. Il merito di questo ma anche di altri

romanzi facenti parte della densa e variegata narrativa di Roth, è quello di aver saputo rappresentare

con un forte impatto espressivo, le incertezze, le rabbie, i malesseri e le risoluzioni del maschio

contemporaneo e, per estensione, della vita della famiglia americana del secolo passato con ritratti

famigliari e di quartiere che rappresentano esemplarmente l’umanità della zona periferica ad ovest

di New York e soprattutto di Newark e dell’epoca, tanto da farne un tutt’uno di identità personale e

collettiva.

Con Portnoy’s Complaint, il suo quarto lavoro, (il

titolo originale riprende specificatamente il registro

del romanzo, quello di un lungo lamento di un

paziente al suo psicanalista ma soprattutto di un

personaggio a se stesso e al mondo), Philip ROTH

entra prepotentemente nel firmamento del romanzo

mondiale. Manipolatore ironico e virtuoso dei codici

romanzeschi già definiti, scompigliando le regole

della fiction e quelle dell’autobiografia, Roth si afferma subito come un osservatore feroce, lucido e

sarcastico della società americana e dei suoi costumi e ottiene un successo strepitoso (cinque

milioni di esemplari venduti in tutto il mondo) che lo fa includere a solo trentasei anni praticamente

agli esordi, tra i grandi della letteratura americana contemporanea. In poco tempo il libro vende

duecentomila copie e la prima edizione frutta un milione di dollari. Philip ROTH conosce la

celebrità ma anche gli effetti umilianti di un’accesa e violenta campagna d’intimidazione volta al

boicottaggio sul piano creativo e letterario e all’isolamento sul piano umano. Ossessionato

sessualmente e antisemita sono due delle gravi accuse alle quali lo scrittore ha dovuto far fronte

all’uscita del libro, oltre ad una valanga di critiche feroci da parte delle organizzazioni femministe

che lo tacciavano di discriminazione sessuale, misoginia, abuso delle donne, calunnia nei confronti delle donne,

diffamazione delle donne e dongiovannismo sfrenato. Lui stesso raccontava che prima della pubblicazione

del suo libro aveva avvertito i suoi genitori che i giornalisti si sarebbero interessati a loro perché

assimilati ai genitori di Alexander Portnoy e a giusta ragione perché Portnoy è ebreo come Roth e il

fatto che si esprime alla prima persona nel romanzo facilitava evidentemente l’identificazione con il

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suo autore. Dottore, chiama Alex il suo analista di quando in quando a testimonio dei disastri che la

figura materna ha provocato sulla sua persona. È una sedia vuota, senza volto scrive Natalia Ginzburg

nella recensione del romanzo-autobiografia di Philip ROTH (La Stampa del 22.03.1970), forse per

rendere la confessione di Portnoy più vera, è una presenza di nessun pregio o rilievo che serve

molto probabilmente all’autore ad ascoltare Alexander che commenta, disserta ed esclama sulla

propria sfortuna, sui suoi discorsi di autocommiserazione, gli stessi che Philip Roth ha vissuto sulla

sua pelle tanto da identificarsi perfettamente nel suo personaggio. E difatti la sfortuna di Alex è

comune a Philip, cioè quella di avere una madre insopportabile, veramente indisponente. Una donna

forse troppo in gamba, esperta in cucina con i cibi ebraici, i biscotti, i purganti, eccessivamente

pignola fino ad essere una maniaca dell’igiene e della salute di ciascun membro della sua famiglia

con particolare cura nei riguardi di Alexander quando con tono inquisitorio gli si rivolge per sapere

il motivo per cui era stato in bagno per un tempo piuttosto lungo e perché aveva tirato la catenella

dello scarico non permettendole di controllare. Una banale diarrea diventa un ragionamento critico e

severo su cosa aveva mangiato il bambino, se si era rimpinzato di patatine fritte e ketchup all’uscita

di scuola o se aveva inghiottito degli hamburger, per lei decisamente delle porcherie, quando

avrebbe potuto a casa mangiare una focaccina ai semi di papavero con un bel bicchiere di latte. Sophie è

convinta e ama ripeterlo con una certa insistenza che la sbagliata alimentazione del tredicenne

ragazzino fosse la causa di quella violenta diarrea e arriva incidentalmente a pensare che bisognasse

modificare qualcosa del suo metodo educativo. Una perfetta donna di casa, insomma, che tiene i

cassetti dell’armadio perfettamente in ordine, che sa cucire a maglia, rammendare e che la prima

giornata luminosa di primavera lei dà il tarmicida a tutti i capi di lana, arrotola i tappeti nei giornali

posizionandoli lungo il corridoio in penombra. Una donna devota, sembra essere l’unica che quando va

al cimitero ha l’elementare decenza di ripulire dalle erbacce le tombe dei nostri parenti ma che saprà essere

anche crudele quando dopo che il figlio ne ha combinata una delle sue talmente imperdonabile gli

dice con un tono severo e fermo di far fagotto e di andarsene via o quando mette il catenaccio alla

porta per impedirgli di fare ritorno o ancora quando all’ennesimo rifiuto del figlio di mangiare gli si

avvicina minacciosa con in mano un lungo coltello per il pane con una leggera seghettatura. Che

radar, quella donna! Che energia in lei! Che perfezionismo! Mi controllava le addizioni in cerca di errori; i

calzini alla ricerca di buchi; le unghie, il collo, ogni piega o grinza del mio

corpo alla ricerca di sporcizia. Una donna con il lungo naso ebreo

dotata del potere dell’ubiquità, che occupa l’universo di Portnoy-

Roth con la sua loquela, la sua ossessiva, infernale e insieme

innocente persecuzione materna. Innocente perché, troppo assorta

nell’elogio di sé e nell’esaltazione della sua efficienza e

abnegazione, non capirà mai di aver provocato irrimediabili

disastri.

Scrivendo questo romanzo ROTH ha voluto raccontare la storia di

una sofferenza quella dei figli verso i genitori, l’eterno ribrezzo di

Alex-Philip per le rispettive madri, annidato nelle profondità

dell’affetto, intriso di rancore, di terrore, di gratitudine, di rimorso.

Portnoy e Roth hanno guardato alla madre con l’intelligenza

velenosa, con l’antipatia del ragazzo che guarda e condanna i

genitori senza sapersene distaccare, senza ironia né perdono e in

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modo impietoso. A causa di una educazione sbagliata i due protagonisti accomunati in uno stesso

destino non riescono a diventare adulti. A quanto pare il loro perenne senso d’inadeguatezza che li

tormenta proviene tutto da lì e sbattere in faccia agli amati-odiati genitori il loro ateismo condito di

idee socialiste è il primo gesto di ribellione adolescenziale se si escludono le loro assidue pratiche

onanistiche.

Ma, dopo tutto, che cos’è un ossessionato sessualmente? Da quando lo scrittore toglie i veti che

pesano su ogni individuo in società prendendo a pretesto un rapporto psicanalitico all’interno di una

fiction, chi dirà se la parte di sessualità contenuta nelle parole di Portnoy è normale o eccessiva? Il

fatto che si è scoperto di avere fin dall’infanzia una passione per la masturbazione e che a trentatré

anni egli non ha ancora risolto il senso di colpa che lo angustia e che continua a coltivare una

irrefrenabile passione, un gusto smodato e preminente per il sesso. Precisamente se si sottopone

all’analisi è per capire questa colpevole malattia che lo divora e per dare un senso ad una vita

succube di una persistente e grave dipendenza sessuale. È del tutto evidente che il senso di colpa è

importante in Portnoy’s Complaint quanto il sesso. E la madre, il padre, l’infanzia. La madre ebrea,

il padre ebreo, l’infanzia ebrea, gli ebrei per quel che si meritano dalla prima all’ultima pagina e la

fine del romanzo è un esempio di questo umorismo ebreo di cui tutti intendono parlare da decenni,

da secoli, senza saperlo definire. D’altronde tutto il romanzo è altro che uno spettacolo comico.

Philip ROTH con il suo libro non vuole essere un artista comico con la differenza che scrive il libro

solo a casa sua invece di presentarsi davanti a una sala. Difatti il testo ha modi da spettacolo

burlesco, con episodi e scene che sono scenette crudelmente esaltanti volte a cogliere i difetti della

Madre e del Padre, i loro difetti o più semplicemente la loro personalità che è già da sola una

scenetta. Se Portnoy mostra un orientamento patologico per il sesso, i suoi genitori sono due attori

patologici. Di questa commedia umana fa parte il mondo ebreo o meglio il mondo ebreo

newyorchese visto che l’universo singolare ricercato dallo scrittore ci rimanda ad altri autori, ad

altre fiction, a Isaac BASHEVIS SINGER, a Saul BELLOW…a Woody ALLEN. Cosa c’è di reale

lì dentro?

Il lettore non ebreo avrà qualche difficoltà a dirlo ma è chiaro che ciò non è importante: ciò che

conta è la coerenza di questo mondo singolare e soprattutto l’importanza che gli dà lo stesso

Portnoy, giacché l’ipocrisia che denuncia imperante in questa parte della società non trova difficoltà

a radicarsi in un decoro particolare fino ad avere una forma d’universalità che rende la confessione

di Portnoy accessibile ad ogni lettore.

C’è da sottolineare che il comico di questo testo è ritenuto più o meno fantastico. L’immagine di

questa Madre armata di una scopa per inseguire suo figlio di cinque anni nascosto sotto il letto e che

si difende con calci e mordendola; il Padre seduto ogni mattina sul vaso del gabinetto pronto a

liberarsi di una stitichezza cronica, speranza sempre delusa; la Madre che insegna il suo piccolo a

urinare come un uomo; il Padre che evoca mille problemi quotidiani che assillano la sua attività di

agente assicuratore e che per intere giornate è alle prese con cattivi pagatori neri di Harlem di cui

contesta la loro imprevedibilità e negligenza; la Madre castrante e iperprotettiva che favorisce

l’infantilismo di suo figlio ormai trentenne che durante la sua infanzia ha colpevolizzato

accusandola di crudeltà facendo di lui poi il preferito di casa; il Padre che beveva non wiskey come un

goy(non ebreo), ma olio minerale e magnesia, masticava lassativi e mangiava crusca mattina e sera; e cacciava giù

frutta secca e mista in attesa che si compisse quel miracolo che non arrivava mai; la Madre che, a

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differenza della figlia maggiore Hannah, scialba e grassoccia, non certamente geniale, credeva in Alex-

Philip nella sua intelligenza, questo bonditt ( furfante), diceva lei, non ha neppure bisogno di aprire un libro…I

migliori voti in tutto…Albert Einstein Secondo!; il Padre che vedeva come sua moglie nel piccolo

un’opportunità per conquistare onore e rispetto…sebbene tendesse a parlargli delle sue ambizioni nei miei

confronti principalmente in termini di denaro. Non fare l’idiota come tuo padre- diceva- non sposarti per la

bellezza, non sposarti per amore..sposati per i soldi. Un uomo, suo padre, che lavorava come un cane e tutto

per assicurare un futuro migliore alla sua famiglia (appassionato fautore di uno strumento musicale

insisteva su suo figlio perché iniziasse a suonare il pianoforte), sempre impegnato a rendere al

massimo nel suo lavoro di assicuratore presso la Boston & Nordheaster Life, anche se in realtà

nessuno gli dava mai soddisfazione e meriti (la sua promozione a ispettore di zona diventava

sempre più un miraggio anche perché sprovvisto di un titolo di studio superiore adeguato ,aveva

fatto le scuole dell’obbligo). Doveva accontentarsi però in uno slancio di benevolenza da parte del

Presidente della Boston N. Everett LINDABURY E che ogni primavera gli faceva trascorrere gratis

con la moglie un weekend ad Atlantic City in un lussuoso albergo da non ebreo per aver superato il

tetto annuale dei contratti. Alex- era solito spiegarmi-un uomo deve avere un ombrello in caso di pioggia. Non si

lasciano una moglie e un figlio sotto la pioggia senza un ombrello; il Padre debole e impotente di fronte al

dominio della moglie che quando prende la parola lo fa quasi sempre per ricordare al figlio il futuro

che dovrà avere: Là dove lui era stato prigioniero io avrei volato: ecco il suo sogno…e la mia liberazione sarebbe

stata la sua, dall’ignoranza, dallo sfruttamento, dall’anonimato..i nostri destini erano mescolati.

Ecco, Dottore, le più antiche immagini che ho dei miei genitori, dei loro attributi e segreti e che gli fa dire,

rivolgendosi al Dottore queste parole: di cosa dovrei sbarazzarmi, mi dica, dell’odio o dell’amore? e a modo

di conclusione Alex spiega a se stesso e all’analista il suo disgusto, dolore e tortura per la ridicola

vita che conduce in famiglia, per le umiliazioni e i fallimenti alle quali è sottoposto quasi

quotidianamente facendo derivare da questo soffocante clima il convincimento che non gli rimane

altro che il sesso: Dottor Spielvogel, questa è la mia vita, la mia unica vita, e la sto vivendo da protagonista di una

barzelletta ebraica! Io sono il figlio in una barzelletta ebraica…solo che non è affatto una barzelletta! E si

potrebbe continuare ancora a lungo disponendo sulla stessa linea le immagini che fanno vivere

questo teatrino ebreo e che alimentano le nevrosi di Portnoy, uomo abile, intransigente e stimato sul

piano professionale (è commissario aggiunto della Commissione per lo sviluppo delle risorse umane

del Comune di New York), ma individuo confuso la cui torrenziale confessione si fa

successivamente isterica e riflessiva. Tutto ciò è la chiara conseguenza d’uno status drammatico

perpetuo nel quale Alex Portnoy è cresciuto, la sua tendenza all’isteria rende il romanzo acre e a

tratti sgradevole, giacché solo di fronte al suo silente analista (prende la parola soltanto in due

ultime righe- dieci parole in tutto- del romanzo Allora (disse il dottore). Forse noi adeso potvemmo

incominciave. No?) Portnoy non conosce la censura. Che cerchi l’onestà o che ricerchi la

provocazione, il trentatreenne Alex non risparmia nessuno: svelando i suoi tormenti interiori e

denunciando le ipocrisie della sua classe sociale, se la prende con la famiglia, le donne, la coppia, la

religione. Senza illudersi su se stesso lo è anche sugli altri e la sua disperazione è così grande anche

perché vede che il mondo non gli offre esempio di quell’equilibrio a cui aspira. Che incontri vecchi

compagni di scuola diventati rispettabili padri di famiglia o una ragazza che aveva scelto di vivere

la sua vita in un kibbutz quando soggiornò in Israele, Portnoy non ha mai quel sentimento di

sicurezza o di tranquillità che manca così crudelmente alla sua vita. Per cui niente sembra poter

alleviare il suo disagio nel quale si trova, alleggerire uno stato d’ansia, un senso di colpa

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permanente che esaspera l’esercizio dell’introspezione. Il dramma di Alexander PORTNOY è la sua

intelligenza che gli permette di analizzare tutto con una certa arguzia lasciandolo però nella sua

angoscia. All’indomani della pubblicazione del suo libro cult anche lo scrittore come il personaggio

di Alexander si ritrova in una sorta di aggressiva inquisizione-scandalo. Roth è costretto suo

malgrado a difendersi da accuse di scurrilità centrate sull’aver raccontato esplicitamente l’attività di

masturbazione del protagonista Alexander Portnoy, un paziente ossessionato da una nevrosi a

sfondo maniacalmente sessuale. Fu quello un periodo buio per la sua vita pubblica di relazione e per

quello che rappresentava nel mondo letterario e universitario. Fu oggetto quasi quotidianamente di

ritorsioni indotto a difendersi e a contrastare una valanga di anatemi personali e attacchi misti a

insulti portati contro la sua persona, la sua identità religiosa e culturale da una parte della comunità

ebraica che lo accusava di aver indotto Alex Portnoy a recidere il cordone famigliare restituendo la

coscienza del desiderio. Roth non accettò il rituale dell’autocensura e continuò a credere nella

libertà di espressione e nella funzione liberatrice della Letteratura.

D’altronde non era la prima volta che la sua persona subiva simili atteggiamenti ostili. Philip

ROTH, semisconosciuto autore di racconti, dovette difendersi da accuse rivoltegli da un importante

rabbino di New York e da autorevoli responsabili di diverse organizzazioni ebraiche infastiditi dai

ritratti di un ebreo adultero e di altre squilibrate personalità schizofreniche presenti nei suoi racconti, in

particolare in quello apparso sul New York (marzo 1959) con il titolo Il Difensore della fede,

definito dallo scrittore oggi la prima cosa buona che abbia mai scritto. Il racconto accompagna il percorso

morale ed emotivo di un sergente ebreo appena tornato dal fronte di guerra del secondo conflitto

mondiale confuso e turbato per essere stato testimone di tanta violenza e distruzione. Un soldato

recluta anch’egli ebreo chiede di evitare il fronte giustificando la sua richiesta sulla base di una

comune appartenenza religiosa. Il sergente però lo punisce, lo richiama ai suoi doveri e ai pericoli

che attendono tutti i suoi uomini e ribadisce che è questa la fede che vuole difendere. Il ritratto del

soldato diciannovenne ebreo ambiguo e mentitore ebbe più peso e attenzione dal lato religioso che

da quello più squisitamente letterario: Le reazioni del pubblico di lettori non tardarono ad arrivare e

in modo copioso incentrandosi sul fatto che gli ebrei a quattordici anni dalla fine della guerra non

erano riusciti a metabolizzare ciò che era successo e su quanto poco l’ebreo medio fosse in grado di

accettare la rivelazione da parte di Roth. Ciò non impedì, insieme a La conversione degli ebrei,

incentrata sulla storia di un ragazzino che aveva minacciato di buttarsi da una sinagoga mentre da

sotto il rabbino lo supplicava di non farlo e a Epstein, in cui riprendeva un vecchio scandalo di

quartiere di cui suo padre aveva parlato a cena, che questi primi libri alimentassero nuove accuse di

antisemitismo e di disprezzo su come Roth intendeva rappresentare la classe media lavoratrice

ebrea di Newark. Anzi alcuni ritennero questi lavori responsabili addirittura di diffondere proprio gli

stereotipi che non molto tempo fa hanno finito per portare allo sterminio di sei milioni di ebrei. A questi libri c’è

da aggiungere un altro romanzo, Goodbye, Columbus, che aveva alimentato altre accuse di

antisemitismo in aggiunta alla scomunica dell’autore come ebreo che odia se stesso. Con quest’ultimo

testo Philip Roth ottenne il Daroff Award del jewish Book Council of America ma fu costretto a

leggere, indignato e suo malgrado, la rabbiosa intervista dello scrittore Leon URIS sul New York

Post nella quale apostrofò la nuova scuola di scrittori ebrei americani che passano tutto il tempo a

maledire i loro padri, a odiare le loro madri, a stracciarsi le vesti e a domandarsi perché sono nati. Philip ROTH

rivisse questa stessa avversa atmosfera quando partecipò come oratore nel 1962 ad un simposio

intitolato La crisi di coscienza negli autori di narrativa delle letterature minoritarie. In quel contesto

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dovette fronteggiare numerosi attacchi e dal tono brutale con cui erano formulati Roth capì che non

era semplicemente contestato, era proprio odiato. Alcuni eccitati partecipanti agitavano i pugni e Roth

riuscì a stento a mettersi in salvo non prima di giurare che non avrebbe più scritto sugli ebrei. Malgrado il

sostegno degli scrittori amici, Saul BELLOW, Alfred KAZIN, Irving HOWE e Lislie FIEDLER al

suo libro e i tentativi di Roth di riprendere i libri di Tolstoï e di Flaubert per far valere l’idea che

non c’era alcuna incongruenza nel suo testo e che raccontare le magagne di una famiglia ebraica

non comportava sic et simpliciter la delegittimazione dell’ebraismo, il romanzo fu liquidato come

un turpe esempio dello spirito antidemolitorio degli scrittori ebrei. Le reazioni furono dunque

veementi oltre ogni prevedibile misura rinfocolate da alcune considerazioni contenute nel breve

saggio di Roth apparso nel 1963 sulla rivista Commentary nel quale lo scrittore sosteneva che i

lettori di Anna Karenina non dovevano concludere che l’adulterio raccontato nel libro di Tolstoï

fosse da intendere come un tipico tratto russo né che quelli di Madame Bovary dovevano

condannare i costumi morali delle donne dell’intera provincia francese. La verità è che una parte

della comunità ebraica americana non poteva accettare che il bravo ragazzo ebreo Roth volesse

conquistare sessualmente la ragazza americana come mezzo per conquistare i loro ambienti sociali,

volesse scoprire l’America, conquistare l’America. Non poteva accettare che l’identità religiosa fosse

oltraggiata e che Philip ROTH esponesse la sua gente al pericolo dell’isolamento, a quegli stessi

pericoli che avevano creato le condizioni per la tragedia dello sterminio in Europa.

Ironico e dissacrante, il monologo, lamentoso e tragicomico, di Alex PORTNOY comunica al

lettore tanto di quel conflitto eterno e comune un po’ ad ogni essere umano. Il suo dilemma è capire

come mai si senta travolto dai desideri che ripugnano la sua coscienza e da una coscienza che

ripugna i suoi desideri. Il suo eterno enigma interiore domina i suoi pensieri, tanto da vedersi

costretto ad andare in terapia per svuotarsi di tutto il peso che sembrava tenere dentro da anni. Sul

lettino dell’analista, Alexander PORTNOY, giovane ebreo americano ed io narrante nel libro (in cui

si nasconde Philip ROTH) si trova a fare i conti con la propria educazione, con il peso della cultura

del suo popolo ebraico, con il desiderio d’integrazione che lui trasforma nel desiderio di possedere

sessualmente ragazze rigorosamente non ebree. Davanti al muto e saggio Dottore SPIELVOGEL

Alex comincia a parlare a ruota libera di sé e di tutto quello che gli capita a tiro. Sesso, rapporto non

risolto con la madre intransigente e oppressiva, conflittualità tra ebraismo e società americana e poi

ancora autoerotismo, onanismo e sesso, cercando di porre rimedio a una temporanea sua impotenza

sessuale. Ciò che lo stupisce e gli provoca un profondo turbamento è che questo disturbo l’ha

colpito proprio durante una vacanza nella terra dei Padri, Israele, interagendo con le donne ebree

così diverse dalle donne americane che Portnoy ha incontrato in America. Nella sua terra di origine

dove il suo sentirsi estraneo dovrebbe finalmente scomparire e fargli superare ogni conflitto,

incredibilmente il suo corpo si ribella mettendolo completamente in crisi. Portnoy usa il sesso come

la via per ribellarsi al percorso già tracciato nella famiglia ebraica tradizionale, rappresentata dai

suoi, che prevede un’ordinata successione di studio, lavoro, matrimonio, figli. Il problema è che la

trasgressione lungi dal rasserenarlo gli procura continui sensi di colpa determinati dall’inevitabile

contrasto tra pressanti impulsi etici ed altruistici con un egoistico soddisfacimento delle proprie

pulsioni sessuali, ovviamente inevitabile in questo vagabondaggio tra ragazze sessualmente più

invitanti con cui realizzare costanti slanci erotici, ai quali segue ben presto il timore che questa

ricerca non avrà mai fine, e lo porta a scegliere le donne più sbagliate. Kay CAMPBELL, la

compagna di studi Wasp (White- Anglo Saxon-Protestant) all’Antioch College che Alex chiama

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Melone in onore della sua pigmentazione e delle dimensioni del suo sedere. E anche della sua solidità: dura come

una cucurbitacea in materia di principi morali, deliziosamente cocciuta…che con leggerezza rifiuta di

convertirsi. Pur non essendo una modella, Alex era preso dalla sua schiettezza, fermezza, in una

parola dalla sua melonezza e gli piace ricordare quando invece di tornare a casa per la prima vacanza

universitaria prese il treno per l’Iowa e trascorrere un memorabile weekend con Kay e i suoi

genitori. In quell’occasione Alex poté apprezzare il distinto comportamento della ragazza frutto di

quel dosaggio di moderazione e giovialità che la faceva equilibrata e radicata, una delle grandi shikses da

cui Alex poteva imparare qualcosa se avesse voluto passare il resto della sua vita con una persona

simile, se fosse stato capace di liberarsi dell’ossessione per il sesso e per l’autoerotismo. Dopo tre

anni di relazione, cogliendo l’opportunità di un ritardo mestruale le chiese se voleva convertirsi alla

sua gloriosa religione. L’immediato rifiuto della meravigliosa, ingenua, candida ragazza indignò il nostro

Portnoy e non glielo perdonò, nelle settimane successive al falso allarme la relazione sentimentale

finì, le conversazioni furono più noiose come anche i rapporti sessuali. Fu quello il primo

incontaminato brivido di sadismo con una donna che Alex provò chiedendosi come avessi potuto lasciarmi

affascinare tanto da un essere così comune e grasso. Alex visse un’altra passione spezzata con la

Pellegrina, Sarah ABBOT MAULSBY, una giovane ventiduenne neolaureata che lavorava come

addetta all’accoglienza nell’ufficio del senatore del Connecticut. Alex stava lavorando sullo

scandalo dei quiz televisivi quando fece la sua conoscenza e nacque la relazione sentimentale. Ciò

che Alex non sopportava di lei era l’atteggiamento distante, altero e intransigente tipico delle

ragazze che hanno grande cura di sé e del modo ricercato e lussuoso di apparire. Si lamentava tra

l’altro del modo come Alex si esprimeva definendolo sgradevole e anche incivile. Nella loro intimità la

ragazza si mostrava timida, pudica e sottomessa. Non amava le trasgressioni e col passare del tempo

Alex si convinse di essere discriminato. Malgrado tutte le qualità e attrattive capì che quello non era

amore e che non c’era molto posto per l’amore; poi si lasciò ingabbiare in un altro difficile rapporto con

la modella stratosferica, da Portnoy soprannominata Scimmia, la maiala erotomane fuori di testa, tanto

ignorante quanto voluttuosa e perversa mirabile esemplare di shikse. Alex/Roth è affascinato e anche

intimidito di fronte alle frizzanti soavi bionde esotiche ragazze chiamate shikses quando con le loro

silhouette agili e asciutte andavano d’inverno a pattinare sul lago ghiacciato di Irvington Park luogo

preferito al fine settimana per radunarsi arrossate, cinguettanti, gentili. Se da un lato meritavano il suo

disprezzo per le cose in cui credevano, dall’altro per il loro aspetto fisico, per come si muovevano e

parlavano suscitavano in lui ammirazione misto a curiosità. Le ragazze si presentavano

accompagnate dai loro fratelli maggiori attraenti, sicuri, virtuosi, spesso sportivi e atleti veloci e

poderosi mediani delle squadre universitarie di football le più note, dai loro padri acculturati e

grammaticati e dalle loro madri che con sorrisi educati e le maniere squisite supportavano le numerose

campagne di beneficenza. I loro nomi sono tipo Johnny, Billy, Jimm e Tod e non Aaron, Arnold,

Marvin. I loro cognomi non Portnoy ma Smith, Jones o Brown, con un naso rivolto verso l’alto e

non il suo lungo e gibboso da sembrare Bunny il Coniglio. Ragazzi che non hanno per vicini i

Silverstein e i Landau ma Fibber Mc Gee e Molly. No, no, questi biondi individui sono per Alex-

Philip i legittimi e veri americani che vivono in armonia e beatitudine mentre lui, dopo una giornata

passata a guardare queste adorabili creature era costretto a ritornare a Newark e a riprendere la

solita noiosa e soffocante vita famigliare, con una madre incollata tutto il giorno a spolverare e a

mugolare tutte le volte che i figli facevano tardi a casa. Adolescente ribelle, vittima ancora bambina

delle violenze di un padre che dopo averla frustata sulle caviglie per tutta la strada di ritorno (aveva

assistito ad una lezione di ballo), l’aveva chiusa in ripostiglio per il resto della giornata e con i piedi legati per

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precauzione, la Scimmia si era trasferita a diciotto anni a New York e quando Alex fa la sua

conoscenza lei aveva già alle spalle un matrimonio con un cinquantenne industriale francese che

l’aveva riempita di doni, gioielli, portata a Londra e a Parigi e un divorzio dallo stesso a causa delle

piccole orge da lui organizzate. Un’esperienza sinistra se non terrificante che la spinse sull’orlo del suicidio e

poi nel letto del dottor Morris FRANKEL che l’aveva salvata. Il brillante incontro con Alex rappresentò per

lei che lo chiamava svoltino un momento di svolta nella sua non-vita. I due sostanzialmente aperti ad

ogni tipo di esperienza e di avventura anche quella di natura sessuale cominciarono un’assidua

relazione fatta di discussioni e di irrefrenabile pratica sessuale (di comune accordo i due amanti

introducono nel loro rapporto sessuale una terza persona, un’altra donna di nome Lina alla quale

spiegano le loro richieste e concordano una determinata somma di denaro per trascorrere insieme

una o più notti di trasgressione in albergo) anche se la ragazza sembrava un po’ instabile

psicologicamente tanto che Alex provava talvolta paura di lei e della sifilide e temeva che dietro di

lei ci fosse un’organizzazione mafiosa dedita allo sfruttamento della prostituzione, al traffico e

spaccio di droghe. Questo iniziale sospetto era però infondato. La ragazza voleva che Alex la

sposasse e diventare un essere umano. Alex affrontò il weekend nel Vermont come una sfida, voleva

verificare se fosse stato in grado di gestire un rapporto sentimentale senza rischiare la vita con

qualche stupidata. Si ricordò delle parole del padre subito dopo l’improvvisa dipartita da casa:

Perché tu sei una prugna, Alex. E noi non vogliamo che una prugna cada dall’albero prima di essere matura! E

ancora Non buttarti via. Non gettare alle ortiche un brillante futuro per una nullità assoluta…Bada alla tua vita!

Non gettarti a capo fitto in quest’inverno, non sai l’odio che c’è nel mondo. Ma Alex in questo fine settimana

ebbe un quadro quasi perfetto della ragazza a volte folle e a volte tenera al punto che piangeva per

la felicità acquisita. Alex le declamò una poesia e pur non avendo studiato la giovane l’apprezzò

molto. La scimmia assomigliava ad una bambina ma non stupida..no, una ragazzina svelta e intelligente! Per

niente stupida! che voleva fuggire la sua vuota e grigia vita a New York per vivere nel Vermont col

Commissario ed essere adulta…Voglio essere, mentre piangeva, la signora Qualcuno-Che-Posso-Rispettare. E

ammirare! E ascoltare. Alex rimase sbigottito, non sapeva se l’amava e si chiedeva se potesse o

dovesse piuttosto amarla. Non era in grado di risolvere questo dilemma anche perché la ragazza

confessò di essere stata a vent’anni una prostituta per professione facendosi pagare dai suoi

occasionali e ricchi clienti. Come avrebbe potuto portare a casa una sguangetta come definiva il

padre questo genere di ragazza? I vicini e i colleghi di lavoro al parlamento l’avrebbero definito uno

zimbello, un ragazzaccio, una perpetua vergogna per la propria famiglia! Come avrebbe potuto

sopportare gli sguardi e le severe parole del rabbino Golden che gli rimproverava di aver mandato

allo sfacelo anni di studio, di sacrificio per diventare Commissario aggiunto per lo sviluppo delle

Risorse Umane, di aver dedicato la sua vita di adulto a salvaguardare i diritti degli indifesi e di aver

relazionato sui pregiudizi razziali nell’edilizia per andare dietro alle ragazze allegre, facili e vuote e

rannicchiarsi dentro le loro ampie e profumate gonne? Il giorno dopo il loro rientro dal Vermont

Alex le portò alcuni libri che parlavano dell’infanzia, delle origini con lo scopo di liberarla

dall’ignoranza della sua razza; trasformare questa figlia dello spietato oppressore in una studiosa della sofferenza e

dell’oppressione; insegnarle a essere generosa, a sanguinare un poco per le miserie del mondo. A mente fredda

Alex capì che stava commettendo un errore totale con una persona simile, insicura, illetterata, un

vero pericolo quando ai ricevimenti apriva bocca di fronte alle persone altolocate per inventarsi la

professione di modella e di frequentante di corsi superiori allo Hunter College. Erano trascorsi dieci

incredibili mesi e spesso Alex si era chiesto perché continuare con questa donna abbrutita, questo

personaggio rozzo, tormentato, disorientato, colmo di odio per se stesso e privo d’identità. La verità è che

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provava da più tempo reazioni di disapprovazione e dalla sua bocca

uscivano soltanto tuoni di ammonimento, si sentiva insoddisfatto a gestire

una qualsiasi relazione sentimentale anche con quelle fanciulle colte e

intelligenti, sicure di sé e ben educate alle quali non doveva fare da

padre o da madre, educarle o redimerle. Non sopportava le pressanti

quanto reiterate esortazioni da parte dei suoi genitori a che fosse venuto

il tempo di mettere da parte il suo egoismo per pensare seriamente a

sposarsi anche con una shikse e renderli finalmente nonni di tanti

nipotini. Sophie, sua madre, gli ripeteva senza tregua la storia di

Seymour Shmuck, un suo vecchio amico alle elementari che si era

felicemente sposato realizzandosi anche professionalmente (era

diventato un noto e apprezzato neurochirurgo che prestava con successo la sua professione anche

all’estero in Europa, possedeva sei abitazioni e girava il mondo). La stessa non si capacitava che il

figlio che non era secondo a nessuno per l’aspetto fisico e per intelligenza continuasse a rincorrere

le ragazze per soddisfare unicamente la sua smania sessuale e non provasse vergogna per il suo

singolare comportamento. In famiglia non avevano capito che la lussuria di Alex/Philip era solo un

sistema per evadere da una convenzione sociale che lo obbligava a restare entro certi limiti

codificati e accettati come tabù dalla comunità ebraica nella quale era cresciuto. In termini di

relazione sentimentale Alex-Roth non vuole giustificare le sue voglie con l’Onestà e la Sensibilità

pur riconoscendo la sua insaziabilità e impossibilità a legarsi con una sola ragazza. Ciò spiega

perché le sue storie duravano un anno o poco più e alla fine col passare del tempo il desiderio

scemava verticalmente non riuscendo così a fare il grande passo. D’altronde mi rifiuto categoricamente,

diceva, di firmare un contratto che mi obblighi a dormire con un’unica donna per il resto della vita. E poi per

amore? Quale amore? Non è piuttosto una debolezza? O piuttosto paura, estenuazione, inerzia, apatia, pura e

semplice mancanza di coraggio? È così che finì la sua controversa relazione con la Scimmia, una

splendida ragazza di ventinove anni, che secondo Alex voleva intrappolarlo con i sensi di colpa

guadagnandosi così un marito. Era quello un tentativo fallito già in partenza perché la giovane non

aveva capito niente di lui e della sua filosofia di vita. La stessa conclusione, questa volta con

l’effetto di convincerlo a rivolgersi ad uno psicanalista, toccò al suo rapporto con Naomi, giovane

donna dagli occhi verdi e carnagione abbronzata, tenente dell’esercito ebreo, ragazza sensibile alle tematiche

sociopolitiche e propensa ad improvvisare infinite conferenze sul popolo d’Israele, il cui rapporto

fallisce miseramente dopo aver virato bruscamente verso la violenza. Con la ventunenne Naomi,

definita emblematicamente succedaneo di madre, Alex si sente già in sintonia, la sua conversazione era

infarcita di slogan appassionati, non dissimili da quelli della mia adolescenza. Una società giusta. La battaglia

comune. Libertà individuale. Una vita socialmente produttiva, chiedendosi seriamente perché non l’abbia sposata e

messo lì le radici della sua nuova vita. Alex arriva a pensare che in Naomi risiedesse la sua salvezza e che

la sua vita sarebbe cambiata in meglio con una donna come lei. In albergo la conversazione si

allarga e tocca la società americana che secondo la giovane non solo autorizza volgari e inique relazioni

tra gli uomini ma le incoraggia…Rivalità, competizione, invidia, gelosia, tutto quanto c’è di maligno nel carattere

umano viene alimentato dal sistema. Possesso, denaro, proprietà…in base a questi standard corrotti voialtri-

aggiunge- misurate la felicità e il successo. Mentre ampie fasce della vostra popolazione vengono private dei

minimi requisiti per una vita decente. Non è forse vero-conclude- che il vostro sistema è sostanzialmente

sfruttatorio, intrinsecamente degradante e ingiusto? Rivolgendosi ad Alex Naomi lo apostrofa come uno dei suoi

poliziotti, un funzionario stipendiato un complice…un lacchè della borghesia. Anche verso questa donna Alex

nutre grande considerazione, crede di amarla, vorrebbe sposarla e renderla madre dei suoi figli. Ma

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il rifiuto alle sue avances sessuali procura una piccola lotta durante la quale, colpito al mento, ad

Alex sanguina la lingua. Naomi va via condannando Alex ad un terribile caso d’impotenza.

La resistenza di Roth a questi attacchi fu una risposta sofferta ma dignitosa in perfetta linea con il

pensiero liberale della società americana incentrato sulla difesa dei diritti umani fondamentali e

della libertà di espressione.

Depresso per le tante malignità messe in campo, ubriaco di

disperazione, a ROTH non rimane che la fuga per uscire dalla

gabbia in cui si era magistralmente cacciato con la

pubblicazione e la diffusione del suo capolavoro. Andare

altrove era diventato una sua persistente ossessione.

Andarsene per capire che cosa contasse per lui e agire di

conseguenza nella vita e nel lavoro, trovare nuovi temi e

rifornire la sua immaginazione di linfa creativa vitale : ecco gli

obiettivi che Roth si prefiggeva quando iniziò i suoi viaggi in

compagnia di Barbara Sproul, attivista di Amnesty

International e sua nuova fiamma la cui relazione durò per sei

anni ma finì come gran parte delle storie d’amore, a trent’anni, senza rancore. Roth non era pronto a

formarsi una famiglia e ad avere dei figli perché la sua unica e vera passione è sempre stata la

scrittura, la letteratura e vedeva la donna come una via di fuga dalla sua irrequietezza sessuale, dai

limiti e dalle convenzioni, dalla noia e dalla disperazione. La sua America lo aveva falsamente e

sbrigativamente classificato riducendolo a simbolo dell’onanismo. E così intorno agli anni Settanta

ROTH se ne va scegliendo di soggiornare in Cecoslovacchia, fervida terra di reclusione che lo fa

sentire a casa. È qui che ROTH comincia a visitare la città di Kafka, ma poco gli basta per

ammirarne la bellezza, per stupirsi davanti al grande castello di là dal fiume e per osservare le sue

caratteristiche e silenziose vie, spesso deserte. Roth capisce subito che la gente non era felice, era

passato troppo poco tempo, circa quattro anni, per dimenticare che i carri armati sovietici avevano

cancellato con la forza e la violenza dell’invasione le speranze di democrazia durante la famosa

Primavera (1968). A Praga l’autore de Il lamento di Portnoy fa la conoscenza con i traduttori locali

che stavano ultimando con difficoltà di natura linguistico-espressive la traduzione del libro

nonostante all’epoca fosse nell’elenco degli impubblicabili. In quegli anni in Cecoslovacchia molti

erano i titoli e gli autori che subivano la pesante scura della censura e del veto e Portnoy sarebbe

circolato sotto forma di dattiloscritto per il difficile contesto socio-politico in cui ci si muoveva.

Philip ROTH incontra pure il meglio della Praga letteraria, i veri eredi di Kafka, gli scrittori Milan

KUNDERA con cui trascorre ore e ore a conversare grazie alla mediazione linguistica della moglie

Vera che conosceva l’inglese meglio del marito e che poteva fare da interprete, il romanziere

drammaturgo Ivan KLIMA e molti tra i più importanti intellettuali cecoslovacchi dissidenti

perseguitati dal regime comunista sulle orme di F. KAFKA, inaugurando una lunga e stretta

amicizia. I soggiorni praghesi furono per Roth molto salutari e proficui, riacquistò la serenità

perduta e ritornato rinnovato a New York non solo orbitò la sua vita intorno alla Cecoslovacchia

(mangiava spesso in locali cecoslovacchi di Yorkville dove festeggiò anche il suo quarantesimo

compleanno nel marzo 1973, tenne un corso all’Università della Pennsylvania dedicato agli studenti

del corso di lettere con un saggio in cui Roth guardava una fotografia del 1924 quando Kafka aveva

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quarant’anni proprio come lui in quel momento e racconta la vita

ingrata di Kafka ripercorrendo i problemi con il padre dispotico, le

difficoltà con le donne e gli anni in cui fu vittima della tubercolosi.

Poi inserisce la sua vita e dà spazio all’invenzione. Questa volta è Roth

che è centrale, siamo nel 1942 e il cinquantanovenne ebreo

cecoslovacco emigrato in America, il dottor Franz Kafka è

maestro di ebraico del novenne Philip. A cena dei Roth, Kafka fa conoscenza con la zia Rhoda,

zitella amante di teatro. La storia d’amore s’interrompe per un vago problema di natura sessuale e il

testo si conclude con dolorose trasformazioni. Philip frequenta il college e scrive racconti.

Comincia pure a conoscere ragazze, in particolare si lega con Betty Powell, bionda e delicata che si

stupisce per la corte serrata di Philip. Scrive anche due pagine di satira sulla rivista contro il campus

prendendosi un forte rimprovero da parte del Comitato accademico che non aveva condiviso

l’articolo e che lo portò davanti al Comitato per le pubblicazioni universitarie. Non fu espulso ma

Roth capì di avere talento per l’irriverenza letteraria, il New York e i racconti di J. D. Salinger di

cui aveva letto Il giovane Holden (1951) glielo confermarono ampiamente. Trascorre molto tempo

poi nell’emeroteca dell’Università a sfogliare e leggere molte riviste soffermandosi su quelle dove

le sue storie potevano essere pubblicate, in particolare su Commentary dove lesse articoli e

racconti di ebrei, roba obiettiva, descrittiva e diretta. Roth fu attratto dall’ultimo romanzo di Saul

BELLOW, Le avventure di Augie March che lesse con molto interesse capendo subito quale genere

di letteratura poteva produrre uno scrittore ebreo come lui parlando degli ebrei: una letteratura

moderna, attenta, piena di vita. Rilevò altresì la continuità di questo libro con l’opera di Thomas

WOLFE le cui corrispondenze sono: il linguaggio dirompente, il senso epico della vita…la passione per la

grandezza americana. Capì soprattutto che l’esperienza degli ebrei poteva trasformarsi in letteratura

americana e che i suoi ultimi testi andavano in questa direzione. Maturò l’idea che non tollerava più

tornare a casa e non sopportava di essere un ostaggio di un padre esigente, vulnerabile e lontano e di

una madre esuberante, fin troppo presente fino a soffocarlo. Con suo padre le liti sono continue e

constata che i suoi genitori contestano e ostacolano il suo percorso formativo e le sue scelte di

natura sentimentale. Il difficile, conflittuale, esasperante e anche ridicolo rapporto di Philip ROTH

con i suoi genitori è ben reso dalle parole messe in bocca al suo personaggio Alexander Portnoy, lo

stesso di quello raccontato con rabbia e ricostruito per il suo analista il dottor Spielvogel, Questi due

(i genitori) sono i più eminenti produttori e confezionatori di colpevolezza nei nostri tempi! Me la fanno colare di

dosso come il grasso da un pollo! Chiamaci, Alex. Vieni a trovarci, Alex. Alex tienici informati! Per favore non

allontanarti di nuovo senza avvertirci. L’ultima volta che sei partito senza dirlo, tuo padre stava per telefonare alla

polizia. Sai quante volte al giorno ha chiamato senza ottenere risposta?, fino a chiedergli di renderlo più

coraggioso e forte, anche lui non ne può più di sentirsi dire di essere un bravo ragazzo ebreo che

onora i genitori in pubblico. Il trentatreenne Alexander attende dal suo analista-confessore una

risposta a questa domanda: Dottore, di cosa dovrei sbarazzarmi, mi dica, dell’odio…o dell’amore? L’autore si

farà altresì promotore di raccogliere fondi su di un conto bancario chiamato Ad Hoc Czech Fund.

Scegliendo quindici scrittori bisognosi di aiuto si impegnò a trovare quattordici amici scrittori

disposti a versare insieme a lui cento dollari al mese attraverso un’agenzia di viaggi malandata di

Yorkville abbinando a ciascuno un collega di Praga. Ad Arthur Schlesinger accoppiò così uno

storico, ad Arthur Miller un drammaturgo; altri scrittori assoldati erano John Updike, John Cheever,

William Styron. Sul versante ceco, Klìma fece parte della lista del primo anno ma il secondo, non

appena la sua situazione migliorò, decise di tirarsene fuori. Milan Kundera descritto come un

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ostinato lupo solitario non fece mai parte del progetto. Nel corso di un ulteriore viaggio Roth maturò

un’altra idea su come aiutarli: fare in modo che i loro libri fossero letti in America. Presentatosi da

una casa editrice molto nota la Pinguin Books, Roth convinse la direzione alla pubblicazione dei

libri di autori cecoslovacchi in seno ad una collana Writers from the Other Europe (Scrittori

dell’altra Europa) a partire dal 1974 fino al 1989, in seguito nella collana comparvero autori

ungheresi e polacchi. ROTH è attratto da questa letteratura focalizzata sul mondo privato delle

possibilità erotiche in cui si respira un’aria di straordinario umorismo sessuale che Roth trovava in

Kundera e colleghi e verso cui si sentiva affine.

Da rimarcare altri due memorabili episodi della vita di Roth, il primo quando a Roth è presentato lo

scrittore e drammaturgo dissidente Vaclav HAVEL, vittima della censura del regime che aveva

messo all’indice i suoi drammi e ritirato il passaporto. Philip ROTH conosceva già alcuni drammi

dell’assurdo perché presenti nei cartelloni di diversi teatri di Broadway e di New York, in

particolare Memorandum, testo per cui Havel aveva ricevuto un Obie Award per la migliore opera

straniera, premio non ritirato perché era stato impedito di riceverlo; il secondo, quando lo scrittore

ebreo-americano si trovò di fronte a Vera Sandkova, nipote di F. Kafka che gli permise di sedersi

con grande emozione davanti allo scrittoio dello zio. Roth le espresse la sua solidarietà e vicinanza

e le prospettò (inutilmente) di sposarla per ottenere la cittadinanza inglese al fine di farla uscire

dalla Cecoslovacchia.

I soggiorni praghesi resteranno profondamente impressi nella memoria di Roth e saranno da lui

rivissuti in un breve racconto, The Prague Orgy, 1985, (L’orgia di Praga), epilogo del ciclo

romanzesco centrato sul personaggio di Nathan Zuckerman, in cui ritroviamo Nathan nella

Repubblica Ceca, incaricato da Sisovsky, eterna immagine del padre, di recuperare un manoscritto

di uno scrittore ceco martire del nazismo (alcuni credono che si tratti di Bruno Schulz, ebreo

polacco assassinato nel 1942 da un soldato nazista). Il libro è un’altra occasione per ritrovare e

magnificare le sue origini e per un riscatto morale. Gli appunti di viaggio di Zuckerman/Roth sono

l’occasione per una profonda e realistica riflessione sulle contraddittorie possibilità artistiche e

umane sotto il regime comunista, in una città in cui tutto è concesso ma niente è permesso.

Dopo Portnoy’s Complaint (Il lamento di Portnoy) passando per Our Gang, 1971, ( La nostra gang)

in cui il personaggio Trick E. Dixon è chiaramente una presa in giro di Richard Nixon e per The

Breast,1972, (Il seno), una sorta di surrealismo di matrice kafkiana dove un professore universitario

si risveglia trasformato in un’enorme mammella, ROTH pubblica una serie di romanzi che,

indubbiamente, costituiscono la parte rilevante e più brillante di tutta la cinquantennale esperienza

narrativa. Particolarmente felice è la saga che ha al centro Nathan ZUCKERMAN un personaggio

costruito ad arte, strutturato con sapiente perizia letteraria ma umanamente riconoscibile nel perfetto

alter ego del suo creatore. Attraverso la sua storia Philip ROTH affronta in modo analiticamente

approfondito e dettagliato, il problema dell’identità ebraica nel dopoguerra in America e dello

sviluppo di una personalità artistica non conforme alle prescrizioni, ai divieti e alle regole della sua

appartenenza religiosa, familiare e territoriale. Una disamina attenta e precisa, priva di pedanteria e

di psicologismo di maniera che prende in considerazione il risvolto umano e sociale della questione

con lo stile arguto, ironico e dissacrante che piace così tanto ai suoi lettori.

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La saga comprende i romanzi nei quali Zuckerman è protagonista e cioè: The Gost Writer, 1979,

(Lo scrittore fantasma), Zuckerman Unbound, 1981, (Zuckerman scatenato), The Anatomy Lesson,

1983, (La lezione di anatomia), i già citati My Life as a Man, 1974, (La mia vita di uomo) e The

Prague Orgy, 1985, (L’orgia di Praga), The Counterlife, 1986, (La controvita) e per finire Exit

Ghost, 2007, (Il fantasma esce di scena). Come voce narrante invece Nathan Z. è presente in tre

testi e cioè: American Pastoral, (Pastorale americana), romanzo che gli varrà il Premio Pulitzer nel

1997, I married a Communist, 1981, (Ho sposato un comunista) e The Human Stain, 2000, (La

macchia umana).

La trilogia si apre con The Gost Writer, 1979, (Lo scrittore fantasma). Il romanzo ha a che fare con

un giovane scrittore di belle speranze e grandi ambizioni che si trova ospite nell’isolata casa di uno

scrittore molto famoso, E. I. LONOFF, un’esperienza che segnerà le sue sorti letterarie. Nathan

racconta il suo incontro con il sommo narratore che ha dedicato la sua esistenza alla scrittura e parla

della difficoltà e della paura di trovarsi di fronte a tale genio, della voglia di fare un’impressione

positiva e dell’amore filiale che sente per lo scrittore. Ci presenta Hope, la moglie di Lonoff, un

tempo docile e remissiva ma ormai sull’orlo della follia e ci parla dell’incontro, durante la notte

passata a casa dello scrittore, con Amy Bellette, ambigua e sensuale profuga che Lonoff ha salvato

dalle tragedie della guerra. Il romanzo tratta dunque del rapporto tra immaginazione e realtà e anche

tra persone e notorietà diverse che dell’immaginazione fanno un lavoro. Il finale è sospeso e il libro

funge per l’autore da preludio di ciò che Philip ROTH ha in mente del suo personaggio, una sorta di

anticipazione di quelle che saranno le vicende future di Nathan/Roth.

Bisogna attendere due anni per ritrovare lo stesso personaggio alle prese con lo stesso tema che

dopo aver trascorso più di dieci anni dall’incontro con Lonoff ritenuto il più grande narratore della

sua epoca raggiunge il successo tanto agognato divenendo a sua volta un grande scrittore. Il suo

romanzo comico-erotico, Carnovsky, che somiglia molto a Portnoy’s Complaint, gli procura un

milione di dollari, gli vale la copertina di Life, discussioni e informazioni da gossip appaiono

copiosi sulla stampa rosa e in più una notte di amore con la diva del momento, Caesera O’Sea. Non

tutti, però, amano il suo scandaloso capolavoro. Ciononostante detesta la folla, le persone che lo

riconoscono nell’autobus o che gli chiedono insistentemente autografi. Solitario, Nathan/Roth cerca

la pace nel suo nuovo appartamento occupato soltanto da parecchi scatoloni di cartone contenenti

libri in attesa di essere sistemati sui ripiani della libreria, a meno che il rumore delle strade di

Manhattan dove ama perdersi non possa portargli la calma a cui aspira dopo momenti difficili in cui

ha subito accuse da parte della famiglia, dei critici e dall’establishment costituito che gli

rimproverano, tra l’altro, di aver lasciato la sua terza o quarta moglie. É sottoposto ad un vero

bombardamento di lettere severe e sprezzanti di molti lettori e lettrici e di continue telefonate di

qualche pazzo suo fan che minaccia di rapirgli la madre. Forse il libro non piace più neanche a lui e

la sciocca identificazione dei più tra lo scellerato Gilber Carnovsky (futuro Alexander Portnoy) e il

suo autore, il riservato e schivo Zuckerman, gli causa molte più grane di quanto si aspettasse,

neanche la sua nuova vita da ricco e ambito scapolo riesce ad alleviare il senso d’inadeguatezza e di

triste trionfo. L’uomo Zuckerman è schiacciato dal peso del suo genio e mentre assiste impotente

alla morte di suo padre si rende conto di aver perso se stesso, la sua identità di uomo e la sua dignità

di ebreo.

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Tra i passaggi più stravaganti e gradevoli nel contempo di questo romanzo in cui la paranoia sposa a

meraviglia la creazione letteraria figurano quelli che lo vedono alle prese con Alvin PEPLER, un

accanito ammiratore, stravagante oltre misura, che come in un gioco di scacchi, fa lo sgambetto a

Zuckerman coinvolgendolo in situazioni terrificanti fino a diventare una specie di copia clownesca.

Pepler fu negli anni cinquanta il personaggio-animatore più noto di giochi televisivi. Anche lui è

nato a Newark come Zuckerman/Roth, anche lui coltiva ambizioni letterarie cercando di prendere

una rivincita su di una società che lo ha ingannato sulla natura e gli effetti della sua effimera gloria.

Pepler è talmente insistente nel mettere alla strette Zuckerman che quest’ultimo si chiede se questo

bizzarro ammiratore e il maestro cantore che lo minaccia al telefono non siano una sola e stessa

persona.

Al di là del carattere irresistibilmente comico dell’episodio, Pepler fornisce a Zuckerman

un’immagine caricaturale di se stesso in quanto scrittore. In definitiva le considerazioni di Pepler

circa l’opera dello scrittore non sono così deludenti: La fiction non è autobiografica e tuttavia ogni fiction si

radica in qualche modo nell’autobiografia ancorché i legami con i fatti reali possano essere tenui, se non addirittura

inesistenti. Dopo tutto noi siamo la totalità delle nostre esperienze- aggiunge- e l’esperienza racchiude non soltanto

ciò che facciamo ma anche ciò che immaginiamo. È banale e tuttavia vero e se agli occhi di Zuckerman il

pensiero manca di sofisticazione, egli sa che Pepler ha visto giusto, ha chiaramente colto nel segno.

A maggior ragione Roth condivide il ragionamento, in modo particolare trascrivendo sul suo diario

il pensiero del guastafeste che lo insegue in strada. Zuckerman amaramente confessa nel suo

quaderno per appunti a modo di conclusione di non aver fatto buon uso della notorietà e della

fortuna acquisite.

Nel passaggio tra i due romanzi la narrazione passa dalla prima alla

terza persona. Roth taglia il cordone ombelicale e prende decisamente le

distanze dal suo personaggio: il risultato è una descrizione impietosa e

tragicomica di un uomo di mezza età, frustrato e infelice, rinchiuso nella

torre d’avorio del suo talento, all’interno di una gabbia ben poco

ossigenata. La vocazione letteraria lo ha costretto lontano dalle sue

appartenenze, dalla sua terra, dalla sua famiglia, lo ha accompagnato ossessivamente lungo tutta la

sua carriera artistico-letteraria incapace di dedicarsi ad altro che non sia la scrittura. ROTH

comincia a rendersi conto che l’attaccamento all’Arte sta rodendo la fonte della sua ispirazione e

che rischia di prosciugare la sua vena creativa un tempo feconda e variegata. ROTH/Zuckerman

perderà anche la madre e sarà il colpo di grazia ad un uomo abbondantemente distrutto dentro.

Nel successivo libro, The Anatomy Lesson, 1983, l’autore è affetto da uno strano dolore al collo,

alle spalle e braccia che non riesce a curare. Il dolore diventa centro nevralgico della sua esistenza,

è la ribellione ad uno schema che il romanziere Roth si era imposto e che non è più accettato

dimostrando di assomigliare a Carnovsky più di quanto sia disposto ad ammettere. Il dolore diventa

espiazione e riscatto morale dopo che il suo capolavoro ha ucciso i suoi genitori, il suo matrimonio

e che adesso sta distruggendo anche il suo talento. Ora non riesce più a scrivere e per Roth l’unica

soluzione è iniziare una nuova vita non prima però di decidere di farla finita con Nathan

Zuckerman. In Exit GHOST, 2007, (Il fantasma esce di scena), romanzo dai tratti autobiografici,

ROTH racconta dell’uscita di scena del suo alter ego Nathan scrittore di successo che abbandona il

suo esilio rurale per tornare in una New York ferita e resa fragile dal vile attentato terroristico di

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segno islamista alle Twin Towers. L’incontro con una giovane donna gli fa rinascere il desiderio

che non può soddisfare mentre la conversazione con vecchie amicizie devastate dalla malattia e

dalla vecchiaia lo riportano bruscamente alla sua condizione d’impotenza e di rassegnazione. Ciò

malgrado Nathan/Roth continua a trattare oltre ai temi della politica, della società e del sesso anche

quelli relativi alla malattia, alla morte e alla scrittura, la grande e forse unica passione dello scrittore

ebreo-americano.

Un’ultima presenza di Nathan Zuckerman è segnalata in The Counterlife, 1986, (La Controvita), in

cui si racconta di Henry Zuckerman, uomo sposato e fratello dentista di successo di Nathan nel New

Jersey che scopre di essere affetto da una gravissima cardiopatia per la quale è necessario un

intervento operatorio. Poiché l’unica cura efficace lo renderebbe impotente e poiché il suo unico

interesse nella vita è fare sesso, convince il medico a sottoporlo ad un intervento di bypass multiplo

durante il quale poco mancò che non morisse. La morte sfiorata da vicino gli fa prendere coscienza

dei limiti della vita che conduceva e decide di lasciare la famiglia per unirsi ad un gruppo di coloni

israeliani della Cisgiordania dove Nathan lo raggiunge per farlo ragionare e convincerlo a ritornare

sui suoi passi.

Forse è una pura coincidenza ma risulta alquanto bizzarro sapere che negli anni Ottanta anche Roth

soffrì per una patologia cardiaca che lo preoccupò non poco e che Nathan stesso doveva risolvere

una questione di cuore ricorrendo anche lui ad un’operazione. Ma a differenza di Henry che era

sopravvissuto Nathan, invece, ci lascia la pelle. Dopo il funerale Henry entra furtivamente in casa

del fratello e trova il manoscritto del suo ultimo romanzo. Rimane sbalordito nello scoprire che la

storia della sua cardiopatia come quella di una sua vecchia relazione da lui imprudentemente

confessata era stata del tutto inventata.

Il libro è un capolavoro d’intelligenza. In esso brillano e si incrociano le due storie raccontate,

quella di Henry e quella di Nathan che reso impotente dalle medicine, forse trova l’amore della sua

vita grazie a una giovane inglese che sposa e che finalmente a quarantacinque anni diventa padre.

Un libro diverso da quelli precedenti che segnò un punto di svolta nella carriera rothiana. Roth

scopre come essere libero. Con il Lamento di Portnoy il pubblico si era fatto l’idea che la sua

letteratura fosse un’interminabile confessione personale. Roth aveva sperimentato il racconto alla

prima persona, con La Controvita, il suo punto di vista è doppio nel senso che nella stessa opera

convivono due storie assai diverse di cui una ancora con Nathan Zuckerman protagonista destinato

con la sua morte ad essere cancellato forse perché la gente la piantasse di dire che scriveva solo delle sue

esperienze personali. Questa volta non è di sé che Roth voleva parlare ma di Israele, quella dei suoi

ricordi. Il tema era già stato, anche se brevemente, trattato nella parte conclusiva del suo Lamento,

ora quel riferimento appare allo scrittore debole, non infiammato dall’immaginazione che si rinnovò

quando Roth negli anni Ottanta cominciò a ripercorrere la sua terra e s’infiammò per quel soggetto

morale e storico che stava cercando convinto che ci fosse tra Israele e l’America un’alleanza

naturale non certo carica di significato, ma comunque carica di sentimento. Capì che il suo orizzonte visivo

si stava espandendo ma che il ruolo del suo personaggio Zuckerman si stava logorando. La coppia

di fratelli del New Jersey continuava ad essere diversissima. Da un lato, Henry, il figlio bravo,

l’uomo di famiglia, colui che difende le regole, dall’altro, Nathan, il rinnegato, lo scrittore distruggi

famiglie, la star di cronaca rosa. Da Nathan verso Henry c’è amore, compassione e benevolenza, da

parte di Henry in direzione di Nathan troviamo amore, compassione e un forte risentimento che

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sfocia in rabbia. Arte e Vita che si contrappongono. Solo dopo la vera vita di Nathan, Henry, venuto

a conoscenza di che tipo fosse suo fratello dopo aver letto alcune pagine del suo manoscritto prima

di gettarlo nel cassonetto, si lascia andare ad alcuni maligni giudizi sul fratello definendolo uno zulù,

un autentico cannibale, che assassinava, divorava le persone senza dover mai pagare lo scotto. Le loro esistenze

erano concepite come controvite e la loro contrapposizione mortale non ha alcuna base

autobiografica anche se a ben leggere il testo ripropone la stessa diversità che Philip Roth

riscontrava in Sandy Roth, suo fratello maggiore, presenza affettuosa nella sua vita, sempre pronto a

dargli una mano. La differenza è che quel poco di attrito esistente tra i due aveva a che fare con

l’arte, col successo di Philip a fronte delle speranze frustrate di Sandy oltre che del modo diverso di

considerare gli intellettuali e alcune scelte di vita (Philip ama la musica classica, Sandy la odia).

Ampio spazio all’immaginazione quindi ma anche possibilità di attingere a tutta una serie di fatti e

ricordi legati alle esperienze di Roth ebreo a Londra, come quando nel partecipare ai convegni

letterari e progressisti era costretto ad ascoltare giudizi assai taglienti su Israele che paragonavano

gli israeliani ai nazisti o quando si trovava a ristorante ascoltare una donna che raccontava a voce

alta di aver comprato un anello da un ebreucolo che l’aveva ingannata sulla qualità dell’oggetto o

ancora sentire nei luoghi pubblici la gente pronunciare a bassa voce il termine ebreo quasi fosse una

parolaccia. Lo scrittore a volte interveniva e duramente e si rendeva sempre più conto che c’era un

legame profondo che legava Londra a Israele. Da questa costatazione nasce in Roth l’idea di farne

un tema centrale in un suo libro. Così nasce Controvita centrato sull’estremismo odioso e pericoloso

a Londra come in Israele che già conosceva. L’antisemitismo che aveva impedito a suo padre

Herman di fare carriera perché ebreo e a Philip ROTH ancora riecheggiano gli insulti che i bambini

ebrei ricevevano dai compagni ed amici di scuola. A fronte di pochi che sostenevano che

l’Inghilterra non aveva problemi di antisemitismo, ce n’erano altri che invece denunciavano quel

fenomeno come realmente esistente e diffuso. Nel libro Roth sposta l’antisemitismo nella nuova

famiglia di Nathan. La fanciulla inglese Maria incinta coadiuvata dalla sorella antisemita e dalla

madre che non è da meno, in occasione dei canti natalizi, ammoniscono Nathan con tono

minaccioso che il bambino che stava per nascere non sarebbe stato battezzato. Nathan capisce così

di rimanere legato alla sua storia e di rivendicare le sue origini cristiane e nel contempo le chiede di

fare ritorno da lui perché è consapevole che per inventare le storie traboccanti di odio ha bisogno

della sua famiglia antisemita.

Come già sperimentato in altri libri lo scrittore statunitense sente il bisogno di raccontare storie

incentrate su personaggi vicini a sé. Non importa che siano Nathan o Maggie, Alexander o Claire,

Jinx o Aharon, Mickey o Drenka, Marcus o Faunia, ciò che conta è la convinzione che senza di essi

o senza qualche altra maschera non sarebbe mai diventato un grande artista e di successo. Dalla fine

degli anni Ottanta in poi l’autore ebreo conosce un periodo particolarmente poco fortunato, il mal di

schiena ritorna ferocemente all’attacco impedendogli di stare seduto o di guidare la macchina anche

per brevi tratti costringendolo a sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico a New York che

invece di guarirlo acuisce il dolore che diventa tanto insopportabile al punto che gli fu prescritto

l’uso dell’Halcion, un ipnotico sedativo apparentemente innocuo ma potenzialmente pericoloso che

gli procura alcuni effetti collaterali piuttosto seri quali allucinazioni, attacchi di panico e una forma

acuta di depressione vicino al suicidio. A ciò c’è da aggiungere il fatto che nell’estate del 1989 si

ripresenta il problema cardiaco tale da decidere d’intervenire d’urgenza facendogli cinque bypass,

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la stessa operazione a cui erano stati sottoposti i fratelli Zuckerman ne The Courterlife. Forse a

causa di questi fatti profondamente e dolorosamente personali che lasciarono Philip ROTH in preda

ad un’allarmante insicurezza e solitudine (sua moglie Claire BLOOM si era allontanata da casa

spaventata all’idea di ritrovarsi da sola con lui), conosciamo così con il suo libro Operation Shylock: A

confession (1993), ben due Roth distinti, quello reale, privo di maschera che attingeva unicamente

alla dimensione personale e quello autoriale che faceva uso dell’immaginazione convinto che

l’invenzione fosse l’unico mezzo per arrivare alla verità. È chiaramente un Roth affascinato dai

misteri dell’identità. La mia ipotesi è che tu abbia scritto così tante metamorfosi di te stesso-gli dice Nathan

Zuckerman nei Fatti-da non sapere più chi sei, né chi sei mai stato e non è un caso che tra i primi titoli per

Operazione Shylock c’era Duality.

L’opera è presentata come una cronaca rigorosa di fatti realmente accaduti che hanno coinvolto alla

fine degli anni Ottanta anche l’autore nel lavorare come spia per i servizi segreti israeliani, Il

Mossad. Lo spunto fu il processo al sessantottenne John Demjanjuk accusato di essere uno degli

individui più orribili mai esistiti alle cui udienze Roth partecipò con un’assiduità quasi compulsiva.

Il libro ruota intorno all’obiettivo del falso Philip Roth, il diasporismo, che vorrebbe il ritorno in

massa di tutti gli ebrei israeliani di estrazione europea nei loro paesi di origine. Una volta concluso

il secondo esodo, Israele potrà ritirarsi entro i confini del 1948 e la sua minuscola popolazione di

ebrei non europei potrà vivere in pace. Solo così si potrà scongiurare un secondo Olocausto in

Medio Oriente. Benché con questo testo Roth facesse ritorno alla narrativa d’invenzione e si

aspettasse una critica importante, quella invece più influente fu spietata. Vale per tutte quella

espressa da Michiko Kakutani sul New York Times nella quale scrisse che Roth non era riuscito a

occuparsi di tematiche esterne per colpa di una forma sin troppo nota di solipsismo, ripetitività e

autoreferenzialità ossessiva. A questa accusa Philip cercò di spiegare che senso avesse usare il

proprio nome nei libri che scriveva. Era affascinato da Genet, Céline ed altri scrittori europei che

entravano come personaggi nei loro romanzi per additare non i peccati di soggetti finzionali altri,

bensì i propri. Effetto: dopo gli anni di Halcion Roth, attingendo a nomi reali, si sente più vivo. Con

questo nuovo romanzo Philip ROTH ritrova vigore dopo anni di apprensione per le condizioni

precarie di salute e di difficoltà nella scrittura. Dopo aver evitato per ben due volte la morte, sembra

che l’autore abbia voluto metterci di tutto convinto che il suo coinvolgimento servisse a ridare slancio

all’energia creativa recentemente appannata. In attesa che il processo immaginativo ripartisse, Roth

pubblica nel 1990 Deception: A novel (Inganno), un romanzo agile, elegante e disturbante (Fay

WELDON, autrice nota per le sue idee femministe), un libro sull’adulterio e sulla seduzione, una

sorta di più conversazioni fra l’autore e alcune donne con cui Philip ha avuto una relazione, in

particolare con una donna inglese sposata ma infelice che diventa poi la Maria Freshfield del

romanzo. I temi di conversazione sono ampi, dalle insoddisfazioni coniugali della donna

all’antiamericanismo britannico e anche pericolosi perché molti suoi lettori erano convinti che

Inganno fosse un’opera autobiografica e identificarono in Claire Bloom l’amante del romanzo.

Claire BLOOM non ancora sposata andò su tutte le furie e impose a Philip di cancellare quel nome

e sostituirlo con Janet Hobhouse, donna sposata, bella e pieno di talento con cui Roth aveva avuto

una breve quanto intensa relazione all’epoca in cui Janet abitava sopra di lui in un condominio

sull’Ottantunesima Est, a New York, morta poi a soli quarantadue anni per un cancro alle ovaie.

Anche se il libro non ebbe un rilevante successo editoriale, il romanzo risultò ingegnoso, sfuggente e

aereo e ci restituisce un Roth privo di maschera, inquieto per i troppi problemi di salute che lo

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affliggevano e gli toglievano agilità e voglie. D’altronde era quasi impossibile che si escludesse da

qualunque libro stia scrivendo. Per tenersi fuori, diceva in un’intervista, doveva chiudere a chiave

tutte le porte e metterci contro i mobili.

Ma con l’intervento al cuore perfettamente riuscito Roth riprende a vivere e ritornato alto l’umore

sente che tutto sia possibile. Segno di questo nuovo ed esaltante momento fu quando nell’aprile del

1990 lui e Claire Bloom si sposano. Questo positivo momento trovò attuazione anche sul piano

creativo e professionale con la pubblicazione di Patrimony: A true Story (Patrimonio. Una storia

vera) da leggere assolutamente perché si tratta di un libro che si sottrae ai giochi di specchi tra

finzione e realtà con cui l’autore è solito difendersi, per offrire, un’immediatezza e una tenerezza

affettive nuove.

Anche con Everyman, 2006, (Un uomo), ROTH

rifletterà sull’invecchiare, sull’ammalarsi e sul

morire del protagonista (senza nome) partendo

dalla fine e ricostruendo la sua infanzia con il

fratello nel negozio del padre, i suoi tre o quattro

falliti matrimoni, i tre figli e i numerosi adulteri,

per concludere il racconto del suo passato con

l’ultimissimo suo lavoro dal titolo Nemesis, 2010,

(Nemesi). Nemesi è la dea greca della giustizia,

della vendetta, della collera. Se il suo autore costruisce il romanzo a forma di tragedia è una

tragedia priva di morale, dunque molto umana e contemporanea con al centro la malattia e la morte.

Il libro resta nell’ambito di un bel testo metafisico e s’incentra sull’idea di caso e di responsabilità

nella vita di ciascuno di noi. Philip ROTH vi espone la sua propria visione dell’esistenza in cui tutto

sembra dipendere da una questione di fortuna o di sfortuna. L’autore non crede alla psicanalisi né

ad un inconscio che lo guiderebbe nelle scelte di vita e crede che se certi incontri si sono rivelati

buoni o cattivi è perché siamo stati più o meno fortunati. Per avvalorare questo pensiero Roth si rifà

ad un fatto personale riguardante la sua prima moglie rivelatasi in seguito una donna inaffidabile,

capace di compiere azioni basse e scellerate (rubava spesso e mentiva senza ritegno). Certamente lo

scrittore non l’aveva scelta per questo giacché l’autore di Indignation detesta i criminali ma perché

era stato sfortunato nello sposare la persona sbagliata. Gli psicanalisti direbbero che in questa

discutibile scelta molto spazio decisionale è dato all’inconscio. L’opinione di Roth, invece, è quella

che riconosce che di fronte alla vita, noi siamo spesso innocenti nel senso che c’è in ognuno una

forma latente d’innocenza che si estrinseca nel modo come noi organizziamo le nostre vite.

In questo suo libro il personaggio, l’insegnante di ginnastica Bucky Cantor, ha a che fare con la sua

nemesi, un termine molto in voga negli Stati Uniti e che potremmo definire come una fatalità, una

sfortuna. Nel romanzo questa nemesi è la polio ma nel caso di Cantor sono i suoi problemi di

coscienza. D’altronde fin dai suoi primi testi Roth si è sempre interessato ad osservare da scrittore

quegli individui che hanno uno strano senso estremo e in fondo inopportuno d’intendere la loro

responsabilità perché non sarà tanto la polio che distruggerà la sua vita quanto la sua aspirazione

alla responsabilità totale. Lo scrittore era molto interessato alla polio non solo perché non ci aveva

ancora scritto nulla ma anche perché la polio, ancor prima dei vaccini, aveva avuto nell’America

degli anni ’20 e ’30 un grande ruolo suscitando nella popolazione paure e provocando serie

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condizioni d’instabilità psicologica. Con NEMESI, ultimo romanzo lasciato in eredità da Philip

Roth, l’autore fa conoscere al mondo dei suoi lettori che lo hanno sempre seguito e apprezzato e a

quello universitario che lo ha accolto con qualche riserva, la decisione di smettere di scrivere. La

polio la forma più estrema della sfortuna, la malattia che negli anni ’40 a New York terrorizzava

Bucky CANTOR, perfetto insegnante di ginnastica dedito a salvaguardare i suoi giovani studenti

colpiti da una pericolosa quanto inattesa epidemia, contro la quale non si poteva fare niente. I suoi

ragazzi lo ammirano intensamente perché riesce a trasmettere la fierezza di ogni gesto atletico e

perché vedono in ogni sua performance il punto culminante delle proprie aspirazioni adolescenziali,

il punto di arrivo del loro ottimistico percorso di addestramento alla vita. Contemplando le prodezze

sportive di Cantor i ragazzini di Newark riescono a dimenticare le piccole vicende di quartiere per

gustare in futuro e da adulti il premio più nobile a cui essi possono aspirare, il pieno

soddisfacimento dei loro sogni giovanili, la ricompensa per una formazione radicata nella

consapevolezza dell’assoluta necessità di contribuire alla partecipazione, alla storia del genere

umano. Bucky CANTOR crede fermamente che l’insegnamento dello sport ai ragazzi sia il mestiere

più bello che esista, spiegare loro il valore dello zelo, della perseveranza e della concentrazione in

tutte le azioni dell’uomo prospettando e incoraggiandoli al raggiungimento del risultato. È il

principio dell’impegno personale che il filosofo Max WEBER intendeva con la formula ascesi

intramondana, ovvero quella sostanza spirituale in grado di trasformare la logica del profitto in una

formidabile spinta verso la civiltà e il progresso. Questo è stato e lo è ancora il sogno americano, la

sirena che ha attirato verso gli Stati Uniti le personnes à problème, i diseredati . Ciò che conta è la

volontà di costruire la propria esistenza con il duro lavoro senza avere paura di impegnarsi a fondo

per il conseguimento di un progetto. Lanciando il giavellotto con tecnica magistrale e virile

determinazione l’insegnante CANTOR voleva far passare il messaggio che mettendo nella pratica

quotidiana il meglio delle proprie energie chiunque sarà in grado di ottenere quello che si è

prefissato. Bucky CANTOR ne è pienamente convinto nel momento in cui, nel luglio del 1944 in

pieno conflitto mondiale, all’età di ventitré anni, un’epidemia di poliomielite si abbatte

violentemente sulla città di Newark minacciandone gli abitanti con prospettive che si prevedono

terrificanti, con atroci sofferenze fino ad invalidità permanenti o a morti.

Di fronte a questa drammatica realtà Cantor si impone di essere ragionevole e forte della sua

formazione altruistica affronta la situazione in modo più che responsabile. Non si lascia prendere

dal panico e con la maturità del sua atteggiamento riesce a conciliare l’istintiva propensione dei

ragazzi a giocare all’esterno delle loro abitazioni con l’eccesso di prudenza dei genitori che

considerando il momento storico pericoloso pensavano che fosse assolutamente giusto e opportuno

tenere i propri figli chiusi in casa per paura del contagio. Insomma il giovane CANTOR si

destreggiò abbastanza bene tra due possibilità, da un lato vigilare sui ragazzi affinché non assumano

comportamenti avventati nel caldo afoso delle ore di punta e tranquillizzare, dall’altro, le madri a

mantenere la calma. Solo così Cantor è convinto che riuscirà a riportare la situazione nella

normalità. Tuttavia non appena la malattia comincia a diffondersi tra i bambini del quartiere, Bucky

è preda di una crescente agitazione. Vuole individuare un responsabile per tanta sofferenza che lo

riconosce dapprima nel Padreterno e poi in se stesso. Cerca disperatamente una causa più profonda

convinto che non si tratti di una punizione divina ma di un nemico, la morte, l’unico avversario che

l’uomo non è in grado di combattere e di annientare con le sue sole forze. La sorte del signor

CANTOR è comune ad altri personaggi di Roth il comportamento dei quali è corretto, onesto e

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accorto, pronti ad assumersi le proprie responsabilità ma ripagati da un avverso destino con un

senso accentuato di patimenti fisici e morali. Come per Marcus MESSNER, giovane perbene

determinato ad adempiere, nel romanzo Indignation, i propri doveri riponendo nella giustizia e

nella logica la disperata ricerca di una colpa che avrebbe causato il tragico epilogo della dolorosa

vicenda terrena che lo ha coinvolto suo malgrado (Marcus, bravo ragazzo del New Jersey, figlio

diligente e rispettoso di un padre macellaio Kosher con cui ha un ottimo rapporto perde

inaspettatamente la vita all’età di diciannove anni) anche Bucky CANTOR è alla disperata ricerca di

una colpa destinata però a restare senza risposta. La verità è che non esiste altra spiegazione per il

labile destino dell’uomo che non sia insita nella natura della vita stessa e ogni tentativo di intricare

con inutili ragionamenti una simile ovvietà è destinato a naufragare nel silenzio. A nulla giova la

rettitudine e la prudenza sia di Marcus che di Cantor. Anzi per Roth essa sembra infierire proprio

contro gli onesti e i valorosi forse perché essi sono maggiormente propensi a cadere nell’illusione di

credere che il benessere, la sincerità uniti ad un comportamento accorto e responsabile possano

magicamente dispensarli dalla provvisorietà, dalla precarietà e dalla terrena limitatezza. L’uomo

prende coscienza di tutto ciò e constatato la irrealizzabilità del suo progetto di vita reagisce

rifugiandosi in forme esterne che siano in grado di garantire una più convincente illusione di

permanenza. Tra queste Philip ROTH individua certamente le religioni, le ideologie ma quelle alle

quali lo scrittore sembra più sensibile sono le convenzioni sociali. Parlando di convenzioni, l’autore

di Pastorale americana ama fare spesso riferimento all’eredità spirituale di matrice ideologico-

religiosa, parte cospicua della sua cultura di origine e a quel patrimonio di valori condivisi posto al

di là dell’esperienza individuale ma fondamentale per regolare la convivenza civile nella sua

particolare comunità in cui la collettività esige dall’individuo obbedienza alle proprie norme scritte

e orali fornendogli in cambio la protezione di cui necessita. ROTH allude a tale concetto e non

rinnega l’attività di salvaguardia del bene comune operata dalla convenzione anche se la percezione

positiva riguarda soprattutto il contesto degli affetti familiari. Nella maggior parte dei casi, tuttavia,

Roth non dissimula la sua insofferenza nei confronti di una convenzione percepita come detestabile

quando impone comportamenti in nome di una sacra collettività che viola il diritto di ciascuno

all’autoaffermazione.

Sappiamo bene che l’infanzia di Philip è stata molto protetta forse troppo, che i suoi genitori non

hanno mai pensato di separarsi e che la comunità ebrea in cui viveva e si formava Philip Roth era

molto compatta e rigida e che al suo interno non poteva germogliare alcuna idea antisemita. Se da

un lato quindi la convenzione assicura al giovane scrittore ebreo Roth ogni forma di protezione

dall’altro soffoca l’istinto del singolo a rivendicare il primato della differenza. Essa stabilisce il

primato morale di un noi astratto e intransigente a discapito di un io empirico che chiede

energicamente di essere riconosciuto non per l’adeguamento a comportamenti standardizzati,

quanto per difformità che lo distingue.

È un libro sulla morte, certamente un libro sulla fragilità dell’uomo di fronte alla malattia, alla

decadenza fisica e sessuale. Pur non essendo molto originale il tema della vulnerabilità umana è

centrale in numerosi romanzieri. Per Philip ROTH la malattia è l’avversario più temibile, è quel

mal di schiena e la perdita di desiderio di cui lo scrittore soffre da quando è giovane, è la fobia che

non lo ha mai lasciato vivere in pace e che lo ha portato al ricovero in una clinica psichiatrica per

aver pensato al suicidio da cui fortunatamente ne è uscito con tutt’altra diagnosi e cioè quell’oscuro

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malessere era causato da una forte depressione che lo scrittore combatté unicamente e con successo

con la scrittura. Lui, che per tutta la sua vita intellettuale e letteraria aveva dominato il demone del

vuoto, restando senza scrivere soltanto due ore al massimo, che aveva consacrato la sua esistenza al

romanzo l’aveva studiato, insegnato, scritto e letto, ora prende atto dell’impasse creativo e annuncia

nell’ottobre del 2012 nel corso dell’intervista condotta dalla giovane giornalista Nelly Kapriélian

per il settimanale culturale francese Les Inrockuptibles, di non avere più intenzione di scrivere libri

e di ritirarsi dalla vita pubblica. La decisione di Philip ROTH di mettere un punto fermo alla sua

carriera di scrittore a quasi 80 anni ha colpito e sorpreso il mondo della letteratura americana

contemporanea di cui è uno degli autori più letti e apprezzati. L’annuncio del suo ritiro ha lasciato

anche un grande status d’incredulità. Si pensò sulle prime ad una

boutade o ad una errata quanto frettolosa interpretazione delle sue

parole e ci fu pure chi assicurò che l’autore sarebbe ritornato sui suoi

passi a riprendere il suo lavoro di attento osservatore della realtà

continuando a descrivere come aveva fatto così magistralmente per

cinquant’anni le fragilità umane con esuberanza ma anche con spiccato

senso dell’osservazione e sensibilità. Figlio di una generazione di

scrittori americani nati negli anni ’30, grande ammiratore di Hemingway, di Gustave Flaubert,

affascinato dalla rettitudine morale di Joseph Conrad, dalla solennità delle composizioni di Henry

James, per cinquant’anni aveva dato l’impressione d’aver abbracciato e per sempre il sacro mestiere

di scrittore e di aspirare come i suoi modelli ad essere un santo. Niente di tutto questo, anzi invitato

ad esprimersi sull’argomento del suo ritiro, davanti alle telecamere della televisione certificò e

confermò la sua decisione in un documentario la cui prima parte fu diffusa martedì 20.05.2014 sulla

BBC nel programma Image e riprodotto, la seconda parte, martedì 27.05.2014. Al suo interlocutore

Alan Yentov l’autore ribadisce che quella sarebbe stata la sua ultima apparizione pubblica

televisiva. Nella stessa intervista, dopo aver ripercorso con orgoglio la sua brillante carriera di

romanziere attribuendo ai suoi più noti romanzi il merito di aver goduto della gloria letteraria, sessuale

e anche una reputazione di uomo folle, ringrazia i suoi lettori e lettrici per le centinaia di migliaia di lettere

di stima ricevute e sottolinea di essere riuscito a superare diversi momenti critici e pericolosi in cui

ha rischiato di distruggere la sua vita grazie alla scrittura e alla Letteratura.

Bisogna altresì dire che l’idea di non scrivere più di fiction non fu una scelta rapida e senza

conseguenze. Fu un lento ma graduale processo di maturazione a partire dagli anni Novanta,

esattamente dalla pubblicazione di Sabbath’s Theater, 1995, (Il Teatro di Sabbath), American

Pastoral, 1997, (Pastorale americana), I married a Communist, 1998, (Ho sposato un comunista),

fino a Indignation, 2008, (Indignazione) e per ultimo a Nemesis, 2010, (Nemesi). Da questi romanzi

Roth si era accorto che la voglia di impegnarsi nella fiction si stava affievolendo. Aveva lasciato

New York per sistemarsi nel Connecticut, turbato, fortemente e persistentemente a disagio per la

eccessiva visibilità mediatica preferendo nella nuova località fare ore di nuoto e lunghe passeggiate

nei boschi piuttosto che applicarsi alla scrittura. Pregustava così il piacere di non fare niente

appropriandosi della frase pronunciata dal grande pugilatore americano Joe Louis, Ho fatto del mio

meglio che ho potuto con ciò che avevo per dire che il suo lavoro era giunto al capolinea, per comunicare

la sua estrema volontà di non leggere più di fiction, di scriverne e persino di parlarne, confermando

ai suoi pressanti interlocutori di non provare più quel fanatismo di scrivere di un tempo molto

lontano tanto che l’idea di affrontare ancora una volta è per lui impossibile, giacché scrivere è cadere nella

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frustrazione, nello scrivere una brutta parola, una brutta frase, una brutta storia per poi ritornare

indietro e rivedere o ripensare tutto perché spesso ci si inganna e si fallisce. Roth non se la sente più

di vivere in questo stato di perenne frustrazione, è stanco di continue revisioni, ha perso ogni forma

di fanatismo e di slancio a volte irriverente ma vitale e non ne prova alcun rimpianto. E poi, si

chiede, a che pro’ scrivere una nuova storia se sarà un sicuro insuccesso? Chi ha bisogno, dice, di

scrivere un libro mediocre?

Stanco e usato. Questo è lo status nel quale Philip ROTH si trova ormai di fronte alla letteratura.

Critico sulla sua immensa opera (31 libri e numerosi saggi e interventi critici) Philip ROTH ci

lascerà tuttavia un’ultima testimonianza. Non è un nuovo romanzo ma affiderà a Blake Bailey la

scrittura della sua biografia, lui che aveva già fatto prova del suo talento per quella del misterioso

John Cheever e Richard Yates. Sul suo futuro Roth non ha dubbi, è

orientato a mettere mano ai suoi archivi per permettere al biografo

prescelto di lavorare alla sua biografia e di accedere a tutta la sua

vasta corrispondenza e a tutti i suoi archivi, migliaia di pagine

che sono come memorie non letterarie e non pubblicabili, invitando i

suoi amici letterati ed intellettuali a collaborare per la stesura di

una Biografia che si annuncia come un vero capolavoro, una

colossale quanto preziosa fonte d’informazioni su l’un des lions de la littérature américaine come lo

definisce il giornale The New York Observer. Essa dovrebbe essere pronta per il 2020 con una

condizione che gli esecutori testamentari subito dopo la pubblicazione provvedano a distruggere i

documenti personali di Roth perché nessuno possa leggerli mentre i suoi manoscritti saranno donati

alla Biblioteca del Congresso come già stabilito dagli anni Settanta.

In attesa di leggere da vivo la biografia di sé e della sua vasta opera letteraria, Philip ROTH ora

guarda con mestizia scorrere il tempo e la vita perdere senso tra fatti e finzioni.

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Prof. Raffaele FRANGIONE