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2 Definizioni di città: concetti e teorie nella geografia urbana di Raffaele Cattedra e Francesca Governa Ne pas essayer trop vite de trouver une définition de la ville; c’est beaucoup trop gros, on a toutes les chances de se tromper. Georges Perec, Espèces d’espaces, Galilée, Paris 2000 1. Che cos’è la città? È utile definire la città? 1.1. Per una definizione di partenza Chiedersi che cos’è la città può essere un buon punto di partenza per capire qual è l’oggetto di attenzione della geografia urbana in generale e di questo libro in particolare, oppure può ri- velarsi una domanda talmente banale da non meritare una risposta, dal momento che tutti sanno cos’è una città, tutti sanno riconoscerla quando ne vedono una, quando camminano, vivono o lavorano al suo interno? In altri termini, è una domanda pertinente o una domanda mal posta e irrile- vante sia dal punto di vista conoscitivo e teorico, sia da quello pratico? Normalmente, quando parliamo o immaginiamo una città pensiamo a luoghi e momenti specifici sia nella storia (Londra e la Rivoluzione indu- striale; New York e l’11 settembre; Torino e la marcia dei 40.000 e adesso, magari, le Olimpiadi), sia nella nostra specifica esperienza individuale (Roma e la gita scolastica del liceo; la città in cui siamo nati o in cui vivia- mo ecc.). Eppure, altrettanto intuitivamente, possiamo convenire sul fatto che le città sono (e sono pensate come) dei luoghi peculiari. Vivere in città non è la stessa cosa del vivere “fuori” dalla città, qualsiasi cosa ciò signifi- chi. In tempi passati, la distinzione era più semplice: le città erano circon- date da mura che mettevano chiaramente in evidenza il dentro e il fuori, la città e la non città. Ora non è più così: le città, da tempo, si sono diffuse, hanno superato i limiti imposti dalle mura e anche quelli indicati dalla chiara separazione fra città e campagna (cfr. cap. 3). La città è ovunque, e il riferimento all’urbano è parte integrante per molte delle nostre attività quotidiane. La città, però, non è solo una categoria fondamentale per l’esperienza per- sonale, ma lo è anche per quella “pubblica”, sociale e politica. Del resto, la necessità di definire cosa sia la città pervade, da sempre, la riflessione di quanti (filosofi, geografi, sociologi, urbanisti) si sono occupati, nel corso del tempo, del fenomeno urbano. Le prime risposte a questa domanda si 43

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Page 1: 2 Definizioni di città: concetti e teorie nella geografia urbana€¦ · Stadt (1921), Max Weber (1864-1920), uno dei massimi studiosi della città moderna, scrive Definizione

2Definizioni di città: concetti e teorienella geografia urbanadi Raffaele Cattedra e Francesca Governa

Ne pas essayer trop vite de trouver une définition de la ville; c’estbeaucoup trop gros, on a toutes les chances de se tromper.

Georges Perec, Espèces d’espaces, Galilée, Paris 2000

1. Che cos’è la città?

È utile definirela città?

1.1. Per una definizione di partenza Chiedersi che cos’è la città può essereun buon punto di partenza per capire qual è l’oggetto di attenzione dellageografia urbana in generale e di questo libro in particolare, oppure può ri-velarsi una domanda talmente banale da non meritare una risposta, dalmomento che tutti sanno cos’è una città, tutti sanno riconoscerla quandone vedono una, quando camminano, vivono o lavorano al suo interno? Inaltri termini, è una domanda pertinente o una domanda mal posta e irrile-vante sia dal punto di vista conoscitivo e teorico, sia da quello pratico?Normalmente, quando parliamo o immaginiamo una città pensiamo aluoghi e momenti specifici sia nella storia (Londra e la Rivoluzione indu-striale; New York e l’11 settembre; Torino e la marcia dei 40.000 e adesso,magari, le Olimpiadi), sia nella nostra specifica esperienza individuale(Roma e la gita scolastica del liceo; la città in cui siamo nati o in cui vivia-mo ecc.). Eppure, altrettanto intuitivamente, possiamo convenire sul fattoche le città sono (e sono pensate come) dei luoghi peculiari. Vivere in cittànon è la stessa cosa del vivere “fuori” dalla città, qualsiasi cosa ciò signifi-chi. In tempi passati, la distinzione era più semplice: le città erano circon-date da mura che mettevano chiaramente in evidenza il dentro e il fuori, lacittà e la non città. Ora non è più così: le città, da tempo, si sono diffuse,hanno superato i limiti imposti dalle mura e anche quelli indicati dallachiara separazione fra città e campagna (cfr. cap. 3). La città è ovunque, e ilriferimento all’urbano è parte integrante per molte delle nostre attivitàquotidiane.La città, però, non è solo una categoria fondamentale per l’esperienza per-sonale, ma lo è anche per quella “pubblica”, sociale e politica. Del resto, lanecessità di definire cosa sia la città pervade, da sempre, la riflessione diquanti (filosofi, geografi, sociologi, urbanisti) si sono occupati, nel corsodel tempo, del fenomeno urbano. Le prime risposte a questa domanda si

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devono ad Aristotele e Platone, poi agli Utopisti, a Tommaso Moro, a Ro-bert Owen. È quindi una domanda che non può essere liquidata come irri-levante neanche dal punto di vista teorico.

È possibile definirela città?

Il problema, dunque, è se sia possibile definire la città come categoria gene-rale e astratta, ovvero se possiamo pensare ad essa unicamente con riferi-mento a ciò che conosciamo e di cui abbiamo esperienza più o meno diret-ta. Questa alternativa non è semplice, poiché se consideriamo la moltepli-cità del fenomeno urbano nel mondo non riusciamo a trovare una rispostaplausibile al nostro quesito. Sono città, ad esempio, Il Cairo, Parigi, Vare-se, Tokyo, Las Vegas, Samarcanda..., entità così diverse da apparire incom-mensurabili. Eppure partire dall’osservazione di città esistenti permette dicogliere un dato che, benché apparentemente banale, costituisce un buoninizio: la città, cioè, è prima di tutto un insediamento, relativamente circo-scritto, in cui sono localizzati edifici e abitanti. Nelle prime pagine di DieStadt (1921), Max Weber (1864-1920), uno dei massimi studiosi della cittàmoderna, scrive

Definizione di Weber si può tentare di definire una “città” in modi molto diversi. È comune a tutte ledefinizioni soltanto il fatto che essa in ogni caso (almeno relativamente) sia un in-sediamento circoscritto, un “centro abitato”, e non una o più abitazioni isolate.[...] Essa è un grande centro abitato (trad. it. 2003, p. 3).

Lo studio della città di Max Weber si concentra, come quello di molti suoicontemporanei (da Hugo Preuss a Werner Sombart), sulla città medievalee i suoi principi costitutivi, per poi delineare modelli più generali e con-fronti con l’attualità politica.

Significatoimmediato

Per definire la città, Weber parte dall’evidenza topografica, dalla concen-trazione e circoscrizione dell’insediamento, pur riconoscendo, come vedre-mo, i limiti del guardare esclusivamente questi aspetti. Essi tuttavia costi-tuiscono un utile fondamento per capire che cosa sia la città, poiché per-mettono di individuarne le caratteristiche fisiche: possiamo così definire lacittà in relazione alla pluralità e molteplicità delle cose (edifici, strade...)che sono localizzate al suo interno. Questa definizione si basa sul significa-to immediato, rappresentabile nello spazio fisico. È questo un terreno tradi-zionale di indagine della città: come scriveva negli anni trenta l’urbanista esociologo Lewis Mumford (1895-1990), sono numerosi gli studi che si sonoconcentrati su questi aspetti. Ma, come ci ricorda lo stesso autore, questistudi non permettono di cogliere le caratteristiche e le dinamiche sociali,economiche, politiche e culturali senza le quali le città non esisterebbero.Mumford (1937) definisce questa seconda dimensione il vero significatodell’urbano che risiede nel suo essere un intreccio geografico (a geographi-cal plexus), un’organizzazione economica, un processo istituzionale, il tea-tro dell’azione sociale e il simbolo estetico dell’unità collettiva. L’organiz-

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Geografie dell’urbano

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zazione fisica della città sarebbe quindi, per Mumford, il quadro in cui sidispiegano le relazioni sociali, favorendo o frustrando la loro ricchezza e laloro significatività collettiva.

Significato mediatoBenché la relazione fra dimensione fisica e dimensione sociale non sia unarelazione così lineare come nell’interpretazione di Mumford, se proviamoa capire cosa ci sia dietro la realtà fisica non possiamo fermarci a guardareunicamente le strade o gli edifici. Dobbiamo considerare anche altri aspetti(sociali, economici, culturali e politici, appunto) che caratterizzano la cittàin quanto forma specifica di organizzazione socio-spaziale. È questo il si-gnificato mediato, cioè quanto di non spaziale si può evocare descrivendoquel tipo di organizzazione e di relazioni spaziali che connota la città comeentità fisica (Dematteis, 1985).

Città ed economia

in SombartPer cogliere questo secondo significato, Max Weber concentra la sua atten-zione sul rapporto tra città ed economia. L’attenzione di Weber verso talerapporto deriva dal suo intenso dialogo con Werner Sombart (1863-1941),sociologo ed economista tedesco, secondo il quale non è possibile perveni-re ad una concettualizzazione generale sulla città. È piuttosto necessario ri-conoscere la pluralità delle possibili definizioni e valutarne la pertinenzacon riferimento al punto di vista adottato e all’obiettivo che si pone la defi-nizione stessa. Per Sombart, in sostanza, avremo diverse definizioni di cittàa seconda che ci si concentri sulla dimensione storica, piuttosto che suquella economica, statistica o giuridica, o anche, più semplicemente, se sivoglia definire la città per finalità pratiche (Petrillo, 2001). In questa pro-spettiva, e ponendosi dal punto di vista dell’economia e con l’obiettivo diindividuare le dinamiche dello sviluppo urbano, nel 1916 Sombart defini-sce la città come «un più grande insediamento umano che per il suo sosten-tamento non ha altre risorse che i prodotti di un lavoro agricolo esterno»(cit. in Petrillo, 2001, p. 88). Sombart, come anche Weber, considera la ca-tegoria storico-economica di mercato come essenziale per la definizione e lacomprensione della vita economica urbana, che si fonda su uno scambiocontinuo fra i prodotti artigianali della città e i prodotti agricoli della cam-pagna circostante. La città di Weber, a differenza di quella di Sombart,non è però solo luogo di scambio e consumo di beni prodotti altrove (nellacampagna), ma anche luogo in cui sono prodotti una parte dei beni stessi.Quindi per Weber, la città «si differenzia dai sistemi economici tradiziona-listi, chiusi [...], proprio perché sviluppa una determinata dinamica di rela-zioni di produzione e scambio con l’esterno, e la mantiene stabilmente» (Pe-trillo, 2009, p. 26).

Rapporto fra città

e territorioLe concezioni di città di Sombart e di Weber, pur con delle differenze, sot-tolineano un aspetto importante, che segnerà fortemente l’evoluzione suc-cessiva degli studi urbani. Questo aspetto è rappresentato dalla relazionefra la città e il territorio circostante, relazione che, come segnala Weber, è

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al contempo economica e politica. Per Weber, quindi, «non si può parlaredi città senza parlare di ambiti territoriali controllati dalla città, di autoritàcittadina, di una Herrschaft [regola] esercitata in virtù di una forza nonsolo economica, ma soprattutto politico-militare» (ivi, p. 29).

Significato fisico

e significato socialeSe proviamo a riassumere il ragionamento fin qui svolto, possiamo com-prendere come la città abbia, contemporaneamente, un significato fisico(la città come insieme di edifici e strade, come insediamento accentrato dipopolazione e attività) e un significato sociale (la città come insieme di re-lazioni fra esseri umani). Questa doppia accezione è all’origine di un’ambi-guità di fondo, del fatto cioè che la parola “città” è usata per indicare cosediverse e con riferimento a differenti universi di significati. Il significato fi-sico rimanda quindi a, e contemporaneamente costruisce, significati eco-nomici, politici e sociali. I modelli spaziali sono indissociabili dai dispositi-vi sociali e politici cui sono destinati a corrispondere, sulla base della con-vinzione, a lungo dominante, secondo la quale la configurazione fisica del-la città può riflettere e condizionare le attività della società e il comporta-mento dei cittadini.

Significato simbolico Oltre alle dimensioni fisica e sociale, la città presenta anche una dimensio-ne astratta e ideale, che fa riferimento alla natura mitologica (sacra ma an-che, all’opposto, profana) del fatto urbano. Benché non approfondiremodirettamente questa dimensione, è però utile richiamare come essa derividalle “grandi narrazioni” mitologiche e dei testi sacri, nelle quali la cittàriassume in sé la rappresentazione del mondo, espressione sia del cosmos,dell’armonia, dell’ordine (del divino), sia del caos, della discordia, del di-sordine (dell’umano). L’ordine del sim-bolico che si oppone all’ordine deldia-bolico. Nei mappamondi medievali, ad esempio, la centralità di Geru-salemme sanciva la sacralità urbana (tutt’oggi ribadita), mentre la periferi-cità delle terre di Gog e Magogh ne sottolineava il carattere apocalittico(Racine, 1993; Eliade, 2006; Scafi, 2007) (fig. 1).Il continuo scivolamento fra i diversi significati e le diverse dimensioni del-l’urbano rende difficile pervenire ad una definizione di città univoca e con-divisa. Se consideriamo i primi due significati, quello fisico e quello sociale,la questione si complica ulteriormente poiché all’enfasi posta sull’uno cor-risponde l’erosione dell’altro: i due significati sono spesso usati in manieramutuamente esclusiva. Questa separazione rimanda allo scollamento logi-co fra una concezione di città che guarda le cose secondo un’idea topogra-fica degli insediamenti umani e un’altra che guarda i processi (Farinelli,2003). Un ulteriore elemento di complessità deriva dal cambiamento delfenomeno urbano, e del suo ruolo economico, politico, culturale e sociale,nel tempo e nello spazio: i caratteri che permettono di definire la città inun certo periodo storico e in un certo luogo non sono validi né utili persempre od ovunque.

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Polis, urbs e civitas L’ambiguità della città è evidente sia nelle parole tradizionalmente usateper nominarla (la polis greca, da cui deriva “politica”, arte e pratica del go-verno delle società umane; l’urbs e la civitas latine, la prima riferita alla ma-terialità del costruito, la seconda allo spessore sociale e culturale e che siesplicita in relazione al concetto di civiltà), sia nelle prime riflessioni siste-matiche sul fenomeno urbano moderno. Franco Farinelli (2003) segnalacome già Aristotele avesse riconosciuto il carattere fondamentalmente so-ciale della polis, che «esiste per far vivere bene gli uomini» (ivi, p. 136). Nel-la cultura occidentale, tale significato permane fino a tutto il Cinquecento.Nel 1588, Giovanni Botero scrive Delle cause della grandezza delle città, untrattato che avvia la moderna riflessione teorica sul tema (Gambi, 1973a).Botero indica la ragione della grandezza delle città non nell’estensione onella larghezza delle mura, ma nella quantità degli abitanti, «ridotti insie-me per vivere felicemente». Questa concezione sottolinea non tanto il si-gnificato fisico, quanto quello sociale: la localizzazione urbana di una“moltitudine” di persone permette di (e al contempo è rivolta a) vivereuna vita più felice.Il significato sociale della città è rovesciato alla fine del Settecento, periodonel quale, con l’Illuminismo, si afferma la prevalenza di una concezione fi-sica dell’urbano. A questo proposito, Farinelli (2003) riporta la definizionedi città contenuta nella Encyclopédie (1751-80): «insieme di più case dispo-ste lungo le strade e circondate da un elemento comune che di norma sonomura e fossati». E immediatamente si precisa: «ma per definire una cittàpiù esattamente, è una cinta muraria che racchiude quartieri, strade, piazzepubbliche e altri edifici» (ivi, p. 137). La città è così ridotta a entità fisicaformata dall’ambiente costruito, dagli edifici, dalle strade e dalle struttureche la compongono, dal quadro ambientale in cui è insediata. Del resto,questo tipo di definizione è a lungo influente e si ritrova ancora nel Dic-tionnaire de l’Académie Française del 1935 (Lamarre, 1998, p. 6).

Definiree classificare

1.2. La città e l’urbano Per Michael Pacione (2009), autore di uno dei piùdiffusi (e ampi) manuali recenti di geografia urbana, l’obiettivo dello stu-dio della città come entità fisica è la classificazione dei diversi luoghi sullaterra e la conseguente distinzione fra aree urbane e non urbane. In questocaso, alla definizione di città centrata esclusivamente sugli elementi fisici“inanimati” si aggiungono anche gli esseri viventi che la popolano, vistiperò unicamente in termini quantitativi e schematici.Operare una simile classificazione è relativamente semplice, poiché esisto-no molti indicatori disponibili a tale scopo. Numero di abitanti, densitàdella popolazione, base economica, e quindi percentuale di popolazioneaddetta ad attività del settore secondario e oggi sempre più del terziario(cfr. cap. 4), caratteristiche e rango delle funzioni insediate in un certo luo-go (cioè delle attività economiche, culturali o politiche localizzate nelle di-

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verse aree) sono tutti esempi, semplici e intuitivi, di indicatori demograficie socio-economici che permettono di capire se una certa area è urbana op-pure no. Una città avrà infatti un elevato numero di abitanti, un’alta densi-tà di popolazione, una percentuale rilevante di addetti ad attività economi-che non di tipo agricolo o agropastorale, un numero significativo di fun-zioni “rare” in grado di svolgere un ruolo attrattore per un ampio territoriocircostante: dall’università ai negozi specializzati; dalle produzioni econo-miche innovative ai centri di ricerca; dai teatri ai centri istituzionali del po-tere politico. Del resto, Toschi, già nel primo manuale di geografia urbanapubblicato in Italia nel 1966, sosteneva la possibilità di individuare la di-stinzione fra urbano e rurale attraverso l’elaborazione di un indice di urba-nità dato dalla combinazione di dieci variabili (i.e. la percentuale di popo-lazione attiva, di popolazione dotata di titolo di studio o di abitazioni for-nite di servizi).Questo modo di affrontare il problema permette di identificare, in terminiapparentemente oggettivi, le differenze fra aree urbane e non urbane ed èspesso utilizzato per delimitarne le superfici a fini statistici o politico-am-ministrativi. Ad esempio, per la raccolta e l’organizzazione dei dati nel-l’ambito dei censimenti svolti periodicamente, in quasi tutti i paesi, perdocumentare lo stato e l’evoluzione delle variabili demografiche, sociali,economiche ed insediative per la pianificazione, per fini di studio o istitu-zionali, in particolare per la delimitazione delle aree metropolitane (Mori-coni-Ebrard, 2000; Bartaletti, 2009). Tuttavia, come mette in evidenzaHall (2006), questo modo di affrontare il problema, in realtà, non rispon-de alla domanda iniziale: piuttosto che una definizione di città, produceuna classificazione dei luoghi, distinguendo fra quelli che sono considera-bili, sulla base di parametri predefiniti, urbani da quelli che non lo sono.Classificare e definire sono due operazioni diverse: la classificazione, utiliz-zando gli indicatori cui si è prima accennato (o altri della stessa natura),suddivide i luoghi sulla base del diverso grado di “urbanità” dei criteri con-siderati rilevanti a questo fine, ma non permette di capire quali siano gliaspetti specifici e distintivi della città in quanto tale. Gli indicatori ci per-mettono quindi di identificare, dal punto di vista oggettivo, le aree chepresentano una maggiore concentrazione di caratteri associabili all’urbano,ma non ci permettono di definire la qualità o, per meglio dire, l’essenzadella città.Al di là delle differenze tra le esigenze di classificazione e quelle di defini-zione della città, procedere per indicatori pone però anche un altro proble-ma, più strettamente legato alla individuazione empirica dei caratteri urba-ni a livello mondiale. Qual è, infatti, il numero di abitanti (la densità dipopolazione, la percentuale di popolazione non addetta al settore primarioo il raggio di influenza delle attività insediate) superato il quale un centrodiventa una città? Va considerato che le soglie al di sopra delle quali possia-

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mo classificare un’area come urbana variano ampiamente nel tempo e nellospazio. In Svezia, ad esempio, ogni insediamento con più di 200 abitanti èclassificato dal censimento nazionale come urbano, mentre negli Stati Uni-ti la quantità minima di popolazione per accedere allo status di città è2.500, in Svizzera è 10.000 e in Giappone 30.000 (Pacione, 2009). Le diffe-renze dipendono, ovviamente, dalle caratteristiche insediative dei diversipaesi, a loro volta connesse all’evoluzione storica del popolamento, ai ca-ratteri geomorfologici, alle dinamiche dello sviluppo economico ecc. Mol-te aree della Svezia sono caratterizzate da un insediamento sparso, rispettoal quale una soglia di 200 abitanti è già rilevante. Se però adottassimo lastessa soglia per il Giappone, un paese molto densamente abitato, trove-remmo praticamente solo città. In Africa, si contano fino a 25 definizionistatistiche differenti di città in una cinquantina di paesi (Lebris, 1996).

Wirth e lo stile

di vita urbano1.3. Urbanità e stile di vita urbano Il significato sociale della città e gli effettiche essa ha sugli stili di vita dei suoi abitanti è invece al centro dell’atten-zione della sociologia urbana e, in parte, degli studi di architetti e urbani-sti. In quest’ambito di riflessione, un riferimento fondamentale è il saggiodi Louis Wirth (1897-1952) intitolato Urbanism as a Way of Life del 1938(tradotto in italiano nel 1998 come L’urbanesimo come stile di vita, benchéla traduzione italiana del termine Urbanism appaia discutibile). SecondoCastells (1974b), è la specifica “cultura urbana”, nel senso antropologicodel termine, cioè «un sistema di valori, norme e rapporti sociali che possie-dono una specificità storica e una logica propria di organizzazione e di tra-sformazione» (ivi, p. 106), che attrae l’attenzione di Wirth, e che costituiràuno dei temi principali (e controversi) delle riflessioni sull’urbano.Wirth, esponente della “Scuola di Chicago” (cfr. par. 3.1), si propone diarrivare a una definizione sociologica coerente della città e individuare glielementi che definiscono lo stile di vita urbano. Secondo Wirth, infatti, ciòche definisce la città è lo specifico stile di vita dei suoi abitanti, che derivadalla combinazione di tre caratteristiche chiave: il numero di abitanti, ladensità degli insediamenti e l’eterogeneità sociale. Wirth, come mette inevidenza Perulli (2007), «opera una classificazione sociologica della cittàbasata sulla scoperta delle variazioni urbana e rurale, che dà luogo al con-cetto di urban-rural continuum. [...] La città viene definita come uno stan-ziamento relativamente grande, denso e permanente di individui social-mente eterogenei» (ivi, p. 23). Ed è proprio l’eterogeneità che costituisce ilcarattere di maggiore novità dell’impostazione di Wirth: il riconoscere cioènella città un “mosaico di mondi sociali”, in cui il passaggio dall’uno all’al-tro favorisce la tolleranza delle differenze, ma richiede anche l’istituzione dimeccanismi di controllo per il suo mantenimento.La posizione di Wirth è stata (e in realtà, almeno in parte, è ancora) molto

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influente, ma ha anche ricevuto numerose critiche. Tali critiche hannomesso in evidenza, da un lato, la mancata verifica empirica della costruzio-ne teorica dell’autore e la sua “rigidità” rispetto ad un fenomeno in conti-nua evoluzione come quello urbano; dall’altro lato, le debolezze teoriche econcettuali.

Rigiditàdella posizionedi Wirth

Per quanto riguarda il primo insieme di critiche, va considerato che, comeprecedentemente accennato, le città si sono fisicamente estese e lo stile divita urbano si è ormai diffuso su un territorio ampio, trascendendo i limitifisici dei confini urbani. Come scrive infatti Mumford nell’incipit della suaopera, La città nella storia (1961), divenuta un classico, «questo libro si aprecon una città che era, simbolicamente, un mondo, e si conclude con unmondo che è diventato, per molti aspetti, una città» (ivi, p. 8). Se quindi,già all’inizio degli anni sessanta, Mumford indica che il mondo è divenutouna città, a maggior ragione i tre parametri indicati da Wirth circa un seco-lo fa appaiono oggi inadeguati nel connotare le caratteristiche dell’urbano.

Critica neomarxistaI limiti teorici della posizione di Wirth sono invece al centro delle riflessio-ni di numerosi autori, che ne sottolineano aspetti diversi. Manuel Castells(1974b; ed. or. 1972) e David Harvey (1978; ed. or. 1973) – due fra i piùimportanti studiosi della città contemporanea, portatori negli anni settantadel Novecento di una prospettiva neomarxista – hanno sottolineato comeil fenomeno urbano e le caratteristiche dello stile di vita ad esso associatesiano inseriti all’interno di un quadro più ampio, definito e influenzatodalle dinamiche economiche e, in particolare, dalle forze del capitalismo.In questa prospettiva, pur con alcune differenze, i due autori si chiedonoquanto i caratteri dello stile di vita urbano delineati da Wirth siano specifi-ci della città in quanto tale o se dipendano invece dal dispiegarsi di processipiù ampi, come quelli dell’economia capitalista.

Prossimità e distanzadelle relazioni sociali

Altre critiche alla posizione di Wirth vengono da Ash Amin e Nigel Thrift(2005), due geografi anglosassoni che si pongono esplicitamente l’ambizio-so obiettivo di un radicale ripensamento della città, proponendo e stimo-lando nuove descrizioni e “immaginazioni geografiche” su di essa. Secon-do questi autori, anche in relazione al periodo storico in cui è scritto il sag-gio, Wirth riconosce e sottolinea come distintivo dello stile di vita urbanoun tipo particolare di relazioni sociali, cioè quello basato sui rapporti face-to-face (o di compresenza). Ciò che invece manca nella lettura di Wirthsono altri tipi di relazioni sociali, che caratterizzano, con sempre maggiorefrequenza, la vita nella città: oggi, le relazioni a distanza e i legami virtualiinfluenzano sempre più la formazione di relazioni sociali che prescindonolargamente dalla prossimità. Del resto, il ruolo esercitato dai mezzi di co-municazione nel “dare forma” alle relazioni socio-spaziali è un elementoda tempo riconosciuto negli studi urbani. Jean Gottmann (1961), ad esem-pio, studiando alla fine degli anni cinquanta il sistema urbano in formazio-ne fra Boston e Washington (cfr. cap. 3, fig. 8), mette in evidenza il ruolo

2. Definizioni di città: concetti e teorie nella geografia urbana

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esercitato dallo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni nel sostenere lacrescita degli insediamenti urbani, favorendo gli spostamenti e la mobilitàquotidiana a grandi distanze. Se ci concentriamo sugli sviluppi più recentidei sistemi di comunicazione, è abbastanza intuitivo capire quanto e comel’uso del telefono cellulare abbia modificato le nostre vite o, ancora, il fattoche le relazioni sociali che si intessono nei social networks definiscano nuovispazi relazionali. Non si tratta, ovviamente, di stabilire se le relazioni basatesulla prossimità e la compresenza siano migliori o peggiori di altri tipi direlazioni fra individui, quanto di riconoscere l’evoluzione delle modalitàd’interazione sociale in ambito urbano e la costruzione di nuovi spazi chequesta determina.

Criticadella concezioneorganicista della città

Infine, sempre Amin e Thrift mettono in evidenza come Wirth, cosìcome altri teorici della città di inizio Novecento (da Lewis Mumford aPatrick Geddes), consideri la città come un organismo vivente, adottan-do una metafora presente fin dall’antichità e divenuta a partire dal Rina-scimento estremamente diffusa e potente. L’idea di unificare il mondosotto la figura della natura, in cui tutti i fenomeni sono, per definizione,interrelati in una combinazione di influenze reciproche, porta a vederel’azione umana come un annesso, un caso particolare, un’eccezione. Inquesto modo, e seguendo un filone di pensiero ben presente nella geogra-fia del periodo (basti pensare alla concezione organicista dello Stato diFriedrich Ratzel o a un saggio dello stesso autore del 1903 sulla genesi el’evoluzione “organica” delle grandi città, ripreso in Italia da Toschi nel1966), la città è considerata come un organismo delimitato e stabile, incui prende corpo un particolare stile di vita cui corrisponde una stabilegerarchia sociale e spaziale. Le relazioni che si realizzano all’interno del-l’organismo urbano sono quindi considerate come naturali e immutabili,escludendo di fatto le logiche politiche, i conflitti e i rapporti di potereche caratterizzano, invece, con tutta evidenza, le città e le dinamiche ur-bane (cfr. capp. 7 e 8).

2. Il pensiero sulla città fra teorie e mutamenti urbani

2.1. La città come organismo vivente I geografi si sono interessati molto tar-di all’analisi della città, e questa sarà riconosciuta come oggetto specifico distudio e, poi, come campo disciplinare autonomo – cioè come geografiaurbana – solo a partire dalla seconda metà del Novecento. Per lungo tem-po, inoltre, è stata proprio la concezione organicista ad attirare il loro pen-siero. Vi sono state analisi che hanno descritto il “metabolismo” urbanofino a prendere in considerazione il ciclo di vita delle città, con un approc-cio che non va confuso con quello che, definito con la stessa formula, stu-dia il passaggio dall’urbanizzazione alla suburbanizzazione e alla disurba-nizzazione (cfr. cap. 3). In questo senso, Élisée Reclus, grande divulgatore e

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fra i primi geografi ad occuparsi della città, scrive in un saggio poco notodel 1895 intitolato The Evolution of Cities che «come ogni organismo che sisviluppa, la città tende anche a morire» (Reclus, 1895, ed. 1992 p. 162).L’autore preciserà in seguito che le città «possono diventare dei corpi orga-nici perfettamente sani e belli», mentre «il movimento all’interno delle cit-tà [...] può essere comparato allo scorrere del sangue nel corpo umano»(Reclus, 1905, t. v, p. 379). Su questa scia, ancora qualche decennio dopo,Pierre Lavedan, nel volume Géographie des villes, dichiara esplicitamenteche «la città è un essere vivente. Come ogni essere vivente, essa nasce, cre-sce, muore» (Lavedan, 1936, p. 9).

Il linguaggio

della concezione

organicista

Tale concezione, comune a tanti autori dei primi decenni del Novecento,rimane comunque ambigua, perché, come si è accennato, interpreta la cittàdal punto di vista evoluzionista (dal villaggio alla metropoli), ma ancheperché usa il riferimento organicista come mero linguaggio metaforico.Adottando la comparazione antropomorfa della città o di parti di essa, illinguaggio organicista sarà comunque in auge per gran parte del xx secolo:esso si declinerà in termini di tessuti, cellule, trame, arterie, organi (polmo-ni, cuore), in termini fisiologici (circolazione, flussi) o eziologici e patolo-gici (macrocefalia, neoplasie, degradazione fisica, morale ecc.). Si tratta diun lessico che sarà poi ripreso anche nell’approccio strutturalista e che ri-troviamo ancora nel lessico odierno dell’urbano. Di fatto, anche le conce-zioni funzionaliste di città rimandano alle funzioni fisiologiche esercitatedall’organismo urbano. Così come, anche se in una prospettiva diversa, èancora all’immagine della città-organismo che si riferisce l’ecologia urbananell’ambito del dibattito sulla “città sostenibile”. Tale dibattito si è svilup-pato soprattutto in seguito alla pubblicazione nel 1987 (con la traduzionein italiano nel 1988) del Rapporto della Commissione Ambiente e Svilup-po delle Nazioni Unite (wced) intitolato Our Common Future, più notocome “Rapporto Brundtland”, e poi nei successivi vertici internazionaliche si sono svolti in diverse città del mondo (da Rio de Janeiro a Johanne-sburg; da Kyoto a Copenaghen) per affrontare la problematica ambientale(Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, 1988; Alberti, Sole-ra, Tsetsi, 1994).

La personificazione

della cittàNondimeno, l’approccio politico di Élisée Reclus, geografo e anarchico, si-tua la sua analisi evoluzionista in relazione alla “lotta di classe” che si espri-me nella città. Sempre nella prospettiva di Reclus, la città è colta come “unpersonaggio”: ognuna manifesta una “personalità particolare” e una “per-sonalità collettiva” che si caratterizza attraverso la diversità sociale e morfo-logica dei suoi quartieri. Nelle sue note metodologiche Reclus suggerisceche «lo studio logico delle città [...] permette di giudicarle come si giudi-cherebbe un personaggio» (1905, p. 354). La personificazione delle città, de-clinata come possibilità di considerarle come “attori collettivi”, si ritrova

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anche nel dibattito più recente, in particolare nell’ambito delle riflessionisulle politiche urbane (cfr. cap. 8).

Rivoluzione

industriale

e concezione

della città

Nello stretto rapporto che lega l’analisi della città e la sua evoluzione mor-fologica e sociale possiamo ritenere come momento cruciale quello in cui,soprattutto in Europa, verso la metà del xix secolo, gli effetti della Rivolu-zione industriale si esplicitano manifestamente nel processo di urbanizza-zione: l’industria ha bisogno di manodopera e mercato. È in questo perio-do che nasce e si sviluppa l’urbanistica moderna. Sono allora soprattuttogli ingegneri sanitari e gli igienisti ad occuparsi e ad analizzare le città(Zucconi, 1988). La visione “diagnostica” di una città malata che va guarita– una concezione che ritroviamo ancora oggi – è frutto di questo particola-re rapporto fra ingegneri e medici. L’emergere della statistica come scienzae come strumento di analisi costituirà un ausilio importante per studiarefenomeni urbani e sociali (densità, estensione, sovrappopolamento, pover-tà, epidemie, mortalità) e per proporre rimedi.

La città moderna

dell’OttocentoAd ogni modo, la città “moderna” dell’Ottocento costituisce un momentochiave, un passaggio indispensabile per comprendere, al contempo, l’evo-luzione del pensiero sulla città e la trasformazione di questa pressappocofino alla Prima guerra mondiale. Il ruolo esercitato dall’industrializzazionesulla città è descritto da Henry Lefebvre attraverso i processi congiunti diimplosione ed esplosione: ovvero di densificazione e concentrazione (so-prattutto delle aree centrali) della città e della sua espansione e ristruttura-zione (più o meno pianificata). Secondo Lefebvre (1968), l’avvio del pro-cesso d’industrializzazione ha subordinato il valore d’uso a quello di scam-bio e ha dato origine ad una urbanizzazione “disurbanizzante e disurbaniz-zata”, che ha devastato e portato all’esplosione la città tradizionale:

l’industria ha attaccato le città nel senso più forte del termine, distruggendole, dis-solvendole. Essa fa crescere le città a dismisura, ma in una esplosione delle loro an-tiche caratteristiche [...] l’uso e il valore d’uso sono scomparsi [...]. Con questa ge-neralizzazione dello scambio, il suolo è diventato merce, lo spazio indispensabileper la vita quotidiana si vende e si acquista. Tutto ciò che fa la vitalità della cittàcome opera è scomparso davanti alla generalizzazione del prodotto. [...] Da unlato si istituiscono centri di decisione dotati di poteri ancora sconosciuti, poiché siconcentrano la ricchezza, la forza repressiva, l’informazione. Dall’altro, l’esplosio-ne delle antiche città permette processi multiformi di segregazione; gli elementidella società sono impietosamente separati gli uni dagli altri nello spazio (Lefeb-vre, 1968, trad. it. pp. 71-2).

2.2. La città industriale come luogo del degrado e della libertà Nell’interpre-tazione della città industriale è possibile individuare, seppure schematica-mente, la contrapposizione di due posture.

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Visione negativaLa prima è una postura critica che denuncia le ineguaglianze, la povertà, laviolenza, lo sfruttamento, e quindi l’immoralità e la degenerazione fisica esociale che albergano nelle città. La matrice di questa postura è da ricercarsinel riproporsi, nel corso del tempo, di una visione quasi archetipica dellacittà come mostro che divora gli esseri umani, come luogo di perversione edi degrado fisico, sociale e morale. Una concezione che si consolida conl’avvento della città industriale, nella letteratura e poi nel cinema; nelle in-chieste, come quella di Friedrich Engels (1845) sulle condizioni delle classilavoratrici nelle città inglesi ottocentesche, di cui Manchester costituisce ilprototipo (cfr. cap. 8), o nelle denunce di Karl Marx sull’“alienazione” e losfruttamento cui sono sottoposti gli operai nella città capitalista. O, anco-ra, nella visione di una città malata (Calabi, 1979) e, pur in maniera piùcircostanziata e comunque animata dalla volontà di agire, nelle pagine cheLe Corbusier (cfr. par. 2.4) dedica nel 1925 all’urbanistica, attraverso cuisuperare il caos e le “conseguenze fatali” in cui si dibatte la città d’inizioNovecento, su cui «grava una catastrofe imminente» (1967, p. 42).

Utopie urbaneSi inserisce in questa postura anche il filone utopico, già evocato nel para-grafo precedente, che assume nell’Ottocento una dimensione più concreta,a carattere sociale e industriale. L’obiettivo di definire un’organizzazionespaziale che rispecchi o induca una specifica organizzazione sociale porta apromuovere numerose esperienze riformatrici, basate su valori di diversanatura: laica o religiosa, riformista, filantropica (di cui Robert Owen è sta-to il precursore), socialista e/o anarchica (Pierre-Joseph Proudhon), tecno-logica (Henri de Saint-Simon, Michel Chevalier) o estetica (John Ruskin).Sono inoltre concepiti progetti di insediamento come i falansteri di Char-les Fourier, le città giardino di Ebenezer Howard, le colonie, le “città rura-li”, i “villaggi dell’armonia” e le città operaie. Alcuni di questi saranno poirealizzati in Europa, come la “città impresa” di Ugine in Savoia (Söder-ström, 1997), negli Stati Uniti (Salt Lake City, la capitale dei Mormoninello Utah, fondata nel 1857), in America Latina e in Algeria. La storicadella città Françoise Choay (1973) suddivide i modelli di città definiti dagliutopisti in due principali filoni: quello progressista (più attento alle solu-zioni razionaliste, tecniche e scientifiche) e quello culturalista (che criticala scomparsa dell’unità organica della città ed è più attento alla dimensioneestetica del vivere urbano). Non senza polemiche e diatribe, il “socialismoscientifico” e il “materialismo storico” di Marx ed Engels tenderanno a di-scostarsi dal filone utopista, accusato di avere aspirazioni troppo idealisti-che, di proporre un approccio riformista e non una critica “totale” dellasocietà capitalista, considerando la società in termini statici e fissi.

Visione positivaLa seconda postura attiene a una visione positiva che riconosce i valori dilibertà, di diversità, di modernità, che esalta le prospettive legate all’eman-cipazione sociale – tanto quelle dell’individuo quanto quelle di genere (le

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donne e la diversità sessuale) –, che elogia la produzione culturale, artistica,tecnologica e di innovazione di cui la città è al contempo luogo di espres-sione, attore e contesto. Per cogliere il senso di questa prospettiva, ricordia-mo un adagio tedesco del xv secolo che recita così: “L’aria della città rendeliberi”! Tale espressione sarà ripresa da Max Weber nel suo Die Stadt del1921 per segnalare che nell’Europa medievale del Nord, prima dell’ascesadella borghesia, i servi riescono ad emanciparsi dalla subordinazione ai loropadroni solo dopo un periodo di residenza in città. La valenza fondamen-tale di questo secondo approccio si può chiaramente cogliere anche sottoun altro aspetto assai emblematico: ovvero l’imposizione del termine “cit-tadino” a tutti gli individui nella Francia della fine del xviii secolo, inquanto principio costitutivo dell’ideale egualitario e repubblicano (liberté,fraternité, égalité) della Rivoluzione del 1789.

Simmel

e la metropoliÈ al sociologo tedesco Georg Simmel (1858-1918), considerato uno dei pa-dri fondatori della sociologia, che si devono alcuni fondamentali scritti sul-la città moderna di fine Ottocento, in particolare nella sua forma metropo-litana (cfr. La filosofia del denaro del 1900; La metropoli e la vita dello spiritodel 1903 e il saggio sulla Moda del 1905). Guardando la metropoli, gli esseriumani che la abitano e le interazioni sociali al suo interno, e confrontandoquanto osservato con i corrispondenti fenomeni che avvengono in una pic-cola città, Simmel individua alcuni caratteri essenziali del proprio tempo ericonosce un nuovo tipo di abitante metropolitano, il cui comportamentosi inscrive nella nuova realtà dell’economia monetaria di mercato in cuitutti gli scambi sono regolati dal denaro. Secondo Simmel (1903), infatti, lametropoli produce «un’intensificazione della vita nervosa [...] prodotta dalrapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori» (trad.it. 1995, p. 36). Di conseguenza, l’abitante della metropoli ha una specificapersonalità, è un individuo blasé, le cui relazioni sono basate sull’anonima-to, l’indifferenza, l’individualità e il distacco. Nel complesso, tuttavia, se-condo Simmel, la metropoli è il luogo della società in cui l’essere umanogode della maggior libertà possibile, in virtù delle relazioni sociali “fredde”che connotano la vita metropolitana.

Comunità e società L’idea di metropoli di Simmel risente di numerose influenze. In particola-re, la distinzione fra città di provincia e metropoli rinvia alla distinzione fracomunità e società, una coppia di concetti che avrà una grande influenzanello sviluppo successivo degli studi urbani. Comunità e società sono con-cepite, pur nelle diverse accezioni dei vari autori, da Ferdinand Tönnies aMax Weber a Emile Durkheim, come due modelli antitetici di organizza-zione e di interazione sociale.Il riferimento alla comunità implica, come dato strutturante, una certa co-munione di interesse dei soggetti locali in funzione di un comune senso diappartenenza. Soprattutto nelle concezioni di Tönnies e Durkheim, ma

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più in generale nel “pensiero comunitario”, le relazioni comunitarie ap-paiono caratterizzate da una “solidarietà organica”. L’appartenenza alla co-munità è dunque un’appartenenza data, naturale, immanente: «una rela-zione sociale deve essere definita “comunità” (Vergemeinschaftung) se, enella misura in cui, la disposizione all’agire poggia su una comune apparte-nenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), degli individui chead essa partecipano» (Weber, 1922, cit. in Esposito, 1998, p. xi). ArnaldoBagnasco (1999), riprendendo il libro di Tönnies del 1887 intitolato pro-prio Gemeinschaft und Gesellschaft (Comunità e società), chiarisce in questomodo la distinzione fra i due modelli di organizzazione sociale. Le relazionisociali «danno luogo ad associazioni che possono essere concepite “o comevita reale e organica – e questa è l’essenza della comunità – o come forma-zione ideale e meccanica – e questo è il concetto della società”» (ivi, p. 20).Inoltre, mentre le relazioni comunitarie, benché tipiche delle piccole co-munità di villaggio, si ritrovano fondamentalmente in «ogni unità socialein condizione di alta integrazione [...] [e arrivano] infine a definire la socie-tà tradizionale che ha preceduto quella moderna» (ivi, p. 17), quelle mecca-niche appaiono distintive delle relazioni sociali nelle città industriali di fineOttocento.

Concezione attuale

della comunitàTale concezione della comunità, sostanzialmente “positiva” e appagante,pervade il dibattito sulla città per lungo tempo. Comunità è però un con-cetto “scivoloso”. Secondo Roberto Esposito (1998), ad esempio, il legamedi comunità deriva da un munus, cioè un compito, un dovere, una legge o,anche, da un dono reciproco, da fare e non da ricevere, un dono che passada un soggetto all’altro e che, dunque, non può appartenere a nessuno. Imembri di una comunità si qualificano quindi non perché hanno un pri-mato, un possesso e neppure per una capacità di riconoscimento privilegia-to che li lega indissolubilmente l’uno all’altro, bensì per il debito che derivadall’aver ricevuto un dono e che li pone nell’obbligo di ridonare a loro vol-ta. Obbligo e dono danno origine ad una relazione di reciprocità che è vin-colante perché non si fonda sulla trascendenza di un donatore originario.La comunità è così pensata non già in relazione a identità precostituite edate, ma nella finitezza, nel vuoto più che nel pieno, sottraendone il sensoalle rappresentazioni mitologiche di un’origine perduta da ritrovare chepoi si risolvono nella costruzione di identità aggressive o comunque regres-sive. In altri termini, la posizione di Esposito sottolinea la necessità dellacomunità, come presupposto dell’esistenza sociale, e al contempo l’impos-sibilità di una sua configurazione secondo i principi di stabilità e certezzadella tradizione del pensiero comunitario. Essa riconosce inoltre la centra-lità dell’imposizione nel definire e “costruire” i legami fra i soggetti, allon-tanandosi così dalla visione di stampo organicista della comunità come un“uno collettivo” naturale e dato.

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Regolarizzazione

e ordine urbano2.3. Figure spaziali della città moderna Bernardo Secchi (2000) fa riferi-mento ad alcune figure per rendere conto dell’ideologia spaziale all’operanella seconda metà dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, caratte-rizzata dalla “regolarizzazione” e dal nuovo “ordine urbano” che viene im-posto a capitali e grandi città europee, americane ma anche degli impericoloniali. Fin dal periodo napoleonico, e poi successivamente nel corso delxix e agli inizi del xx secolo, Parigi, Barcellona, Vienna, Berlino, Londra,Madrid, Washington, San Pietroburgo, Mosca, Napoli, Torino, Atene,ma anche Il Cairo, Istanbul, Algeri, per citarne alcune, conoscono muta-zioni più o meno radicali, che riorganizzano spazi pubblici e privati, interiquartieri, strade e isolati, porti, e in alcuni casi riprogettano l’intera città.Molti centri storici, dopo aver subito il sovraffollamento delle nuove masseinurbate, sono sottoposti ad azioni di sventramento, mentre le periferie siriempiono di quartieri operai, di ampie zone di baraccamenti, ma anche dibanlieues pavillionaires per le classi medie e di “città giardino”.

Innovazioni moderne

e trasformazioni

urbane

Tali mutazioni – e le innovazioni che portano con sé la modernità e i nuovistili di vita (dal comfort all’igiene, dalla tecnologia ai trasporti, dal lussoalla cultura e allo spettacolo...), ma anche nuove povertà urbane e conflittosociale – mettono in scena il nuovo ordine (sociale e spaziale) basato sullaregolarità, la continuità, la normalizzazione, la gerarchia e la standardizza-zione (Secchi, 2000). Illuminazione a gas e poi luce elettrica, acqua corren-te (per le case borghesi), telefono, tram e metropolitana, stazioni ferrovia-rie monumentali, larghe arterie stradali (le percées, i boulevards), ampiepiazze, gallerie coperte, grandi magazzini, teatri, caserme, ospedali, collegi,giardini e soprattutto fabbriche mutano nel profondo la fisionomia digrandi e medie città e rappresentano l’ascesa della borghesia industriale,commerciale e delle professioni liberali. Tutto ciò esprime l’entrata in gio-co del capitale nella costruzione edilizia e l’avvento dello Stato Nazionalecon tutti i suoi simboli. Si tratta, insomma, di una ristrutturazione sostan-ziale della città, basata su processi «di concentrazione, di centralizzazione,[di espansione] e di segregazione, che comportano una rottura con l’unitàdel precedente sistema urbano» (Delfante, 1997, p. 235) e inducono unanuova sincronizzazione sociale in funzione del modo di produzione dellacittà industriale (capitalista, liberale ma anche repressiva).

Il modello spaziale

della città

dell’Ottocento

Fra le principali esperienze di trasformazione urbana di questo periodovanno ricordate sicuramente quelle di Barcellona (sotto la guida di Ilde-fons Cerdà) e di Parigi (per opera del barone Haussmann), i cui pianicostituiscono i capisaldi dell’urbanistica ottocentesca e dell’idea di cittàche essa persegue (cfr. riquadri 1 e 2). Il modello spaziale di riferimentodella città ottocentesca è costituito dalla griglia ortogonale, usata sia perl’espansione delle città esistenti sia per la fondazione di nuove cittàcome, nel corso del Novecento, le città coloniali africane, alcuni centri

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dell’America Latina, le città sovietiche o quelle costruite nei paesi dell’exEuropa socialista. Sul modello di Haussmann anche Marsiglia e Lione inFrancia, Bruxelles e Anversa in Belgio, Madrid in Spagna, Vienna in Au-stria, ma pure Atene, Lisbona e Sofia si trasformeranno, riordinando glispazi, dotandosi di grandi viali e di prospettive monumentali ispirate aParigi. In Italia, Firenze, Torino, Milano e Roma saranno oggetto digrandi trasformazioni. Per Napoli, nel 1885, sarà messa a punto persinouna legge ad hoc, detta del “Risanamento”, che programma lo sventra-mento di vaste aree del cuore storico e promuove l’edificazione di palazzie gallerie che mettono in scena il nuovo ordine borghese e monarchicodell’Italia unitaria.

riquadro 1 Fra teoria e azione: la Barcellona di Ildefons Cerdà

La crescita demografica ed economica di Barcellona porta, nel 1853, alla concezione del pia-no di estensione (Ensanche) della città da parte dell’ingegnere Ildefons Cerdà. L’iniziativa diquest’ultimo, che sarà attuata nel corso del decennio successivo, presenta numerosi ele-menti importanti. Il piano consiste nella realizzazione di un ampio tracciato ortogonale de-stinato a “ricucire” la città storica con i villaggi vicini, anche attraverso la demolizione dellamura della ciutat vella. Il piano, che presenta la forma e l’idea della scacchiera e riprende ilmodello classico ippodameo, si struttura attraverso la realizzazione di moduli ripetitivi estandardizzati: cioè degli isolati rettangolari di 130 metri di lato con angoli smussati di 20metri, tagliati da una lunga diagonale di circa 10 chilometri disposta secondo un tracciatoche corre da ovest verso il mare (cfr. figura). Il carattere continuo e isotropico dello spazioche ritroviamo nella razionalità dell’impianto a scacchiera (ovvero di uno spazio che inten-de mantenere ovunque le stesse proprietà e la stessa velocità di trasformazione) costituiscein effetti un segno distintivo dell’ideologia di normalizzazione della città dell’epoca moder-na, peraltro secondo un modello già adottato in altri luoghi ed esperienze (nella Greciaclassica come nella fondazione delle città americane codificata nella legge urbanistica di Fi-lippo ii). Nel caso di Cerdà esso va probabilmente inteso anche come volontà di mettere inatto un progetto spaziale foriero di una filosofia sociale egualitaria. Nondimeno, per dare ilsenso dei tempi lunghi delle trasformazioni urbane e del retaggio importante della cittàmoderna su quella di oggi, è utile ricordare che la sistemazione dell’ultima porzione dellaDiagonal del Mar è stata rimessa in cantiere – certo con un’altra logica architettonica eurbanistica – solamente in questi ultimi anni, in seguito alla costruzione del Forum di Bar-cellona (2004): quindi dopo quasi 150 anni dalla sua concezione iniziale (cfr. cap. 9). Razio-nalista e liberale, innovatore attento alle questioni dei trasporti, dei rifiuti, dei servizi e delcomfort, Cerdà non disporrà tuttavia della stessa autorità politica del suo contemporaneo,Georges-Eugène Haussmann a Parigi (cfr. riquadro 2), e dovrà giustificare “scientificamen-te” il suo operato. Egli elabora un trattato, Teoría general de la urbanización y aplicación desus principios y doctrina a la reforma y ensanche de Barcelona, pubblicato nel 1867, che co-stituisce un punto cardinale nella storia del pensiero e dell’azione sulla città. Con questo li-bro Cerdà lascia ai posteri l’uso di un neologismo e di un nuovo concetto nel vocabolariodella città, quello di “urbanizzazione”, inteso però nel senso odierno di urbanistica. L’urba-nizzazione, in quanto scienza, «è l’insieme dei principi, dottrine e regole che bisogna appli-care perché le costruzioni e il loro raggruppamento, lungi dal [...] corrompere le facoltà del-l’uomo sociale, contribuiscano a favorire il suo sviluppo e ad accrescere il benessere indivi-duale e quello pubblico» (Cerdà, 1867, trad. it. p. 84).

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Piano Cerdà: riforma e ensanche di Barcellona (1860)

Fonte: Archivio Storico della Città di Barcellona (AHCB).

riquadro 2 La Parigi di Haussmann: pragmatismo, repressione ed etica borghese

Georges-Eugène Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna sotto Napoleone iii,trasformerà Parigi tra il 1852 e il 1869 con un programma di grandi lavori urbanistici: sven-tramento di quartieri popolari e di isolati considerati insalubri, in particolare di quelli sullaRive droite e sulla Rive gauche della Senna (l’Île de la Cité, le aree intorno al Louvre e alleTuileries, alla Bastille, all’Opéra, al Trocadero, alla Place de l’Étoile, per citare solo i princi-pali), rettifica delle strade urbane, creazione di ampi boulevards che si sviluppano in anelloa cingere la Cité, sistemazione di nuove piazze e carrefours, edificazione di palazzi e teatri,caserme e carceri, monumenti e giardini. La Parigi con i celebri boulevards de Strasbourg,Sébastopol, Saint-Michel, Saint-Germain, le piazze oggi turistiche (Hôtel de Ville e Châte-let), i canali (Saint-Martin), le aree residenziali della zona ovest della città, i grandi monu-menti e persino la sistemazione del sagrato di Notre-Dame (con la funzione di piazza d’ar-mi) è opera di Haussmann.Con la priorità moderna data alla fluidità del movimento nella città e alla zonizzazione(specializzazione funzionale dei quartieri), con l’apertura all’etica borghese e all’entrata delcapitalismo nelle strategie economiche della rendita e della speculazione urbana, il pro-gramma di Haussmann per Parigi non nasconde tuttavia le finalità di controllo militare, po-liziesco e sociale. Parigi è una città turbolenta, dove le sommosse operaie non sono rare(come nel 1848). I critici più avversi hanno interpretato lo sventramento dei quartieri operaicon l’espulsione delle “classi pericolose” dal cuore di Parigi, nonché la realizzazione diampi viali come la possibilità per l’esercito «di offrire ottime prospettive al tiro [...] delle mi-traglie, alle cariche della cavalleria, allo spostamento delle truppe che avessero a contrap-porsi a nuove rivolte popolari» (Blanquart, 1997, p. 122; si veda anche Lefebvre, 1970). Marespingere la classe operaia ai margini della città non basterà, poiché, com’è noto, Parigi co-noscerà un’altra importante, sebbene effimera, “piccola rivoluzione”: quella della Comunedel 1871.Ad ogni modo, Haussmann entrerà con il suo nome a far parte del vocabolario tecnico dellacittà del xix e xx secolo: l’haussmannizzazione indica infatti l’azione “chirurgica” di sven-

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tramento del tessuto storico con la creazione di grandi arterie stradali. Altri autori, pur man-tenendo una posizione critica sul suo operato, sostengono che non si può ridurre l’azionedel prefetto ad un’esclusiva “operazione poliziesca”, poiché Haussmann è stato fra i primi –se non il primo – a concepire, pur nel suo pragmatismo poco teorico, l’idea di un piano re-golatore generale urbano, cioè di un progetto globale di intervento per la città, scorgendo eanticipando «il segno della nuova società economica e tecnologica» (Choay, 1973, p. xi). Eglimostra inoltre la capacità di operare con grande rapidità, e mette in atto un programma cheprecorre in qualche modo le strategie e le modalità di quello che si chiama oggi il “manage-ment del progetto urbano”, coinvolgendo attori pubblici e privati. Certo è che, se dal puntodi vista giuridico e finanziario è un innovatore, Haussmann si disinteressa assolutamentedella questione sociale urbana.

Esperienze

urbanistiche

coloniali

Le esperienze urbanistiche di carattere coloniale costituiscono un altroesempio notevole, spesso ritenuto erroneamente marginale, per compren-dere l’evoluzione del pensiero sulla città di questo periodo. Non si trattasolo di valutare l’influenza o l’importazione di modelli dalla madrepatriaverso la colonia, ma di prendere in considerazione le sperimentazionimesse in campo nei territori sottoposti alla colonizzazione (in particolarequella francese, inglese o italiana) con la fondazione di nuove città ointerventi “pesanti” su centri preesistenti, e che poi possono essere impor-tate nella metropoli. Se Algeri e altre città dell’Algeria possono essere con-siderate quasi terreno di sperimentazione per le percées che Haussmannrealizzerà su larga scala a Parigi, successivamente, agli inizi del xx secolo,anche città come Casablanca, Rabat o Fès si trasformano velocemente allaluce della teoria urbana della “separazione” concepita da Hubert Lyautey,Résident général (governatore) del Marocco francese. Coadiuvato dall’ar-chitetto e urbanista Henry Prost (che aveva già lavorato ad Anversa),Lyautey pianifica l’estensione di dieci villes neuves (o città europee) bendistanziate dalle cités indigènes. Si tratta degli insediamenti urbani precolo-niali chiamati poi usualmente medine, adottando e depotenziando questaparola che in arabo significa città, le quali restano circoscritte dalle loroantiche mura e vengono destinate alla residenza della popolazione au-toctona. Queste due entità, che rompono la precedente unità della città,sono separate da una zona non aedificandi, in cui in genere sono poste lecaserme. Al contempo, tale sperimentazione di tipo segregativo, che origi-nerà la comparsa di bidonvilles per accogliere il neoproletariato urbanoautoctono, permette la conservazione e la valorizzazione dei siti urbanitradizionali, inaugurando in qualche modo una politica di tipo patrimo-niale, che ritroviamo poi nell’approccio “culturalista” di conservazioneestetica di molte città europee (Cattedra, 1990, 2010a).

2.4. Il Movimento moderno e i suoi effetti sulla città del Novecento Unruolo cruciale nell’evoluzione del pensiero sulla città del Novecento èsvolto dal cosiddetto “Movimento moderno”, da distinguere però dal

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senso di “moderno” che si attribuisce, come si è visto, alla città indu-striale dell’Ottocento, ma che ne rappresenta la continuità.

Le Corbusier e ilMovimento moderno

Questo movimento è legato alla figura dell’architetto e urbanista svizze-ro Charles-Édouard Jeanneret, molto più noto con lo pseudonimo diLe Corbusier (1887-1965). Oltre ai suoi innumerevoli progetti, scritti erealizzazioni, egli è l’autore della Carta d’Atene (pubblicata per la primavolta come opera anonima nel 1941 a Parigi, sotto l’occupazione tede-sca, e poi nel 1957). Vero e proprio manifesto e guida del pensiero degliurbanisti degli anni trenta e quaranta del Novecento, raccolti intorno aiciam (Congressi Internazionali dell’Architettura Moderna), la Cartacontiene 95 proposte e principi che vogliono delineare una nuova con-cezione della vita urbana, al fine di «mettere fine al caos» e «rendere lacittà abitabile e armoniosa». Alcuni principi contenuti in questo scrittocostituiranno, nel bene e nel male, le linee guida della trasformazione edella fondazione urbana di tante città, non solo europee, nel corso delxx secolo.

La Carta d’Atene Gli aspetti essenziali della Carta d’Atene sono riassunti nell’individuazio-ne delle “quattro funzioni” che costituiscono le chiavi di volta dell’or-ganizzazione della città, della sua logica sociale e quindi dell’urbanistica:abitare, lavorare, ricrearsi nel tempo libero (ovvero coltivare il corpo elo spirito), circolare. La zonizzazione, con la pianificazione di zone mo-no-funzionali indipendenti, è proposta come lo strumento e il dispositi-vo operativo per realizzare la città del futuro.

Critichealla concezionefunzionalista

Nella pratica, la concezione funzionalista affidata ai discepoli di Le Cor-busier porterà fra gli anni cinquanta e settanta del Novecento, in parti-colare in Francia, a puntare soprattutto sull’abitare a discapito delle al-tre funzioni, dando impulso all’edificazione di quartieri e cités periferi-che costituiti da grandi ensembles verticali (torri) e orizzontali (barre tra-sversali). Questi quartieri diventeranno luogo emblematico di segrega-zione urbana ed etnica, e saranno all’origine di gravi problemi e pro-fonde tensioni sociali nei decenni successivi, facendo emergere posizionimolto critiche su questa concezione della città e sulle sue traduzionioperative. In un noto saggio, dal titolo Vita e morte delle grandi città(1961), dedicato allo studio delle agglomerazioni americane, la sociologaJane Jacobs critica risolutamente il dogmatismo e il determinismo diquesto modello di pianificazione urbanistica di tipo funzionale, cui con-trappone la vitalità delle esperienze fondate sulla capacità di auto-orga-nizzazione degli abitanti. Nel mirino dei critici ci sono soprattutto larigidità degli schemi operativi, pensati in maniera standardizzata e pocoattenti al contesto locale: come ricorda Choay (1973, p. 31), «purchéassolva le sue funzioni e sia efficace, gli urbanisti adotteranno lo stessopiano urbano sia in Francia, che in Giappone, negli Stati Uniti e nel-l’Africa del Nord».

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Geografie dell’urbano

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Esperienze:

dall’India all’urssFra i “prodotti” più famosi dell’urbanistica moderna si possono comun-que ricordare la fondazione di Chandigarh, capitale dello Stato del Pun-jab in India, e quella di Brasilia. In un contesto diverso, la vicenda delMovimento moderno è strettamente intrecciata alla costruzione della“città sovietica” degli anni venti e trenta (Koop, 1987). Numerosi urba-nisti e architetti europei, fra i quali lo stesso Le Corbusier, si recano inUnione Sovietica, affascinati dalla possibilità di sperimentare il legamefra urbanistica e ideologia, fra modello spaziale e modello culturale. Nellenovy gorod, estensione di città esistenti e fondazione di città industriali(Angarsk, Magnitogorsk, Norilsk, Stalinsk), si traduce l’utopia rivoluzio-naria e standardizzata della pianificazione socialista, che produrrà 1.200realizzazioni di “città nuove” in sessant’anni (Chaline, 1996).

La tabula rasa

dei centri storiciSu un altro versante, infine, l’urbanistica e l’architettura moderna lasceran-no poco spazio alla conservazione del patrimonio storico e architettonico.«Rifiutando ogni sentimentalismo rispetto all’approccio estetico del passa-to» (Choay, 1973, p. 33), saranno così compiute operazioni di tabula rasa edi distruzione di cospicue parti di città.Nell’interpretare Le Corbusier, si è però spesso dimenticato di mettere inrilievo un ulteriore aspetto del suo pensiero sulla questione urbana, relativoal rapporto fra la città e il territorio circostante. Infatti nel primo puntodella Carta d’Atene, ancor prima di entrare nel merito dell’analisi delle fun-zioni, l’autore considera che «la città non è altro che un insieme economi-co, sociale e politico, che costituisce la regione». Proprio quest’ultima di-mensione, che esprime un’attenzione per la città non solo come entità au-tonoma e isolata, è essenziale per comprendere più globalmente gli approc-ci dei geografi, dei sociologi e degli economisti nel corso del Novecento.

3. Geografia della città e geografia delle città

Sebbene schematicamente, e con una distinzione utile puramente dalpunto di vista analitico, è possibile individuare due modi principali at-traverso i quali i geografi, anche con riferimento ad altri approcci allostudio della città, descrivono il fenomeno urbano (Lussault, 2000a): ilprimo è rivolto a capire come funziona una città al suo interno; il secon-do è uno sguardo esterno, per cogliere i rapporti e le interdipendenze frale città, cioè la geografia che le città disegnano sul territorio a diverse sca-le, da quella regionale a quella mondiale. Dematteis (1993), riprendendoquanto indicato da Umberto Toschi nel 1966, distingue tali approcci in“geografia della città” nel primo caso, e in “geografia delle città” nel se-condo.

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Nascita dell’ecologia

urbana3.1. La Scuola di Chicago La cosiddetta “Scuola di Chicago”, come si è giàricordato, ha rappresentato un fertile esempio del primo approccio, pro-muovendo studi e concezioni innovative sulla città nel periodo fra le dueguerre a partire dall’osservazione di Chicago e di altre realtà nordamerica-ne. Riunito intorno a Robert Ezra Park (che, prima di diventare professo-re all’università, è stato giornalista e ha svolto inchieste sociali a Chicago,Detroit, Minneapolis e New York), il gruppo di studiosi composto da di-versi sociologi (come Ernst Burgess, Roderick McKenzie, Louis Wirth ealtri ancora) pubblica, nel 1925, un volume intitolato The City, e dà vita auna corrente di pensiero definita “ecologia urbana”. Pur discostandosidall’approccio organicista di cui si è già detto, ma ispirandosi ancora al“naturalismo”, gli studiosi della Scuola di Chicago pongono al centrodella loro attenzione i problemi sociali e le forme di segregazione/assimi-lazione che emergono dal processo d’immigrazione nelle grandi cittàamericane del periodo. Il termine “ecologia” deriva essenzialmente dal-l’intendere la città come un “ambiente”: prendendo in considerazione la“competizione” per l’occupazione dello spazio, gli esponenti della Scuolaanalizzano le forme di “adattamento” messe in atto dagli individui e dallecomunità di diversa origine che giungono a Chicago. Del resto, nel 1900,a Chicago, come anche a New York, più della metà della popolazione eranata fuori dagli Stati Uniti: il piccolo agglomerato, che contava appena4.500 abitanti nel 1840, era diventato una metropoli di oltre un milionenel 1890, e avrebbe raggiunto i tre milioni e mezzo appena quarant’annidopo. Chicago, come altre realtà urbane nordamericane, aveva ormai ilprofilo di una complessa agglomerazione multietnica: oltre ai migrantirurali del Middle West, si era popolata di comunità slave, tedesche, po-lacche, scandinave, irlandesi, italiane, lituane, cinesi ecc., senza dimenti-care la presenza di cospicui gruppi di origine ebraica e afroamericana(Coulon, 1992).

Studi empirici

della Scuola

di Chicago

Inserendosi nelle prospettive di ricerca aperte da Simmel (1908), che si eraoccupato della figura dello “straniero” nella città, gli esponenti della Scuo-la focalizzeranno i loro studi sugli spazi delle minoranze (Wirth analizzeràad esempio, nel 1928, il ghetto ebraico di Chicago, generalizzando poi l’usodel termine anche per gli spazi di segregazione – o di assimilazione progres-siva – relativi ad altre minoranze); sulla figura dell’“uomo marginale” edello sradicamento sociale (da qui gli studi sugli homeless, cioè i senza fissadimora e i vagabondi: Anderson, 1923); su diversi fenomeni di devianza so-ciale, delinquenza giovanile e criminalità organizzata (le gangs). L’osserva-zione empirica delle trasformazioni urbane spinge gli studiosi a considerarele città come dei “laboratori sociali” e a interessarsi ai processi di disorga-nizzazione e (ri)organizzazione delle configurazioni spaziali: ovvero a stu-diare l’evoluzione urbana che va dal ghetto al melting pot. Per far ciò, gli

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esponenti della Scuola di Chicago individuano zone, limiti e margini dellediverse “regioni naturali” (cioè di zone urbane omogenee non prodotte daritagli amministrativi) e delle “regioni morali” (cioè di raggruppamenti so-ciali caratterizzati da particolari stili di vita) che ricompongono il “mosai-co” dei piccoli mondi della città. Dal punto di vista metodologico, laScuola privilegia strumenti d’indagine qualitativa, senza tralasciare tuttavial’uso della statistica, per poi produrre schemi spaziali che intendono spie-gare il funzionamento urbano nel suo complesso.

Schema per zone

concentricheIl primo schema, del 1925, si deve a Ernst Burgess (fig. 2). Esso si basa sul-l’analisi dell’ecologia sociale di Chicago e propone una modellizzazione“per zone concentriche”. Attorno al centro degli affari (cbd, ovvero ilCentral Business Discrict) denominato loop, si organizzano diverse corone(o parti di queste) di popolamento omogeneo, caratterizzate da alloggi abi-tati da migranti (slums) suddivisi per origine etnica (Little Sicily, China-town, Ghetto...), prossimi a zone malfamate e malavitose; seguono quar-tieri “neri” e residenze di lavoratori immigrati; zone di abitazioni indivi-duali e condomini per le classi borghesi; mentre le aree residenziali più ric-che si dispongono verso l’esterno, come anche le zone in cui abitano i pen-dolari. Tale modello di distribuzione, assai segregativo, individua uno “sci-volamento” a carattere sociale, etnico e residenziale dal centro verso le peri-ferie, che implica nel tempo lo spostamento e l’occupazione successiva di

figura 2 Modello per zone concentriche

Fonte: Burgess (1925, trad. it. pp. 48; 53).

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altre zone da parte di comunità e gruppi in relazione alla diversa capacità diascesa sociale.

Schema a settoriradiali

Il secondo schema, proposto da Homer Hoyt nel 1939 (fig. 3), derivadallo studio empirico di alcune decine di città degli Stati Uniti e descriveun modello di sviluppo urbano organizzato sulla base di “settori radiali”.Considerando il criterio dei redditi e quello del valore e dell’uso del suo-lo, l’autore rileva una distribuzione che si sviluppa lungo le principali viedi comunicazione e di trasporto. Tenendo anche conto degli insedia-menti commerciali e industriali, evidenzia inoltre la relazione fra le resi-denze di maggior pregio e lo spostamento degli uffici, delle banche e deicentri commerciali.

Schema a nucleimultipli

In risposta a tale modello, Chauncy Harris e Edward Ullman introducononel 1945 uno schema più sofisticato, detto “a nuclei multipli”, che combi-na cerchi, settori e nuclei (fig. 3). I processi di crescita urbana individuatidallo schema descrivono una città esplosa e diffusa in centri principali,centri secondari e quartieri periferici (suburbs), che si sviluppa in relazioneall’evoluzione delle forme della mobilità e allo spostamento degli insedia-menti industriali. Lo schema di Harris e Ullman è il primo a rappresentarela frammentazione delle aree urbane, la specializzazione funzionale di partidi città e l’emergere dei processi della suburbanizzazione (cfr. cap. 3).Tali schemi, benché parziali e sottoposti a critiche, sono serviti per lungotempo a ispirare altre analisi e approcci allo studio della città. L’ecologia ur-bana della Scuola di Chicago ha inoltre dato origine all’ecologia fattoriale,

figura 3 Schemi a settori radiali (B) e a nuclei multipli (C)

Fonti: schema B Hoyt (1939); schema C Harris, Ullman (1945).

1. Central Business District 6. Industria pesante2. Industria leggera 7. Distretto affari periferico3. Quartieri residenziali di classi basse 8. Sobborghi residenziali4. Quartieri residenziali di classi medie 9. Sobborghi industriali5. Quartieri residenziali di classi alte

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Geografie dell’urbano

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cioè l’applicazione dell’analisi fattoriale (tecnica statistica che seleziona gliandamenti di una serie di variabili lineari al fine di ridurre la complessità deifattori che spiegano un fenomeno) a variabili relative alla popolazione urba-na, dal punto di vista demografico, socio-economico, residenziale ecc.

Ritardo teoricodella geografia

3.2. L’emergere e il consolidarsi degli studi di geografia urbana Nonostantegli effetti dirompenti dell’urbanizzazione sullo sviluppo della città già neiprimi decenni del Novecento, gli studi di geografia urbana non si confron-tano ancora con tali processi e i geografi iniziano a sistematizzare il campodella geografia urbana solo a metà degli anni cinquanta. La società urbana,i rapporti di potere come i conflitti all’interno della città resteranno a lun-go assenti dal vocabolario e dalle attenzioni di ricerca della geografia urba-na che si rivolgerà soprattutto alla demografia, alla popolazione (distribu-zione, densità, piramidi delle età...), alla “geografia delle sedi” o magari al-l’analisi degli “stili di vita”, retaggio della geografia possibilista di Paul Vi-dal de la Blache (1845-1918) e, in parte, della sociologia di Wirth.

Approcci descrittivie monografici

In effetti, nella prima metà del Novecento, i geografi elaborano analisi mo-nografiche su singole città, praticano per lo più approcci puramente de-scrittivi e si concentrano principalmente sulle caratteristiche del contestonaturale. Il libro Urban Geography di Griffith Taylor del 1949, ad esempio,uno dei primi manuali in inglese di geografia urbana, adotta un approcciosostanzialmente determinista e analizza circa 200 città concentrandosi sullamorfologia urbana, le caratteristiche del sito, della posizione, dei rilievi edel clima. In Francia, Raoul Blanchard, considerato il “padre” della geo-grafia urbana per il suo libro su Grenoble che risale al 1911 e poi per i suc-cessivi studi su altre città (Lille, Bordeaux, Nantes, Marsiglia e Nizza), pra-tica un approccio pur sempre descrittivo e monografico. Solo nel 1948,Georges Chabot, con il suo libro Les villes, propone una visione più gene-rale e nomotetica, sebbene il suo tentativo non riesca del tutto ad emanci-parsi dagli orientamenti precedenti (Lussault, 2000a), mentre continuanoa essere pubblicate monografie di città, a carattere empirico e idiografico.

Gambi e la criticaalla geografiaitaliana

I richiami a innovare il quadro teorico-metodologico della geografia urba-na e degli studi sulla città sembrano destinati a rimanere a lungo inascolta-ti. Nel 1973, Lucio Gambi (1973b) critica apertamente la pochezza del pen-siero dei geografi italiani sulla città, sia nelle elaborazioni più monografi-che, sia nei compendi che si vogliono più sistematici, come il libro di To-schi del 1966. In Francia, ancora nel 1980, Jacqueline Beaujeau-Garnierpubblica Geographie urbaine che, pur con un’impostazione assai conven-zionale, diventa un manuale di riferimento per tanti geografi e arriva allaquinta edizione nel 1997.

Primi manualidi geografia urbana

Gli indici dei manuali di geografia urbana tendono a somigliarsi. I conte-nuti presentano criteri topografici e localizzativi delle città (sito, posizione,fondazione, tipologia di piante urbane), forme dell’espansione (taglia, dis-

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seminazione, gemmazione, conurbazione), tipologie residenziali e del pae-saggio (in relazione al contesto naturale e alla storia urbana), e poi semprepiù tipologie dei servizi e della viabilità, distribuzione delle attività e dellefunzioni (industriali, commerciali, amministrative...). Gli autori cercanoinvero di rispondere ad alcune questioni basilari del tipo: perché quella lo-calizzazione? Perché quella dimensione? Perché quelle funzioni? Presa fraanalisi di carattere descrittivo e analisi spaziali e quantitative, anche la disa-mina non manualistica proposta dalla geografia urbana (come quella di Se-stini del 1958 sulle conurbazioni italiane o di Nice del 1961 sullo sviluppodelle grandi città in Italia) si declina più per classificazioni (più o menofunzionali) che per interpretazioni della città.

Georgee il cambiamentoin Francia

Un cambiamento d’impostazione nello studio della città arriva in ambitofrancofono dal geografo Pierre George, professore alla Sorbona, che nel1961, a quasi dieci anni di distanza dal suo primo lavoro (La ville, del 1952),pubblica il noto Précis de géographie urbaine. Nell’Avertissement del libro,George sottolinea che la geografia urbana non deve più occuparsi di effet-tuare «studi monografici di città» e che il libro ha l’ambizione di indicare«un punto di vista delle questioni essenziali e un orientamento di ricerca[per il futuro]». In questa prospettiva, e perseguendo esplicitamente una vo-lontà di teorizzazione, si muove Paul Claval: dapprima in un articolo del1968, intitolato La théorie des villes, e poi in un volume pubblicato nel 1981,La logique des villes, l’autore intende elaborare una “teoria unitaria”, propo-nendo un’interpretazione della città come organizzazione rivolta a “massi-mizzare l’interazione sociale” per creare vantaggi individuali e collettivi.

Dalle città del TerzoMondo a quelledel Sud globale

Con George, la geografia urbana si apre inoltre a una visione più ampia, ri-volta a studiare anche le città dei paesi a economia detta allora “sotto-svi-luppata”. Quest’attenzione porterà alla comparsa di una vera e propria ca-tegoria urbana grazie all’opera del geografo brasiliano Milton Santos chepubblica nel 1971 Les villes du Tiers Monde, inserendosi nella scia di altriautori (come Kingsley Davis, Hilda Hertz Golden e Gideon Sjöberg) cheavevano studiato, fra gli anni cinquanta e sessanta, la sovraurbanizzazionedelle città contemporanee definite pre-industriali. Negli anni ottanta, in-sieme all’idea di una città del Terzo Mondo, prenderà piede la definizionedi “città in via di sviluppo” e poi, a partire dall’ultimo decennio del Nove-cento, sarà successivamente individuata la categoria di “città del Sud delmondo” e, con riferimento al fenomeno della globalizzazione, quella di“città del Sud globale”, dove “Sud” sta a indicare una sorta di paradigmadel disagio urbano contemporaneo (Cattedra, Memoli, 1995; Rossi, Som-mella, 2008).

Rivoluzionequantitativa

Alla metà degli anni cinquanta, dapprima in ambito anglosassone e poi an-che in altri paesi, la “rivoluzione quantitativa” (Dematteis, Vagaggini,1976) induce un rinnovamento della geografia urbana. Il tentativo di ap-plicare il metodo scientifico allo studio del fenomeno urbano porta a con-

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centrarsi sulle caratteristiche economiche e funzionali delle città. A partiredal modello delle località centrali di Walter Christaller del 1933 e da quellodi August Lösch del 1940 (cfr. cap. 6), i geografi si dedicano all’analisi spa-ziale. La geografia urbana si rivolge così alla ricerca di leggi universali eastratte che permettano di spiegare la localizzazione degli insediamenti ur-bani e delle attività economiche all’interno delle città e di definire modelliinterpretativi generali, come la regola rango-dimensione, detta anche leggedi Zipf, in cui la distribuzione delle frequenze dei centri è connessa allaloro dimensione demografica (Dematteis, 1993). Brian Berry, WilliamBunge, Peter Haggett, Allan Pred, Torsten Hägerstrand, Walter Isard, adesempio, pur affrontando questioni diverse, si inscrivono pienamente nelfilone dell’analisi spaziale.

Definizionefunzionale

In questa fase, l’analisi funzionale delle città assume una grande importan-za non solo per la descrizione interna dei singoli centri (cioè quali sono leattività economiche, culturali, politiche ecc. insediate all’interno di unacittà), ma anche per lo studio delle relazioni fra città. Le aree di attrazionedelle diverse funzioni, cioè le aree individuate in ragione dei movimentipendolari di popolazione, sono studiate applicando teorie e modelli distampo matematico e fisico e, in particolare, la teoria gravitazionale diIsaac Newton. La distinzione tra funzioni locali, che danno origine ad areedi gravitazione interne all’agglomerazione urbana, e funzioni esportatrici, icui ambiti si estendono fuori di essa fino a raggiungere, in certi casi, l’inte-ro pianeta (i.e. La Mecca), permette di capire l’importanza della definizio-ne funzionale di città dal punto di vista geografico. Le funzioni locali pre-sentano un’area di gravitazione continua, la cui dimensione dipende fon-damentalmente dall’accessibilità. Le funzioni esportatrici, invece, presen-tano una forma discontinua che rimanda al modello della rete e permettedi delineare, come vedremo più avanti, la formazione di “sistemi urbani” edi descrivere il ruolo che essi svolgono come centri di produzione e consu-mo a diverse scale.

NeomarxistiIl paradigma dominante in questo periodo è messo radicalmente in discus-sione sul finire degli anni sessanta, quando appare evidente l’incapacità deimodelli dell’analisi spaziale di confrontarsi con i sempre più pressanti pro-blemi di povertà e ineguaglianza che pervadono le città del mondo occi-dentale. Stimolati dall’apporto di sociologi più che da geografi puri, glistudi di approccio marxista definiscono un quadro teorico alternativo. In-serendosi per diversi aspetti nella teoria strutturalista, attenta al ruolo rive-stito dalle strutture sociali, economiche e politiche dominanti per capire imodelli di comportamento umano, e intendendo superare le tipologie ela-borate su base meramente statistica, la geografia urbana degli anni settantasposta finalmente l’analisi sul piano politico delle contraddizioni e dei con-flitti sociali generati dal sistema di produzione capitalista di cui la “struttu-ra urbana” è espressione. La città, fornendo un ambiente favorevole all’ac-

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cumulazione del capitale, è infatti intesa come parte integrante del mododi produzione capitalista del quale si denunciano le ingiustizie socio-spa-ziali e le ineguaglianze. Gli autori che si inscrivono in questo orientamentointerpretativo tentano di demistificare l’ideologia delle classi dominanti edi ragionare sullo spazio come “prodotto sociale”, esplorando le problema-tiche del “diritto alla città” (Lefebvre, 1968), della “giustizia sociale” inambito urbano (Harvey, 1978) e, più in generale, della “questione urbana”(Castells, 1974b).

Immagini

e rappresentazioni

della città

Su un altro versante, si schiuderanno nuove prospettive interpretative gra-zie alle ricerche sulle percezioni e le rappresentazioni, sull’immagine e l’im-maginario delle città, di cui Kevin Lynch, con il suo libro The Image of theCity (1960), può essere in qualche modo considerato un apripista. Gli ap-porti della “geografia umanistica” (Tuan, 1974, 1977) operano un ulteriorespostamento epistemologico, che porta progressivamente i geografi a supe-rare l’analisi esclusiva del “visibile” per metterlo in relazione con gli aspetti“invisibili” riposti nelle rappresentazioni collettive e nella soggettività indi-viduale. Questo cambiamento epistemologico si consoliderà successiva-mente negli sviluppi della geografia culturale urbana, ma anche, alla lucedelle prospettive più recenti del cosiddetto cultural turn (cfr. cap. 5; Amin,Thrift, 2000), nel tentativo di integrare le dimensioni culturali e sociali allageografia, sia essa economica, politica o urbana.

Attore, interazione,

azioneL’attenzione verso le rappresentazioni collettive e la soggettività individua-le porta progressivamente la geografia (e in specifico la geografia urbana) aconfrontarsi con i soggetti sociali visti non più solo come astratti “oggetti”di ricerca (da individuare, contare, classificare ecc.), ma come attori dotatidi intenzionalità e di possibilità di azione, produttori di pratiche, portatoridi emozioni, sogni e paure nei confronti della città (cfr. capp. 4, 6). Per viein parte diverse, ma comunque convergenti, l’attenzione della geografia ur-bana verso la categoria di “attore” si nutre, per un verso, degli studi degliscienziati politici che analizzano i processi decisionali non più attraversouna visione giuridico-formale dell’esercizio del governo, ma ricostruendo ilruolo specifico esercitato dai singoli o da “attori collettivi” (istituzioni, or-ganizzazioni formali e non), nonché i meccanismi concreti di interazionefra di essi (Regonini, 2001). Tale approccio è coerente con il contesto se-gnato sempre più dal decentramento politico-amministrativo e dalla riven-dicazione di responsabilità e di ruoli decisionali autonomi da parte di vec-chi e nuovi attori sulla scena urbana (accountability e empowerment, cfr.cap. 8). Per altro verso, la geografia urbana si confronta con i contributidella ricerca sociologica e antropologica che riconoscono i limiti di una vi-sione della società come costrutto statico, composto da gruppi stabili al cuiinterno le persone interpretano i propri ruoli in maniera standardizzata esecondo regole prestabilite, superando così, sia dal punto di vista teorico

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Geografie dell’urbano

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sia da quello dell’analisi empirica, l’approccio struttural-funzionalista (Pi-selli, 1995).In ambito geografico, il cambiamento epistemologico portato dalla consi-derazione degli attori nelle dinamiche urbane e territoriali si appoggiaprincipalmente al contributo di Claude Raffestin (1981), che enfatizza ilruolo degli attori sintagmatici (cioè degli attori che realizzano un program-ma) nella “territorializzazione” dello spazio (e quindi nella costruzione delterritorio). Tale lettura è poi ripresa e sviluppata da Angelo Turco (1988),che individua negli atti territorializzanti (denominazione, cioè controllosimbolico dello spazio; reificazione, cioè controllo pratico; strutturazione,cioè controllo sensivo) le attività principali attraverso cui gli attori costrui-scono il territorio. L’interpretazione del ruolo degli attori nella geografia siconsolida poi soprattutto attraverso la ricerca di geografi francofoni (inparticolare Lévy, 1999; Lussault, 2000b, 2003; Gumuchian et al. 2003), chericonoscono come lo statuto di attore rilevi più che dal ruolo assegnato apriori a un certo soggetto sociale, soprattutto dal comportamento concretoe, quindi, dalla intenzionalità associata a una posizione più o meno strate-gica all’interno di un certo contesto territoriale (i.e. una città). In questomodo, l’attore è visto come motore della costruzione e del cambiamentodei sistemi socio-spaziali, a diverse scale: le azioni, che possono esprimersisia attraverso discorsi sia attraverso pratiche, sono infatti inserite in un gio-co continuo di interazione con altri attori. Attore, interazione e azione di-ventano così parole d’ordine, tanto diffuse quanto spesso poco discusse escarsamente sistematizzate, con cui la geografia urbana si interroga sia sullamolteplicità e la frammentazione dei gruppi sociali, sia sulle dinamiche delpotere, della politica e delle politiche della e nella città (cfr. capp. 7, 8).

Relazioni fra città3.3. La geografia delle città Anche sul versante della “geografia delle città”,e quindi concentrandosi non solo sulle singole agglomerazioni, ma su enti-tà più vaste che vanno descritte a scala macro-territoriale, è possibile indi-viduare un cambiamento delle teorie. Tale cambiamento rimanda, sche-maticamente, a due aspetti principali, diversi anche se strettamente colle-gati. Il primo è connesso all’affermarsi dell’approccio sistemico nelle disci-pline territoriali che porta, seguendo l’espressione di Brian Berry (1964), aconsiderare «la città come un sistema in un sistema di città». Per descriverela natura della città, le relazioni interne ed esterne non sono considerate (econsiderabili) separatamente, ma sono comprese in un’unica struttura. Percapire come si modifica, cresce o declina una città, non è più sufficienteguardare alla singola città, ma è necessario considerare il sistema più ampiodi cui il singolo centro è parte. Il secondo aspetto rimanda invece alla rap-presentazione reticolare del territorio e della città. Affiancandosi alla lettu-ra areale tradizionale, che descrive un’organizzazione spaziale continua, larappresentazione reticolare mette in evidenza le interazioni fra luoghi non

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contigui, «la mobilità, i flussi, le relazioni “orizzontali” in genere» (Demat-teis, 1990a, p. 28).

Teoria sistemica Nell’ambito della ricerca geografica, pensare la città come un sistema vuoledire, secondo Dematteis (1993, p. 88), vederla come

un insieme di elementi legati tra loro da certe relazioni e perciò interagenti inmodo tale che ogni variazione negli attributi di un elemento (il reddito nel settoredi base, il tasso di attività dei residenti ecc.) genera variazioni a catena negli altrielementi e quando la catena si chiude si ha un’ulteriore modifica per retroazionenell’elemento di partenza.

Lo stesso vale per quanto riguarda le relazioni fra città: ogni città, intesacome un sistema, è collegata ad altre da relazioni e scambi. Secondo AllanPred (1977), i sistemi di città sono un insieme, nazionale o regionale, dicittà interdipendenti. Ogni cambiamento significativo nelle attività econo-miche, nella struttura professionale, nel reddito o nella popolazione di unaparte comporta, direttamente o indirettamente, la modificazione delle atti-vità economiche, della struttura professionale, del reddito o della popola-zione di uno o di tutti gli altri elementi dell’insieme.Queste definizioni, molto generali, considerano il sistema urbano come unsistema semplice, regolato da relazioni di causa-effetto. In realtà i sistemiurbani sono sistemi complessi, le cui variazioni non sono prevedibili. Glistudi sui sistemi complessi, di matrice fisico-chimica (la teoria delle bifor-cazioni di Ilya Prigogine), biologica (i sistemi autopoietici di HumbertoMaturana e Francisco Varela) o cibernetica (le macchine non banali diHeinz von Foerster) permettono di concettualizzare le città come sistemiin cui le modificazioni esterne non determinano i cambiamenti interni, maforniscono unicamente degli input, che vengono poi rielaborati interna-mente in maniera autonoma, dando origine a risposte non prevedibili apriori. In altri termini, i sistemi urbani si trasformano continuamente perl’azione e l’interazione di processi interni ed esterni.

Approccio reticolare La teoria sistemica, nelle sue diverse elaborazioni, ha avuto una grande in-fluenza nell’ambito degli studi urbani (Pumain, Robic, 1996). Su di essa sibasa, in particolare, la rappresentazione reticolare del territorio e della cit-tà, cioè l’idea che i sistemi urbani possano essere descritti non solo comearee o nuclei, ma come un insieme di centri (i nodi) legati fra loro da rela-zioni dispiegate a diversa scala, regionale, nazionale o transnazionale.Come mette in evidenza Taylor (2004, p. i), «le relazioni esterne [...] nonsono un’aggiunta opzionale per teorizzare la natura delle città. Le connes-sioni costituiscono la vera raison d’être delle città».Secondo Dematteis (1990a), è possibile individuare tre modelli generali direti urbane, che ritornano in maniera ricorrente nella riflessione teorica

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sulla geografia delle città e che costituiscono la traduzione spaziale di altret-tanti modelli di relazioni economiche e sociali (cfr. cap. 4).

Reti a gerarchiadeterminata

Il primo modello (delle reti a gerarchia determinata) descrive un sistema re-ticolare a base areale, in cui la città controlla il suo hinterland: una città chedomina, dal punto di vista militare, la regione; gestisce, dal punto di vistapolitico, un territorio circostante più o meno vasto (come ad esempio lacittà capitale, cfr. cap. 7); organizza i mercati e distribuisce i beni e i servizinell’area di gravitazione posta al suo intorno. Il riferimento è, in questocaso, la teoria delle località centrali (cfr. cap. 6): un sistema gerarchico apiù livelli, nel quale la gerarchia deriva dalla differenziazione dei livelli fun-zionali dei diversi nodi, a loro volta legati alle rispettive aree di gravitazionesecondo il principio della prossimità.

Reti multipolarie megalopolidi Gottmann

Il secondo modello (delle reti multipolari) considera invece le relazioni fra inodi della rete sulla base della complementarità funzionale fra i centri,come avveniva nell’economia industriale della fase “fordista”. Le relazionifra i nodi possono essere simmetriche o asimmetriche, gerarchiche o meno.I rapporti di gerarchia non sono in questo caso determinati dalla prossimi-tà al mercato, ma dai tipi di attività presenti nei diversi centri. Quando inun’area di dimensioni macroregionali più sistemi urbani contigui sono col-legati fra loro da relazioni funzionali preferenziali, in cui nodi e interazionia rete sono particolarmente densi, può generarsi un unico mega-sistemaurbano, definito da Jean Gottmann, nel 1961, megalopoli. La megalopoli,individuata da Gottmann nel grande sistema urbano in formazione a metàdel secolo scorso lungo la fascia costiera nel Nord-Est degli Stati Uniti, èconsiderata dall’autore come l’espressione emergente della struttura urba-na nei paesi sviluppati. Nella definizione originaria di Gottmann, la mega-lopoli costituisce una costellazione urbana a nuclei multipli (le singole cittàche la compongono), che si estende per distanze che variano da alcune de-cine fino a centinaia di chilometri, integrando spazi non edificati e ospitan-do una popolazione complessiva di almeno 25 milioni di abitanti. La for-mazione di altre megalopoli è poi stata ipotizzata anche in contesti diversi,come nell’area dei Grandi Laghi negli Stati Uniti, in Giappone o nel Me-diterraneo occidentale (Muscarà, 1978; cfr. cap. 3).

Reti equipotenzialiInfine, il terzo modello (delle reti equipotenziali) descrive l’indifferenza lo-calizzativa in cui ogni nodo può essere teoricamente connesso con ogni al-tro. È questa una situazione tipica della più recente economia dell’infor-mazione, organizzata per reti interconnesse, in cui i nodi di livello superio-re, le cosiddette città globali (Sassen, 1997a, 1997b), controllano la rete glo-bale dei flussi e degli scambi (Castells, 1989, 1996). Seguendo questo mo-dello, le città sono viste come centri non tanto per il controllo esercitatosui loro hinterland, quanto per l’accesso alle reti sovralocali, che permetteloro di intessere relazioni anche con centri geograficamente lontani, ma vi-cini dal punto di vista delle funzioni localizzate al loro interno. La presenza

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di collegamenti e relazioni svincolati dalla prossimità fisica fra i centri faemergere processi competitivi fra le città per attrarre investimenti e im-prenditori esterni. Questa competizione può essere giocata al ribasso, senzadeterminare la valorizzazione delle specificità e delle differenze dei diversiluoghi. Ovvero, all’opposto, può determinare la valorizzazione dei “van-taggi competitivi locali”, cioè di quelle condizioni e risorse potenziali spe-cifiche dei diversi milieux urbani (Governa, 1997).

4. Interpretare la città oggi

Post-industrialee post-moderno

4.1. Città globali e nuove gerarchie metropolitane, fra neoliberismo e deriva eco-nomicista David Harvey (1993), con un approccio neomarxista, è stato frai primi geografi a indagare sul senso delle realtà urbane “post-industriali”,mettendo in relazione «l’emergere di modi più flessibili di accumulazionedel capitale e una nuova fase di “compressione spazio-temporale” nell’or-ganizzazione del capitalismo» (ivi, p. 9). Secondo Harvey, quindi, grazieallo sviluppo delle tecnologie di trasporto e telecomunicazione, lo spaziosembra rimpicciolirsi, liberandosi dai vincoli della prossimità geografica.Parallelamente, il tempo, ad esempio quello dei cicli produttivi o del con-sumo, si accorcia fino ad essere tutto compreso nel presente, producendoforme socio-economico-culturali definite “post-moderne”.Per ciò che concerne l’architettura e l’urbanistica, Charles Jencks, nel librodel 1984 The Language of Postmodern Architecture, designa simbolicamentela fine del moderno e il passaggio al post-moderno nel momento in cui –alle 15 e 32 minuti del 15 luglio 1972 – a Sant Louis viene demolito il com-plesso abitativo di Pruitt-Igoe, che riproduce un famoso edificio di Le Cor-busier, una “macchina per abitare” ormai inadeguata e degradata. Da allo-ra, l’eclettismo e il pastiche di forme, materiali e colori si fa sempre più stra-da nell’edificazione della città contemporanea.La difficoltà di definizione teorica del nuovo emerge emblematicamentedalla vulnerabilità che si diffonde attraverso la serie di suffissi “post” (post-industriale, post-fordista, post-moderno, post-socialista, post-urbano,post-metropolitano...) che tentano di cogliere il cambiamento a partire da-gli ultimi due decenni del xx secolo. In un sintetico e bell’articolo dedicatoalla maniera di descrivere il recente cambiamento urbano, Taylor e Lang(2004) individuano fino a 100 nuovi concetti emersi dall’analisi della lette-ratura degli ultimi cinquant’anni. Tali denominazioni sono suddivise indue principali categorie che, proponendo la duplice articolazione che ab-biamo noi stessi adoperato nel paragrafo precedente, presentano da unaparte “i nomi dati alle nuove forme metropolitane” e dall’altra “i nomi datialle relazioni fra le città”. Le formule che stanno alla base di questi due filo-ni sono, nel primo caso, la edge city (cfr. cap. 3) e, nel secondo, la world cityhierarchy.

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Edge cityL’espressione edge city è stata introdotta negli studi urbani per la prima vol-ta da Joel Garreau nel volume del 1991 Edge City: Life on the New Frontier.L’autore definisce con questa formula (letteralmente città-margine) queglispazi urbanizzati edificati (negli Stati Uniti a partire dagli anni settanta) ol-tre i margini urbani, distanti dal centro, ma non periferici in termini socia-li ed economici, poiché autonomi dal punto di vista funzionale. Già nel ti-tolo l’autore esplicita il carattere pionieristico di tale fenomeno che riguar-da la conquista di spazi di frontiera (luogo mitico e fondativo dell’ideolo-gia statunitense) grazie alla formazione di nuovi centri urbani. Per indivi-duare una edge city, Garreau definisce cinque semplici criteri: che ci sianoalmeno 500.000 mq di spazio disponibile per uffici; 60.000 mq o più di spa-zio commerciale; più posti di lavoro che stanze da letto; l’identificabilitàdel luogo da parte dei cittadini (e quindi un qualche senso di appartenenzae identità collettiva); il non essere stato niente di simile a una città nei de-cenni precedenti: «questi nuovi curiosi centri urbani erano villaggi, o cam-pi di granturco, solo trent’anni fa» (Garreau, 1991, p. xx). L’analisi criticadei caratteri di questi spazi fa riferimento all’iniquità sociale che li contrad-distingue; alla discriminazione e segregazione a base etnica o economica;alla loro chiusura fisica e alla ridotta trasparenza di governo politico; alleforme di speculazione fondiaria e immobiliare che ne guidano l’edificazio-ne. Del resto, lo stesso Garreau riconosce il limite del senso identitario del-le edge cities nella mancanza delle differenze e delle possibilità di socializza-zione che tradizionalmente caratterizza il fatto urbano: «la cosa più simile auno spazio pubblico che si può trovare, un posto dove chiunque può anda-re, è il piazzale del parcheggio» (ivi, p. 52). L’uso nel lessico urbano dell’e-spressione edge city supera la definizione restrittiva e specifica dello stessoGarreau, anche perché disattesa dall’analisi empirica, in particolare perquanto riguarda l’autonomia funzionale e la riuscita economica di questiinsediamenti rispetto al centro città. Del resto, secondo Taylor e Lang(2004), l’interesse della edge city non risiede tanto nel riferimento alla for-mulazione originaria di Garreau, quanto nella possibilità di usare taleespressione per riassumere una pluralità di fenomeni diversi che presenta-no però, nell’insieme, alcuni caratteri comuni: l’espansione fisica degli in-sediamenti e la costruzione di “centralità periferiche” (cfr. cap. 3).

World city hierarchyDall’altro lato, la letteratura sulle world cities costituisce, secondo King(1990), uno dei principali cambiamenti di paradigma nell’ambito deglistudi urbani, poiché non si limita a descrivere un fenomeno, ma proponeuna diversa visione della città. Essa si inscrive nell’approccio funzionalistaallo studio dei sistemi urbani, sottolineando in particolare l’ampiezza dellerelazioni che i diversi sistemi intrattengono a livello transnazionale e ten-denzialmente globale, travalicando cioè le proprie realtà nazionali di riferi-mento.

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Come mette in evidenza Taylor (2004), è John Friedmann, in un articolodel 1986, a concettualizzare per primo il termine world cities, connettendo-lo direttamente ai processi della globalizzazione economica. Mentre la cittàdell’Ottocento e dei primi del Novecento costituisce il “modello” spazialedella Rivoluzione industriale, in cui si dispiega il legame fra urbanizzazionee industrializzazione, la “città mondiale” costituisce l’organizzazione spa-ziale della nuova divisione internazionale del lavoro, mettendo in evidenzai legami fra urbanizzazione e forze economiche globali. Le città mondialicostituiscono quindi i centri di comando dell’economia globale; parallela-mente, il ruolo che le città rivestono nell’economia globale si riflette diret-tamente nella struttura e nel cambiamento dell’economia locale. Fried-mann adotta un approccio funzionalista allo studio della nuova gerarchiaurbana sottesa ai processi della globalizzazione: le città più importanti a li-vello mondiale sono quindi quelle in cui s’insediano le funzioni direzionalidal punto di vista economico e finanziario, così come sono quelle in gradodi articolare l’economia regionale o nazionale ai processi globali. Anche glistudi di Saskia Sassen (1997a) rientrano in questa prospettiva, mettendo inevidenza come la delocalizzazione dei processi produttivi connessa ai pro-cessi della globalizzazione economica aumenti la domanda di funzioni didirezione e controllo che prediligono una localizzazione urbana. Londra,New York e Tokyo sono così interpretate come città globali, “centri di co-mando e controllo” di una economia globalizzata, luoghi di produzione,mercato e innovazione del settore finanziario e dei servizi avanzati che necostituiscono i settori chiave. All’interno di una nuova fase del capitalismo,le città globali rappresentano, nella lettura di Castells (2002), i centri diproduzione e trasmissione del sapere in un nuovo spazio dei flussi di infor-mazioni, persone e merci che si sovrappone, e in parte si sostituisce, al piùtradizionale spazio dei luoghi. Oltre alle funzioni direzionali, l’internazio-nalizzazione del mercato del lavoro (formale e informale) dà luogo, nellecittà globali, alla nascita di società cosmopolite, in cui si accrescono feno-meni di estrema polarizzazione sociale.

Città competitivee città creative

Queste interpretazioni appaiono al centro dell’ormai ampio insieme di let-ture del fenomeno urbano che privilegia una visione centrata sulle dinami-che economiche. Nel maggio del 1999, la rivista internazionale “Urban Stu-dies” ha dedicato un numero monografico al tema delle città competitive.Gli articoli che compongono il volume adottano un’interpretazione dellecittà come motori della crescita economica, centri dell’innovazione e attorichiave per promuovere e consolidare la competitività internazionale. L’at-tenzione è quindi rivolta all’individuazione dei caratteri di una città checompete e “vince” la sfida dell’economia globale, anche grazie alla presenzadi una presunta classe creativa, secondo la formulazione di Richard Florida(2003), in grado di assicurare dinamiche di sviluppo urbano vincenti. Que-sta impostazione sottolinea, in altri termini, come la competitività delle at-

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tività economiche derivi fondamentalmente dalla competitività della cittàin cui esse sono localizzate. L’ipotesi che regge questa impostazione è, unpo’ schematicamente, la seguente: se funzionano le città in cui le impresesono localizzate, funzionano le imprese; specularmente, se funzionano leimprese, funzionano le città in cui esse sono insediate. La città è quindi fon-damentalmente intesa come “fattore di produzione”, e le politiche urbanesono rivolte a fornire quei beni collettivi locali che procurano vantaggicompetitivi alle imprese localizzate in una certa area (cfr. cap. 8).

Deriva economicistaQuesta interpretazione soffre però di una ovvia “deriva economicista”.L’insoddisfazione per una visione della città come fattore di produzione el’eccessiva schematizzazione connessa alla diretta trasposizione delle strate-gie di impresa alle strategie dello sviluppo urbano emergono in manieraevidente dalle letture critiche che sottolineano come la città sia, in realtà, illuogo privilegiato in cui prende forma il progetto politico neoliberista

Neoliberismo urbano(Brenner, Theodore, 2002a, 2002b; Harvey, 2007) (cfr. capp. 8 e 9). Nel-l’attuale ridefinizione degli spazi politici ed economici, la città del neolibe-rismo riveste un ruolo strategico come prodotto concreto della globalizzazio-ne economica e finanziaria (è il luogo in cui si concentrano infrastrutture efunzioni avanzate); come ideologia (poiché porta a legittimare la competiti-vità come unico obiettivo della città e a sottolineare il ruolo svolto dal mer-cato nella regolazione economica e sociale); e come prodotto di un sistemanormativo (in particolare, per il ruolo delle istituzioni sovranazionali nel-l’influenzare e indirizzare le politiche urbane a livello locale) (Osmont,2006). A partire dagli anni settanta, il progetto politico neoliberista deter-mina dunque un cambiamento delle e nelle città che enfatizza: la crescitadelle economie urbane, la competizione fra città per accaparrarsi “risorse”scarse (eventi, investimenti, sedi di organismi internazionali ecc.), il rilan-cio del mercato urbano e immobiliare, la privatizzazione dei servizi pubbli-ci. Tutto ciò, trascurando il riacutizzarsi dell’esclusione sociale, della po-vertà e della marginalità che connotano, come dati ormai stabili, la cittàcontemporanea nei paesi del Sud come in quelli del Nord del mondo.

Dalla continuitàal frammento

4.2. Contraddizioni urbane e debolezze concettuali Mentre la rappresentazio-ne della città di fine Ottocento mette in evidenza una realtà in scomposi-zione, ma presenta ancora una chiara articolazione in parti e forme stabilidi appartenenza spaziale, oggi quella figura si è definitivamente dissolta.Diversamente dalla logica spaziale isotropica della città moderna dell’Ot-tocento (e successivamente di quella funzionalista dei ciam), basata comeabbiamo visto sulle figure della normalizzazione, della regolarità e dellacontinuità, la figura emergente del pensiero (e della città) della fine del xxsecolo è quella del “frammento”. Ciò spiega (dalla letteratura all’architet-tura, dalla geografia all’urbanistica) il riemergere di una concezione aniso-tropica dello spazio urbano, attenta alla differenza e alla specificità dei luo-

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ghi, che pur era presente anche nel passato o, ancora, eterotopica (Fou-cault, 1994).

Foucaulte l’eterotopia

Il concetto di eterotopia si deve a Michel Foucault, filosofo francese che haavuto (e ha) una notevole influenza nel dibattito geografico (cfr. Cram-pton, Elden, 2007, in cui sono anche tradotti il “dialogo”, pubblicato neglianni 1976-77 sulla rivista francese “Hérodote”, tra Foucault e alcuni geo-grafi francofoni e il saggio dal titolo Foucault aurait-il pu révolutionner lagéographie? pubblicato da Claude Raffestin nel 1997) (cfr. cap. 7). L’inte-resse di Foucault per la città si inserisce nell’ambito della sua analisi del po-tere politico moderno (Foucault, 2005): è infatti nella città europea moder-na che egli identifica il luogo-chiave per cogliere il cambiamento del modoin cui si esprime il potere rispetto al principio classico di sovranità, rappre-sentato emblematicamente nella figura del Leviatano di Thomas Hobbes.Analizzando le pratiche di potere che si esplicano nella città, le caratteristi-che dell’organizzazione e della costruzione delle strade, degli edifici, delleprocedure e dei meccanismi con cui sono modellati i comportamenti uma-ni, Foucault ricostruisce «il modo in cui la vita degli uomini in Occidente,a partire dal xviii secolo, sia stata quotidianamente e continuamente am-ministrata» (Amato, 2009, p. 50). La città moderna è quindi il luogo in cuiprende forma la “società disciplinare” (Foucault, 1976), in cui un insiemedi meccanismi e dispositivi influenza, disciplina, normalizza e definisce icomportamenti degli esseri umani, anche senza l’intervento punitivo dellalegge. All’interno di questa visione della città e del potere, qui solo breve-mente accennata, Foucault identifica però la presenza di tracce inattese, diluoghi “altri” che si contrappongono allo spazio del potere e ai suoi dispo-sitivi di controllo. Secondo Foucault (1994, p. 14), infatti,

ci sono anche, e ciò probabilmente in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghireali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione stessadella società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effet-tivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trova-no all’interno della cultura, vengono al contempo rappresentati, contestati, e sov-vertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto pos-sano essere effettivamente localizzati. Questi luoghi, che sono assolutamente altroda tutti i luoghi che li riflettono e di cui parliamo, li denominerò, in opposizionealle utopie, eterotopie.

Caratteridell’eterotopia

Foucault prosegue mettendo in evidenza i caratteri delle eterotopie. Esse,in particolare, creano uno spazio illusorio, rendendo così evidente l’illuso-rietà degli spazi reali in cui è quotidianamente relegata la vita umana, epermettono la giustapposizione di luoghi diversi e tra loro incompatibili.Questi due caratteri dell’eterotopia sono alla base di una concezione di-scontinua dello spazio urbano, che scompone la tradizionale gerarchia tra

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luoghi (i.e. fra il centro e la periferia urbana) e individua la giustapposizio-ne di diversità, di frammenti diversi e incomunicabili che caratterizza oggila città. Basti pensare, ad esempio, alla polarizzazione sociale che connotale attuali città globali (Castells, 1989, 2002; Sassen, 1997a, 1997b), in cui siconfrontano, fisicamente prossimi ma lontanissimi dal punto di vista so-ciale e culturale, gli spazi di localizzazione delle dinamiche del capitale glo-bale e dei centri di potere e controllo delle imprese multinazionali conquelli dell’estrema povertà urbana degli homeless; processi di terziarizzazio-ne innovativa con la diffusione di lavori banali e spesso “sommersi”, comeè stato rappresentato, ad esempio, nel film di Ken Loach (Bread and Roses,del 1999) sugli immigrati messicani addetti alla pulizia degli uffici delle im-prese globali a Los Angeles.Il cambiamento che pervade la concettualizzazione dello spazio urbano in-duce una rivoluzione anche negli interventi sulla città, ovvero l’affermarsidi un’azione che si muove oramai per interventi e progetti frammentari,agendo localmente con «sottrazioni e aggiunte cumulative» in una città-territorio sempre più espansa e esplosa, traducendo così la co-presenza di«micro-razionalità indifferenti l’una all’altra o tra loro in conflitto» (Sec-chi, 2000, pp. 22-3).

Debolezzeconcettuali

Fra mutamento urbano, globalizzazione e crisi epistemologica, l’interpre-tazione della “città contemporanea” soffre di una debolezza concettuale esemantica, nonostante si sia prodotta un’inflazione di nomi e di modi perdire e raccontare la città e le sue forme di agglomerazione, di diffusione odi dispersione, le sue più o meno evidenti capacità di competere nello sce-nario globale e di garantire comunque una elevata qualità della vita alla po-polazione insediata. Ancora una volta, le definizioni dell’urbano sono piùl’esito di una tensione descrittiva che di un’elaborazione propriamente in-terpretativa. Il problema di cogliere il senso dei cambiamenti non è certouna novità, poiché com’è evidente “la città è sempre cambiata”; ciò che èinvece difficile oggi è piuttosto comprendere la “velocità del cambiamen-to” e spiegare le ragioni e le condizioni che ne sono all’origine (Indovina,2006). Siamo ormai lontani dai tempi in cui Baudelaire, nei Fiori del male(1861), evocando nostalgicamente la vecchia Parigi «che non esiste più»,scriveva che «una città muta di forma, ohimè più veloce del cuore di unuomo», prendendo atto che le città, inesorabilmente, cambiano più rapi-damente del corso di una generazione.

Contraddizioniurbane

L’incertezza teorica attuale esprime al contempo le contraddizioni propriedelle ansie e delle progettualità della società contemporanea, nonché delladifficoltà di interpretarne e leggerne i bisogni e i desideri. Il seguente pas-saggio di Didier Lapeyronnie, tratto da un articolo apparso sulla francese“Revue du mauss” (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Socia-les) dedicato al tema delle Città buone da vivere/città invivibili (1999), è as-sai emblematico al riguardo e dà tutto il senso di questa contraddizione:

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[La città] è il quadro e l’espressione della nostra dualità di individui moderni.Così, anche il nostro rapporto con la città è retto da una profonda ambiguità: de-sideriamo un insediamento stabile, la coerenza, l’attaccamento al passato, l’inscri-zione delle nostre identità e, al contempo, siamo animati da un desiderio insazia-bile di incontri, di nuove esperienze, di piaceri e di scoperte. Vogliamo essere con-temporaneamente autoctoni e stranieri. Vogliamo legarci e rompere, ancorarci edessere liberi, radicarci e circolare. Desideriamo la prossimità e la distanza. La cer-tezza e la casualità. Cerchiamo congiuntamente l’ombra e la luce. La città che de-sideriamo deve essere la nostra città e quella degli altri. Essa deve essere il luogodelle tensioni irrisolte che ci animano. Un luogo dove riconoscersi e dove perder-si. Un luogo di contemplazione e di azione. Essa deve sostenere il passato e il futu-ro, il radicamento e lo sradicamento, ciò che è sconosciuto e ciò che è familiare,ciò che si assomiglia e ciò che è cosmopolita, calma e agitazione. Desideriamo in-tensamente cambiare e restare gli stessi. Di più, amiamo e detestiamo le nostre cit-tà moderne. Le troviamo simultaneamente magnifiche e orrende. Appena possia-mo fuggiamo via, ma subito ce ne rincresce. Ne malediciamo gli ingorghi, ma èper gustare meglio le nostre flânerie sui viali. Ed è proprio quando ci perdiamo chesiamo ancor più a casa nostra, e in essa ci si ritrova proprio quando ci si perde (La-peyronnie, 1999, p. 19).

Fine delle “grandi

narrazioni”I percorsi di ricerca sulla città si moltiplicano, le concettualizzazioni sul fe-nomeno urbano contemporaneo anche. Quello che manca, o per lo menosembra essere fortemente carente, è uno schema di riferimento teorico, una“teoria della città” che si ponga al livello delle teorie urbane di fine Otto-cento-inizio Novecento. Questo, da un lato, appare preoccupante perchérende evidente l’afasia degli studi urbani attuali nel dire e rappresentare lecaratteristiche di quelle ampie porzioni dello spazio terrestre nelle quali siconcentra ormai più della metà della popolazione mondiale. Dall’altrolato, tuttavia, tale carenza teorica è figlia del tempo, poiché riflette l’ormaiacquisito superamento delle “grandi narrazioni”, delle teorie generali perdescrivere e spiegare i fenomeni sociali.L’impossibilità di definire una teoria generale sulla città è al centro del li-bro di Amin e Thrift (2005), che mette in evidenza la necessità di nonschiacciare la molteplicità urbana su letture generali, che rischiano comun-que di essere parziali e riduttive. Secondo questi autori, infatti,

le città odierne certamente non sono sistemi dotati di una coerenza interna. I con-fini della città, infatti, sono ormai divenuti troppo permeabili ed estesi [...] perchésia possibile pensarla come una totalità: essa non ha un’integrità, un centro e partidefinite. È invece un insieme di processi spesso disgiunti e di eterogeneità sociale,un luogo di connessioni vicine e lontane, una concatenazione di ritmi. È questol’aspetto delle città contemporanee che è necessario cogliere e spiegare, senza la-

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Geografie dell’urbano

Page 39: 2 Definizioni di città: concetti e teorie nella geografia urbana€¦ · Stadt (1921), Max Weber (1864-1920), uno dei massimi studiosi della città moderna, scrive Definizione

sciarsi prendere dal desiderio di ridurre il fenomeno a un’essenza o a un’integritàcomplessiva (ivi, p. 26).

Le direzioni verso le quali si orienta l’attuale geografia urbana sono quindirivolte non tanto alla definizione di una teoria urbana generale sulla città,né a descrivere il fenomeno urbano nel suo insieme, quanto piuttosto a se-guire la complessità dei frammenti e la molteplicità delle pratiche che lacompongono. La città è così intesa come un insieme aperto, plurale eframmentato in cui la sperimentazione e l’emergere di nuove forme diurbanità non si manifestano tanto nei più tradizionali spazi urbani o neglispazi simbolo del mondo globalizzato, ma ai margini degli stessi o in fram-menti apparentemente lontani.

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