un errore di gioventù

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Elena Genero Santoro, mainstream. Futura è incinta per la seconda volta e a Patrick sembra che il loro mondo sia perfetto, ma una notizia dal passato potrebbe scombinare tutto. Patrick infatti viene contattato da una sua ex, Arlene, che gli confessa di avere una figlia quasi adolescente, che potrebbe essere sua. Lui però non ha il coraggio di rivelarlo alla moglie. Ma anche una seconda notizia è destinata a portare dolore. Futura e Patrick sono da anni gli amici di penna di Luis, detenuto in Alabama per un omicidio commesso quindici anni prima sotto l’effetto di stupefacenti e condannato a morte. Ora l’iter processuale è terminato e l’esecuzione è stata fissata proprio nel giorno in cui è previsto il termine della gravidanza di Futura. Solo Mac, un amico di Patrick e Futura, nonché personaggio pubblico, potrebbe avere qualche chance per ottenere la grazia per Luis, ma prima dovrà mettere da parte i propri pregiudizi.

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ELENA GENERO SANTORO

UN ERRORE DI GIOVENTÙ

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UN ERRORE DI GIOVENTÙ Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-677-6 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o perso-naggi viventi o realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.

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Dedicato a Martin “Eddie” Grossman

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1. Londra

«Hai misurato la pressione oggi?» domandò Patrick a Futura, prima ancora di salutarla, rincasando. Patrick era molto apprensivo. La prima gravidanza di sua moglie era finita con un cesareo d’urgenza in seguito a un’eclampsia e il fatto che sia madre che figlia fossero sopravvissute era stato un mero caso fortuito. E ora che lei era al termine della seconda gestazione, lui era intenzionato a non ripe-tere l’esperienza e tentava di tenere tutto sotto controllo. «Già due volte: centoquindici su settanta. Più di così!» rispose lei senza scomporsi, continuando a lavorare a maglia immersa nella sua poltrona. Ormai erano mesi che arginava l’ansia del consorte in molti modi. «E non ho il minimo accenno di mal di testa» puntualizzò per completezza di nar-razione. Patrick tirò un sospiro di sollievo. Allora si tolse il giaccone e le scarpe. Poi posò un bacio sulle labbra della moglie e uno sulla pancia, dopo essersi accucciato di fianco a lei. Evviva. Un altro giorno concluso con bilancio positivo. «Come va il golfino che stai realizzando?» «Bene, mi pare. Sono a buon punto. Conto di finire entro breve» rispose Futura, senza alzare lo sguardo. Patrick sorrise beato, guardandosi intorno. La sua mogliettina adorata. La loro deliziosa prima figlia. La loro casa nuova. Un’altra bambina in arrivo. E un buon lavoro. Finalmente tutto filava a dovere. Era tutto sotto control-lo. «A volte penso che siamo benedetti da Dio. È così favoloso, ora. Se Emma verrà al mondo senza problemi, dovremo veramente dire “Grazie” a Colui che sta lassù per tutto quello che abbiamo.» Futura smise di sferruzzare e alzò lo sguardo. «Sì, Dio va ringraziato, ovviamente. Ma, una volta tanto, non essere così modesto. Dio ci ha aiutato, ma anche noi abbiamo fatto la nostra parte. Abbiamo sempre rigato diritto. Quando eravamo studenti ci siamo impe-gnati, ci siamo dati da fare. Non ci siamo persi in festini, non abbiamo tra-scorso gli anni ubriachi, ma siamo arrivati in fretta all’obiettivo. Poi ab-biamo iniziato a lavorare, subito, in modo serio. E per quanto riguarda il nostro rapporto, non abbiamo mai permesso all’orgoglio di uccidere il no-stro amore. Quando siamo entrati in crisi, ci siamo sempre confrontati, non ci siamo lasciati attirare da soluzioni tanto facili quanto ingannevoli e, alla fine, ne siamo sempre venuti fuori. E che dire della tua malattia? Convivi

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con l’emofilia da quando sei nato, ogni volta che ti fai un graffio bisogna attuare una procedura. Ma non ti scoraggi e cerchi di non farmelo pesare, perché sei risoluto e ammirevole e io non potrei desiderare nulla di più nel-la vita che un uomo come te. Dunque se adesso abbiamo creato un angolo di felicità tutto nostro, possiamo pure prenderci un po’ di merito. Diciamo-lo: siamo stati bravi. Fortunati, benedetti da Dio, ma pure bravi. Ti pare?» Patrick ci pensò un attimo su. Forse Futura non aveva tutti i torti. In fondo si miete ciò che si semina ed entrambi avevano consacrato la loro esistenza a una condotta seria e scrupolosa. Il loro matrimonio aveva superato alcuni momenti neri, ma poi il sereno era tornato, sia perché l’amore non si era mai sopito, sia grazie alle loro scelte oculate. Forse sua moglie aveva ra-gione, in effetti. Ciò che avevano costruito non era solo merito del caso, della buona sorte, ma anche della loro attitudine a una vita sana e ordinata. Quel pensiero gli parve rassicurante. Gli faceva supporre di avere un mi-glior margine di controllo della propria esistenza. Negli anni Patrick aveva imparato che quella padronanza non avrebbe mai potuto essere globale, che l’emofilia di quando in quando gli avrebbe sempre giocato qualche brutto tiro, ma ora tutto ciò lo turbava meno. Ciò che contava erano gli affetti e quelli li aveva costruiti su solide basi. Amava la sua sposa, con tutto il cuo-re ed era contraccambiato. Non l’aveva mai tradita, e non intendeva farlo. Adorava la sua primogenita e presto sarebbe diventato di nuovo padre. Non desiderava nulla di più di ciò che aveva e si sentiva felice.

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2. Londra

L’iniezione di fiducia che aveva appena somministrato a Patrick non ba-stava tuttavia a placare le proprie ansie inespresse. Era vero, si erano mossi bene, fino a quel momento, perché non riconoscerlo? Perché non valorizza-re quanto di buono c’era stato affinché pure suo marito, sempre in pena per quella gravidanza, non avesse uno spunto per trarre soddisfazione? Ma aver fatto scelte fin lì azzeccate, per lo più, non significava essere immuni dal rischio di compiere passi falsi per l’avvenire prossimo. Perché se Pa-trick si angosciava per la fisiologia di quella seconda gestazione, Futura non riusciva a evitare di porsi domande sul dopo, sul post parto. E le sue premure avevano prevalentemente una protagonista: la primogeni-ta Marina. Cosa sarebbe accaduto dopo che Emma avesse visto la luce? Sarebbe stata gelosa la sua piccola principessa? Si sarebbe sentita messa da parte? Il rapporto che Futura aveva con la prima figlia era stato fino a quel momento esclusivo, simbiotico. Sarebbe continuato così? Oppure la secon-dogenita avrebbe sconvolto tutti gli equilibri? E lei, come madre, che a-vrebbe potuto fare? Questi pensieri la tormentavano. L’idea di non riuscire a calibrare il suo amore in modo equo tra la prole la impensieriva. Come se la sarebbe cava-ta? Ogni tanto ne parlava anche con suo marito, ma lui non pareva preoc-cupato affatto. Le dava una carezza tenera su una guancia e la rassicurava dicendo: «Sarai bravissima, come sempre. Riuscirai a gestire tutto alla grande!» E lei si macerava più di prima, gravata ulteriormente dalle aspettative del consorte. E poi c’era Patrick. Il loro rapporto andava bene e lei era ancora pienamen-te innamorata di lui. Tanto più ora che stava per renderlo padre per la se-conda volta. Eppure sui rapporti a due, in generale, lei non avrebbe mai posto le mani sul fuoco. Troppi matrimoni o convivenze erano terminati intorno a loro e ciò le metteva addosso un velo di inquietudine. Pazienza per Giovanni, il suo timido e allampanato fratellastro. Si era lega-to a Manuela, viziata e capricciosa, e la chiusura della loro relazione non aveva sorpreso nessuno. Era stata soltanto la cronaca di un disastro annun-ciato. Ma che dire di Elettra e della fine della sua storia con Ted? Elettra, sua coetanea, era ufficialmente la sua migliore amica da più di due lustri e, dettaglio non trascurabile, pur non essendo sua parente di sangue, condivideva con lei due fratellastri: Giovanni, appunto, il maggiore e Iago,

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il più piccolo. Quella situazione le faceva considerare la sua confidente un po’ come una sorella. La loro frequentazione, per la verità, non era stata molto assidua negli ul-timi anni, perché subito dopo il diploma Elettra si era trasferita negli Stati Uniti per studiare, ma una volta là aveva conosciuto Ted Crawford, un o-riundo nero di dimensioni stratosferiche con cui aveva iniziato una convi-venza e, dunque, era rimasta nei pressi di New York dove aveva pure mes-so al mondo una bambina, Cindy. Solo raramente rientrava in Italia per qualche vacanza estiva o natalizia, generalmente invece restava nella sua Grande Mela e si faceva sentire tra-mite Skype. Il rapporto tra Elettra e Ted per lungo periodo era stato per Futura croce e delizia. Delizia perché lei era contenta per la nuova vita della sua amica. Croce perché le aveva fisicamente sottratto la sua compagna di mille av-venture. Ma, soprattutto, Futura ammirava Elettra. Prendere casa in una nazione così lontana e diversa da quella d’origine, costruirsi un’esistenza fuori da-gli schemi, vivere con un ragazzo di colore in un mondo pieno di pregiudi-zi, non era da tutti. Tra le due, che appunto avevano la stessa età, la più matura era sempre stata Elettra. C’era stato un tempo, poco oltre l’adolescenza, in cui Futura grassoccia, complessata, insicura, dal look non molto femminile, dubitava che avrebbe mai trovato un fidanzato. E mentre lei trascorreva i giorni a coltivare la propria sfiducia, quell’altra, senza chiedere il permesso a nessuno, aveva iniziato la sua vita da adulta respon-sabile. Anche al momento di procreare, Elettra era restata incinta per prima. Futu-ra continuava a rimanere l’eterna seconda e una parte di lei pativa sempre quel paragone. E pensare che Elettra non era particolarmente bella. Era stata carina, bion-da, ricciolina, con gli occhi chiari, all’epoca del liceo. Ma poi, una volta approdata in America, era ingrassata orribilmente e non accennava a dima-grire. Non era mai stata neppure una femme fatale. Aveva sempre avuto un look abbastanza sportivo, informale. Da ragazzina non era formosa, ma anzi, piuttosto piatta sul davanti. Ora che era obesa, era anche sufficiente-mente massiccia da continuare a nascondere le curve. Eppure era un tipo che piaceva. Aveva modi spicci e un senso pratico che le persone – Futura compresa – percepivano come rassicurante. Quando c’era Elettra, sicuramente sarebbe saltata fuori una soluzione. Per questo Futura le raccontava sempre tutto. Tuttavia, a una persona così assennata e giudiziosa, ora era accaduto di separarsi, pur con una bimba piccola. Cosa poteva essere successo? Su Skype Elettra non si era dilungata molto. Aveva lasciato intendere però che Ted fosse uscito di testa, che fosse sclerato e che la soffocasse con la pro-pria gelosia.

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Qualunque cosa fosse accaduta, a ogni modo, Futura l’avrebbe approfondi-ta presto. Elettra stava per raggiungerla a Londra con la piccola Cindy, per starle vicino prima del parto e per godere di una pausa di riflessione, in tutta tranquillità. E lei ne era felice.

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3. Torino

Rompere un matrimonio non era affare semplice e neppure immediato. Lasciarsi dopo aver convissuto per più di un anno non era facile. Anche se la ex moglie in questione era una persona assolutamente inadatta a condi-videre il resto della vita con l’interessato. Lei rimaneva pur sempre il so-gno infranto che perseguitava Giovanni tutte le notti. E pensare che era stato proprio lui a volere quella separazione, a decidere di dare un taglio netto alla loro relazione sbilenca. Manuela non l’avrebbe mai fatto. Avrebbe seguitato a metterlo in croce in eterno, ma non avrebbe mai rinunciato al suo status di donna sposata. Ed era proprio questo che aveva mandato in crisi il povero Giovanni: sua moglie amava le proprie ambizioni più di quanto amasse lui e inseguiva i propri desideri di gloria a discapito di tutto il resto. Non lo faceva apposta, in verità. Manuela aveva un cuore puro, in fondo. Non si accorgeva nemmeno del proprio egocentri-smo. Di fatto però, se stava inseguendo un obiettivo personale, il che capi-tava di continuo, tutto il resto passava in secondo piano, compreso il pro-prio marito. E perciò Giovanni aveva incartato le sue quattro cianfrusaglie e se n’era andato, pur a malincuore. Perché in verità non avrebbe voluto mai farlo. Lui era innamorato di Manuela. Era stata proprio la grande determinazione di lei a incantarlo, la sua enorme volontà di ottenere tutto quello che desi-derava. Pertanto lui, timido e imbranato dalla nascita, l’aveva sempre idea-lizzata, fin dall’inizio l’aveva ritenuta superiore a lui. Ma così facendo a-veva gettato le basi per il gigantesco equivoco di fondo che aveva sempre caratterizzato il loro rapporto: lui doveva trattarla come una regina, lei a-vrebbe passato il tempo a farsi ammirare senza curarsi delle necessità del consorte. Era sempre stato così, finché Giovanni aveva retto. Quando però era arrivato al punto in cui un po’ di sostegno da parte della moglie gli sa-rebbe stato di conforto, quel gigante d’argilla che era il loro matrimonio era crollato miseramente. Giovanni non ce l’aveva fatta. Non avrebbe potu-to essere sempre forte per entrambi. Perché Manuela era volitiva rispetto alle proprie ambizioni, ma non era il tipo di donna capace di essere di aiuto per qualcuno. Dunque Giovanni si era tirato indietro. Si era immaginato di lì a una decina d’anni infelice e insoddisfatto, carente d’amore. Lui voleva qualcuno che gli volesse bene, voleva una compagna che si prendesse cura di lui e Ma-nuela non avrebbe mai imparato a farlo.

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Però lasciarsi tutto alle spalle non era facile. Intanto la quotidianità fino a quel momento condivisa, per quanto misera e trascurata (Manuela non a-veva mai perso tempo a cucinare per lui) gli mancavano più di quanto lui si sarebbe mai immaginato. Svegliarsi al mattino da solo, nel nuovo monolo-cale – una topaia che aveva preso in affitto per trecento euro al mese – gli pesava come un macigno. Cenare davanti alla tv a base di scatolette – una di carne in gelatina, una di insalata di farro e tonno e, gran finale, una di piselli riscaldati nel microonde, et voilà, il pasto era servito – proprio lui che era cresciuto in un agriturismo gestito dalla madre, proprio lui che era stato allevato secondo i sacri crismi dello slow food, era uno degli aspetti più deprimenti di tutta la faccenda. Perché per quanto le performance culi-narie di Manuela fossero scarse – lei ci aveva sempre tenuto un sacco alla linea – un’insalata scondita e una pasta in bianco condivise erano sempre meglio di una zuppa di ceci precotta acquistata nel minimarket che, sotto casa sua, lo riforniva quotidianamente a prezzi astronomici. In pratica Giovanni soffriva per quella nuova solitudine. Lui che era sem-pre stato un tipo silenzioso, solitario, introverso, ora che si era abituato ad avere una compagna, trovava pesantissimo quel nuovo isolamento. Se al-meno avesse avuto degli amici, se fosse stato avvezzo a uscire la sera, a inventarsi diversivi o tentare attività nuove. Invece, depresso e spento com’era, non faceva che starsene rintanato in casa a mugugnare, sentendosi senza risorse e senza scampo. Probabilmente sarebbe invecchiato così: tri-ste e solo, e la prospettiva non lo allettava. E, tuttavia, c’era un altro motivo per cui voltare pagina gli veniva per lo meno difficile: Manuela lo chiamava tutti i giorni, o quasi. Lei non aveva affatto accettato quella nuova situazione, anzi, pareva non averla neppure presa sul serio. E lui, quando il cellulare squillava, non riusciva a non ri-spondere.

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4. Los Angeles

Prima o poi capitava a tutti, o quasi. E questa volta era toccato a lui. L’ultimo film che aveva girato nel ruolo di protagonista era stato un flop pazzesco. Peggio che un flop, anzi, una vera tragedia. Flop sarebbe stato un lungometraggio poco remunerativo ai botteghini. Ma il suo era qualcosa di più, era proprio un disastro. Uno dei peggiori film dell’ultimo anno, uno di quelli da record negativi. Le critiche feroci in merito si sprecavano e già si parlava di Razzie Awards. Perché quando si ha a che fare con storie di a-lieni bisogna stare estremamente attenti. Possono uscire fuori dei veri ca-polavori, ma anche delle boiate che rasentano il ridicolo. E “Invasion”, indubbiamente, apparteneva alla seconda categoria. Prima o poi capitava a tutti, ma ora che era accaduto a lui, gli bruciava da pazzi. E così Mac vagava per la stanza dell’appartamento che condivideva con Connie nervoso come una belva in gabbia. Continuava a rigirarsi tra le mani quei rotocalchi che tracciavano giudizi impietosi e gli pareva che bruciassero come patate bollenti. Obiettivamente lui non era abituato a tan-te opinioni negative tutte insieme. La sua carriera stava procedendo bene e lui era all’apice del successo. Fino a quel momento aveva sempre azzecca-to tutto. Tutti i film in cui era comparso avevano ottenuto un buon riscon-tro. Anche quella commedia romantica stucchevole, “Una casa per Mag-gie”, su cui aveva avuto mille remore, era stata valutata positivamente sia dagli esperti del settore, sia dal grande pubblico. Invece “Invasion” era parso tanto inverosimile da sfiorare l’assurdità, la trama non aveva né una coerenza, né una logica e certi passaggi erano sembrati persino ingenui. Insomma, quella pellicola era un vero capolavoro di comicità involontaria. Sarebbe passata alla storia per le ragioni meno desiderabili. E lui, Julian MacInnes, in arte Julian MacGregor, Mac per gli amici, ancora si doman-dava come avesse potuto lasciarsi coinvolgere in cotanto orrore. Ora il suo faccione compariva ridicolamente su tutti i manifesti che reclamizzavano la prima visione e lui voleva morire per l’imbarazzo. Ma come era iniziata quella storia? Cosa gli era piaciuto di quel copione? Perché c’era stato un momento in cui quell’ingaggio gli era parso buono al punto di accettare la parte? E dire che Mac selezionava personalmente e con cura ogni possibile lavoro. La sua carriera era all’apice, lui era un atto-re ricercato. Non aveva necessità di elemosinare ruoli in film di secondo ordine. Lui poteva scegliere il meglio. Eppure era finito in quel casino. A quali altre partecipazioni aveva rinunciato per seguire quel progetto? Cercò di fare un conto mentale delle ultime proposte ricevute. Aveva rifiutato la

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parte di un politico omosessuale morto negli anni sessanta lottando per i diritti civili in una produzione incentrata sulla sua vita. Mac era etero e l’idea di impersonare un effemminato non era nelle sue corde. L’eroe nei film di azione gli si confaceva meglio. E pensare che un attore dovrebbe cimentarsi in ogni tipo di personaggio. Magari con quel paladino gay a-vrebbe fraternizzato più di quanto aveva supposto. Ma ormai era andata. E, tra l’altro, quel film storico ora stava sbancando al botteghino. Poi c’era stata un'altra proposta per uno di quei fanta-fumettoni dove realtà e mondo onirico parallelo si confondevano dal primo all’ultimo fotogram-ma, sul genere di Matrix. Ma lui aveva ipotizzato che un Matrix solo, con i suoi sequel, fosse più che sufficiente e aveva declinato. Sarebbe stato tre-mendo proporre la copia di un’altra opera. Invece, per quanto sapesse di déjà vu, anche quel film era stato un trionfo. E poi a che altro aveva detto no? A una commedia sentimentale in cui a-vrebbe dovuto recitare insieme a un’attrice che era pure una sua vecchia fiamma e baciarla spesso. Perché aveva declinato? Posto che il romantici-smo in genere non gli andava a genio, Connie, che era la sua ragazza non-ché la sua agente, gli aveva sconsigliato di accettare. E ora quel polpettone melenso si difendeva piuttosto bene nelle sale. Invece “Invasion” era un disastro, un cataclisma, una vera catastrofe. Se andava avanti così rischiava di essere eliminato prematuramente dai cine-ma. Il che forse poteva non essere un male, almeno tutti lo avrebbero di-menticato in fretta. E pensare che era stato proprio un altro film sugli alieni, “New War of In-dependence”, a lanciarlo nel firmamento delle stelle di Hollywood, solo qualche anno prima. Quell’opera era stata proiettata in tutto il mondo, con un successo globale. Tutti avevano amato e apprezzato “New War of Inde-pendence”. Bella la trama, favolosi gli effetti speciali, ottimi i dialoghi. Tanto che c’erano state persino delle nomination all’Oscar, per la regia e per la sceneggiatura. E adesso “Invasion”, invece, rischiava di segargli la carriera. Il primo dubbio su quella produzione gli era venuto al momento del ciak d’inizio. C’era meno organizzazione di quanto lui si sarebbe aspettato e persino le scene più d’effetto erano state congeniate badando a non spende-re nemmeno un dollaro più del dovuto. A un certo punto Mac era stato per-sino tentato di rescindere il contratto, qualcosa non stava funzionando a dovere, ma poi aveva tenuto duro, anche incoraggiato da Connie, dicendosi che, alla fine di tutto, al momento del montaggio, sarebbe stato concesso il giusto risalto ai momenti cruciali della narrazione. Invece, al dunque, una serie di scene erano state tagliate, così la trama presentava incoerenze e lacune. Insomma, tutto ciò che si poteva fare per rendere grottesco quel dannato lungometraggio era stato fatto. E ora Mac piangeva sul risultato finale.

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«Non ti abbattere così» gli disse Connie, tentando di posargli una mano sulla spalla. «Sono incidenti che capitano. Ora dobbiamo pensare al pros-simo film. E poi devi considerare che i media non si sono scagliati contro di te: la tua recitazione ha ricevuto ugualmente una valutazione positiva!» «Lasciami stare» scattò lui, intrattabile e sgarbato. «Non sai quello che stai dicendo. Ora esco. In questo buco di casa non ci resisto un momento di più.» Mac uscì sbattendo la porta e lasciando la povera Connie basita e amareg-giata.

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5. Cristini

La storia con Fabiana non l’aveva iniziata lui. Era stata lei a farsi avanti, con una certa veemenza, per non dire con prepotenza. Era stata lei a inse-guirlo nel fracasso della discoteca, a stargli appresso, a invitarlo a ballare tra le luci psichedeliche. Gli aveva scritto il suo numero sull’avambraccio e, urlando per farsi sentire, aveva preteso altrettanto. Poi, però, non aveva atteso che lui la cercasse. Si era fatta viva già il giorno dopo, nel primo pomeriggio, per chiedergli se gli andava di vedersi, più tardi. Una cosa decisamente più tranquilla, un gelato all’Agrisapori di Pralormo, solo loro due, dove avrebbero chiacchierato un po’ tra un sorso di frappè e l’altro. Era stato allora che Iago aveva iniziato a osservarla realmente. Fabiana era graziosa, con i capelli castani, lisci, lunghi con un taglio sfilato. Gli occhi erano pure castani e la pelle chiara. Esteticamente, dunque, nulla da ridire. E comunque era simpatica, aveva un piglio allegro, forse anche troppo, forse persino un po’ sopra le righe, ma quel giorno lei aveva parlato un sacco, gli aveva raccontato un mare di cose, e Iago era rimasto ad ascoltar-la quasi in silenzio. La notte precedente, dopo la discoteca, per riuscire a prendere sonno, con le canne ci era andato giù un po’ pesante, e adesso doveva ancora smaltire. Poi non avrebbe saputo dirlo nemmeno lui com’era cominciata. Fabiana lo invitava e lui la assecondava. Non trovava ragioni valide per declinare. Probabilmente perché non ce n’erano. E così, alla fine, si erano messi in-sieme. A un certo punto, dopo l’ennesimo bacio, in un pomeriggio sulla collina di Torino, dalla basilica di Superga dove si vedeva tutta la città lei gli aveva chiesto: «Senti, ma come rimaniamo allora? Siamo insieme o no?» Lui si era domandato se avrebbe potuto rifiutare. Se dopo che si erano visti regolarmente nelle ultime due settimane, se dopo che si erano assaggiati a vicenda per bene in macchina, se dopo l’ennesimo giro in moto in cui lei gli si era avvinghiata addosso, avrebbe avuto senso dire di no. Non erano insieme, erano solo usciti un po’ di volte, perché Fabiana lo aveva braccato e a lui, che era single da qualche mese, un po’ di calore femminile non era dispiaciuto per niente. Ma ciò non significava che fosse iniziata una storia. Ciò non implicava alcun impegno da parte sua. «Beh, sì, direi di sì…» aveva risposto, senza guardarla negli occhi, ma gio-cherellando titubante con le mani che lei aveva intrecciato alle sue.

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«Sì!» aveva esultato lei, con l’entusiasmo tipico dei vent’anni, saltandogli al collo con un abbraccio festoso, mentre lui era rimasto rigido come un salame a valutare in quale nuovo casino si fosse appena cacciato. Nell’immediato futuro ebbe da ricredersi. Quella semplice parola: “Insie-me”, aveva indotto Fabiana a concedergli una disponibilità del tutto nuova. Fino a quel momento infatti, non avevano ancora avuto un rapporto com-pleto, lei non gli aveva permesso di scendere più di tanto, gli aveva accor-dato giusto qualche palpatina. Era una tipa seria, lei. Ma dopo quella specie di promessa estorta, dopo quell’“Insieme”, avevano fatto finalmente l’amore. Per un po’ tutto era filato liscio. Iago aveva apprezzato e assaporato le gioie di avere una ragazza, anche se la tizia in questione non se l’era scelta lui, inizialmente, e anche se si era trovato invischiato in una storia di cui si sentiva quasi uno spettatore esterno. Pian piano, però, si era affezionato a lei, così carina, così dolce, così affet-tuosa. Ma poi, dopo un po’, qualcosa era cambiato e la verità era emersa in tutta la sua sgradevolezza. Fabiana era una fidanzata gelosa.

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6. Londra

«Ma stai benissimo! Fatti guardare!» aveva esordito Elettra, riferita a Futu-ra, una volta entrata in casa. «Che bella pancia e tu, amore mio, sei una meraviglia!» Più tardi Futura avrebbe ripensato a quell’affermazione che suonava come un complimento e che era proseguita con un: «Io invece ho una faccia devastata, ho gli occhi sempre segnati, queste bor-se non se ne vogliono andare. È colpa di tutto lo stress che ho addosso e che non passa, proprio non mi molla. La verità è che sono davvero sclerata, questa separazione mi ha distrutta, guardami, non sono più io.» Futura l’aveva osservata e, lì per lì, non aveva notato nulla di diverso, solo un’aria leggermente più stanca del normale, colpa anche del jet lag. I chili di Elettra c’erano ancora tutti, evidentemente la fine della sua storia d’amore l’aveva esaurita, ma non abbastanza da farle perdere del peso. Però, in effetti, qualcosa era cambiato. Elettra aveva voglia di parlare, di confidarsi, e ne aveva molta più di quanta ne avesse mai mostrata prima di allora. Tanto era stata sintetica e sbrigativa su Skype nei giorni, nei mesi e negli anni precedenti, quanto adesso, al contrario, non riusciva più a conte-nersi. E ovviamente ce l’aveva con Ted. Quel Ted che solo fino a qualche mese prima era sempre stato oggetto di elogio sperticato. Dunque pareva che Elettra non stesse neppure parlando della stessa persona. Com’era possibile che quell’uomo che era un amore, una favola, così premuroso, così gentile, così delicato, così simpatico fosse diventato improvvisamente un fuori di testa allucinante che la soffocava e che non la lasciava vivere? Cosa era successo nel frattempo? Futura non se lo spiegava. Eppure, se Elettra faceva certe affermazioni, sicuramente sapeva di che parlava, in quell’appartamento di New York ci aveva ben vissuto lei e nessun altro. Dunque andava ascoltata e non giudi-cata. E Futura, come amica, non voleva esimersi dal suo compito di sup-porto in quel momento tanto delicato. In cambio riceveva una poderosa mano in casa. Perché Elettra era energica e riusciva a lavare i piatti e con-temporaneamente coordinare un gioco tra Marina e Cindy. «Chi l’avrebbe mai detto, dieci anni fa, che le nostre figlie avrebbero parla-to tra di loro in inglese?» commentava intanto. Nel frattempo Futura seguitava a lavorare a maglia, a godersi la pancia e a osservare la sua amica del cuore, con un misto di ammirazione e appren-

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sione. Elettra che reagiva con vigore ai casi sfortunati della vita. Elettra che aveva bisogno di sfogare anni e anni di frustrazione repressa. Ed era proprio all’ora di cena che di solito dava il meglio di sé. Dopo aver apparecchiato per tutti e nutrito entrambe le bambine, dopo essersi assicu-rata il suo pubblico, iniziava lo show più o meno alla stessa maniera tutte le sere. Attaccava con una rimostranza acida, tipo: «Questo era un piatto che a Ted non piaceva per niente.» Poi aggiungeva puntuale: «Ah, ma non ho proprio voglia di parlarne.» E un attimo dopo, in piena contraddizione con un tale esordio, partiva la filippica: «E io per anni ho rinunciato persino a mangiare ciò che mi piaceva, pur di far contento lui. Ho completamente imbarbarito il mio modo di cucinare. Perché gli americani proprio non hanno alcuna forma di cultura riguardo al cibo. Sono veramente dei selvaggi. Non hanno la più pallida idea di cosa sia la qualità degli alimenti. Loro friggono tutto nei grassi più schifosi e quello per loro è l’unico modo di rendere saporito un piatto. Sono degli orrendi barbari. Ora chissà quanto ci metterò a rieducare mia figlia a dei gusti più raffinati. Lei è abituata a trangugiare schifezze immonde.» A quel punto Patrick lanciava un’occhiata perplessa a Futura e poi azzar-dava un commento: «Stai dicendo che Ted ti vietava di cucinare all’italiana?» ciò a lui pareva strano. Quantomeno perché gli americani, in genere, apprezzavano la cuci-na italiana e tentavano di imitarla in ogni modo. «Sì» piagnucolava Elettra, stizzita. «Ted era soffocante. Ted era un despo-ta. Ted ha passato anni e anni a limitare la mia creatività, a cassare ogni mia forma di individualità, prima in modo velato, poi sempre più spudora-tamente e pesantemente. Perché, per dirla tutta, Ted era geloso della mia indipendenza e ha sempre cercato di farmi terra bruciata intorno. Nel tem-po non ha fatto che peggiorare. Ora sono veramente esasperata» conclude-va, sempre alla solita maniera, sotto lo sguardo condiscendente e preoccu-pato di Futura e quello più scettico e incredulo di Patrick.

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7. Los Angeles

Quando Mac rientrò, sfatto e spettinato, Connie gli corse incontro: «Tesoro, dove eri finito?» «Ho fatto un giro… Dovevo scaricare i nervi. Ma è stato ancora peggio. Sull’autobus c’erano due ragazzi che leggevano un rotocalco e ghignavano come pazzi sparlando di “Invasion”. Che umiliazione. Menomale che non mi hanno riconosciuto» disse togliendosi il berretto che teneva calato sulla fronte e gli occhiali scuri che usualmente adoperava per girare inosservato. «Tu non hai idea di che cosa significhi essere protagonisti di un tale sface-lo. Ancora mi domando come sia potuto avvenire. Ora la mia carriera è finita.» «Oh, che esagerazione. La tua carriera non è affatto finita. A un sacco di attori famosi è capitato ciò che è accaduto adesso a te e non sono morti, né hanno finito di lavorare. Pensa a John Travolta: famoso, brillante, invidia-to. Eppure era nel cast di quel film tremendo sugli extraterrestri…» «Ecco, appunto, maledetti extraterrestri… Portano sfiga.» «… ma non ha smesso di recitare per questo. Anzi, anche un Razzie Award può portare bene, per il futuro. Basta che se ne parli, no?» disse lei, bona-ria. Mac socchiuse gli occhi, rabbioso: «Tu veramente non ti rendi conto, vero?» Connie tentò di tenere duro: «Sono sicura che tra un po’ di tempo ci riderai su.» «Riderci su? Tu sei completamente suonata!» aggiunse lui, tirando un cal-cio a una sedia. «Mi ci vuole ben altro.» Connie giocò l’ultima carta: «E allora inizia a pianificare il prossimo progetto. Guardati intorno, cerca qualcosa di nuovo su cui concentrarti. Mi hanno spedito un copione. Per-ché non gli diamo un’occhiata?» suggerì, tentando di essere conciliante. Mac la guardò con cattiveria: «Io gli do un’occhiata. D’ora in poi sceglierò accuratamente e personal-mente ogni mia partecipazione.» Lei lo osservò per un momento, mal celando la delusione: «E io allora? A che ti servo?» «Hai già fatto abbastanza, Connie. Limitati a organizzarmi gli eventi e non darmi più consigli sulle mie scelte professionali.»

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A quel punto anche lei si risentì: «Stai insinuando che questo flop sia tutta colpa mia? Che sia stata io a spingerti verso un lavoro destinato al fallimento?» Lui non rispose, ma abbassò gli occhi e andò a chiudersi in bagno.

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8. Torino

Eccolo di nuovo. Il cellulare stava suonando e dall’altro capo c’era Manue-la. Giovanni se lo rigirava tra le dita e non sapeva che fare. Era sicuro che lei non avesse nulla di importante né di urgente da dirgli. Lo avrebbe solo intrattenuto con chiacchiere amene, come se fosse stato un suo vecchio amico. Lo avrebbe intortato con qualche pretesto stupido. Non c’era una ragione per cui sua moglie si dovesse far sentire. Semplicemente non vole-va troncare con lui, non voleva accettare che la loro storia fosse finita. Non voleva dargliela vinta. Però lui, in effetti, non aveva di meglio da fare. E, comunque, si sentiva dannatamente solo. In effetti, quella separazione era difficile da digerire pure per lui. Così, alla fine, rispose. «Pronto?» biascicò. «Ehi, ciao!» fece lei, ciarliera e allegra. «Come stai?» «Non c’è male. E tu, Manu?» «Oh, bene, sì. Cosa stavi facendo di bello?» Giovanni ci pensò su un attimo. Cosa stava facendo? Perdeva tempo alla Playstation. «Riordinavo un po’. Mettevo a posto le carte. Sai, per l’ufficio.» «Ah, certo, l’ufficio. Sai, Nadia sta riorganizzando tutto lo studio, ultima-mente. Dopo che si è liberata di Paolo sono cambiate molte cose, non so dirti se in meglio o in peggio. Sta di fatto che le giornate sono stressanti, al mattino mi alzo prestissimo. E poi non ho nemmeno un momento per pran-zare come si deve…» Andò avanti per un quarto d’ora buono a narrare la sua routine quotidiana, come se si fosse trattato di una novità. Giovanni rimase ad ascoltarla senza aprire bocca. Manuela la chiacchierona. Manuela l’entusiasta. Manuela la ragazza di cui si era innamorato. Per un attimo gli sembrò che tutto fosse tornato come prima. «… e quindi dovresti proprio vedere che fatica fa Monica a barcamenarsi tra i documenti, ultimamente.» Seguì una pausa. «Senti, Giò, pensavo… Perché non ci vediamo una volta? Ci prendiamo un cappuccino, un aperitivo, magari in settimana. Se vuoi potresti passare dal mio studio per pranzo e ci mangeremmo un boccone insieme.» A Giovanni venne in mente di quando lavoravano nello studio del padre di lei e condividevano l’insalata. Fu trafitto dalla nostalgia.

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«Oppure andiamo al cinema. C’è quel film di alieni…» «Non vorrai per caso andare a vedere “Invasion”? Non sarebbe molto cari-no passare una serata in compagnia del tuo ex.» Mac, il protagonista, aveva avuto un flirt con Manuela un’estate di qualche anno prima. «No, non intendevo quello!» rettificò lei, che in realtà non ci aveva nean-che pensato. «E comunque non me ne hanno neppure parlato bene.» «Ma tanto, che importa ormai? Julian MacGregor non è certo un mio pro-blema. E in ogni caso non sono sicuro che incontrarci sarebbe una gran furbata. Forse è meglio che lasciamo le cose così.» «E dai, Giò, cosa vuoi che sia? Mi fa piacere se ci vediamo. Una cena. Un caffè. Quello che preferisci tu. Così parliamo un po’.» Giovanni rimase per un attimo titubante. Manuela era la causa della sua sofferenza e ora gli chiedeva un appuntamento. Incontrarsi sarebbe stato pericoloso. Avrebbe riaperto ferite. Ma in fondo cosa aveva da perdere? Anche a lui avrebbe fatto piacere. Si sentiva così solo, così senza speranza. Perché lei era il motivo del suo disagio, ma anche l’unica persona che a-vrebbe potuto lenire il suo dolore. «Okay» sospirò. «Decidi tu dove e quando. Per me va tutto bene.»

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9. Londra

Futura, seduta sul letto, con le gambe già sotto il piumone e pronta per mettersi a dormire, osservava Patrick che, con un’espressione dubbiosa dipinta sul volto, si spogliava e si infilava il pigiama. «A che pensi?» gli domandò. «A Elettra. Anche questa sera ci ha fornito un elenco di lamentele su Ted. Un po’ ripetitive, per essere onesti. E se posso dirti quello che credo…» «Poverina» la compatì lei, immediatamente, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro. «Deve essere dura chiudere una storia durata tanti anni» continuò con rammarico. Lui le si sedette di fianco, sopra le coperte e si stropicciò gli occhi con due dita, pensieroso. Si stava chiedendo se c’era un modo non polemico né aggressivo per esprimere il concetto, perché sapeva quanto la moglie te-nesse all’amica. «È che mi sembra tutto così strano… surreale, direi» azzardò. «Oh, già, anche a me non pare neppure vero che Elettra e Ted si siano la-sciati…» Patrick, alla fine, tentò di arrivare al dunque: «Ma, insomma, per quanto hanno convissuto quei due? Saranno dieci anni che stanno insieme? Ed Elettra si accorge solo adesso dei gusti alimentari di Ted, o di quanto possa essere oppressivo? Se ne rende conto ora, dopo averci fatto una figlia?» Futura sbatté le palpebre: «Beh, ma lei te lo ha pure spiegato. Lui è sempre stato così, in una certa misura, ma nell’ultimo periodo è cambiato, i suoi difetti si sono accentuati e la relazione è diventata invivibile.» Patrick sospirò, perplesso: «Sarà come dici. Eppure ci sono conti che non mi tornano. Il modo in cui lei descrive Ted non mi quadra. Non è così che io me lo ricordo.» «Mah, che vuoi, alcuni aspetti della sua personalità probabilmente li cono-sce meglio lei, non credi? Certi dettagli, peraltro, emergono solo nella vita privata di una coppia, non certo di fronte agli amici… Che ne sappiamo noi che dietro a quella faccia sorridente e allegra non si nascondesse un indivi-duo pedante fino alla nausea?» «Sì, può darsi. Ma se davvero Ted è diventato così insopportabile, quale è stata la causa? Elettra a cosa imputa questo cambiamento? Uno non si sve-glia psicopatico un mattino, se non gli è capitato qualcosa nel frattempo. Che ne so, stress sul lavoro. Oppure qualche problema in famiglia. La na-

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scita di Cindy, tanto per dire. Cioè, che cosa lo ha portato a questo peggio-ramento improvviso? Due lustri di routine? La tua amica ha fornito una spiegazione in merito?» «No» Futura storse il naso, indignata. «Non ha analizzato in mia presenza le possibili cause della mutazione. E non è neppure tenuta a farlo. Non de-ve di certo giustificarsi con me. Se lei mi dice che Ted è diventato insoste-nibile da un giorno all’altro, io le credo e non ho motivi per dubitare di ciò che mi dice.» «Allora lui che ha visto? È impazzito?» «Può darsi. Perché no?» «E questo che significa? Che anche noi possiamo uscire di testa e da un giorno all’altro giungere alla separazione?» domandò Patrick con una spe-cie di sgomento. Futura a quel punto si intenerì: «Ah, ora capisco» gli disse accarezzandogli il viso. «Tu temi che la stessa cosa possa accadere a noi. Ma non capiterà. Rassicura pure la tua smania di voler controllare sempre tutto…» «Perché? Quali sono le garanzie?» mugugnò lui, con sconforto. «Cosa mi assicura che anche tu, tra qualche anno, non inizierai a trovare le mie pa-turnie insopportabili? Perché, se posso dire la verità, io temo che alla tua amica sia successo solo questo: si è disinnamorata. Magari non è Ted che è diverso: è lei quella che ha iniziato a percepire in modo differente i suoi atteggiamenti. In fondo che sta facendo Elettra in questo momento? Sta sparlando di lui in continuazione. Spende l’intera giornata a diffamarlo. Ma non sento rammarico per la storia finita, in ciò che lei dice. Non ci sono frasi di rimpianto, o di dispiacere. E, inoltre, dimmi, che ha fatto per tenta-re di capirlo, quando lui è “impazzito” per così dire? Ha cercato di recupe-rare il loro rapporto?» «Patrick, mio Dio, non lo so! Come possiamo noi giudicare, da fuori? Elet-tra sta male e io la ascolto. Tutto qua.» «Elettra non sta così male, secondo me. Non si sta struggendo per la sepa-razione, per il senso di sconfitta che di solito ne deriva, per l’idea di dover ricominciare una nuova vita. Elettra mi sembra solo stizzita e inoltre sta giocando scientemente a mettere in cattiva luce Ted di fronte a noi.» «Adesso esageri.» «E, cosa ancora più grave, lo fa pure di fronte a sua figlia!» «Ma Cindy è ancora piccola, non capisce!» tentò di giustificarla lei. «Non importa. È una cosa che non si fa.» Futura lo guardò perplessa. «Proprio non ti piace Elettra, di questi tempi, vero?» «Sinceramente? No. Non riesco ad apprezzarla per come si sta comportan-do.» «Tesoro, ognuno soffre nel proprio modo bislacco, lo sai. Ne abbiamo già parlato in altre occasioni. Ora questa situazione l’ha mandata fuori di testa,

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probabilmente. E non è inusuale reagire con rabbia verso il proprio compa-gno, dopo una separazione.» «Forse hai ragione tu. Forse è tutto nella norma. Magari non sono così pra-tico di separazioni e, sinceramente, spero di non diventarlo mai. Ma, non posso farci nulla, il suo atteggiamento non mi va giù. So che è la tua mi-gliore amica e non voglio certo fare incrinare i rapporti fra di voi, ci man-cherebbe. Ma anche Ted è, era un nostro amico e non riesco proprio a figu-rarmelo come il mostro che lei sta dipingendo. Mi dispiace. Questa situa-zione mi mette un po’ a disagio.» «Che cosa dovrei fare io, allora?» «Niente. Dimentica tutto ciò che ti ho detto» concluse lui, infilandosi sotto il piumone e circondando Futura con le braccia. «Comunque stai tranquillo» gli sussurrò lei, accarezzandogli un ciuffo di capelli ribelle che gli ricadeva sulle tempie. «Tra noi non finirà mai. Perché hai le tue paturnie, hai le tue insopportabili manie, sei decisamente worka-holic, ma un altro come te, così buono, onesto e responsabile, proprio non si trova. E non ti lascio di sicuro scappare, mio caro…» Dopo aver udito quelle parole confortanti, Patrick si addormentò felice.

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10. Torino

Iago cominciava a stufarsi. Promesse, promesse, promesse, un contratto preliminare siglato e poi il nulla. Julian MacGregor, l’attore di Hollywood amico di sua sorella Futura, aveva acquistato i diritti del thriller che lui aveva scritto per produrne un film. Ma da allora erano trascorsi mesi e non si era ancora visto niente. Il progetto era fermo e non c’erano prospettive. E pensare che lui ci contava proprio. Aveva in mente di abbandonare l’università di Lettere in cui bivaccava da due anni senza risultati, una vol-ta che il suo romanzo fosse diventato un successo, una volta che il suo no-me fosse uscito alla ribalta. Ma il problema era che all’orizzonte non si muoveva assolutamente nulla. E lui si sentiva come sospeso in un limbo. Era stato tentato di telefonare a Mac, ma Futura glielo aveva vivamente sconsigliato: «Non mettergli pressione, per carità. È un bruttissimo momento. Il suo ul-timo film, che doveva essere un successo mondiale, è stato un fiasco paz-zesco, pare, e lui è completamente sottosopra e intrattabile. E quando Mac è così, è meglio girargli alla larga il più possibile. Poi quando gli sarà pas-sato il periodo nero, verrà lui a cercarti. Lui è fatto così, è di umore altale-nante. È serio e professionale, è una persona fantastica, è un amico ecce-zionale, ma se ha la luna storta è insopportabile. Per cui, fatti furbo e arma-ti di pazienza. Rompergli la scatole può essere solo controproducente.» La parole di sua sorella continuavano a risuonargli nella testa, ma per quanto sensate non gli calmavano i nervi. Anzi, gli avevano messo addosso una tale furia da fargli segnare tre goal in quella partita di calcetto. Per tutta la sera aveva corso su e giù per il campetto con una frenesia pazzesca e ora, sudato e stanco, pregustava una bella doccia e, più tardi, un hot-dog e un boccale di birra con i suoi amici. Nonché una sontuosa canna prima di dormire. Stava giusto entrando nello spogliatoio quando il suo cellulare suonò. «Dove sei? Cosa stai facendo?» Era Fabiana. «Ciao Faby. Sono al calcetto, ho appena finito di giocare. Ora mi lavo» biascicò, come se si volesse giustificare. «Poi passi a trovarmi?» lo incalzò lei. «Non so, Faby, ma non credo. Devo andare a casa a studiare.» «Non è che esci con i tuoi amici? Non è che vai in giro per locali con Claudio?» insinuò lei, sospettosa. «Quello proprio non mi piace, non ci

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devi andare con lui. È un puttaniere di prima categoria. Devi stargli alla larga.» «No, tranquilla. Mi insapono, mi sciacquo, mi asciugo e poi filo a casa. Tra poche settimane ho un esame, te l’ho detto.» «Okay. Allora mi chiami quando arrivi?» «Sicuro» promise lui. «A dopo allora, amore. Magari ci vediamo domani sera. Baci baci.» Iago chiuse il telefono e si accorse che Claudio lo stava osservando: «Perché non la molli, quella?» gli domandò l’amico. «È veramente una rompicoglioni spaziale.» Lui ci pensò su un attimo. Claudio aveva indubbiamente ragione. Fabiana era opprimente. Ma anche Fabiana non aveva torto: Claudio, il suo amico d’infanzia, piccolo, minuto, con gli occhi azzurri e gli occhialini, era vera-mente un assatanato. Nel dubbio, Iago aveva preso a raccontare balle a entrambi. Lui che non aveva mai dovuto mentire a sua madre Ornella (la quale, sapendo di che pasta era fatto il suo ultimogenito, sgamava ogni sua malefatta con l’aria di chi non si aspetta nulla di diverso) ora con la sua ragazza e con il suo mi-gliore amico, per amor di quieto vivere, era diventato un bugiardo profes-sionista. Con Fabiana all’inizio era stato ingenuamente sincero. Alla domanda: «Vieni a trovarmi?» Aveva osato rispondere: «No, dai, ci vediamo domani, stasera vado a bermi una birra con quelli del circolo.» Era seguita una scenata pazzesca. Come osava lui anteporre gli amici a lei? Sicuramente c’era anche qualche ragazza nel gruppo. E, se non c’era, ci sarebbe stata presto. Claudio o qualcun altro avrebbe fatto saltar fuori dal cappello magico qualche sgualdrinella disponibile con cui trascorrere ame-namente la serata. Iago aveva provato a obiettare, a spiegare che si trattava solo di una uscita tra maschi, dove si sarebbe fatto a gara di rutti e scorregge. Ma lei non ci aveva creduto. Gli aveva rinfacciato di non tenere abbastanza a lei e gli aveva detto che avrebbero dovuto lasciarsi. E allora lui si era fatto furbo. Quella volta aveva rinunciato, per scongiurare una scenata isterica che era già ben avviata. Ma dalla successiva si era inventato di tutto. La scusa uffi-ciale era sempre lo studio. Di fronte agli occhi della sua ragazza, lui era uno studente modello. Con lei era arrivato a falsificare quel libretto univer-sitario che con Ornella non aveva mai dovuto fingere che contenesse qual-cosa di significativo. Sua madre continuava a lasciarlo cazzeggiare atten-dendo che il momento in cui quel disgraziato di suo figlio si fosse deciso a mollare quella farsa sarebbe arrivato spontaneamente. In tal modo non ci sarebbero mai state recriminazioni, scenate del tipo:

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«Mi hai costretto a rinunciare a una cosa a cui tenevo» e rinfacciamenti del genere. Dopodiché Iago si sarebbe dedicato all’agriturismo full time, anziché part time, come già faceva. In pratica Ornella osservava in silenzio la sua disfatta scolastica, suppo-nendo che fosse solo una questione di tempo. E Iago, che lo sapeva benis-simo, con lei non aveva bisogno di millantare alcunché. Ma con Fabiana era tutta un’altra storia. Quella ci teneva un sacco a essere fidanzata con un secchione represso. E allora lui la accontentava, nel senso che le raccontava esattamente ciò che lei voleva sentirsi dire. Un giorno forse avrebbe dovuto organizzare una festa di laurea fasulla, ma c’era an-cora tempo per pensarci. «Ah, se va avanti così la mollo di sicuro. Ma è brava a letto, per ora ho ancora voglia di farmela» si giustificò di fronte al suo amico Claudio, per evitare ulteriori discussioni. «Vieni, va’» fece quell’altro, battendogli una mano sulla spalla. «Andiamo a divertirci un po’.»

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11. Los Angeles

Mac era rimasto tutto il giorno a sonnecchiare sul divano. Non aveva vo-glia di alzarsi, né di fare alcunché. Connie era uscita per la spesa e poi era rientrata con del cibo da cucinare e con dei rotocalchi sotto il braccio. Quando la vide e notò ciò che aveva portato, Mac grugnì: «Ma allora lo fai apposta? Mi vuoi provocare? Questi giornali schifosi non fanno che ricordarmi la mia disfatta!» Lei sbatté le palpebre incredula: «Davvero credi che io ti voglia provocare? Davvero mi ritieni capace di questo?» Mac non rispose. «E comunque, io devo leggere queste pubblica-zioni. Tu non sei il mio unico cliente. Ricordatelo. Io devo essere informa-ta su cosa accade nel mondo dello spettacolo, per curare gli interessi anche di altre persone. Ma, proprio per essere precisi, non c’è più nemmeno un articolo su “Invasion” questa settimana. Dovresti saperlo, no? Con i gior-nali del giorno precedente si può ormai incartare il pesce e quelli che ti facevano soffrire tanto sette giorni fa in questo momento hanno già fatto questa fine.» Mac mugugnò per qualche secondo. Poi afferrò una rivista e cominciò a sfogliarla nervosamente. Dopo pochi minuti la sbatté nervosamente sul tavolo. «Cos’ha lui più di me?» si riferiva a Cillian Murphy, protagonista dell’articolo incensatorio che aveva di fronte. «È irlandese, come me. Ha gli occhi azzurri, come me. Ha due figli maschi, come me. Non ama gli eventi mondani e nel tempo libero è un inguaribile casalingo, come me. Eppure non ha mai sbagliato un colpo. E i giornalisti lo adorano e lo osan-nano. Leggi qua: è un modello di vita e di carriera, fa tendenza, lui. È tal-mente perfetto da essere odioso. Invece io sono lo zimbello di Hollywo-od.» «Da quando in qua odi tanto Cillian? Credevo che foste in buoni rapporti. A Natale ti ha anche mandato gli auguri e tu li hai contraccambiati!» «Io non odio Cillian. Ma nemmeno lo sopporto. E il suo ruolo in “Incep-tion” avrebbero dovuto darlo a me.» Connie, che intanto aveva iniziato a preparare il pranzo, posò la pentola con cui stava armeggiando. Pensò addolorata che Mac non era mai stato invidioso di qualcuno in precedenza e neppure così competitivo. Che quel-la era la prima volta che gli sentiva pronunciare parole velenose verso un onesto collega. Che si era innamorata di lui perché era un ragazzo genuino e per niente corrotto da sogni di gloria, perché lui viveva per recitare e non

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per la fama. Ma non volle commentare, non voleva versare benzina sul fuoco. Tentò, invece, di rasserenare la giornata proponendo: «Perché non ti siedi a tavola? È quasi pronto.» Ma lui sbottò definitivamente: «Neanche morto. Non ne posso più delle tue cotolette di pollo e delle tue patatine fritte. Non si può vivere ingurgitando tutti i giorni queste schifez-ze. Ci manca solo che io diventi grasso come te e poi nessuno mi offrirà più una parte.» E, così dicendo, uscì sbattendo la porta e lasciando Connie sempre più in-credula e addolorata. Mac, scendendo le scale, pensò che il suo amico Cillian era pure vegetaria-no e mai avrebbe ingollato le ali di pollo fritte intinte nella maionese che Connie gli propinava con cadenza regolare. Ma possibile che quella donna dovesse cucinare sempre in modo così pesante? Purtroppo, quello era un aspetto della loro relazione che non gli era mai andato a genio, già dal giorno in cui si erano messi insieme e lei gli aveva servito un piatto di pa-tate fritte. Era un modo di mangiare, quello? Mac era sempre stato un buongustaio, un gourmet, abituato a gusti raffinati. E se Connie avesse te-nuto a lui come cliente, prima ancora che come fidanzato, avrebbe badato alla sua dieta e alla sua linea. Ma d’altronde, poi, che ci si poteva aspettare da una ragazza americana di centotrenta chili? Poi, però, pensò anche che Cillian, a differenza sua, era sposato con la stessa donna da anni, aveva una famiglia regolare e i giornalisti non aveva-no prove dei suoi eventuali tradimenti, beato lui. Invece Mac aveva in atti-vo un divorzio, due figli da due donne diverse che stavano uno a Dublino e uno a Roma, numerosi flirt e una convivenza con la propria agente che iniziava ad andargli stretta.

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12. Torino

Giovanni era pervaso di dubbi. Aveva fatto bene a lasciare Manuela, alla fin fine? E che ne aveva guadagnato, poi? Adesso, per una camicia stirata, doveva correre fino a Cristini da sua madre, nell’agriturismo e lo faceva ogni fine settimana, con una pila di roba. E se la colazione dietetica a base di fette biscottate insipide che gli preparava sua moglie – vigliacca se si ricordava una volta di acquistare i croissant al supermercato – non gli pia-ceva, era comunque meglio del nulla che trovava lui quando, svegliandosi al mattino, scopriva con orrore di avere la dispensa vuota perché aveva scordato di fare la spesa del tutto. A quel punto andava al bar dove inzup-pava una gustosissima quanto grassa e pesante brioche in una tazza di cap-puccino e, sfogliando un quotidiano, iniziava la giornata da solo. E pensare che aveva già vissuto per conto suo, nell’anno in cui aveva lavorato a Bru-xelles, e non se l’era cavata tanto male come casalingo. Ma d’altronde, quella volta, aveva anche un altro spirito. Manuela, a Torino, gli mandava sms e gli scriveva mail di continuo e lui era innamorato e speranzoso di costruire un futuro con lei. Forse a quel matrimonio aveva rinunciato trop-po presto. Magari aveva ragione lei: era ora di iniziare a frequentarsi di nuovo e di vedere se c’era un modo per appianare i contrasti e smussare le differenze caratteriali. Chissà se Manuela nel frattempo si era chiarita le idee, se aveva compreso le carenze affettive di cui Giovanni si era sentito vittima e lo aveva ricontattato perché pronta a dargli finalmente ciò di cui lui aveva bisogno. Mentre era perso nelle sue elucubrazioni, la sua interlocutrice si schiarì la voce: «Hai capito dunque qual è il problema?» gli chiese con la sua voce roca e leggermente bassa. «Dovremmo importare questa sostanza per motivi di studio e vorremmo sapere se ci sono dei vincoli legislativi in merito.» Lui si rese conto in quel momento di non aver seguito neanche una parola. Eppure quella strana ragazza gli stava di fronte da più di un quarto d’ora. Teresa Giorgi, un caschetto di capelli biondi, probabilmente schiariti, le guance scavate, gli occhi verdi un po’ infossati e nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura dorata. Magra, con le spalle larghe, proveniva dal laboratorio di ricerca del piano di sotto della multinazionale per cui lavora-va e gli stava parlando, ovviamente, di lavoro. «Scusa, Teresa, scusa» si giustificò lui, aggiustandosi gli occhialini che teneva in bilico sul naso. «Su due piedi non so dirtelo, ma lo verifico e ti faccio sapere quanto prima.»

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«Ovvio, sì, okay» annuì lei, incerta, facendo il gesto di alzarsi. Giovanni non le aveva parlato molte volte prima di allora, ma gli era parso che quella creatura fosse pervasa da una specie di insicurezza di fondo. Poi però Teresa si risedette. «Senti, posso chiederti anche un’altra cosa? Una cosa personale, che non c’entra con l’azienda. Un parere legale, come avvocato, ma per una fac-cenda mia. Cioè, io ti faccio la domanda e poi tu al limite mi dici se posso rivolgermi a qualcuno. Magari conosci un professionista che sia in grado di affrontare la questione. Senza impegno per te, ci mancherebbe.» Lui strabuzzò gli occhi. Un parere legale? Era incuriosito. «Dimmi. Se lo so, ti aiuto volentieri.» Lei si riaccomodò sulla sedia sulla quale fino a un attimo prima stava in bilico: «Secondo te posso fare causa alla mia famiglia? Quando è morta mia ma-dre me lo hanno detto solo a cremazione avvenuta e non mi hanno dato nemmeno un cucchiaino di cenere da tenere per ricordo.» Giovanni si ridestò dal suo torpore: «Cavoli» commentò. «È una cosa bruttissima, quella che stai dicendo. Sei in rotta con… loro?» «Sì, con mio padre e con mia sorella. Non ci sentiamo da anni.» «Beh, tendenzialmente ti direi che gli estremi per chiedere un danno mora-le, o forse persino biologico, ci sono tutti. Però ho bisogno di qualche in-formazione in più. Come mai i rapporti con tuo padre sono così tesi? Avete litigato in passato? Per quale motivo?» «Oh» fece lei arrossendo. «Mio padre non mi ha mai perdonato. Ha sempre cercato di mettermi i bastoni tra le ruote. Non ha mai accettato che io vo-lessi diventare una donna, quando ancora ero un uomo.»

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13. Londra

Elettra si era lamentata per tutta la sera del fatto che Ted la perseguitava di telefonate. A Patrick non era parso affatto, anzi, gli sembrava appena nor-male che quel poveruomo si facesse vivo ogni tanto. In fondo quei due condividevano una figlia, no? Anche lui, in passato, quando a causa del lavoro o di altri intoppi, era dovuto rimanere lontano per qualche settimana da sua moglie, non aveva fatto che chiamare per avere notizie della loro bambina. Come poteva un padre assennato e giudizioso rassegnarsi all’idea che la sua creatura trascorresse le giornate senza nemmeno ascoltare la sua voce? Era inaudito, inconcepibile. E Ted era un papà premuroso, di questo Patrick era sicuro. A lui, in quel periodo, sembrava più schizzata Elettra. Forse la sua era solo solidarietà maschile? Forse. Eppure non riusciva a vedere il suo amico come il demonio che la sua ex compagna dipingeva. Lui proprio non ce la faceva. E la scena isterica che lei si era concessa la sera prima era stata a dir poco incresciosa. L’aveva sentita urlare rabbio-samente alla cornetta: «A te di Cindy non importa proprio un bel nulla, tu vuoi solo controllarmi, tu vuoi impicciarti dei fatti miei che in questo momento non ti riguardano più.» Che tristezza. E che indecenza. Quei due, a parte tutto, avrebbero dovuto sforzarsi di avere un approccio sereno per il bene della bambina. In fondo avevano scelto, o meno, di diventare genitori? Erano due adulti responsabi-li che avevano deciso di procreare, no? E allora perché adesso si comporta-vano come dei trogloditi? Perché non si davano una regolata? Ma plausi-bilmente si trattava solo di una fase momentanea. Prima o poi la rabbia per la delusione della separazione sarebbe sbollita e tutto quel nervosismo sa-rebbe rientrato. Poi, però, quel mattino Patrick, affacciandosi dalla porta, vide che era pro-prio una bella giornata. Il sole, l’aria frizzante. E decise che non gli impor-tava nulla, né di Elettra, né di Ted, né di tutte le loro paturnie. Lui aveva una meravigliosa famiglia di cui prendersi cura. E magari nel pomeriggio, se il tempo avesse tenuto, avrebbe portato Futura e Marina a fare una pas-seggiata. Così, si avviò alla metropolitana soddisfatto. E altrettanto soddisfatto si sedette alla scrivania della Hansel House, la software house dove collabo-rava come consulente. Aprì il pc e diede persino una spolverata allo schermo. Dopodiché lanciò il programma di calcolo e attese i primi risulta-

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ti della mattina. In quel momento suonò il telefono dell’ufficio. Era il cen-tralino. «Patrick, c’è una persona in linea che chiede di te. Dice di chiamarsi Arle-ne Conmy e che vi conoscete. Vorrebbe parlarti. Non ho capito se è per una questione di lavoro. Te la posso passare?» chiese Paula, la segretaria. Lui aggrottò la fronte. Arlene Conmy… una donna che indubbiamente non possedeva il suo numero interno, per cercarlo attraverso centralino. Eppure aveva chiesto espressamente di lui… Chi diavolo…? Ah, ma certo. Era una tizia con cui era uscito un paio di volte un sacco di anni prima, quando ne aveva diciotto, forse diciannove. Amica di amici. Amica del suo amico Max. Dopo una frequentazione lampo lui l’aveva scaricata, poi non ne a-veva più neppure sentito parlare, grazie a Dio. Perché quella andava in cer-ca di grane. Aveva qualcosa di strano, già da ragazzina. Patrick non avreb-be saputo come definirla, non era uno psicologo, lui, ma se avesse dovuto cercare un aggettivo per descrivere Arlene avrebbe scelto senz’altro “insta-bile”. Non era neppure particolarmente bella. Capelli rossi, ma crespi e stopposi. E il vizio del fumo, già allora. Inoltre, uno strano modo di muo-versi, un po’ a scatti, tipico di certe persone particolarmente insicure. Co-me se tentennasse sempre. Chissà com’era diventata, nel frattempo. Chissà se aveva trovato un equilibrio migliore. Perché Arlene era taciturna, di po-che parole. Una di quelle persone che non si sa bene cos’abbiano in mente. Ingrugnita, persino. Poi però alle feste esagerava. Alzava il gomito e quant’altro. Allora iniziava a ridere, ridere, ridere e a parlare ad alta voce, sguaiata. Si faceva notare, insomma. Quell’unica volta che erano andati a una festa insieme, a casa di Max, Patrick aveva riso come un pazzo e bevu-to un sacco insieme a lei. Ma poi, al mattino dopo, si era sentito come svuotato di tutto. Aveva addosso una pessima sensazione di disgusto su tutti i fronti. Allora non si era mai più fatto né vedere né sentire da quella tipa che intuiva essere afflitta da una montagna di problemi. Certo, col senno di poi, anche lui non si era comportato proprio da galantuomo. Ma era un adolescente, o poco di più. E dopo quella volta non aveva mai più fatto nulla del genere. Superati i vent’anni si era sempre rapportato in mo-do sano con le ragazze che frequentava. Arlene era stata una parentesi da dimenticare sotto molti punti di vista. E adesso che voleva quella donna da lui? Magari era davvero qualcosa di legato al lavoro, se lo cercava in uffi-cio. La spiegazione poteva essere molto più semplice di quanto immagina-to. Però che tipo di impiego poteva avere Arlene? Che strada poteva aver preso una persona tanto diversa da lui? Probabilmente lo cercava per orga-nizzare una rimpatriata tra vecchi compagnoni. Anche se forse non sarebbe stato il caso. Dopo quella festa lui non l’aveva più rivista. E anche con Max aveva perso i contatti. «Va bene, Paula. Passamela pure. Me la sbrigo io» rispose lui, che rimane-va un po’ perplesso.

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«Arlene» fece poi, dopo il beep. «Sono Patrick. Come stai? Come ti posso aiutare?» domandò, più per curiosità che per qualunque altro motivo, cer-cando di essere cortese. «Ciao Patrick» fece quella dall’altra parte, con la voce un po’ tremolante che a lui tornò velocemente alla memoria. «Ti ho chiamato per chiederti se ci possiamo vedere. Devo dirti una cosa di persona. Non posso parlarti al telefono.» Lui si indispettì un po’. Lei non gli aveva neppure domandato come stesse lui. Forse, per lei, non era rilevante. «Innanzitutto, come hai saputo che lavoravo qua?» la incalzò. «Come sei riuscita a rintracciarmi?» «Questo non è importante» tentennò lei. «Beh, anche sì. Non ho più tue notizie da quasi quindici anni. Permetti che mi vengano dei dubbi, se mi chiami di punto in bianco come se ci fossimo salutati ieri?» «Te lo spiego se ci incontriamo. Non ti ruberò molto tempo. Un caffè dopo il lavoro.» «Dammi un’unica ragione per cui dovrei dedicarti il tempo di un caffè.» Seguì un attimo di pausa. «Se non lo farai tu, forse tua moglie sarà più gentile.» Il cervello di Patrick fu attraversato da una miriade di pensieri in un solo istante. Arlene sapeva che lui era sposato ed evidentemente era in grado di contattare Futura. Si era presa la briga di scomodarlo dopo quasi tre lustri ed era pronta a coinvolgere anche tutta la sua famiglia se lui non le avesse dato soddisfazione. Ma per cosa, poi? Anche sforzandosi, non gli venne in mente un solo motivo plausibile. Cosa avevano ancora da spartire loro du-e? Fu pervaso dalla rabbia. Pur contrariato, avrebbe dovuto dirle di sì. Per-ché Arlene portava guai, quali che fossero. E anche perché gli dava fastidio che Futura ne conoscesse anche solo l’esistenza. Perché Arlene non gli piaceva. E lui si vergognava di esserci uscito insieme, molti anni prima. Chissà che cosa ci aveva visto, allora. Così cedette: «Okay, un caffè» le concesse irritato. «Oggi pomeriggio, così risolviamo la cosa il più rapidamente possibile.» Quando mise giù la cornetta pensò che la giornata era irrimediabilmente rovinata. E probabilmente addio agognata passeggiata con moglie e bimba prima di cena.

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14. Torino

«Dove vorresti andare in ferie, l’estate prossima?» era stata la domanda d’esordio della settimana e Iago non aveva saputo che rispondere. «Siamo in autunno» aveva esclamato sgomento. «Direi che è un po’ pre-maturo…» In realtà quello delle ferie era un terreno minato e Iago ne era più che con-scio. Il problema non era la prenotazione da fare per tempo, era ovvio. Il problema era che Fabiana pretendeva l’ennesima dimostrazione d’amore, estorcendogli una programmazione a lungo termine. Impegnare una capar-ra per l’estate successiva significava sottintendere che di lì a un anno loro due sarebbero stati ancora insieme. «Mi piacerebbe una vacanza a Formentera» aveva detto lei con noncuran-za, sfogliando una rivista. «Tutti quelli che contano ci vanno.» Lui non aveva osato contraddirla. E poi sulle ferie c’era stato un preceden-te. Ad agosto lui aveva rivendicato il diritto a una settimana al mare con Claudio, con il quale era già in parola prima ancora di mettersi con lei. Era seguita una scenata coi controfiocchi e un atteggiamento ricattatorio da professionisti. «Tu non puoi lasciarmi qui da sola per trascorrere sette giorni con quel porco! Chissà che diavolo ti fa combinare, quel maiale. Sono sicura che poi ti becchi qualcun’altra. Se vai al mare con lui, giuro che al ritorno non mi trovi più.» Lì per lì Iago era stato tentato di accettare l’ultima opzione. Ma poi aveva rinunciato, su tutta la linea. E ora, puntando già all’anno venturo, quel giorno lei tentava di incastrarlo. «Se non ci vieni tu con me, a Formentera, magari vado con le mie amiche» era stata la dichiarazione finale. Era una provocazione. Un trabocchetto bello e buono. Se lui le avesse det-to: «Vai, sei libera di fare ciò che ti pare» lo scotto da pagare sarebbe stato del tipo: «Ecco, lo vedi? Tu non tieni affatto a me. A te non importa se me ne vado e se mi faccio qualcun altro. E poi se io andassi con le mie amiche tu chis-sà cosa combineresti con i tuoi compagni depravati in mia assenza.» Così aveva preferito tacere e ora, seduto al bar del circolo di calcetto, si rollava una sigaretta mentre rigirava tra le mani un dépliant dell’agenzia viaggi. La partita era andata bene, ma lui non si era divertito molto. Troppi

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pensieri. Mac continuava a non farsi vivo. Fabiana rompeva le palle. L’esame che avrebbe dovuto dare all’università non gli entrava in testa. «Ecco il tuo caffè, Iago» disse la voce della cameriera che lui, realizzò all’istante, conosceva. Alzò lo sguardo. Elena che gli sorrideva? «Ciao! Cosa ci fai qui?» chiese sorpreso e meravigliato. La bionda Elena era una compagna dell’università di cui era stato invaghi-to a lungo. L’oggetto dei suoi desideri più reconditi. Erano anche usciti insieme qualche volta. Ma quando lui si era finalmente convinto di avere una chance, lei gli aveva confessato di essere la madre single di un bambi-no di un anno, Tommaso. Lui allora aveva preferito, pur con rammarico, troncare la frequentazione. Lei non se l’era presa, aveva capito. «Che ci faccio qua? Ci lavoro! Il turno di sera è tutto mio, sei giorni alla settimana, mentre Massimo e gli altri della Casa di Accoglienza mi accudi-scono Tommy e me lo mettono anche a letto» spiegò lei, sempre sorriden-do. «Devo pur campare. Preferisco mille volte passare tutta la giornata col bambino e lavorare di notte piuttosto che perdermi anche solo un secondo di lui. Almeno stiamo insieme per tante ore… E di pomeriggio condivi-diamo il sonnellino. Così mi riposo un po’ anch’io. Ma che hai lì?» do-mandò con curiosità, indicando i dépliant. «Oh, niente, cazzate. È la mia… è di mia madre, cioè» mentì. «Mi ha chie-sto di guardarle due tariffe.» «Che meraviglia! Posso?» chiese prendendo in mano le scartoffie. «Che luoghi incantevoli! Chissà se prima o poi nella vita potrò permettermi una vacanza così!» commentò, ma senza alcuna acrimonia nella voce. In quel momento Iago pensò che ce l’avrebbe portata lui dritto filato, a Formente-ra, se ne avesse avuta la possibilità. «Non ti ho più vista all’università» buttò lì, invece, tanto per dire qualcosa. In realtà neppure lui era stato un gran frequentatore di Palazzo Nuovo, nell’ultimo periodo. «Eh, che vuoi. Mi mancano due esami e la tesi per la laurea triennale, ma non so se riuscirò mai a finire. Temo che mi toccherà rinunciare. Non ho mai il tempo di fare nulla. Il bambino mi assorbe la giornata. E da quando la sera vengo qua…» Iago ebbe come un capogiro. Elena era brava, era studiosa, era seria. Per lei quel dannato foglio di carta, con cui lui si sarebbe pulito volentieri il sede-re, era tutto. Significava indipendenza, significava avercela fatta nonostan-te tutti i problemi, significava una possibilità in più per lavorare. Così parlò senza pensarci: «No, non puoi rinunciare. Non tu. Non dopo tutti i sacrifici che hai fatto. Senti, ti aiuto io a dare quei due esami e a scrivere la tesi. Sul serio, dimmi quello che devo fare e lo faccio. Vuoi che ti guardi il bambino? Oppure ti do una mano a ripetere. Ti faccio memorizzare. Scegli tu. Sei a un passo dalla fine. Non puoi lasciare ora!»

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Lei si illuminò e gli diede un buffetto su una guancia. «Sei tanto caro, Iago, lo so. Sei il ragazzo più dolce che io abbia incontrato. Ma non potrei mai chiederti tanto…» «No, Elena, no» insistette lui risoluto, prendendole una mano. «Non devi mollare e io ti aiuterò.» «Sul serio lo faresti?» chiese Elena, con gli occhi che le brillavano. «Te lo giuro. Iniziamo quando vuoi. Due esami e la tesi. Li prepariamo insieme.» Lei gli buttò le braccia al collo e gli stampò un bacio su una guancia. «Grazie! Sei veramente un amico!» Lui cominciò a realizzare il casino in cui si era appena impelagato. Aveva promesso a Elena che avrebbe studiato con lei! Studiato! Aperto dei libri! Obiettivamente non doveva essere ancora insensibile al suo fascino se si era spinto tanto in là. Per lo meno, però, non avrebbe dovuto mentire a Fabiana. Quella lo crede-va sempre intento a sgobbare sui tomi: per una volta avrebbe fatto davvero ciò che millantava. Doveva solo evitare di scendere nei dettagli, di dire che la sua compagna di studi era una bionda dal fisico mozzafiato che gli aveva tolto il respiro per mesi.

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15. Londra

Futura aveva dovuto arginare la furia di Elettra per tutto il giorno. Quell’altra era in fregola per l’ultima telefonata intercorsa con Ted. Ave-vano litigato furiosamente, tanto per cambiare. Si erano rinfacciati di tutto. Anche lui non ci era andato giù tanto leggero. Futura lo aveva sentito con le sue orecchie. Le aveva dato addirittura della poco di buono. Inaudito. Così lei era in pena per l’amica, che non riusciva più a trovare una forma di dialogo ragionevole con l’ex compagno. Il peggio era che rischiava di far-ne le spese Cindy. Una bambina non poteva vivere a lungo con i coltelli che le volavano sulla testa. Ma anche Elettra era su di giri a sufficienza. Tremava e piangeva per la rabbia. «Quel disgraziato!» diceva. «Perché mi cerca solo se deve rinfacciarmi delle cose? Perché? Quando poi, andando a scavare, il principale colpevole di questa situazione è lui!» Futura aveva raccolto l’ennesimo sfogo e attendeva il rientro del marito per confrontarsi con lui, pur sapendo che Patrick era meno morbido di lei nei confronti dei nervi scossi dell’amica. Però era sempre utile ascoltare anche il suo parere. Lui aveva una bella testa e un bel modo di ragionare. E chiacchierare con lui passeggiando con Marina era sempre piacevole. Futu-ra stava ancora pregustando un momento di intimità familiare quando vide che Patrick le aveva inviato un messaggio: niente giro nel parco, si scusa-va, ma il lavoro sarebbe andato per le lunghe. Lei ci rimase abbastanza male. Ed era pure sorpresa: in quel periodo lui non era sovraccarico. Pa-zienza, pensò. Avrebbero fatto un altro giorno. Poi però, quando se lo vide rincasare, capì che doveva avere avuto una giornata parecchio pesante. Era teso, pallido, nervoso. Intrattabile, proprio per essere precisi. Aveva persino gli occhi segnati, tanto che lei temette che stesse male. Che avesse urtato da qualche parte e che fosse alle prese con i primi sintomi di un versamento intramuscolare. O che stesse covando la prima vera influenza di stagione. Così gli domandò se voleva cenare, o se preferiva un bel bagno caldo. Lui scelse distrattamente la seconda opzione. E quando lei osò obiettare: «Caspita, non ci voleva un altro intoppo in ufficio prima del parto. Speravo che saremmo arrivati al termine in scioltezza, senza tensioni. Ma che è successo, questa volta, me lo vuoi dire?» Lui le si rivoltò contro e sgarbatamente le rispose:

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«I soliti casini, a che serve scendere nei dettagli? E poi, che vuoi che ti di-ca? Alla Hansel le magagne non si fanno da parte solo perché tu devi par-torire!» Al che lei, che stava finendo di sistemargli gli asciugamani sul bordo della vasca, posò bruscamente il bagnoschiuma che aveva in mano e uscì dal locale impermalita: «Schiarisciti le idee, poi ne riparliamo.» Nella vasca stracolma quasi fino al bordo di acqua calda Patrick si immerse completamente, dopo aver inspirato a pieni polmoni. Chissà se il tepore sarebbe riuscito a rilassarlo. In quel momento si sentiva da schifo. Aveva appena risposto male a sua moglie che si prodigava per lui, che era l’ultima persona che si meritava un trattamento del genere e che non era minima-mente responsabile di ciò che gli stava accadendo. Anzi, Futura rischiava di diventare una vittima inconsapevole della situazione incresciosa e assur-da, inconcepibile, paradossale, kafkiana che gli si era appena prospettata. Per cui lui era sottosopra, in quel momento, e avrebbe voluto sparire dalla faccia della terra. Per una frazione di secondo fu tentato di non riprendere più a respirare, di rimanere sott’acqua in eterno, lì, esattamente dov’era, per non dover più affrontare il mondo fuori. Poi tirò su la testa. Arlene si era presentata all’appuntamento indossando un giubbottino di jeans fuorimoda. Sembrava una teenager, anzi, sembrava la versione incar-tapecorita e grottesca della teenager che era stata. Insomma, era ridicola. O forse, semplicemente, Patrick era talmente mal disposto verso di lei da tro-vare orrendo anche il suo look. Lui l’aveva salutata senza perdersi in convenevoli, scansando un tentativo di baci sulle guance da parte sua. Poi si erano seduti a un tavolino. Lui a-veva preso un caffè, lei un drink alcolico. Evidentemente bere continuava a non dispiacerle. Lui l’aveva osservata mentre si rigirava il bicchiere tra le mani ossute. Si era domandato ancora una volta che cosa diavolo andasse cercando quella tipa. Soldi, forse. Magari gli stava per domandare un pre-stito. Per berselo, aveva poi pensato malignamente. Lei ci aveva girato intorno un po’. Aveva rimembrato i tempi andati, aveva ricordato di quando erano usciti insieme, di quando frequentavano la com-pagnia di Max, di quanto si erano divertiti tutti quanti. Patrick non si era commosso, né si era sentito toccato, anzi, le aveva intimato di giungere al cuore della questione: «Se ritieni che io debba fare qualcosa per te, arriva al dunque e facciamola finita.» Lei aveva proseguito con quella flemma urticante e impacciata che la con-traddistingueva. «Sai, dopo l’ultima volta che ci siamo incontrati, alla festa di Max? Poi non mi hai più chiamata e pure io sono sparita. Non so se hai saputo che sono stata via per un po’… un po’ di anni, intendo. Sono andata a stare in Francia, da una zia.»

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«No, non lo sapevo» e neppure se n’era curato. Lui, per contro, era tornato in Italia da suo padre. L’università, a Torino, lo attendeva a braccia aperte. Così aveva perso di vista diverse persone. «Ho tagliato i ponti con tutti, per la verità. Mi vergognavo tanto…» «Di che cosa?» aveva domandato alla fine lui, sperando di essere arrivati finalmente al punto. «Beh, ero incinta. Dopo quella festa ho scoperto di aspettare una bambina, Allison, che ora ha tredici anni, quasi quattordici.» A Patrick si era improvvisamente seccata la lingua in bocca. La testa aveva preso a vorticargli. «Incinta? Incinta di chi? Mi stai dicendo che…?» «Non ne sono sicura, ma è una possibilità.»

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16. Los Angeles

Mac era rimasto stravaccato sul divano per tutto il giorno. Aveva trascorso un’altra intera giornata mugugnando e guardando la televisione. Un altro pomeriggio perso a rimuginare nel proprio cattivo umore. Per giunta Con-nie aveva cominciato a trattarlo con molta meno condiscendenza. Dopo l’ultimo commento di Mac sulle sue abitudini alimentari e sulla sua linea, lei se l’era presa parecchio, anche se cercava di non darlo a vedere. In fon-do, pensava, chi aveva voluto ingannare? Julian MacGregor era un divo inarrivabile e lunatico e lei era una ragazza obesa non certo avvenente. Come aveva fatto a credere, a suo tempo, che tra loro sarebbe potuta dura-re? Lei così posata, tranquilla, calata nella sua routine. Lui perennemente inquieto e in cerca di stimoli nuovi. Evidentemente ora si era stancato di lei, aveva bisogno di qualcosa di diverso. Magari di una bella donna da esibire le rare volte che si degnava di presenziare a qualche manifestazione pubblica. Oppure di una nuova ondata di successo che, evidentemente, lo aveva inebriato non poco negli anni e, ora che gli era venuto momentane-amente a mancare, lo aveva lasciato apatico e abulico come un tossico in crisi di astinenza. Come aveva potuto Connie pensare a Mac come a un ragazzo normale e genuino? Come aveva potuto credere che tra loro potes-se funzionare? Mac non poteva appartenerle. Lui non apparteneva a nessu-no. Eppure lei avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Lei era un’agente del mondo dello spettacolo. Lei ne aveva visti a milioni: emeriti nessuno che iniziavano a lavorare davanti alla telecamera e, più o meno rapidamente, diventavano talmente drogati di fama da entrare repentina-mente in crisi esistenziale nel momento in cui il pubblico voltava loro la faccia. Di certo troppa notorietà dava dipendenza e la vanità non lasciava più spa-zio per altri sentimenti. Fino a quel momento a Mac le cose erano andate fin troppo bene, non aveva sbagliato un colpo. E ora che gli si era presenta-to un banale intoppo, lui non era in grado di affrontare la cosa con il dovu-to pragmatismo. Perché essere un attore di fama mondiale non era come andare in ufficio tutti i giorni. E per quanto Mac avesse intrapreso quel mestiere armato delle migliori intenzioni e del più puro amore per le arti drammatiche, ora che nel mondo dei lustrini e delle paillettes ci era dentro fino al collo, si trovava invischiato anche in tutti quegli odiosi meccanismi di rivalità, invidie e coltelli dietro la schiena che inizialmente sembravano non averlo mai sfiorato. Dunque nemmeno Mac era immune alla superbia,

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anche se era un bravo ragazzo, di sani principi. Ma perché, però, se la do-veva prendere con lei, se in quel momento non era sulla cresta dell’onda? La risposta all’ultima domanda le venne di lì a poco, quando Mac, che era uscito un attimo mentre lei, alla scrivania, tentava di rispondere ad alcune e-mail di lavoro, fece il suo ingresso trionfale. Connie ci mise un secondo ad accorgersi che lui era completamente sbron-zo. «Che cavolo hai fatto?» gli domandò adirata. «Tu sai che in questa casa io non voglio ubriachi! Ti ho già detto mille volte che nella vita ho già dovuto gestire un avvinazzato: mio padre, il primo e anche l’ultimo!» «Tu» la accusò lui, barcollando. «È inutile che adesso ti metti a farmi la morale!» continuò puntandole addosso un indice che non riusciva nemme-no a tenere diritto. «Se è successo questo casino è stata tutta colpa tua!» «Mia?» «Sei tu che mi hai suggerito male e sai perché? Perché sei gelosa! Mi hai fatto rinunciare a quella commedia perché avrei dovuto baciare Susan Stuart, la mia ex, e tu non volevi.» «Io gelosa?» «Sì. Prova a negare che quando bacio una collega strafiga tu ti rodi! Avan-ti, dimmi che ti fa piacere!» «No, non mi fa piacere, ma questo non significa che… Insomma, io sono una professionista, e anche tu…» Ma si rese presto conto che discutere era perfettamente inutile. Quello era ubriaco fradicio e di lì a poco crollò sul letto e si mise a russare. Allora lei si ritirò mesta alla sua scrivania, spostando con flemma e con movimenti pacati la sua mole gigantesca, dopo aver preso una decisione. Fine anteprima. Continua... Disponibile anche in ebook a 4,99 euro da marzo-aprile 2014