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a Gl|ra di

OIlJ$IPPE PETROtl|IO

MIRruN PftilDIIlII tt[l|$ITEIII

MIRIÍ E 8RfiM$CI

MIMORII I ITIIJALITÀ

lstituto Gromsci del Friuli Venezio-Giulio

lnternoiionol Gromsci Society

lstituto ltoliono per gli Studi Filosofici

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INDICE

Presentazione

di Giuseppe Petronio e Marina Paladini Musitelli

Marx, Gramsci

di Giuseppe Petronio

Gramsci e la vulgata marxista della Seconda e Terza

Internazionale

di Donald Sassoon

Il 'ritorno a Marx' nei Quaderni del carcere (1930)

di Fabio Frosini

Stato e società civile da Marx a Gramsci

di Guido Liguori

Materialismo storico e filosofia della prassi

di Wolfgang Fritz Haug

Marx e Gramsci. Due antropologie a confronto

di Roberto Finelli

Etica e politica

di Aldo Tortorella

Fabbrica e classe operaia

di Andrea Catone

Gramsci, Sraffa e il secondo libro del Capitale

di Giorgio Gilibert 

Filosofia, economia e politica in Marx e Gramsci

di Jacques Texier

Lingua, linguaggio e politica in Gramsci

di Francisco F. Buey

Marx e Gramsci

di Marina Paladini Musitelli

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PRESENTAZIONE

Il presente volume raccoglie le relazioni presentate al Con-

vegno internazionale di studi Marx e Gramsci tenutosi a Trieste

nel marzo 1999.

Al Convegno, ideato e organizzato dall'Istituto Gramsci del

Friuli Venezia-Giulia, in collaborazione con l'International

Gramsci Society e l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di

Napoli, hanno partecipato studiosi italiani e stranieri che da anni

dedicano parte delle loro ricerche agli studi gramsciani.

Scopo del Convegno era quello di indagare alcuni dei com-plessi rapporti che collegano il pensiero di Marx a quello di

Gramsci, nella convinzione - riteniamo efficacemente ribadita

dai risultati del Convegno - che tra il pensiero dei due autori e

noi sia sempre stato attivo e vada mantenuto vivo un duplice

flusso di rapporti (segnalato dal sottotitolo del Convegno: Da

 Marx a Gramsci. Da Gramsci a Marx): quello che da Marx attra-

verso Gramsci ha portato l'influenza del pensiero di questi due

grandi intellettuali e politici fino a noi e quello, invece, che, sulla

base delle prospettive problematiche dell'oggi, scopre e riaffer-ma la profonda attualità di quella tradizione.

Mentre ringraziamo i Colleghi e gli amici che hanno contri-

buito al Convegno e al volume, ricordiamo, riconoscenti, che il

Convegno è stato realizzato con l'alto Patrocinio del Presidente

della Repubblica Italiana e con il Patrocinio del Ministero

dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, del

Ministero della Pubblica Istruzione, della Regione Autonoma

Friuli Venezia-Giulia, del Comune di Trieste e dell'Università

degli Studi di Trieste.

Giuseppe Petronio

 Marina Paladini Musitelli

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MARX, GRAMSCI

(Premessa a un Convegno)

di Giuseppe Petronio

Il titolo che abbiamo dato a questo nostro incontro di stu-

dio può dare l'impressione che esso abbia due protagonisti: Car-

lo Marx e Antonio Gramsci. In realtà, almeno nelle nostre inten-

zioni, le intenzioni di chi lo ha programmato e organizzato, non è

così. Non è così, perché non è possibile riflettere sul pensiero e

sull'opera di Marx e di Gramsci come su due cervelli pensanti in

solitudine: nel chiuso di uno studio o di una torre d'avorio; la

loro vita, i loro scritti, la loro attività di politologi e di organizza-

tori li rivelano esseri sostanzialmente «politici», cioè «sociali»,

interpreti, con originale intelligenza, del mondo che avevano

intorno. E dunque dibattere di essi significa, nello stesso tempo,

dibattere di due studiosi di eccezione, di due fasi o momenti di

storia, della lettura che quelli ne fecero: del mondo occidentale

alla prima metà dell'Ottocento; dello stesso mondo, ma ormai

più ampio e più complesso, una settantina di anni più tardi, negli

anni Venti e Trenta del nostro Novecento.

E poi, per forza di cose, sarà presente un terzo protagoni-

sta: la nostra età, il mondo, ancora più vasto e complesso, del

«villaggio globale» di oggi, e noi, suoi figli e cittadini, con i nostri

problemi, e con il nostro sforzo di leggerlo, e il possibile ricorso,

per una lettura intelligente di esso, anche a Marx e Gramsci, let-

tori precedenti d'eccezione.

Ad aprire l'incontro sarò io, non protagonista, ma delegatodel gruppo di studiosi e di enti che ha organizzato il Convegno, e

ha affidato a me il compito di premettere le nostre comuni inten-

zioni, con piena libertà, ma quindi anche con la piena responsa-

bilità personale di ciò che dirò.

Quando, verso la metà del secolo scorso, Carlo Marx si

accinse a una lettura rivoluzionariamente critica del suo tempo,

quell'Europa occidentale nella quale viveva e della cui cultura

era figlio, aveva iniziato, già da una cinquantina di anni, una sua

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fase nuova di storia, e aveva cominciato a imprimere al mondo, a

una parte almeno di esso, il suo marchio. La borghesia, la vec-

chia talpa paziente, dopo aver eroso per secoli le fondamenta

della millenaria civiltà aristocratica, ne aveva preso il posto, con-

quistandosi dopo l'egemonia il dominio. Le intelligenze più acu-te del tempo avevano preso atto del cambiamento ma nessuno,

credo, con una forza tale di analisi e di sintesi e con strumenti

storiografici così modernamente complessi: le prime pagine del

 Manifesto sono, di questa geniale potenza di comprensione stori-

ca, uri documento incomparabile.

Già altri si erano provati a raccogliere in una sintesi organi-

ca i caratteri salienti dell'epoca nuova: Hegel, Feuerbach, i teori-

ci del socialismo utopistico, Alexis de Tocqueville...; ma la novità

di Marx - una novità che il sodale Engels capì e chiarì felicemen-te - stava nell'aver analizzato e spiegato la funzione storica della

borghesia vittoriosa dall'esterno, dal punto di vista di una nuova

classe, o, meglio, di un nuovo blocco sociale: il proletariato,

l'antagonista naturale della borghesia, la nuova talpa che, a sua

volta, ne avrebbe dovuta erodere le fondamenta e che, un giorno

lontano, l'avrebbe dovuta sostituire per dar luogo alla epifania di

un edenico mondo senza classi: «una associazione in cui il libero

sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti».

Marx apparteneva a quella specie, rara, di uomini per i quali

- come Dante aveva scritto a proposito della mente divina - il

mondo è un libro dove tutto ciò che si squaderna per l'universo si

raccoglie organicamente in una sola immensa summa enciclopedi-

ca: un complesso unitario che non è possibile capire guardandolo

da questo o da quello dei tanti diversi elementi dei quali è compo-

sto. Il che significa che l'opera di Marx va affrontata non dal pun-

to di vista di una particolare disciplina o attività: la filosofia, l'eco-

nomia, la sociologia, l'epistemologia, la storiografia, la cultura e le

arti, la scienza...; ogni sua descrizione settoriale è fuorviante, ed

essa si capisce solo se si guarda al suo punto focale, al motivo -

ricorro ancora alla immagine dantesca - che di quelle tante pagine

fa un organico libro: l'Uomo, quest'essere sostanzialmente sociale,

che, nel processo ininterrotto della storia, attraverso la prassi ripla-

sma la Natura e realizza pienamente se stesso.

Appunto per questa sua caratteristica, è lecito variare, per

Marx, una formula famosa di Croce, e affermare che non è possi-

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bile, oggi, non dirsi marxiani; il mondo di oggi, quello nel quale,

ci piaccia o non ci piaccia, viviamo e operiamo, non sarebbe qua-

le è se Marx, con i suoi scritti e con la sua attività di organizzato-

re politico, non si fosse inserito di prepotenza nel processo stori-

co in atto, elaborando una sua interpretazione rivoluzionaria del

passato e del presente; prospettando una visione sua, e sia pure

utopica, del futuro; dando al proletariato mondiale coscienza di

ciò che esso era di fatto e di ciò che avrebbe potuto e dovuto

essere; lanciando una sua trainante parola d'ordine: «Proletari di

tutti i Paesi, unitevi!». Il che, dovrebbe essere inutile chiarirlo,

non significa che il mondo di oggi è stato prodotto da Marx; pre-

cisa solo che, del processo che dal mondo del primo Ottocento

ha condotto a quello di oggi, Marx e il marxismo sono stati fatto-

ri senza i quali quel processo, nel modo in cui si è svolto e nei

suoi risultati, non sarebbe concepibile.L'impulso che Marx ha impresso alla ruota della storia ha

prodotto dunque, come è naturale, effetti di ogni genere: positivi

e negativi, e lui ha subito la sorte di ogni uomo d'azione; è stato

- lo dirò con una felice espressione dantesca - «segnacolo e ves-

sillo»; è stato, come di Napoleone ha scritto Manzoni, «segno

d'immensa invidia/ e di pietà profonda,/ d'inestinguibil odio/ e

d'indomato amor», e nel suo nome milioni e milioni di uomini

hanno combattuto battaglie sacrosante per la libertà e la giustizia

sociale, e altri hanno commesso nefandezze e delitti. Oggi tetriragionieri cimiteriali pretendono di fare politica e storia confron-

tando il numero dei morti in nome di Marx (di un Marx frainte-

so e strumentalizzato), con quello dei morti in nome di Cristo

(un Cristo frainteso e strumentalizzato), come se non fosse evi-

dente, ormai, che purtroppo il tempo, il progresso, l'arte, la

scienza, non uccidono nell'Uomo la trista eredità di Caino. In

tutte le età e tutte le latitudini, nelle società che si richiamano alla

mezzaluna di Maometto o a qualsiasi altro simbolo, la Storia

gronda sangue, e, nelle ore cupe dello sconforto ci paiono cal-zanti le parole che l'illuminista e cristiano Manzoni ha poste in

bocca, con shakespeariana potenza, al suo Adelchi morente.

«Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/ dritto: la

man degli avi insanguinata/ seminò l'ingiustizia, i padri l'hanno/

coltivata col sangue; e ormai la terra/ altra mèsse non dà».

Ma Marx non sognava né gulag né lager, e il triste cartello

all'ingresso di Auschwitz {Arbeit macht /rei) era la cinica deriso-

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ria negazione di ciò che Marx utopisticamente prevedeva: unasocietà in cui il proletariato vincitore avrebbe, abolendo «le con-dizioni di esistenza dell'antagonismo di classe», abolito «anche ilsuo proprio dominio in quanto classe». È, Io ricordate, la conclu-sione del

Manifesto.

Una settantina di anni dopo la pubblicazione del Manifesto

Antonio Gramsci si incontrò con Marx; si incontrò, come eranaturale, non solo direttamente con lui e i suoi scritti, ma anchecon il complesso di pensiero e di azione che da lui era stato mes-so in moto. E a quel movimento, ormai di estensione mondiale,aderì con un consenso intellettuale che, però, aveva le sue radiciin una travagliata vicenda esistenziale e in una congenialità inten-

sa di sentimenti e di etica.Gramsci perciò fu presto «marxista», ma in un mondo tutto

diverso da quello di Marx. Diverso per l'assiduo lavoro che laborghesia ormai dominatrice aveva svolto, e per lo sviluppoimpetuoso di quel capitalismo che della borghesia si rivelavasempre più come il modo di produzione naturale, ma diversoanche per l'azione antagonista di quel proletariato mondiale che,per l'esortazione di Marx e per le leggi profonde dello sviluppostorico, si era via via organizzato in leghe, mutue, sindacati, parti-

ti, Internazionali, diventando un fattore essenziale di storia eprogresso. Così Gramsci crebbe negli anni della prima, fallita,rivoluzione russa; visse, giovanissimo, negli anni della primaguerra mondiale e delle rivoluzioni di febbraio e di ottobre; par-tecipò, in primo piano, al travagliato dopoguerra e alla lotta poli-tica in Italia; conobbe per esperienza diretta la Russia sovieticadel dopo Lenin; fu travolto nella sconfitta, in Italia e in Germa-nia, del movimento operaio e della democrazia. Nel '26 fu confi-nato in carcere, e lì trascorse i suoi ultimi dieci anni, malato, pri-

vato di ogni contatto vivificante con il mondo, con questo «mon-do grande e terribile, e complicato», meditando, come giàMachiavelli e Guicciardini, su quanto era successo, per trarneuna lezione «for ever» ed elaborare un progetto che, fondendo ilpessimismo dell'intelligenza con l'ottimismo della volontà, glipermettesse di leggere originalmente il passato e il presente, indi-viduando nel caos dell'oggi gli strumenti per preparare il futuro.

Gramsci era stato «socialista» e poi «comunista», e dunque

«marxista»: termini, come tutti quelli di questo genere, terribil-

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mente equivoci, sicché possono significare tante cose, anche assai

contrastanti fra loro. Poi, nel carcere, maturò il ritorno a Marx:

un'operazione di cui oggi, per l'intelligente lavoro di alcuni ese-

geti (cito solo, fra i più recenti, Fabio Frosini e Guido Liguori),

conosciamo le linee essenziali. E compito, appunto, di questo

nostro incontro analizzare, punto per punto, la portata e i carat-

teri di questo «ritorno» a quel Marx, che, sono parole sue, avevainiziato «un'opera storica» destinata a durare «nei secoli» {Qua-

derni, p. 882). Perciò non spetta a me, - né d'altronde ne avrei la

capacità e l'autorità necessarie - entrare analiticamente nel meri-

to dei vari problemi; io posso solo fissarne alcuni tratti di fondo:

quelli, o alcuni di quelli, per i quali il progetto di Gramsci si rive-

la ripresa e adattamento ai tempi nuovi del progetto di Marx.

In primo luogo, mi pare, è significativo che per Gramsci

l'«ortodossia» marxista consista nel tenersi fermi a una teoria fon-

data non su questa o quella tesi ma sul concetto che «il marxismo

basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non

solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale

filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della

società, cioè per diventare una integrale totale civiltà» {Quaderni,

435) . In secondo luogo, l'affermazione che questa «filosofia totale»

non può non essere una filosofia della praxis, una filosofia che

«concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come ele-

mento di egemonia politica»{Quaderni,

1245).E con questi principi che Gramsci condusse la sua lettura

del mondo del suo tempo; un mondo nel quale il processo di glo-

balizzazione borghese-capitalistica, così genialmente descritto da

Marx ed Engels nel primo capitolo del Manifesto, si era sviluppa-

to impetuosamente, e che dunque aveva tratti e caratteri che lo

differenziavano fortemente da quello che Marx aveva dovuto

affrontare, ma che, tuttavia, nella sostanza, era la continuazione e

lo sviluppo naturale di quello, e presentava perciò problemi che

sostanzialmente erano gli stessi ma si presentavano con un voltonuovo, sicché bisognava aggredirli con gli stessi principi e con il

medesimo metodo, ma, nello stesso tempo, con duttile flessibile

intelligenza. Marx si era continuamente riferito a Hegel, come al

descrittore e interprete più acuto della civiltà del primo Ottocen-

to; Gramsci, a sua volta, fa riferimento continuo a Croce, perché

nel pensiero di lui riconosce il punto più alto raggiunto dalla spe-

culazione novecentesca. Marx aveva dovuto polemizzare dura-

l i

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mente sia con le tante varietà di idealismo pullulanti al suo tem-

po, sia con le varie eterodossie del socialismo idealistico; Gram-

sci, a sua volta, polemizza da una parte con i tanti nipoti e nipoti-

ni di padre Bresciani, dall'altra con le molte deviazioni dalla

«ortodossia» marxiana. Marx aveva sottolineato con forza la

politicità della cultura e dell'arte, Gramsci mette al primo posto

fra i temi della sua riflessione la storia degli intellettuali.

Marx, soprattutto, aveva sottolineato, nel Manifesto, la posi-

tività dell'azione egemonica della borghesia, Gramsci, nella sua

insistente polemica contro Bucharin, si sforza di capire il ruolo

che la borghesia aveva esercitato storicamente, e, punto essenzia-

le, nella sua riflessione sull'industria moderna - gli scritti sul tay-lorismo e sul fordismo -, dà dell'industrialismo statunitense un

giudizio assai più articolato e intelligente di quelli correnti in Ita-

lia e fuori.

E, infine, è simile a quella di Marx la sorte di Gramsci, con-

dannato anche lui a incomprensioni meschine e utilizzazioni

strumentali. Riscoperto e divulgato una cinquantina di anni fa, il

suo pensiero è stato strumentalizzato ai fini della lotta politica in

corso. Non poteva non essere così, e chi come me, per ragioni di

età, ha vissuto in prima persona la sua riscoperta sa bene di qualeaiuto essa sia stata a rinnovare la cultura italiana dopo mezzo

secolo di crisi della ragione e del senso della storia: la lunga ege-

monia dei vari neoidealismi; i tanti irrazionalismi e vitalismi, il

nazionalismo e il fascismo, i nipotini di padre Bresciani, gli erme-

tismi... Ma sa anche come le strumentalizzazioni di quegli anni, e

di quelle, assai peggiori perché assai più rozze, degli anni succes-

sivi, abbiano offuscato la sua opera, e abbiano reso più difficile

una lettura «appassionatamente storica», in grado di distinguere,

nelle sue pagine, fra il contingente e l'essenziale, ciò che vi è direlativo al suo tempo e ciò che può valere per sempre: la lotta (lo

dirò con parole sue su De Sanctis, in una pagina giustamente

famosa) «la lotta per la cultura, cioè un nuovo umanesimo, criti-

ca dei costumi e dei sentimenti, fervore appassionato, sia pure

sotto forma di sarcasmo».

E ora, a circa sessantanni dalla sua morte, siamo qui noi,

figli e cittadini di un mondo ancora una volta terribilmente

diverso dal suo. Noi, uomini appartenenti a paesi diversi, e diver-

si per età, storie personali, cultura, indirizzo di studi, militanza

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politica...; ma pure legati da una comune volontà di capire il

mondo nel quale il destino ci ha messi, e da una comune ricerca

degli strumenti più idonei. E uniti anche, credo, dalla concorde

accettazione di alcuni principi di metodo che proprio Gramsci,

su spunti marxiani, ha definiti con precisione geniale: «l'adatta-

mento di ogni concetto alle diversità peculiari e tradizioni cultu-

rali, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi enelle sue negazioni tradizionali, organando sempre ogni aspetto

parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l'apparente

differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diver-

sità sotto l'apparente identità è la più delicata incompresa eppu-

re essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello svi-

luppo sociale».

Il mondo di oggi è, sotto ogni aspetto, altro da quello di

ieri. La riduzione crescente dell'intero pianeta a un solo «villag-

gio globale»; la mondializzazione del commercio e dell'industria;

il passaggio da capitalismi nazionali a sempre più grossi e potenti

capitalismi supernazionali; il progresso incalzante della scienza e,

ancora più, della tecnica; l'esplosione di una nuova rivoluzione

industriale e tecnologica fondata sulla cibernetica e informatica;

l'omogeneizzazione della mentalità, della sensibilità, dei costumi

e del gusto: il mondo, è stato detto, della MacDonald. Ma, nello

stesso tempo, l'altra faccia della medaglia, i traumi che questo

vorticoso incalzare di innovazioni produce nei cervelli e neglianimi; le ribellioni, i rifiuti, le nevrosi, lo smarrimento dei valori;

il prezzo amaro che gli uomini stanno pagando di guerre, mise-

rie, genocidi per questo incontrollato processo: un mondo di

isteria e di violenza, e un'arte che passivamente lo riflette, attrat-

ta dal suo orrore meduseo.

Con questa realtà noi, ognuno di noi, oggi ci misuriamo, e

mai come oggi a me pare calzante l'ammonimento del vecchio

Spinoza: non ridere e non piangere, non amare e non odiare,

capire. Ma per capire occorrono strumenti di appassionata razio-nalità: il ritorno alla ragione e all'analisi, alla filosofia e alla storia;

un pensiero «forte» educato al ragionamento e un animo forte

capace di guardare coraggiosamente nella realtà quale è, senza

mistificarla, per individuarne le componenti, le cause, le direzio-

ni, e poterla così controllare.

Può, in questo nostro lavoro, esserci di ausilio l'opera di

Marx e di Gramsci? Come e in che senso? Si va diffondendo,

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I

quasi una epidemia, una interpretazione del presente quale una

età nuova: il postmoderno. Su questo tema l'Istituto Gramsci per

il Friuli-Venezia Giulia ha promosso alcuni mesi fa un incontro,

e presto, spero, se ne pubblicheranno gli Atti. Con la sola ecce-

zione di alcuni studiosi del cinema, irretiti in una concezione tut-

ta settoriale e tecnologica di quell'arte, quella interpretazione è

parsa ai vari relatori un falso concetto, costruito senza alcun

rispetto per la storia e la logica. E alla tesi di un'età postmoderna,

frutto di una rottura epocale che sarebbe avvenuta negli anni

Cinquanta e Sessanta del nostro secolo, pari solo a quella che ha

avuto luogo fra Settecento e Ottocento, è stato facile opporre la

tesi che l'età in cui viviamo non è che una fase successiva del

processo che Marx ed Engels hanno descritto nel Manifesto, del-

la fase ulteriore con la quale Gramsci si è confrontato, nei Qua-

derni del carcere, una settantina di anni fa.

Questa tesi, in me almeno, era rafforzata anche da altre

esperienze culturali recenti. In primo luogo, la riflessione che qui

a Trieste abbiamo compiuta, lungo più di due decenni, sulla

civiltà e la letteratura di massa; poi, due anni fa, il Convegno

tenuto a Napoli dalla International Gramsci Society e dall'Istitu-

to italiano di studi filosofici. Un convegno di cui sono appenaapparsi gli Atti, e che merita la massima attenzione per la coralità

delle sue voci e per la documentazione di un rinnovato interesse

per il pensiero di Gramsci nei più diversi paesi: negli Stati Uniti

d'America come nell'America latina, in Giappone come in

Australia. Un'altra illuminante esperienza è stata, per me,

l'incontro con l'opera di Edward Said, un cui volume, Cultura e

imperialismo, è uscito in questi mesi, tradotto da Giorgio Barat-

ta. E non posso non ricordare gli studi su Gramsci di questi ulti-

mi anni, a opera di giovani e anziani, molti dei quali sono quipresenti, e gli scritti sulle letterature dei Paesi anglofoni ed exco-

loniali, primi fra tutti quelli di Silvia Albertazzi.

E stato questo complesso intreccio di incontri a indurmi a

proporre agli amici dell'Istituto triestino, della sezione italiana

della International Gramsci Society e dell'Istituto italiano di stu-

di filosofici, l'organizzazione comune di un incontro che facesse

il punto sugli studi intorno al rapporto fra il pensiero di Gramsci

e quello di Marx. Alla base dunque di questo nostro incontro c'è

anche, lo dirò con Pavese, una mia «questione privata». Ma lapresenza qui, oggi, di tanti illustri amici e colleghi mi rafforza

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nella mia convinzione che l'ipotesi di una continuità di fondo fra

la storia del primo Ottocento e quella di oggi, non sia infondata e

non sia solo mia. E dunque può essere utile, forse necessario,

confrontare le letture che Marx e Gramsci hanno fatte ognuno

del proprio tempo, per ricavarne conforto a una lettura del

nostro tempo come di un mondo non postmoderno, ma moderno,

sviluppo del processo innescato dal cambiamento epocale di cui

la Rivoluzione francese e l'avvento al potere della borghesia sono

stati i momenti essenziali. Una lettura, ripeto alcune parole della

frase di Gramsci citata qui addietro, da condursi trovando «la

reale identità sotto l'apparente differenziazione e contraddizione,

e la sostanziale diversità sotto l'apparente identità». Un precetto,

questo, fondamentale per chiunque faccia la difficile ma affasci-

nante professione di storico.

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GRAMSCI E LA VULGATA MARXISTA

DELLA SECONDA E TERZA INTERNAZIONALE

di Donald Sassoon

Il titolo propostomi dagli organizzatori del convegno - e da

me accettato di buon grado - sembra suggerire a prima vista una

replica quasi inevitabile: si dirà infatti che mentre la Seconda e la

Terza Internazionale si limitarono a produrre una vulgata, Gram-

sci fu autore di un vero e proprio «pensiero», che le formulazioni

delle prime costituirono una semplificazione, ad uso e consumo

del vasto pubblico, di una dottrina ben altrimenti ricca e sofisti-

cata (quella di Marx), mentre la riflessione di Gramsci ci ricon-

duce ad una complessità ambita dagli intellettuali e alla quale i

politici - costretti come sono a parlare alle masse, specialmente

in tempi di politica democratica - non possono far ricorso.

E tuttavia necessario formulare due osservazioni. In primo

luogo, non si tratta semplicemente di porre a confronto l'ideolo-

gia di un movimento e il pensiero di un intellettuale. Se conside-

riamo l'«ideologia» e il «pensiero» come termini del confronto,

ci troviamo dinanzi a due processi alquanto dissimili.In un movimento, la definizione dell'ideologia costituisce

un processo complesso, perché esso si rivolge a più di un pubbli-

co e deve eccitare i suoi più convinti sostenitori offrendo loro un

insieme coerente di principi, fornendo ai propri intellettuali una

concezione del mondo che sia abbastanza solida da metterne in

luce l'originalità rispetto ai potenziali rivali (altre religioni, filoso-

fie ecc.) e infine dando vita a parole d'ordine, programmi e azio-

ni di denuncia per conquistarsi anche il favore delle masse, di

persone che non condividono necessariamente le basi filosofichedel movimento stesso. Un pensatore, al contrario, può prendersi

il lusso di avere un pubblico un po' più limitato e omogeneo da

un punto di vista culturale.

A dispetto di ciò, non è affatto impossibile tentare un con-

fronto. Il pensiero di movimenti come la Seconda e la Terza

Internazionale fu in effetti frammentario al pari di quello di

Gramsci. Prima della prigionia, Gramsci ci ha lasciato un insie-

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me di scritti di argomento disparato, redatti in varie occasioni

(recensioni teatrali, lettere, analisi politiche episodiche); e anche

della produzione dal carcere, ci è rimasto un ammasso di quader-

ni di appunti privi di rapporti tra loro e che affrontano una mol-

teplicità di tematiche. In entrambi i casi, gli intellettuali vengonoalla ribalta solo in seguito: prendono i frammenti - siano prodot-

ti da movimenti o da pensatori - e vi sovrappongono una logica

narrativa, dando al materiale originario una coerenza ed un

carattere unitario che non aveva mai avuto.

Al contrario di quanto possono credere alcuni, gli intellet-

tuali non trasformano i frammenti in qualcosa di più sofisticato

(sebbene per mantenere in vita la propria specifica identità cor-

porativa possano senza dubbio far uso di una terminologia com-

plessa che cerchi di escludere i non iniziati); proprio perchéassemblano i frammenti in una totalità coerente, ne rendono pos-

sibile la volgarizzazione. Questo procedimento, al contrario di

quanto afferma una tradizione elitaria e antidemocratica, è il

contributo più significativo dato dagli intellettuali al successo e

alla duratura importanza assunta dal materiale che essi hanno

riformulato; in tal senso si deve dar ragione a Otto Bauer quando

nel 1907, in occasione del quarantesimo anniversario della pub-

blicazione di Das Kapital, scriveva:

Dalla storia delle scienze naturali e dalla filosofia molti esempi si posso-no trarre a dimostrazione di come la semplificazione e la volgarizzazionedi una nuova dottrina non siano che uno stadio della sua avanzata vitto-riosa, del suo innalzarsi alla generale accettazione.

Il confronto di cui oggi intendo discutere, pertanto, è quel-

lo tra la vulgata della Seconda e Terza Internazionale e la «vulga-

ta di Gramsci».

Ma è possibile davvero confrontarle? E bisognerà parlaredella volgarizzazione del marxismo in filosofia, cioè di quello che

è comunemente chiamato «diamat» o materialismo dialettico? O

si tratterà invece di analizzare gli usi della teoria sociale per for-

nire una spiegazione generale della società che mescoli aspetti

del materialismo storico e la teoria operaia del valore assieme ad

alcuni generici principi strategici? In questa sede mi occuperò

principalmente di quest'ultimo aspetto, poiché l'avvento del

«diamat» non ha assunto una particolare importanza nella storia

della filosofia del ventesimo secolo: solo pochi filosofi marxisti si

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sono realmente interessati al materialismo dialettico, ed esso non

ha avuto alcun influsso sullo sviluppo della filosofia della scienza

nel corso del secolo.

Il corpus dottrinario del materialismo storico, invece, ha

avuto un enorme successo in particolare quando è stato assunto

come vulgata, come accade cioè nel modello «semplice» o «vol-

gare» del materialismo storico: l'insistenza sulla successione di

fasi nel divenire storico, l'importanza attribuita alle circostanze

materiali, il ruolo significativo assegnato all'economia sono stati

elementi di enorme importanza sia nella storiografia del ventesi-

mo secolo che nella teoria sociale. Né l'argomentazione cambia

quando si tratta di analizzare il legame esistente fra Gramsci e

una filosofia che, mentre fuori d'Italia ha avuto un'eco assai

debole, ha assunto un'importanza di rilievo mondiale proprio nel

contributo che ha dato agli studi storici e culturali: così il fatto

che molte varianti delle posizioni crociane siano esistite e esista-

no anche fuori d'Italia non è per nulla prova della necessità reale

di un anti-Croce, ma è piuttosto indice della scarsa originalità e

importanza di Croce nel corso del secolo.

Elementi di riduzionismo economico sono sempre stati pre-

senti nel materialismo storico; e anche se chi ha preso le difese di

Marx da un punto di vista teorico ha spesso negato questo fatto,

quanti si occupano della storia - gli storici - se solo riflettono unpo' alle proprie procedure d'analisi, sono consapevoli di esser

sempre soggetti all'accusa di riduzionismo. In effetti, ogni opera-

zione che abbia per scopo il tentativo di spiegare il reale tenta

anche di semplificare un insieme di dati di complessità infinita,

adattandolo ad una forma argomentativa: questo è il motivo per

cui il determinismo, che è una forma di riduzionismo, è posto

inevitabilmente a fondamento di quasi tutti i modelli della teoria

sociale, compresi quelli prodotti da una cultura che più di molte

altre è rimasta isolata dal marxismo - come le teorie sociali svi-luppatesi nei paesi anglosassoni.

In altre parole, la cosiddetta vulgata del materialismo stori-

co nella Seconda e Terza Internazionale dev'essere considerata

parte integrante dello sviluppo della teoria sociale del ventesimo

secolo, e non va contrapposta a modelli che si pretendono supe-

riori a essa in base a una dubbia procedura, che allinea i vari

modelli lungo un continuum da forme «basse» a forme «alte»: è

come se si giudicasse su di un confronto tra forme artistiche

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seguendo una procedura che lungi dall'esser «moderna» appar-

tiene in realtà all'idealismo di età premoderna.

Ma la Seconda e la Terza Internazionale non si limitarono a

fornire una spiegazione del processo storico; dopotutto si tratta-

va di organizzazioni politiche, che promuovevano principi strate-gici. Uno dei principi chiave che esse sostennero concerneva il

ruolo cruciale svolto dal partito politico quale arma organizzativa

fondamentale per realizzare trasformazioni in ambito politico.

Quanto poi alle differenze fra le due internazionali, esse non

sono tanto nette come i loro rispettivi sostenitori hanno decreta-

to nel corso di interminabili polemiche: il trait d'union tra le due

era infatti la consapevolezza che lo stato moderno, e in particola-

re quello democratico, necessitava di forme organizzative non

più riconducibili al modello dei gruppi d'interesse tipico delsecolo diciannovesimo - posto che quella dei gruppi di interesse

non è affatto una recente invenzione americana, come molti

scienziati politici per lo più a digiuno di storia (ciò che non è

affatto infrequente) ci hanno spiegato nel corso degli ultimi qua-

rant'anni, ma la forma ottocentesca in cui veniva gestita la politi-

ca pre-partitica. Il partito politico come collettività formata da

dirigenti e attivisti che si mobilitano in forma più o meno perma-

nente su qualunque problema di natura politica, pronti a utiliz-

zare ogni forma di azione possibile (compresa la conquista diret-ta del potere politico) è un'invenzione dei partiti politici di sini-

stra di fine Ottocento, rapidamente imitata dai più intelligenti

politici di matrice liberale o cristiana.

Il partito politico così come tutti lo conosciamo rappresenta

la forma di organizzazione politica che ha dominato non soltanto

la politica europea di questo secolo, ma ha costituito anche la

forma di organizzazione politica essenziale di molte società post-

coloniali. La centralità del partito (i suoi rituali, il culto del lea-

der, l'insistenza sulla sua unità ecc.) non era ancora una caratteri-

stica completamente affermatasi nel corso del diciannovesimo

secolo; perciò quando Gramsci sviluppa il proprio pensiero

riguardo al moderno Principe, egli si basa sui risultati ottenuti

dalle organizzazioni politiche che lo avevano preceduto, compre-

sa la SPD - prototipo del moderno partito politico perennemen-

te lacerato fra la creazione di un ethos alternativo e il persegui-

mento del successo nell'ambito di istituzioni sviluppatesi prima

della sua nascita - e non li contraddice.

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La particolarità dei partiti di sinistra a base marxista era

l'uso di una specifica visione del processo storico al fine di garan-

tirsi una propria coerenza interna. I partiti a base cristiana o

quelli liberali non sentivano il bisogno di creare in forma esplici-

ta una narrazione di questo genere, anche se i partiti cristiani

adottarono - per usare la classificazione delle narrazioni elabora-

ta da Mannheim - una visione anarchico/reazionaria secondo la

quale alcuni aspetti del passato rappresentavano un superiore

modello di organizzazione, mentre i partiti liberali ritenevano di

poter conquistare un futuro migliore attraverso un'evoluzione

graduale.

La vulgata dei partiti della Seconda Internazionale era più

complessa di quella dei rivali cristiani e liberali. Attorno al 1890,

con lo sviluppo del programma di Erfurt della SPD incorporato

poi nei programmi di quasi tutti i partiti della Seconda Interna-

zionale, nacque un sistema ideologico caratterizzato da tre aspet-

ti: una definizione del presente, una narrazione storica in grado

di spiegare come si fosse giunti alla situazione presente, e una

visione strategica dei traguardi da raggiungere in futuro. La defi-

nizione dello scenario presente (la teoria del valore) affermava

che la società capitalista era basata su un rapporto di sfruttamen-

to esistente fra parti politiche che si ritenevano giuridicamente

eguali - lavoratori e capitalisti. La narrazione storica (il materiali-

smo storico) dava vita ad una teoria degli stadi del divenire stori-co comunemente utilizzata dagli storici - stadi che in seguito

subirono tutti alcune modifiche, tranne quello essenziale della

transizione da un'economia rurale, locale ed agraria a un'econo-

mia industriale, su cui peraltro si fonda il discorso contempora-

neo relativo agli stadi pre-industriali. Infine, la visione strategica

era fondata sulla centralità del partito politico e sull'importanza

della conquista del potere statuale onde realizzare qualunque

possibile trasformazione delle basi economiche della società.

La vulgata della Terza Internazionale non modificò alcunodi questi principi essenziali né del resto lo fece Gramsci, il cui

contributo intendeva piuttosto perfezionare e rendere più com-

plessa questa struttura di base. L'unica cosa che la Terza Interna-

zionale aggiunse di nuovo rispetto al corpus di principi esistente

fu l'ossessione nei riguardi di un problema politico che dominò

lo scenario della Seconda Internazionale. A dispetto delle molte-

plici divisioni interne che caratterizzarono quest'ultima, infatti, vi

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era un punto su cui la sua posizione era unitaria: in nessun caso il

partito della classe dei lavoratori avrebbe potuto andare al potere

assieme ai partiti borghesi. La Terza Internazionale, nata in

seguito alla decisione di molti partiti socialisti di abbandonare le

posizioni settarie ed intransigenti, oscillò continuamente fra due

diverse concezioni strategiche delle alleanze politiche: si trattava

ovviamente di una questione politica e non teorica (in altre paro-

le di una questione inerente all'interrogativo politico essenziale:

chi è il principale nemico?); e proprio perché era una questione

• politica le esigenze politiche del Pcus, il partito che dominava e

che finì per controllare la Terza Internazionale, esercitarono su

di essa un ruolo determinante.

Spesso queste posizioni politiche erano giustificate in termi-

ni teorici, in particolare nel periodo staliniano (e nonostante lametodologia fondamentalista di Stalin fosse stata anticipata da

Lenin). Quasi tutti i pronunciamenti concernenti la dottrina del

proletariato o l'intensificarsi della lotta di classe con l'avvento del

socialismo o l'inevitabilità di una Terza guerra mondiale, perciò,

erano in realtà decisioni politiche mascherate da opzioni teori-

che: ad esempio, è chiaro che le politiche di Fronte Popolare

(che ottennero il sostegno sia della Terza Internazionale che degli

eredi della Seconda) consistevano in un processo di definizione

del nemico principale (il fascismo) cui seguiva la creazione dialleanze politiche (con tutte le forze antifasciste), e davano per

scontata una sorta di omogeneità o corrispondenza fra i partiti

politici e le forze sociali che questi rappresentavano.

Questo modo di procedere resta immutato non solo nelle

riflessioni di Gramsci (per esempio sulle Tesi di Lione) ma anche

•in quelle di Togliatti (sulla Resistenza) e di Berlinguer (sul com-

promesso storico).

La visione limitata delle riforme portata avanti dai partiti

negli anni Trenta - in particolare l'idea che le riforme non pote-

vano essere strutturali, ma solo iniziative di carattere politico il

cui fine era ottenere ed accrescere il sostegno all'azione di conte-

nimento e/o eliminazione del nemico - corrisponde alla posizio-

ne di molti socialisti dell'epoca, ad esempio alla dottrina di Leon

Blum sulla possibilità di occupare il potere piuttosto che eserci-

tarlo (eventualità, quest'ultima, realizzabile soltanto con l'avven-

to del socialismo) e a quella del governo laburista degli anni

1929-31, che giustificava il perseguimento di politiche economi-

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che tradizionali sostenendo che in un sistema capitalista non era

possibile gestire l'economia in modo non-capitalista o anti-capi-

talista. Si trattava di una posizione che non differisce in modo

sostanziale da quella adottata dal Partito comunista francese alla

metà degli anni Trenta.

Il contrasto fra la vulgata della Seconda e Terza internazio-

nale, perciò, è molto meno importante di quanto si è spesso

sostenuto. A questo punto possiamo volgerci al pensiero di

Gramsci, e cercare di stabilire quale sia la sua posizione in rela-

zione ai principi politici adottati dai partiti di sinistra dell'epoca.

Perché si possa istituire un vero e proprio confronto, a mio

parere, è necessario fondarsi su di una «vulgata» gramsciana.

Andare alla ricerca del «vero» Gramsci, infatti, può esser consi-

derato un'impresa filosofica che preferirei lasciare ai filosofi; per

gli storici, invece, è più importante analizzare la storia e le fun-zioni delle interpretazioni e degli usi di Gramsci.

Da questo punto di vista, è possibile considerare la ricerca

del vero Gramsci:

1. come una lotta per legittimare la strategia del Partito

comunista italiano dopo il 1945 e, più in particolare, dopo il

1956;

2. fuori d'Italia, come una lotta per la ridefinizione della

strategia politica dei partiti comunisti o dei gruppi di sinistra, a

partire dal periodo successivo al 1968;3. come una lotta fra intellettuali per far trionfare la pro-

pria personale visione di quello che ha finito per esser considera-

to uno fra i più importanti intellettuali italiani del ventesimo

secolo;

4. come una lotta fra specialisti (storici, filosofi, scienziati

politici, critici letterari e della cultura ecc.);

5. infine, come una lotta fra intellettuali - di solito comuni-

sti - perché si continui ad attribuire un grosso peso alla teoria (e

dunque a loro) in ambito politico e in particolare nella politicaportata avanti dal comunismo italiano.

Ma non basta: alle ovvie difficoltà insite nell'interpretare il

«vero» pensiero di un pensatore si aggiunge la specifica difficoltà

di interpretare il pensiero di Gramsci, a causa della sua natura

non sistematica. Non è certo un problema nuovo: molti pensato-

ri hanno presentato le proprie riflessioni in forma non sistemati-

ca e le dispute circa l'importanza relativa dell'uno o dell'altro

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testo sono piuttosto comuni. Il pensiero di Lenin, ad esempio, è

ancora meno sistematico di quello di Gramsci, dato che quasi

tutti i suoi scritti hanno carattere d'occasione; privilegiare alcuni

testi di Lenin, così, è un'operazione condotta a posteriori e in

vista di determinati risultati. Persino il pensiero di Marx è consi-derato nel suo complesso non sistematico, in quanto anche nel

suo caso l'importanza relativa dei vari testi è stata stabilita post 

 factum - sino al punto da sottolineare l'importanza di opere gio-

vanili che lo stesso autore aveva considerato inadatte alla pubbli-

cazione, come i sopravvalutati Manoscritti del 1844.

Quando l'analisi di testi è condotta dai partiti politici o dai

loro funzionari, leader e intellettuali, le motivazioni politiche di

queste operazioni appaiono ovvie: in questo caso, la funzione

dell'analisi teorica è quella di fornire una più ampia giustificazio-ne di mutamenti nella strategia politica. Dal momento che non vi

sono reali determinanti teoriche della strategia politica, i partiti

della sinistra, sia di ispirazione marxista che non marxista, hanno

in momenti diversi adottato posizioni differenti su alcuni proble-

mi-chiave (ad esempio questioni internazionali, l'economia, il

settore pubblico, l'impianto costituzionale ecc.), e ciò non in

seguito a nuove interpretazioni teoriche ma a causa di mutamenti

congiunturali.

La «vulgata» di Gramsci non si discosta da questa regola

generale, ed è stata creata dal Partito comunista italiano con in

mente un obiettivo politico ben definito.

Si può così tracciare una matrice delle possibili trasforma-

zioni interpretative del rapporto fra Gramsci e Lenin, sulla base

della strategia seguita dal Pei nei vari decenni postbellici:

1. Gramsci era un leninista al pari della strategia del Pei

(ad esempio nell'interpretazione datane da Togliatti nel 1958);

2. Gramsci era un leninista, a differenza del Pei che era sol-

tanto un partito riformista (era questa l'opinione espressa da

alcune delle critiche mosse al Pei da sinistra negli anni Sessanta);

3. Gramsci era un non leninista, a differenza del Pei che

era un partito leninista (l'opinione espressa dalle critiche mosse

da destra e da sinistra al Partito negli anni Sessanta e Settanta);

4. Gramsci non era un leninista, proprio come non lo era il

Pei (entrambi, cioè, non erano rivoluzionari): quest'ultima inter-

pretazione fu sostenuta da varie persone, compresi molti intellet-

tuali comunisti, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta.

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Un insieme simile di trasformazioni potrebbe esser formula-

to riguardo al legame fra Pei, Lenin e l'Urss. Non è molto utile

esaminare questo aspetto nei dettagli; il lettore farebbe meglio a

consultare la migliore panoramica disponibile sulle vicissitudini

storiche dello studio di Gramsci: il libro di Guido Liguori Gram-

sci conteso. Storia di un dibattito 1992-1996, in cui si delinea

un'incredibile sequenza di ipotesi interpretative che hanno di

volta in volta sottolineato una tematica fra molte, inclusa quella

del rapporto Gramsci-Croce, il tema del Gramsci consiliare, del

rapporto Gramsci-Hegel, il Gramsci culturalista ecc. Tutto ciò è

naturalmente parte integrante della tradizione di teoria politica

italiana, nella quale la questione più importante è sempre quella

degli influssi e delle qualifiche, cioè di problemi non teorici ma

storici o politici. Allorché Gramsci viene preso in esame indipen-

dentemente dalla tradizione culturale italiana e dalle polemiche

politiche, come accade nel mondo anglosassone, è possibile far

uso del suo pensiero per sviluppare analisi in vari ambiti accade-

mici - si tratti della sociologia, dei cultural studies o della storia

sociale. Di fatto, una volta venuta meno quasi del tutto l'impor-

tanza politica di Gramsci e del comunismo nel dibattito italiano,

non vi è stata alcuna rinascita degli studi gramsciani - e ovvia-

mente si deve sperare che iniziative come il presente Convegno

cambieranno questo stato di cose.

Ciononostante, nei quattro e più decenni di seri dibattiti suGramsci credo sia emersa un'interpretazione che può essere defi-

nita dominante - il che non implica affatto che esprima il «vero»

Gramsci: ed è proprio quest'ultima che rappresenta quanto vi è

di più simile a una «vulgata» gramsciana.

Si tratta di una narrazione dominante fondata su alcune

delle brevi notazioni formulate da Gramsci riguardo alla conqui-

sta del potere in Occidente, nelle quali egli tende a distinguere la

strategia rivoluzionaria all'Est da quella che avrebbe potuto veri-

ficarsi in Occidente. La strategia rivoluzionaria dell'Est presup-pone una società civile solo parzialmente sviluppata ed uno stato

privo di legittimità; Gramsci le contrapponeva la strategia rivolu-

zionaria in Occidente, luogo sociologico e geografico caratteriz-

zato da una «solida» società civile e da un apparato statale com-

plesso. Da questa contrapposizione segue che la conquista del

potere non può realizzarsi semplicemente impadronendosi dello

stato, ma assumendo il controllo della società, cioè instaurando

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l'egemonia. Ora, il linguaggio è abbastanza confuso da far sì che

l'instaurarsi dell'egemonia possa portare alla luce l'esistenza di

un tipo di stato più o meno totalitario, o, più semplicemente e

con un esito meno drammatico, una situazione nella quale si è

venuto affermando un nuovo paradigma politico - all'interno delquale si smette di interrogarsi su alcuni problemi chiave relativi

all'organizzazione politica. Un esempio riferito ai nostri giorni

potrebbe essere l'avvento di un'ideologia favorevole al capitali-

smo: ciò che non è accaduto nel tardo secolo diciannovesimo -

di cui' pure gli storici parlano come dell'Età del Capitale - si è

invece verificato oggi in modo quasi del tutto scontato,  in

un'epoca cioè in cui i principi del mercato nel loro insieme non

sono praticamente più in discussione.

Non sorprende perciò che l'iniziatore di questa strategia siastato Togliatti, in un'epoca in cui stava sviluppando pubblica-

mente una via italiana al socialismo intesa come specifico percor-

so non-sovietico in vista del conseguimento del potere politico.

Nel 1957 Togliatti scrisse infatti in un testo pubblicato negli atti

del Convegno su Gramsci del 1958:

E assurdo chiedere alla rivoluzione proletaria di dare vita a un regimeparlamentare proprio in un paese nel quale non era mai esistito un parla-

mento. Ma in altri paesi, dove il Parlamento era riuscito a avere un con-tenuto di democraticità, come forma di consultazione e di espressionedella volontà popolare, anche a mezzo di esso si può risolvere il proble-ma di far accedere le masse lavoratrici ecc.

Nell'insieme questa distinzione fra rivoluzione all'Est e

rivoluzione in Occidente è basata su una confusione linguistica

fra due possibili significati del termine rivoluzione. Il primo è

fondato sull'idea di rivoluzione francese o bolscevica, vale a dire

un atto politico in cui un ancien regime è rovesciato e si assisteall'avvento di una forza nuova, che stabilisce nuove regole del

gioco. Il secondo concetto di rivoluzione è invece fondato

sull'idea di rivoluzione come processo a lungo termine, nel senso

in cui Marx e molti altri pensatori del diciannovesimo secolo

parlavano di 'era della rivoluzione borghese' o in cui gli studiosi

di storia economica parlano di 'rivoluzione industriale'; si tratta

di un processo che produce l'avvento di un ordine sociale ed

economico completamente differente piuttosto che la semplice

conquista del potere politico, come accade per il primo significa-

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to del termine. In tal senso è probabilmente vero che, a livello

planetario, siamo ancora nel pieno di una rivoluzione capitalista

la quale, come aveva predetto Marx, va estendendosi da una sca-

la nazionale ad una mondiale.

I punti fondamentali della vulgata gramsciana, che divenne

più intensa alla metà degli anni Settanta - vale a dire quandol'«eurocomunismo» poteva esser considerato una risposta

moderna del movimento comunista in Occidente all'incipiente

crisi della socialdemocrazia e dei regimi sovietici - si incentrava-

no su passi di Gramsci diventati, da allora, di gran lunga i più

citati nella letteratura (un segnale chiarissimo, questo, del fatto

che andava sviluppandosi una vulgata):

...in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelati-

nosa; nell'Occidente tra stato e società civile c'era un giusto rapporto enel tremolio dello stato si scorgeva subito una robusta struttura dellasocietà civile. Lo stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava unarobusta catena di fortezze e casematte; più o meno da Stato a Stato, sicapisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione dicarattere nazionale.

La caratterizzazione della società russa elaborata da Gram-

sci era senza dubbio errata: pochi storici avrebbero il coraggio di

ipotizzare che nella Russia zarista 'lo stato era tutto' mentre la

società civile era inesistente, ciò che è l'esatto opposto della

situazione effettiva. Ma ciò che ci interessa in questa sede non è

il grado di conoscenza della struttura sociale e della storia russe

di Gramsci, risultato di un breve soggiorno a Mosca e della rudi-

mentale conoscenza che poteva trarre dal lavoro degli storici

degli anni Venti e Trenta; è, invece, quel che appariva importante

negli anni Sessanta e Settanta e che può esser riassunto negli

aspetti seguenti:

1. La distinzione tra stato in senso stretto (trincea esterna) eil complesso sistema risultante dall'accumulo di consuetudini e

tradizioni, convenzioni e costumi, dall'intrecciarsi di vari livelli

di rapporti tra i gruppi d'elite (quelli che dirigono) e la massa

frammentata della popolazione ('quelli che sono diretti'). Questa

distinzione tra le forme di potere di stati cosiddetti evoluti e

quelle di altri stati era stata pienamente accettata dal socialismo

della Seconda Internazionale (e da Marx), il quale vedeva un nes-

so molto stretto tra la complessità delle strutture politiche e il

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grado di avanzamento di quelle economiche. Quasi tuni gii studi

dello sviluppo, così come si sono delineati in questo secolo sia in

Gran Bretagna sia negli Stati Uniti, sottolineano una differenza

della stessa natura tra la cosiddetta complessità dello stato in

Oriente (o dello stato coloniale, o del Terzo Mondof e quella del-lo stato occidentale.

2. L'idea che il potere politico non risiede in una stanza dei

bottoni che, una volta presa d'assalto, mette a disposiziooe tutti i

meccanismi necessari per l'esercizio del potere. Il potere politico

riposa, in ultima analisi, sulla sua stessa natura frammentaria e

disarticolata, sulla sua diversificazione. Tralasciamo l'evidente

assonanza con l'opera di Foucault; ciò che questa idea implica è

che quanti sono formalmente al comando esercitano un potere

reale, ma sono essi stessi soggetti a molteplici costrizioni che nonsvaniscono d'un tratto, appena i precedenti detentori del potere

vengono rimossi.

Ma questo, naturalmente, faceva parte sia della metodologia

della Seconda che della Terza Internazionale: per rendersene

conto, è sufficiente prendere in esame il testo leniniano Staio e

rivoluzione (un testo assurto a livello canonico), in cui si spiega

che non è possibile per il proletariato semplicemente impadro-

nirsi dell'apparato statale borghese ma occorre costruirne uno

nuovo, sulle macerie di quello vecchio. Anche la Seconda Inter-nazionale comunque, pur non avendo formulato un'idea precisa

della presa del potere, ipotizzava innanzitutto un mutamento

radicale degli apparati, sottolineando inoltre (come aveva fatto

Marx) il fatto che il potere vero nella società non si situa solo

negli apparati statali ma è anche nelle mani dei ceti borghesi e

aristocratici, non sempre uniti tra loro. L'idea che il potere politi-

co non sia immediatamente visibile è diventata quasi un luogo

comune della scienza politica.

3. Vi è poi la distinzione gramsciana tra la guerra di movi-

mento e quella di posizione, in cui solo la guerra di posizione, se

vinta, è vinta definitivamente. Da ciò segue il precetto in base al

quale occorre dare priorità e attribuire maggiore importanza alla

lotta per l'egemonia che a quella per il potere. Anche in questo

caso, la differenza e il grado di separazione tra la concezione di

Gramsci e quelle della Seconda e Terza Internazionale (oltre che

del pensiero moderno) è stata probabilmente esagerata. E diffici-

le ritenere che una forza politica non sia sempre impegnata in un

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calcolo politico circa le sue possibilità di conseguire il potere

(elettoralmente, per via diretta ecc., a seconda delle situazioni) e

tuttavia non tenga sempre conto, al tempo stesso, della costante

necessità di accrescere la propria base di sostenitori (sia prima

che dopo la conquista del potere).

L'intento di queste riflessioni non è concludere che non vi

sia alcun elemento di originalità nella vulgata di Gramsci; si vuo-

le piuttosto mettere in luce come l'insistenza sulla sua originalità

riveli una concezione della riflessione politica alquanto astorica -

come si trattasse di una serie di rivelazioni, una specie di staffetta

in cui un teorico raccoglie il testimone cedutogli da chi lo ha pre-

ceduto. Sarebbe più opportuno, invece, esaminare l'emergere di

alcune riflessioni teoriche e strategiche come parte intrinseca del-

lo sviluppo del pensiero delle nostre società - mentre semmai si

dovrebbe distinguere tra quanti capiscono che le cose cambianoe cercano di capire come cambiano, e quanti non lo capiscono

affatto.

Naturalmente avrei potuto prendere in esame altri brani

canonici di Gramsci, quali quelli sul fordismo o quelli sulla for-

mazione del consenso. Ma il risultato non sarebbe stato molto

diverso: saremmo comunque giunti a esaminare i grandi temi che

hanno sollecitato la sensibilità di teorici e politici nella seconda

metà del ventesimo secolo. Il merito di Gramsci è stato di essersi

messo in sintonia (e di averlo fatto prima di molti altri) con que-sta sensibilità. Questo spiega il motivo per il quale la vulgata di

Gramsci - che in definitiva è un modo elitario di definire la sen-

sibilità moderna - continuerà probabilmente a svilupparsi nel

prossimo secolo, al pari, forse, delle intuizioni del movimento

socialista della fine del secolo scorso.

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IL 'RITORNO A MARX'

NEI QUADERNI DEL CARCERE  (1930)

di Fabio Frosini*

PREMESSA

Quella che segue è una ricostruzione dell'approccio di

Gramsci alla 'filosofia' nei Quaderni del carcere, vale a dire del

modo in cui, nel corso del 1930, viene da lui aperto uno spazio

specificamente dedicato alla riflessione filosofica. Come mostrerò,

questa riflessione si presenta da subito esplicitamente come un'ritorno a Marx', cioè come un progetto di rifondazione del mate-

rialismo storico. Fin dall'inizio l'esercizio di lettura che Gramsci

compie su Marx è dunque inserito in una prospettiva filosofica o,

detto altrimenti, il materialismo storico, come Gramsci intende

rifondarlo, si propone da subito come una filosofia, cioè come una

concezione del mondo complessiva, e non come una scienza o

metodologia della scienza. Ciò che da questa indagine risulta è tut-

tavia non solamente la stretta implicazione tra marxismo e filoso-

fia, ma anche il fatto che, già nell'atto di avviare, nel quaderno 4,gli «Appunti di filosofia», Gramsci ha in mente quella concezione

del materialismo storico che solo più tardi (nel 1932) denominerà

sistematicamente «filosofia della praxis». Questa denominazione

non va perciò assunta a indice di una qualche discontinuità sussi-

stente tra il pensiero di Gramsci, come si viene sviluppando nel

corso del 1932, e il suo precedente marxismo, semplicemente per-

ché l'idea-base della filosofia della praxis (che è, non va dimentica-

to, profondamente originale nel quadro storico del marxismo) sus-

siste già nel 1930, ma viene intesa da Gramsci appunto come un

'ritorno a Marx'. Si tratterà perciò di vedere cosa implichi, in con-

creto, questo ritorno, sia rispetto alla tradizione marxista, sia

rispetto alla tradizione filosofica1

.

 ì. L'AUTOSUFFICIENZA FILOSOFICA DEL MARXISMO

I. L'idea con la quale Gramsci avvia lo spazio riservato alla

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ricerca filosofica (gli «Appunti di filosofia. Materialismo e ideali-

smo. Prima serie», nel Q 42

) è, se si vuole, molto semplice: torna-

re a Marx, a un testo per quanto possibile esatto e criticamente

controllato, per riprendere da li, al di qua dei vari 'marxismi',  il

filo del suo discorso filosofico3

.Ma la semplicità è solo apparente. Questo vale, intanto, dal

punto di vista personale. In Gramsci, infatti, questa esigenza è

quasi assente fino almeno al 1918, quando il giovane giornalista

socialista accreditava ancora una lettura metodologicamente

assai spigliata e fortemente selettiva di Marx, palesemente media-

ta dal neoidealismo4. Certo, anche allora era assai viva in lui la

percezione dell'imprescindibilità, per la lotta politica del proleta-

riato, di una preparazione teorica, di una 'cultura'5, ma questa

non era in alcun modo riconducibile alle misure di una qualche'ortodossia' marxista, come, d'altronde, entro quelle misure non

poteva nemmeno esser costretto il discorso propriamente teorico

sviluppato da Gramsci in quegli anni. E vero che con il passare

del tempo si nota una sempre maggiore attenzione a Marx,  ma

ciò è l'esito coerente di un'intima dinamica di pensiero e non

l'adattamento 'politico' a una qualche ortodossia6

.

Il discorso è solo in parte diverso per il periodo posteriore

alla fondazione del PCd' I (1921) e al soggiorno moscovita (1922-

23) 7 . In questa fase Gramsci si presenta per la prima volta ai pro-

pri compagni come un leader capace di prendere in mano la gui-

da del partito proprio mentre questo conosce una forte crisi poli-

tica e organizzativa8

. Nelle lettere che scrive da Vienna ai compa-

gni di partito in Italia nel 1923-24 emerge con forza la preoccu-

pazione che il lavoro di riorganizzazione sia costantemente

affiancato da uno di tipo teorico e culturale9. Ora questa preoccu-

pazione si concreta però, a differenza che nel passato,  in

un'impostazione (almeno a parole) tutta interna alla teoria

marxista, anzi 'marxista-leninista'. Certo manca qualsiasi conces-

sione esteriore a punti di vista, sia filosofici che politici, non col-

legabili (anche come arricchimento) alla precedente esperienza

torinese dell'«Ordine Nuovo», che anzi proprio ora comincia a

essere percepita da Gramsci come fondativa di tutto il proprio

operare teorico e pratico; ma è innegabile, rispetto al passato,

una maggiore attenzione al discrimine ideologico che corre tra

pensiero 'marxista' e pensiero 'borghese', e dunque una più

aspra politicizzazione della concezione del dibattito teorico10

.

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L'ortodossia' di Gramsci è tuttavia più apparente che reale.

Morti, scesi a patti o emarginati (o in via di emarginazione) i

grandi teorici marxisti occidentali (si pensi solamente alla

Luxemburg, a Lukàcs e Korsch), proprio in quegli anni si anda-

va delineando nel movimento comunista internazionale una con-

dizione di progressiva chiusura degli spazi di dibattito teorico (omeglio: una sempre più radicale funzionalizzazione del dibattito

teorico a quello politico, del quale diventava un semplice para-

vento), accompagnata e indotta da una verticalizzazione dei rap-

porti di potere in Urss e nell'Internazionale comunista. La gra-

duale codificazione, dopo la morte di Lenin, del 'marxismo-leni-

nismo' era appunto funzionale a questa strategia politica, a cui

doveva donare la legittimazione derivante dal rapporto, cosi isti-

tuito, con il fondatore dello Stato sovietico11 . In questo quadro la

posizione di Gramsci è fin dall'inizio originale, in quanto egli

non accetta la progressiva strumentalizzazione della teoria alle

esigenze politiche del momento, come non accetta la progressiva

fissazione in forme burocratiche dell'influenza goduta dal grup-

po dirigente russo in seno all'Internazionale. E questa imposta-

zione lo porta inevitabilmente a collidere, nel 1926, con i dirigen-

ti sovietici. In ottobre (dunque poche settimane prima dell'arre-

sto), a nome dell'Ufficio politico del PCd'I indirizza al comitato

centrale del Partito bolscevico una lettera, nella quale interviene

senza mezzi termini nei problemi interni di quest'ultimo:

Compagni, voi siete stati, in questi nove anni di storia mondiale, l'ele-mento organizzatore e propulsore delle lotte rivoluzionarie in tutti i pae-si: la funzione che voi avete svolto non ha precedenti in tutta la storia delgenere umano che la uguagli in ampiezza e profondità. Ma voi oggi statedistruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annulla-re la funzione dirigente che il Partito comunista dell'Urss aveva conqui-stato per l'impulso di Lenin12.

Le lotte intestine nel Partito bolscevico tra la maggioranza,

guidata da Stalin e Bucharin, e la minoranza di Trockij, Kamenev

e Zinov'ev gli sembrano mettere in questione quella funzione di

leadership internazionale che secondo lui deriva unicamente dalla

dimostrazione effettiva, pratica della capacità di proseguire sulla

via della costruzione del socialismo, e non invece da posizioni di

potere sancite burocraticamente o da rendite storiche 1 3. Un indi-

ce di quella capacità sta proprio nella vita interna del partito del

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proletariato, che deve essere (qui Gramsci riprende una sua idea

giovanile) si unitario, ma di un'unità e di una disciplina che «non

possono essere meccaniche e coatte; devono essere leali e di con-

vinzione»14

.

IL Stesso l'indirizzo sul terreno teorico. Una prima lista di

testi che Gramsci ha in mente al principio del 1924, progettando

una scuola di partito e un corso per corrispondenza, comprende,

tra gli altri, scritti di Lenin, Korsch e Bucharin (la Teoria del

materialismo storico), oltre a nuove edizioni, filologicamente

rigorose, di alcuni scritti (noti e meno noti) di Marx ed Engels 1 5.

Anche su questo terreno si può notare il tentativo di inserire ilproprio discorso entro il dibattito internazionale, mantenendo

però sempre uno spazio di manovra che consenta di articolare

una propria posizione originale. Non si può pensare che Gramsci

abbia utilizzato, traducendola e sunteggiandola nella prima

dispensa della scuola di partito, la Teoria del materialismo storico

di Bucharin (proprio il volume che demolirà impietosamente nei

Quaderni), per puro opportunismo16

. Eppure è innegabile che la

distanza teorica che lo separa dal russo, anche nel 1924-25, è

abissale ed è già, sostanzialmente, quella che verrà esplicitatapuntigliosamente in carcere. In effetti l'unico punto di contiguità

di Gramsci e Bucharin è un certo settarismo nella concezione

della 'cultura' che l'italiano manifesta in questo momento:

Né uno 'studio oggettivo', né una 'cultura disinteressata', possono averluogo nelle nostre file; nulla quindi che assomigli a ciò che viene consi-derato oggetto normale di insegnamento secondo la concezione umani-stica, borghese della scuola. Siamo una organizzazione di lotta [...]. Stu-dio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri finiimmediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli inatto

17

.

Questa idea della totale estraneità di 'cultura proletaria' e

'cultura borghese' può essere accostata all'idea buchariniana di

una 'scienza proletaria' contrapposta alla 'scienza borghese'1 8

,

idea che avrà peraltro molta fortuna nel marxismo della Terza

Internazionale nel corso degli anni Venti. Anzi, la stessa conce-

zione del marxismo con cui viene avviata nei Quaderni la rifles-

sione filosofica, come «teoria» che «è rivoluzionaria in quanto è

[...] elemento di separazione completa in due campi, in quanto è

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vertice inaccessibile agli avversari», e la connessa esigenza di

tagliare «completamente [...] i legami col vecchio mondo»' 9 ,

sono delle evidenti derive (almeno parziali) della posizione del

1924-25.

Resta però il fatto che il 'ritorno a Marx' propugnato nel Q

4 è un elemento di almeno indiretto contrasto rispetto all'orto-dossia. Cosi quando (poche righe sopra il passo ora citato)

Gramsci afferma che

il concetto di 'ortodossia' deve essere rinnovato e riportato alle sue origi-ni autentiche. L'ortodossia non deve essere ricercata in questo o quellodei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti estra-nee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, con-tiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire unatotale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per vivificare una

totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una inte-grale, totale civiltà [Q 435],

cos'altro sta facendo, se non demolire alla base la doppia

idea sulla quale in quegli anni veniva edificato il 'marxismo-leni-

nismo', vale a dire, da un lato, il nesso forte istituito tra Marx e

Lenin («questo o quello dei discepoli di Marx»), dall'altro l'idea

che la filosofia del marxismo fosse il materialismo («quella o que-

sta tendenza legata a correnti estranee al marxismo»)?

La versione materialistico-dialettica del marxismo (a cui

faceva capo Plechanov e quindi Lenin 2 0, e dalla quale verrà tratto

il marxismo 'ufficiale' sovietico) non è dunque altro, per Gram-

sci, che una forma di anestetizzazione dell'inaudita novità del

discorso filosofico di Marx («Marx inizia intellettualmente

un'epoca storica che durerà probabilmente dei secoli» 2 1), esatta-

mente come lo sono, in forma opposta e complementare, le varie

'revisioni del marxismo' che a cavallo tra i due secoli sostennero

la necessità di integrare la dottrina di Marx con elementi filosofi-

ci tratti dal pensiero non marxista (sopratutto, ma non solo, sul

terreno dell'etica). Il marxismo materialistico e quello neokantia-

no sono dunque entrambi delle forme di 'revisionismo'. Di più:

Gramsci afferma addirittura 2 2 che è stata la «tendenza» che

«ricade nel materialismo volgare» ad aver «creato la sua opposta,

di collegare il marxismo col kantismo». Inoltre «la ragione stori-

ca» della genesi del marxismo materialistico-volgare sarebbe «da

ricercare nel fatto che il marxismo ha dovuto allearsi con tenden-

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ze estranee per combattere i residui del mondo precapitalistico

nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso». In altre

parole, è stata la necessità politica di diffusione della dottrina che

ha favorito il materialismo volgare, più vicino di altre correnti di

pensiero maggiormente elaborate alla mentalità popolare, fonda-mentalmente religiosa: a Dio si è cosi sostituita la Materia, cioè

un Principio anch'esso estraneo e preesistente all'uomo23

.

E evidente, infine, che individuando T'ortodossia' del

marxismo non in una posizione teorica definita, ma nell'afferma-

zione formale della sua autonomia e indipendenza sul terreno

filosofico, Gramsci non 'svuota' questo concetto di qualsiasi

determinazione teorica definita; e nemmeno rifiuta qualsiasi idea

di sua integrazione e aggiornamento sulla base dell'esperienza

storica. Molto semplicemente, quello che egli vuole far rilevare èuna duplice esigenza: che, in primo luogo, si torni a leggere

Marx al di qua dei marxismi, tentando di individuare la rivolu-

zione da lui operata sul terreno filosofico (rivoluzione miscono-

sciuta e occultata dai suoi «discepoli»); e, in secondo luogo, che

si estragga da li, e non da concetti avventizi, tutto ciò che, di vol-

ta in volta, l'esperienza storica richiede in termini di teoria. Ma,

di nuovo, 'estrarre' non va qui inteso come un dedurre conse-

guenze da principi (come se Marx avesse già detto tutto, anche

sulla storia posteriore), ma come un processo creativo che, fon-dandosi sulla propria autonomia teorica, sappia anche confron-

tarsi con le correnti di pensiero contemporanee ed eventualmen-

te assorbire (criticandoli) alcuni loro aspetti o momenti.

2. LA FILOSOFIA DELLA PRAXIS

I. Dov'è allora il nocciolo autentico della 'nuova' filosofia di

Marx? Gramsci lo dice subito, nelle battute iniziali di AF I:

Marx produce, rispetto sia a Hegel (idealismo) che a Feuerbach

(materialismo), «una nuova costruzione filosofica: già nelle tesi

su Feuerbach appare nettamente questa sua nuova costruzione,

questa sua nuova filosofia»24

. Sono note le vicende editoriali di

questo breve testo: redatto nella primavera del 1845, fu da Marx

lasciato inedito e pubblicato per la prima volta dopo la sua morte

da Engels nel 1888, in appendice al suo Ludwig Feuerbach und 

der Ausgang der deutschen klassischen Philosophie2

 ^, in un'edizio-

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ne sostanzialmente corretta, ma che presentava tuttavia delle lievi

varianti rispetto al manoscritto originale (come più avanti si

vedrà). In edizione critica le Tesi uscirono poi, a cura di David

Rjazanov, nel 1925, insieme all'Ideologia tedesca26 

.

Le Tesi furono tradotte in italiano per la prima volta nel

1899 da Giovanni Gentile (sulla base, ovviamente, del testo edito

da Engels) e poste al centro di una fortunata e molto discussa

interpretazione della «filosofia di Marx»2 7

che Gramsci sicura-

mente conosceva28

. Eppure, lungo tutto l'arco degli scritti prece-

denti i Quaderni non compare, nonostante la grande insistenza

sulT'agire' e sulT'atto', un solo riferimento a questo testo. Una

riflessione sulle Tesi si trova solo nei Quaderni, ma qui è davvero

approfondita: Gramsci non solo le traduce in italiano, ma le

pone anche, come si è iniziato a vedere, al centro della propria

personale ricostruzione del materialismo storico, insieme a pochi

altri testi di Marx: la Miseria della filosofia, la Prefazione a Ver la

critica dell'economia politica - altro testo che traduce in italiano -

alcuni passi della Sacra famiglia, del Capitale (in particolare il

 Libro T) e della Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana

del diritto pubblico™.

II. Negli 11 brevi aforismi redatti a Bruxelles nel 1845 il

giovane filosofo e agitatore renano prende decisamente le distan-

ze da Ludwig Feuerbach, definendo una propria personaleimpostazione filosofica basata sul concetto di «praxis», intesa

come «attività sensibile umana» [Q 2355] 3 0 . In questa espressio-

ne Marx sintetizza (Tesi 1) l'attività, fino ad allora pensata nei

termini dell'idealismo come spirito (dunque non sensibile), e la

sensibilità, fino ad allora pensata nei termini del materialismo

come mera passività, intuizione (dunque non attiva). Un'attività

sensibile umana è dunque si un'attività (Tätigkeit), ma un'attività

sensibile, pratica, non teoretico-speculativa; e al contempo è una

forma della sensibilità, ma di una sensibilità intesa in modo atti-vo, non intuitivo e passivo. Insomma se l'idealismo aveva svilup-

pato un concetto di attività di tipo speculativo, il materialismo

(feuerbachiano) si era contrapposto si alla speculazione, ma per-

dendo di vista l'attività e restando di conseguenza rinchiuso in

una concezione meramente passiva del conoscere. Nell'uno e

nell'altro caso la realtà, l'oggetto viene comunque concepito spe-

culativamente: dall'idealismo, perché esso è pensato si come

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risultato di una produzione, ma questa produzione avviene nel

 pensiero; dal materialismo, perché l'esigenza, da esso formulata,

di «oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero»

 {Tesi 1 [Q 23 55 ]) mette capo a un'idea di «intuizione sensibile»

(Tesi 5 [Q 2356]) che rinuncia all'attività e pertanto si limita diporre dinanzi a sé un oggetto statico e immodificabile.

All'uno e all'altro Marx oppone la sua idea della pratica

(Praxis), vale a dire una concezione dell'oggetto come oggetto di

un'attività sensibile, il lavoro, e pertanto, da una parte, realmente

posto-innanzi all 'uomo 3 1 (e non speculativamente posto),

dall'altra, conosciuto (nel concreto della sua pratica trasforma-

zione) come dinamico e modificabile32 . In altri termini, nel con-

cetto di praxis (che egli infatti nella stessa Tesi definisce «attività

oggettiva, effettiva», «gegenständliche Tätigkeit» [Q 2355]) Marxpensa in modo nuovo la pratica, cioè tutta la rete di attività di

varia natura che, afferma, costituiscono «essenzialmente» la «vita

sociale» (TesiS  [Q 2357]).

Feuerbach, che aveva nettamente distinto la praxis dal

«modo di procedere teoretico» (da lui giudicato il solo «schietta-

mente umano»), nella Essenza del cristianesimo l'aveva di conse-

guenza «concepita e stabilita solo nella sua raffigurazione sordi-

damente giudaica [schmutzig-jüdisch]» (Tesi 1 [Q 23 55 ]) , che,

nei termini feuerbachiani, equivale a dire nella sua forma mera-mente egoistica e particolaristica. Per il filosofo di Landshut,

infatti, la «concezione pratica» (in cui rientra in modo paradig-

matico la religione) si accosta alle «cose» essenzialmente (ed

egoisticamente) in funzione di una qualche utilità e le considera

pertanto non per se stesse, quali realmente sono, ma esclusiva-

mente per ciò in cui mi sono utili. Pertanto essa è «una concezio-

ne impura [schmutzigì» }} 

. Marx rovescia questa concezione,

affermando che è proprio ponendosi nell'ottica pratica che si

conoscono realmente le cose, gli oggetti, per quello che sono,

cioè come momenti di una vita sociale fondata sulla loro trasfor-

mazione. Il fatto che l'oggetto sia 'per me' non significa altro se

non che appartiene alla «vita sociale», è inserito nella rete di rap-

porti pratici che la costituiscono.

La concezione della società come rete di rapporti pratici

definisce in modo nuovo e originale il nesso uomo-società. Que-

sto non può in alcun modo venire concepito come un rapporto a

senso unico, quale che sia tale senso (l'individuo costituisce la

40

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società ovvero la società costituisce l'individuo), proprio perché il

concetto di 'rapporto pratico' porta dentro di sé, costitutivamen-te, l'idea della reciprocità e anzi coessenzialità di attività e passi-vità34. Infatti l'individuo agisce praticamente, è attivo, solo inse-rendosi in rapporti determinati, che egli trova come già dati, eche quindi, allo stesso tempo, lo costituiscono come individuosociale. Viceversa, questi rapporti vengono costantemente rinno-vati e nuovamente costituiti dall'attività individuale, e anzi nonsono altro che le forme nelle quali gli individui attivamente tra-sformano le condizioni materiali della propria esistenza sociale(cioè lavorano). Questa coincidenza del trasformare e dell'essertrasformati (trasformare in quanto si viene trasformati e vicever-sa) è la concezione dialettica della socialità che Marx afferma nel'le Tesi, e che si trova espressa sinteticamente anche nella Ideolo-

gia tedesca, anch'essa scritta, insieme a Engels, nel 1845:

Questa concezione [materialistica] della storia [...] non spiega la prassipartendo dall'idea, ma spiega la formazione di idee partendo dalla prassimateriale [...] Essa mostra [...] che ad ogni generazione è stata traman-data dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostan-ze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuovagenerazione, ma che d'altra parte impone ad essa le sue proprie condi-zioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere;che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli

uomini facciano le circostanze. Questa somma di forze produttive, dicapitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni genera-zione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che Ì filosofisi sono rappresentati come 'sostanza' ed 'essenza dell'uomo'35.

È evidente qui che la nuova concezione della società e delrapporto uomo-società è anche, allo stesso tempo, una ridefini-zione della 'socialità' o 'umanità' dell'uomo. Nella Tesi 6 si leggeche «l'essenza umana non è una astrazione immanente nel singo-

lo individuo. Nella sua realtà è l'insieme dei rapporti sociali [das Ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse]» [Q 2357] '

6

. In

altre parole, quello che si è tradizionalmente inteso con l'espres-sione 'essenza umana' non è, per Marx, un attributo dell'indivi-duo (che in qualche modo lo lega alla sua 'natura'), ma, al con-trario, «è ciò che esiste tra gli individui, per le loro moltepliciinterazioni»3 7. Ne consegue anche che l'essenza umana non èqualcosa di 'essenziale', di fisso e immutabile, ma qualcosa didato di volta in volta, e precisamente è la correlazione originaria

41

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sussistente tra individuo e società (cioè tra gli individui).

Il risultato delle Test sta nella reinterpretazione della 'realtà'

e della 'oggettività' come un insieme di rapporti attivi che a ogni

istante costituiscono gli uomini come 'animali sociali' in quanto

vengono da essi costituiti. Una volta accettato questo punto divista, la tradizionale distinzione tra 'uomini' e 'circostanze'

(Marx parla [Tesi}] di Umstände™), tra condizione e condiziona-

to viene a perdere di importanza. Ciò che è in questione non è

d'altronde l'esistenza di tali distinzioni e rapporti (esistenza di

un'evidenza non bisognosa di dimostrazione), ma la loro natura.

Questa nuova concezione della società permette di rifiutare

l'idea secondo la quale la distinzione di attività e passività può

essere considerata fondante e determinante sul piano ontologico,

sia in un senso che nell'altro, cioè sia in quanto si facciadell'uomo un ente passivo di fronte alle «circostanze» (materiali-

smo), sia in quanto si faccia di queste un mero prodotto della

spontaneità dello spirito (idealismo). Nella Tesiò, sotto forma di

una critica a determinati aspetti paradossali derivanti dalla «dot-

trina materialistica che gli uomini sono il prodotto dell'ambiente

[Umstände] e dell'educazione», per cui, a voler modificare (rifor-

mare) la società, ci troveremmo costretti a scinderla «in due par-

ti, una delle quali è sopra posta alla società» [Q 2356] stessa, ha

luogo un regolamento di conti filosofico. Il paradosso di una par-te della società sottratta al gioco di condizionamenti, e quindi

alla storia, può essere risolto solo pensando la trasformazione

della società come «auto-trasformazione»39, cioè come «la coinci-

denza del mutarsi dell'ambiente [Umstände] e dell'attività uma-

na» 4 0 . Questa coincidenza di condizione e condizionato, di attivo

e passivo è il processo dialettico reale, che può essere «concepito

e compreso razionalmente solo come prassi rivoluzionaria»41

.

L'esito della riqualificazione della realtà in termini di praxisè la comprensione della praxis come trasformazione della realtà,

e dunque l'affermazione della necessità che la filosofia si faccia

teoria di questa praxis, cioè teoria rivoluzionaria (Tesi 11: «I filo-

sofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta

ora di mutarlo» [Q 2357]).

III. L'unico filosofo marxista che abbia compreso la centra-

lità del concetto di praxis è, secondo Gramsci, Antonio Labriola,

in quanto è stato anche il solo a sostenere «che la filosofia del

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marxismo è contenuta nel marxismo stesso», tentando cosi «didare una base scientifica al materialismo storico» [Q 309] 4 2 .

È stato autorevolmente scritto che «nello sviluppo della per-sonalità di Gramsci, nel periodo giovanile, come nell'esperienzadell'Ordine Nuovo e nel primo periodo di formazione del partitocomunista, non pare di poter ravvisare una influenza rilevantedell'insegnamento di Labriola»

43

, ed è vero: i riferimenti al filosofodi Cassino sono sporadici. Ma sono anche (si noti) tutti positivi etutti rivolti nella stessa direzione che è, in fondo, anche quella deiQuaderni: l'individuazione in Labriola dell'unico vero rappresen-tante del marxismo teorico in Italia*

4

. Nei Quaderni questo giudi-zio viene radicalizzato, e in Labriola Gramsci individua l'unicovero rappresentante del marxismo teorico tout court. Come nonpensare che siamo qui di fronte a una significativa coincidenza?Non è forse questa radicalizzazione contestuale alla crucialità asse-gnata alle Tesi su Feuerbach, cioè alla categoria di 'praxis' e quindiall'interpretazione del marxismo come 'filosofia della praxis'? Nonera stato, d'altronde, proprio Labriola a definire, nel 1897, come«filosofia della praxis» quello che gli pareva essere «il midollo del

materialismo storico» 4 5? Di più: pur non riferendosi alle Tesi,

Labriola aveva individuato (come farà poi Gramsci) la specificitàdi Marx come filosofo nel superamento contemporaneamente di«materialismo naturalistico» e «idealismo»:

Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astrattateoria: e non da questo a quello [...] Il materialismo storico, ossia la filo-sofia della praxis, in quanto investe tutto l'uomo storico e sociale, comemette termine a ogni forma d'idealismo [...], cosi è la fine anche delmaterialismo naturalistico-46.

Ma le affinità tra Gramsci e Labriola non si fermano qui.Secondo quest'ultimo la filosofia della praxis è «la filosofiaimmanente alle cose su cui filosofeggia»47 , intendendo con ciòche lo stesso statuto dei 'concetti' doveva essere ridefinito: nonpiù «cose ed entità fisse» ma «funzioni»

4

*, più precisamente «fun-

 zioni sociali» generate nelle «correlazioni di consociazione prati-ca, che corrono da individuo a individuo» 4 9, cioè nei rapporti

sociali (i quali, viceversa, costituiscono l'individuo come indivi-duo sociale

50

).

Non è difficile ritrovare in questi passaggi le fonti della let-

43

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tura gramsciana di Marx (cioè del Marx 'filosofo della praxis'),

in particolare su due punti, a ben vedere strettamente correlati.

In primo luogo, la riqualificazione del concetto idealistico

moderno di «immanenza». In 4,11 si legge: «Marx dà al termine

'immanenza' un significato proprio, egli cioè non è un 'panteista'nel senso metafisico tradizionale, ma è un 'marxista' o un 'mate-

rialista storico'» [Q 433] . In un altro testo, contenuto nel Q 10 e

quindi a questo posteriore di circa due anni, Gramsci torna a

parlare di Labriola, non casualmente a proposito del concetto di

una «filosofia della praxis» e in connessione al nuovo terreno

teorico aperto dalle Tesi su Feuerbach: «Lo stesso Croce, in una

nota del volume Materialismo storico ed economia marxistica,

riconosce [...] esplicitamente come giustificata l'esigenza di

costruire una filosofia della praxis posta da Antonio Labriola»5 1

.E prosegue notando che l'interpretazione secondo la quale le

Tesi sono non già il rifiuto della filosofia per la politica pratica

(come le intende Croce), ma un'energica «rivendicazione di

unità tra teoria e pratica», equivale alla «affermazione della stori-

cità della filosofia fatta nei termini di un'immanenza assoluta, di

una 'terrestrità assoluta'» [Q 1271]. Il nuovo significato conferito

da Marx al concetto di «immanenza» si collega dunque, per

Gramsci (esattamente come per Labriola), all'idea della terre-

strità del pensiero.

Il secondo punto è l'interpretazione del concetto di 'praxis'.

Il primo testo (in ordine temporale) in cui questa viene intrapre-

sa è 4,37. Qui Gramsci, discutendo un saggio apparso nella

«Civiltà cattolica» in cui idealismo e materialismo vengono con-

trapposti come «monismi» entrambi contrari alla religione,

osserva che il materialismo storico non è

né il monismo materialista né quello idealista, né 'Materia' né 'Spirito'

evidentemente, ma 'materialismo storico', cioè attività dell'uomo (sto-ria)52 in concreto, cioè applicata a una certa 'materia' organizzata (forzemateriali di produzione), alla 'natura' trasformata dall'uomo. Filosofiadell'atto (praxis), ma non delT'atto puro', ma proprio dell'atto 'impuro',cioè reale nel senso profano della parola [Q 455].

Uimpurità dell'atto è evidentemente da collegare a quella di

immanenza vista sopra. Tornerò più avanti su questo nesso (cfr.

3.III); ora, in riferimento a 4,37, va evidenziato il fatto che, defi-

nendo il concetto di praxis, Gramsci lo demarca non solo rispet-

4d 

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to agli opposti monismi metafisici, ma anche rispetto alla filoso-fia dell'atto puro, cioè all'attualismo gentiliano. Rispetto ai primi,in quanto nell'egire il materialismo storico individua l'unità con-creta di soggetto e oggetto, e quindi un luogo teorico a partiredal quale lo stesso problema del dualismo di coscienza e mondoperde di significato. Rispetto al secondo, in quanto quel luogoteorico non è la concretezza come interiorità nel senso gentilia-no, ma proprio la salvaguardia di quell'esteriorità (contingenza,evenemenzialità) presente nell'agire «reale nel senso profano del-la parola», cioè nel senso più immediato e comune. La questionedi una 'filosofia della praxis' può dunque essere riformulatacome la questione della possibilità stessa di quella salvaguardia.

È, in definitiva, la stessa domanda formulata da Gentile nel-la Filosofia di Marx, alla quale egli aveva dato però una risposta

negativa, in quanto dall'alternativa tra materialismo naturalistico eidealismo storicistico non era, secondo lui, possibile uscire. Equesto perché, in definitiva, per Gentile 'materialismo' non è(come per il Marx delle Tesi) l'esigenza - schiettamente post-hegeliana - di rivendicare la finitezza del pensiero (e quindi laricerca dell'immanenza), ma la metafisica della materia, trascen-dente e dualistica per definizione, per di più presentata in tutta lasua crudezza53. Cosicché il concetto di «praxis» viene giudicatoinconciliabile con quello di materia, e l'intera idea di un «materia-

lismo storico» liquidata come contraddizione in termini54

.Puntando sulla novità semantica del concetto di «immanen-

za» in Marx rispetto alla metafisica moderna, Gramsci imboccala via ermeneutica esattamente opposta a quella di Gentile. PerGramsci la questione da svolgere non è solo (e non propriamen-te) quella del rapporto tra idealismo e materialismo, ma quelladel modo in cui, di fronte a queste due opposte posizioni di pen-siero, Marx cambia terreno, producendo una discontinuitàrispetto a entrambe (e anche alla loro combinazione più o meno

riuscita). L'espressione «filosofia della praxis» indica questo scar-to, consistente nella storicizzazione del pensiero, cioè nella con-cezione di esso come dotato di senso solo in riferimento a unospecifico contesto pratico. In Gentile, al contrario, la medesimaespressione indica il tentativo, inevitabilmente aporetico, di pen-sare come possano conciliarsi il pensiero speculativo tradiziona-mente inteso e l'altrettanto tradizionale materia-natura. Cosi, seper Gentile «materialismo storico» significa 'dinamizzazione del-

45

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la materia' (cioè introduzione ab extra dell'attività nella morta

materia), il significato che Gramsci assegna a questa locuzione è

non tanto contrario, quanto piuttosto dislocato su di un altro ter-

reno, indicando essa la concezione secondo la quale l'accadere

(quindi l'agire), nella sua specificità irriducibile, non rinvia adaltro che a se stesso per essere compreso.

E chiaro che questa idea di immanenza ha un qualche lega-

me con Machiavelli, ed è infatti lo stesso Gramsci a darcene una

conferma in un testo (5 ,127) a questi dedicato e, verosimilmente,

posteriore solo di alcune settimane a 4,37". In esso si legge che il

Segretario fiorentino

nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei con-

cetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non siste-matica, e ha espresso una concezione del mondo originale che si potreb-be anch'essa chiamare 'filosofia della praxis' o 'neo-umànesimo' in quan-to non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafi-sico) ma si basa tutta sull'azione concreta dell'uomo che per le suenecessità storiche opera e trasforma la realtà [Q 6571.

In un certo senso è proprio l'idea-base di Machiavelli, l'irri-

ducibile antitesi virtù-fortuna, con l'apertura radicale all'imprevi-

sto che essa comporta, ciò che maggiormente attira Gramsci.

Proprio perché aleatoria (e indeducibile da altro), questa struttu-

ra implica infatti l'esclusione non solo della trascendenza, ma

anche (come viene notato) della stessa immanenza metafisica-

mente intesa, lasciando visibile esclusivamente l'azione nella sua

effettività, che pertanto deve diventare pensabile a partire da se

stessa e da nient'altro.

Il concetto di praxis abbozzato nel corso del 1930 si verrà

precisando e articolando nel 1931-32, dando luogo all'idea

dell'identità dialettica di politica e filosofia: se la filosofia, cioè il

pensiero nella sua forma eminente, è anch'essa una forma di pra-

tica, una ideologia, allora essa è anche una politica, una pratica

rivolta a un oggetto specifico, le 'coscienze' da conformare di

volta in volta alle esigenze di una classe sociale determinata. La

filosofia è, in termini crociani, una «religione» o, in termini

gramsciani, una forma di «egemonia». E questo, credo, il senso

del passo seguente:

46 

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Riduzione a 'politica' di tutte le filosofie speculative, a momento dellavita storico-politica; la filosofia della praxis concepisce la realtà dei rap-porti umani di conoscenza come elemento di 'egemonia' politica

56

.

Va sottolineato che questa idea di 'riduzione' di filosofia e

politica comporta anche delle acquisizioni nuove rispetto al

1930. La traduzione della filosofia speculativa in politica-ideolo-gia non è finalizzata alla sua liquidazione. L'intento di Gramsci è

precisamente l'opposto e consiste nel decifrare la 'speculazione'

non come un allontanamento dalla realtà (come se solo il prag-

matismo volgarmente inteso, o, peggio, le scienze positive fosse-

ro pensiero 'realistico'!) ma come una forma 'a suo modo' di

politica, dotata di una sua peculiare efficacia (l'esempio che egli

ha costantemente di fronte è la «religione della libertà» di Bene-

detto Croce come filosofia-ideologia grande-borghese, cemento

coesivo della classe colta italiana e anzi europea)57

.

3. LE IDEOLOGIE E IL CONCETTO DI OGGETTIVITÀ

I. Rispetto alle tradizionali posizioni filosofiche del materia-

lismo e dell'idealismo e alla loro riflessione all'interno della storia

del marxismo, Gramsci propugna un'impostazione di tipo radi-

calmente relazionale e funzionale secondo la quale gli individui

sono un intreccio di 'rapporti sociali' economici, politici, cultura-

li e financo, come si è visto, «di conoscenza», rapporti che costi-

tuiscono gli individui in quanto vengono da essi costituiti (cioè

costantemente riprodotti). In quest'ottica funzionale e correlati-

va viene riformulata una questione tradizionale della filosofia:

quella della verità o della oggettività. Se infatti non vi è un fonda-

mento (sia esso la Materia o l'Idea) che funzioni da garanzia

suprema, quale sarà il criterio della verità e come andrà inteso

questo concetto? Intanto, un punto fermo è che il concetto di

verità deve essere riformulato a partire dalla praxis, cioè dalla

situazione in cui concretamente l'uomo sperimenta il carattere

correlativo della realtà, in quanto, rapportandosi a delle condi-

zioni date per trasformarle, ne viene al contempo trasformato.

Questa riformulazione ha luogo in AF I, in particolare in un

gruppo di note5 8

che, direttamente o indirettamente, ruotano

attorno a quel celebre testo della maturità di Marx - la Prefazio-

47 

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ne del 1859 a Per la critica dell'economia politica - che nel marxi-

smo della Seconda Internazionale era diventato il più fermo

sostegno di un'interpretazione deterministica ed economicistica

del materialismo storico. Ora la particolarità di Gramsci sta nel

fatto che egli lo pone, accanto alle Tesi, a fondamento della pro-pria interpretazione del marxismo, leggendolo in una direzione

esattamente opposta a quella dominante (e anzi, si può aggiunge-

re, lo legge in quel modo proprio perché lo pone accanto alle Tesi

e, come si vedrà, alla Miseria della filosofia, finendo per darne

un'interpretazione che è una forte torsione del testo di Marx)5 9

.

La tesi principale della Prefazione è la seguente:

Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entrano a far parte di

rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, rapportidi produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppodelle loro forze materiali di produzione. L'insieme di questi rapporti diproduzione forma la struttura economica della società, la base reale, sul-la quale si innalza una superstruttura giuridica e politica, e alla qualecorrispondono determinate forme sociali di coscienza [Q 2358].

Per Marx i rapporti sociali fondamentali sono quelli econo-

mici di produzione ed è la dinamica di questa sfera della vita

sociale (la dialettica «rapporti di produzione»/«forze materiali di

produzione») che definisce l'ambito dell 'oggettività, vale a dire

l'istanza determinante dell'evoluzione sociale. La distinzione

base-sovrastruttura {Basis-Uherbau) serve appunto a marcare

questa peculiarità funzionale, vale a dire il rapporto di determi-

nante a determinato, non a distinguere una pretesa sfera materia-

le-oggettiva da una ideale-soggettiva, cioè T'essere' dalla

'coscienza' (o, peggio, la realtà solida dall'illusione volatile)60

.

Pertanto è stata un'interpretazione riduzionistica quella

secondo la quale «si potrebbe parlare di realtà materiale 'in fon-

do' soltanto per le cose economiche, mentre tutte le altre manife-

stazioni sociali - Stato, diritto, forme di coscienza di vario grado

- possiederebbero sempre meno 'realtà' e, infine, svanirebbero

in pura 'ideologia'»6 1

. Esattamente questa forma di riduzionismo

economicistico combatte Gramsci, criticando la riduzione dello

«'sviluppo delle forze economiche' in generale» all'evoluzione

dello «strumento tecnico»: sbaglia chi (come nella fattispecie

Luigi Einaudi) «crede che per il marxismo 'strumento tecnico' o

'forze economiche' significhi parlare delle cose materiali e non

48

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dei rapporti sociali, cioè umani, che sono incorporati nelle cose

materiali e la cui espressione giuridica è il principio di

proprietà»62 . Gramsci si batte cioè contro un intendimento volga-

re del concetto di 'materialità' delle forze produttive, come appa-

re ad esempio in Bucharin, ma anche nell'economista non marxi-

sta Achille Loria: è questa «una deviazione infantile della filoso-

fia della praxis, determinata dalla convinzione barocca che quan-

to più si ricorra a oggetti 'materiali' tanto più si è ortodossi»6

'.

Nel materialismo storico in realtà «la materia non è [...] conside-

rata come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata

per la produzione, come rapporto umano»64

.

II. Ma il riduzionismo ha due lati, complementari: all'impo-

verimento della coppia rapporti di produzione/forze produttive

materiali nella concezione dello 'strumento tecnico' corrisponde,di rimando, la riduzione delle forme di coscienza, delle 'ideolo-

gie', a pura chiacchiera, ad 'apparenze' e 'illusioni'. Questo

secondo aspetto del nesso base-sovrastruttura viene sviluppato

da Gramsci secondo due direttrici. La prima di esse corrisponde

alla necessità di combattere il determinismo economistico anni-

datosi nel seno del materialismo storico, secondo il quale, da un

lato, l'ideologia sarebbe mero mascheramento di ben più concre-

ti e 'sordidi' interessi 'materiali' (cioè economici e addirittura

monetari); e, dall'altro, lo sviluppo storico complessivo altro nonsarebbe che un riflesso diretto e meccanico di quello economico.

La seconda direttrice è invece la risposta alle critiche trancianti

rivolte al marxismo da Benedetto Croce a partire dalla fine della

guerra. Questi, che nel 1896 aveva affermato, contro il volgare

determinismo di un Loria, che

né il Marx si è mai proposto questa indagine intorno alla causa ultimadella vita economica. La sua filosofia non era cosi a buon mercato. Non

aveva 'civettato' invano con la dialettica dello Hegel, per andar poi a cer-care le 'cause ultime'65

,

invece nel 1928 sostiene che il materialismo storico conside-

ra «sostanziale la vita economica e apparenza, illusione o 'sopra-

struttura', come [esso] la chiamava, la vita morale»6 6

, e nel 1930,

infine, che esso è una dottrina,

peggio che metafisica, addirittura teologica, dividendo l'unico processo

49

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del reale in struttura e soprastruttura, noumeno e fenomeno, e ponendosulla base come noumeno un Dio ascoso, l'Economia, che tira tutti i filie che è la sola realtà nelle apparenze della morale, della religione, dellafilosofia, dell'arte e via dicendo

67

.

Insomma con gli anni Croce, sempre più reciso nel «racco-

mandare di liberarsi dai residuali [...] preconcetti» del materiali-

smo storico6 8

, finirebbe, secondo Gramsci, per attaccare proprio

quella «deviazione infantile della filosofia della praxis» contro la

quale si batte anch'egli, assumendola tuttavia a scopi polemici

come la versione autentica del pensiero di Marx. Quindi batten-

dosi contro l'economismo in tutte le sue forme Gramsci contra-

sta indirettamente anche le intenzioni crociane di 'superamento'

del marxismo. Su questo punto egli è molto chiaro e in un testo

del Q 4, proprio polemizzando con Croce, schizza a grandi linee

la propria teoria anti-economistica delle ideologie:

Per Marx le 'ideologie' sono tutt'altro che illusioni e apparenza, sonouna realtà oggettiva ed operante, ma non sono la molla della storia, eccotutto. Non sono le ideologie che creano la realtà sociale, ma è la realtàsociale, nella sua struttura produttiva, che crea le ideologie. Come Marxpotrebbe aver pensato che le superstrutture sono apparenza ed illusio-ne? Anche le sue dottrine sono una superstruttura. Marx afferma esplici-

tamente che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terrenoideologico, delle superstrutture, il che non è piccola affermazione di'realtà': la sua teoria vuole appunto anch'essa 'far prendere coscienza'dei propri compiti, della propria forza, del proprio divenire a un deter-minato gruppo sociale. Ma egli distrugge le 'ideologie' dei gruppi socialiavversi, che appunto sono strumenti pratici di dominio politico sullarestante società: egli dimostra come esse siano prive di senso, perché incontraddizione con la realtà effettuale69.

Affermazioni come queste non sono in Gramsci del tutto

nuove, ma un sia pur rapido confronto con i loro precedenti puòservire a dare un'idea dello scarto rispetto al passato. In un arti-

colo di molto precedente (maggio 1918), si legge:

Marx irride le ideologie, ma è ideologo in quanto uomo politico attuale,in quanto rivoluzionario. La verità è che le ideologie sono risibili quandosono pura chiacchiera, quando sono rivolte a creare confusioni, ad illu-dere e asservire energie sociali, potenzialmente antagonistiche, ad unfine che è estraneo a queste energie. Marx irride i democratici spappola-ti, che non conoscono la forza, credono la parola sia carne, credono che

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alle forze organizzate basti opporre la parola, che ai fucili e ai cannonibasti opporre il petardo del vaniloquio. Ma come rivoluzionario, cioèuomo attuale di azione, non può prescindere dalle ideologie e dagli sche-mi pratici, che sono entità storiche potenziali, in formazione; solo che lesalda con la forza dell'organizzazione, del partito politico, della associa-zione economica70.

È evidente l'unità di impostazione dei due testi. Ma è ancheevidente che in quello del 1918 è presente un'inflessione, chechiamerei vìtalistica, assente in quello del 1930. Secondo l'artico-lo del '18 l'ideologia assume valore esclusivamente in riferimentoalla funzione che svolge rispetto alle «energie sociali» dalle qualiviene fatta propria: questa le può potenziare o deprimere, aiutar-le a sviluppare la propria intrinseca 'vita', o ingannarle, impa-stoiandole in una finalità a esse propriamente estranea. Non c'è

bisogno di sottolineare la matrice soreliana e crociana di questeaffermazioni. In realtà, i due tipi astratti di ideologia (positiva enegativa, potenziarne o deprimente) sono ricalcati su due ideolo-gie storiche ben precise (da Gramsci peraltro chiaramente nomi-nate): quella della lotta di classe e quella democratica; realistica,storicistica e dialettica la prima, utopistica, astratta e meccanicala seconda. Parlando di asservimento delle «energie sociali,potenzialmente antagonistiche, ad un fine che è estraneo a questeenergie», Gramsci pensa appunto all'ideologia «democratica»

che tenta di affogare i reali (o meglio: potenziali) antagonismi (ilconflitto delle classi) nell'astrazione vaga e unitaria della «Giusti-zia» e della «Umanità».

Qui c'è Sorel mediato da Croce, e d'altronde nel luglio1916 Gramsci aveva già reso pubblico il suo debito verso Croce,riconoscendogli il merito di aver rimesso in auge la concezionedialettica, secondo la quale nella storia solo la «forza» ha ragio-ne, aggiungendo poi che questa forza è «intelligente quando èspontaneamente messa al servizio di un partito che vuole affer-

marsi, bruta e prezzolata quando difende coi questurini unaposizione acquisita» 7 1. Si tratta, in definitiva della medesimadistinzione all'opera per il concetto di ideologia, anche qui basa-ta sull'opposizione tra l'espansione e la compressione della 'vita'di una classe particolare (il proletariato) e letta alla lucedell'opposizione tra una metaforica biologica e una meccanica7 2.

Come si vede, l'impostazione 'vitalistica' serve a Gramsci apensare quella che potremmo definire la 'missione storica' del

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proletariato, il suo ruolo 'progressivo' nella storia dell'umanità.

Ma essa non mette capo a una vera e propria teoria dell'ideologia

(né della forza), l'astrazione arrestandosi nel momento in cui

quel ruolo sembra garantito dall'opposizione della forza come

energia vitale-spontanea della civiltà proletaria in germe, alla for-

za come violenza artificiosa e meccanica del mondo borghese.

Invece è proprio questa teorizzazione che viene intrapresa nei

Quaderni, dove si mira proprio a una teoria generale dell'ideolo-

gia, a una teoria, cioè, che sia applicabile sia alla borghesia che al

proletariato, superando cosi la semplice contrapposizione mate-

riale utilizzata in precedenza73

.

III. E ovvio che, affinché una tale teoria sia possibile, occor-

re anzitutto formulare la domanda circa la natura dell'ideologia.

A ben vedere, però, la risposta a questa domanda è già presente

nel testo citato sopra, dove si dice: «Marx afferma esplicitamente

che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terreno

ideologico, delle superstrutture». Anche questa affermazione è

un riferimento alla Prefazione del 1859, in particolare a un passo

in cui Marx afferma che, nell'esame dei «sovvertimenti» sociali,

bisogna sempre far distinzione tra il sovvertimento materiale nelle condi-zioni della produzione economica, che deve essere constatato fedelmen-te col metodo delle scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, reli-giose, artistiche o filosofiche, in una parola: le forme ideologiche, nel cuiterreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvo-no [Q 2359].

Qui Marx istituisce una netta distinzione tra l'indagine

scientifica (la «critica dell'economia politica») e le forme ideolo-

giche di percezione dei conflitti sociali: mentre la prima li cogliedirettamente, nella loro verità (i rapporti di produzione), le

seconde, invece, solo attraverso sistemi di idee che ad un tempo

ne rivelano e ne occultano la reale natura, permettendo si di

«diventare consapevoli» di quei conflitti e di «risolverli», ma solo

a condizione di 'vestirli' in forme religiose, politiche, morali

ecc .7 4

Secondo Marx, insomma, la critica dell 'economia politica è

uno strumento scientifico che rende possibile penetrare al di là

del velo ideologico che avvolge la realtà, permettendo di distin-

guere tra il Wesen (cioè i rapporti reali) e le sue specifiche Erscheinungsformen

1

''.

Gramsci fa registrare su questo punto uno scarto netto dalla

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'lettera' del testo marxiano, scarto che egli peraltro, in un altro

testo del Q 4, onestamente dichiara:

Per la questione della 'obbiettività' della conoscenza secondo il materia-lismo storico, il punto di partenza deve essere l'affermazione di Marx[...] che 'gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terre-

no ideologico' delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche ofilosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra leforze materiali di produzione e i rapporti di produzione - come mate-rialmente dice il testo marxista - o si riferisce a ogni consapevolezza,cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema, che può essere risolto contutto l'insieme della dottrina filosofica del valore delle superstruttureideologiche

76

.

La radicalizzazione qui prospettata mette addirittura in

discussione la distinzione, postulata da Marx, tra scienza e ideo-

logia, e, di conseguenza, quella tra struttura e sovrastruttura77

. E

infatti è proprio a questo che Gramsci mira se, come si è visto,

più volte sostiene che lo stesso materialismo storico è una 'ideo-

logia' o 'superstruttura'. Sembra cosi che l'intera cultura, ridotta

a ideologia, diventi il terreno dell'arbitrio sottratto a qualsiasi

possibilità di verifica. In realtà Gramsci sta dicendo qualcosa di

ben diverso, e cioè che l'ideologia è l'unico luogo nel quale può

essere articolato il discorso sulla verità e l'oggettività; che non c'è

verità se non alT'interno di quelle 'forme di consapevolezza', sem-

pre determinate (e praticamente, cioè politicamente, condiziona-

te), grazie alle quali gli uomini agiscono e trasformano la realtà; e

questo perché non c'è 'realtà' (alla quale la verità possa essere

commisurata) se non nel processo pratico della sua trasformazio-

ne sociale.

Per capire meglio questo punto è necessario chiarire una

circostanza a mio avviso di grande importanza. Ho già messo in

evidenza l'importanza di 4,37 nella definizione di una «filosofia

della praxis». Ora va precisato che questo testo è parimenti cen-trale, accanto al seguente 4,38 («Rapporti tra struttura e super-

strutture»), nel determinare l'interpretazione gramsciana della

Prefazione del 18597 8

. Effettivamente 4,37-38 delineano un pas-

saggio dal problema della praxis a quello del nesso base-sovra-

struttura, che è identico alla scelta compiuta da Gramsci

neiravviare la traduzione del volumetto antologico curato da

Drahn7 9, il cui ordine non corrisponde infatti a quello del libro 8 0.

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Inoltre, in 4,38 si legge: «la mediazione dialettica tra i due princi-

pii del materialismo storico riportati in principio di questa nota è

il concetto di rivoluzione permanente» [Q 456 s.] 8 1 . La «rivolu-

zione permanente» è un riferimento alla parola d'ordine marxia-

na della «rivoluzione in permanenza» contenuta nell'Indirizzo al

Comitato Centrale della Lega dei Comunisti (Londra 1850), a cui

Gramsci si riferisce già in I,44 8 2; ma anche (e questo è fondamen-

tale) al suo presupposto teorico: le Tesi su Feuerbach (la cit. Tesi

3) . E più avanti, nello stesso 4,38:

Un altro punto di riferimento per comprendere i rapporti tra struttura esuperstrutture è contenuto nella Miseria della Filosofia, là dove si diceche fase importante nello sviluppo di un raggruppamento sociale natosul terreno dell'industria è quella in cui i singoli membri di una organiz-

zazione economico corporativa non lottano solo più per i loro interessieconomici corporativi, ma per lo sviluppo dell'organizzazione presa a sé,come tale (vedere esattamente l'affermazione contenuta nella Miseriadella Filosofia, in cui sono contenute affermazioni essenziali dal punto divista del rapporto della struttura e delle superstrutture e del concetto didialettica proprio del materialismo storico; dal punto di vista teorico, la

 Miseria della Filosofia può essere considerata in parte come l'applicazio-ne e lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach mentre la Santa Famiglia èuna fase intermedia ancora indistinta, come si vede dai brani riferentisi aProudhon e specialmente al materialismo francese. Del resto il brano sul

materialismo francese è più uno spunto di storia della cultura, che unbrano teoretico, come spesso si suole intenderlo e come «storia della cul-tura» è ammirevole e definitivo). E da ricordare insieme l'affermazionedi Engels che l'economia è «in ultima analisi» la molla della storia (nelledue lettere sul materialismo storico pubblicate anche in italiano), diretta-mente collegata al brano famoso della prefazione alla Critica dell'Econo-mia Politica dove si dice che gli uomini «diventano consapevoli» delconflitto tra forma e contenuto del mondo produttivo sul terreno delleideologie [Q 461 s.j.

Ricapitoliamo: i due principi fondamentali del materialismo

storico, quelli che avevano ridotto il marxismo a un evoluzioni-

smo 8 3, vengono interpretati per cosi dire a ritroso alla luce del

concetto quarantottesco di «rivoluzione in permanenza», ma

questo è un effetto delle Tesi su Feuerbach; d'altra parte la Mise-

ria della filosofia è vista da un lato come snodo centrale della

trattazione del rapporto tra struttura e sovrastruttura (dunque

come precedente obbligato e chiave di lettura della Prefazione),

dall'altro come sviluppo delle Tesi (il pensiero corre alla centra-

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lità del concetto di conflitto e di lotta contro la versione pacifi-

cante dell'hegelismo in Proudhon). C'è dunque un nesso struttu-

rale tra il concetto di praxis (e di «filosofia della praxis») e il

modo in cui Gramsci rilegge il nesso base/sovrastruttura della

Prefazione, e questo si lega a sua volta a un'interpretazione del

pensiero di Marx, il cui centro sta nel concetto di «rapporto

sociale» e (storicamente) nell'esperienza del '48. Leggere la Pre-

 fazione alla luce della Miseria della filosofia, e questa a sua volta

alla luce delle Tesi vuole dire ripartire dal concetto di praxis (rap-

porto sociale, rivoluzione in permanenza), e li trovare l'essenza

del pensiero di Marx, espungendo da una parte la rilevanza teori-

ca dei riferimenti al materialismo francese nella Sacra famiglia,

distinguendo dall'altra, nel pensiero maturo di Marx, il momento

del ripiegamento e quindi dell'evoluzionismo storico, dal noccio-

lo filosofico, che è ciò che solo conta sviluppare sul terreno della

filosofia marxista.

Gramsci non è tenero, sul terreno teorico, nei confronti del

materialismo francese e di quel momento 'materialistico' infiltra-

tosi nella filosofia della praxis8"1. Si può pensare che questo lo

induca a torcere il pensiero di Marx in una direzione che lo avvi-

cina pericolosamente all'attualismo, o al pragmatismo; ma non è

cosi, perché il 'posto' del materialismo viene occupato nella filo-

sofia della praxis da una riformulazione del concetto di «ideolo-

gia» alla luce della teoria dell'egemonia, che a sua volta poggia sudi una riformulazione del concetto di verità. Gramsci prende le

mosse dalla seconda Tesi su Feuerbach:

La quistione se al pensiero umano appartenga una verità obbiettiva, nonè una quistione teorica, ma pratica. E nella attività pratica che l'uomodeve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno delsuo pensiero. La discussione sulla realtà o non-realtà di un pensiero, chesi isoli dalla Praxis, è una quistione puramente scolastica [Q 2356 s.].

«Il carattere terreno» traduce il tedesco «Diesseitigkeit»*5

,

letteralmente «immanenza»86 . Probabilmente c'è, nella scelta del-

la locuzione (che ritorna più volte nei Quaderni™), un'enfasi sul

carattere finito ed evenemenziale del pensiero, interpretato

secondo il nesso verità-efficacia88; che è, tra l'altro, anche una

garanzia contro le possibili aberrazioni a cui può andare incontro

l'idea della coestensività di verità e politica (aberrazioni di cui il

marxismo-leninismo, con la sua filosofia 'hegeliana' della storia,

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mostrava proprio in quegli anni la faccia più inquietante 89 ). La

concezione 'pratica' della verità produce i suoi effetti solo se è

radicale, solo se questa 'praticità' viene sottratta a qualsiasi istan-

za «sopra posta» alla praxis, cioè se, in altre parole, spinge la sua

validità fino a coinvolgere anche chi se ne fa banditore.Gramsci sa che una concezione del genere è 'dialettica' e

perciò difficile a comprendersi da parte del senso comune:

Filosofia e ideologia. Come filosofia il materialismo storico afferma teori-camente che ogni 'verità' creduta eterna e assoluta ha origini pratiche eha rappresentato o rappresenta un valore provvisorio. Ma il difficile è farcomprendere 'praticamente' questa interpretazione per ciò che riguardail materialismo storico stesso

90

.

L'applicazione del materialismo storico allo stesso materiali-

smo storico9 1

giunge a dichiarare storico, cioè finito, insomma

ideologico questo stesso pensiero, ciò che urta contro la necessità,

tutta ideologica, di rinsaldare l'entusiasmo 'pratico' di chi, sulla

base di questa ideologia, deve agire per trasformare il mondo,

oltre che contro l'unilateralità, altrettanto ideologica, di chi teo-

rizza in modo puramente metafisico dettando legge alla storia

(come accadrà con il marxismo-leninismo di cui Gramsci aveva

già colto le avvisaglie)

92

.Da questa strettoia non si esce distinguendo due verità, una

per gli intellettuali (la filosofia) e una per i 'semplici' militanti (la

fede), ciò che equivarrebbe a fondare la propria azione politica

proprio su quella scissione culturale che da questa azione

dovrebbe essere soppressa praticamente (cioè politicamente). La

via d'uscita alla quale Gramsci invece pensa è riassunta nell'idea

della 'terrestrità del pensiero', cioè nell'idea che, non esistendo

una 'verità' sottratta alle forme nelle quali essa, di volta in volta,

appare, è dentro quelle forme che gli intellettuali devono situarsie lavorare. Ciò che tuttavia non va inteso nel senso, meramente

negativo e limitativo, di una restrizione delle pretese del pensiero

da quest'ultimo subita, per cosi dire, dall'esterno (né in quello,

che sarebbe ancora peggiore, di un calarsi nelle forme ideologi-

che con lo sguardo etnografico e condiscendente di chi deve pre-

dicare in partibus infidelium). L'originalità dell'ipotesi prospetta-

ta da Gramsci sta nel pensare questa limitazione in termini positi-

vi, come premessa indispensabile del divenire efficace, cioè reale,

cioè vero, del pensiero stesso. In altri termini, solo la filosofia che

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comprende se stessa come finita e condizionata, cioè come ideo-logia, sarà capace di attingere quell'unica forma di verità che nonsia mero inganno e autoinganno: la verità che si produce colletti-vamente, praticamente nella politica 95 . Per essere vera una filoso-fia (ogni filosofia) deve dunque confrontarsi anzitutto con il fattodi essere un'ideologia, dunque non vera. È quanto viene indicatoin un testo di pochissimo posteriore a 4,40:

Il materialismo storico [...] è la filosofia liberata da ogni elemento unila-terale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni, in cui lo stes-so filosofo, individualmente inteso, o inteso come intero gruppo sociale,non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemen-to della contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico ed'azione*4.

Per il materialismo storico la comprensione teorica dellecontraddizioni e l'essere elemento 'in gioco' all'interno delle stes-se contraddizioni coincidono in un unico atto teorico-pratico che,per ciò stesso, non può non essere collettivo. In altre parole l'ele-varsi, sulle orme di Hegel, a un punto di vista superiore a quellodi ogni filosofìa precedente (cioè la capacità di cogliere la con-traddizione come tale, quindi la dialettica), coincide con il calarsidentro la realtà politica della contraddizione stessa e nel ricono-scersi, proprio in quanto teoria, come suo elemento (qui è lo scar-

to anche rispetto a Hegel). Il riconoscimento della propria parzia-lità, al limite della propria unilateralità, non è un ostacolo sulla viadella verità ma, al contrario, ne costituisce la premessa. Solo par-tendo da tale parzialità sarà infatti possibile intervenire sui rap-porti sociali dentro i quali realmente ci si trova (in quanto classesociale) per modificarli. Ma, allo stesso tempo, la coscienza dellapropria parzialità è anche la coscienza del carattere ideologico delproprio punto di partenza. Ideologia e consapevolezza sono dun-que due momenti inestricabilmente fusi di una stessa concezione

del mondo-pratica collettiva, che si definisce proprio per il fattodi tenerli costantemente insieme, senza sacrificare o anteporrel'uno all'altro: né la consapevolezza all'ideologia (cioè lo scolla-mento degli intellettuali dalla prassi collettiva), né l'ideologia allaconsapevolezza (cioè la costruzione di una nuova metafisica chedia garanzie certe di vittoria, al di fuori dei momenti concreti del-la lotta politica). L'essere e il sapersi 'di parte' coincidono insom-ma con il congedo da «ogni elemento unilaterale e fanatico» solo

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in quanto venga mantenuta in piedi questa difficile dialettica95

.

Questo è il punto in cui si apre, propriamente, il tema

dell'egemonia nel suo senso più generale, cioè come la questionedelle forme concrete in cui avviene che, politicamente, le ideolo-

gie (e quindi le filosofie) si diffondono, acquistando forza e con-

dizionando il comportamento collettivo. Questo tema occuperà

Gramsci nel corso del 1931-32, cioè della seconda e della terza

serie di «Appunti di filosofia», culminando nel 1932 nella formu-

lazione del nesso filosofia-senso comune come asse centrale di

questo processo e, quindi, della stessa filosofia della praxis. Il

nesso filosofia-senso comune è pertanto il modo originale nel

quale la filosofia della praxis riformula il problema della verità apartire dal ritorno a Marx, cioè anzitutto a partire dalle Tesi su

Feuerbach e dalla Prefazione del 1859.

NOTE

' Una versione di questo testo, priva di note e lievemente diversa, è stata

pubblicata in: «Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura», 1998, n. Il i, pp.

106-129.1

Userò le seguenti sigle, seguite dal numero di pagina corrispondente (in

tondo): Q = A. GRAMSCI,  Quaderni del carcere, ed. critica a cura di Valentino

Gerratana, Torino, Einaudi 19772

; NT = Note al testo,  nel voi. 4 (Apparatocritico) dell'edizione critica, pp. 2443-3034; DQ = Descrizione dei quaderni, ivi, 

pp. 2367-2442; LC = A. G., Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e ElsaFubini, Torino, Einaudi 1965. Inoltre: Q 8 = (esempio) quaderno 8; 5,147 =

(esempio) quaderno 5, paragrafo 147; testo A, testo B, testo C = rispettivamente:

testo di prima stesura, di stesura unica e di seconda stesura dei Quaderni [testi B

possono essere sia testi scritti in quaderni miscellanei e non copiati in quaderni

speciali, sia testi scritti direttamente in quaderni speciali].2

D'ora in avanti: AF I.3 Cfr4,l [Q 419-21].

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4 Sull'idealismo del giovane Gramsci non esistono monografie valide. Sipossono comunque consultare utilmente le parti relative in NICOLA BADALONI,  // marxismo di Gramsci, Einaudi, Torino 1975, LEONARDO PAGGI, Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Editori Riuniti, Roma1970 e FRANCO LO PIPARO, Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Laterza, Roma-Bari 1979. Un saggio comunque importante è quello di Eugenio Garin, La

 formazione di Gramsci e Croce, in AA. VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo inGramsci, Quaderni di «Critica marxista», 1967, n. 3, pp. 119-33 (poi in ID., Intel-

lettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974).5 Si pensi alla mai interrotta attività formativa di Gramsci, ai gruppi di

discussione che contribuì a organizzare o di cui propugnò la formazione, anchein piena guerra mondiale, come il «club di vita morale» e la «associazione di col-tura» o come, più tardi, la scuola di partito.

6

Su questi temi mi permetto di rinviare ^Introduzione a A. GRAMSCI,  Filo-

sofia e politica. Antologia dei «Quaderni del carcere»,  a cura di F. Consiglio e F.Frosini, La Nuova Italia, Firenze 1997, parte II: «Una filosofia per la politica».

7 Sul quale si vedano L. Paggi,  Le strategie del potere in Gramsci,  Editori

Riuniti, Roma 1984 e Giovanni Somai,  Gramsci a Vienna. Ricerche e documenti.1922-1924, Argalìa, Urbino 1979.

8 Cfr PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano, I. Da Bordiga a

Gramsci, Einaudi, Torino 1967, capp. XIX-XX.9

II carteggio, pubblicato da PALMIRO TOGLIATTI (La formazione del gruppodirigente del PCI nel 1923-1924,  Editori Riuniti, Roma 1962) e integrato daSomai (Gramscia Vienna cit.), è ora rifluito nell'edizione delle Lettere 1908-1926, 

a cura di A. A. Santucci, Einaudi, Torino 1992.10 Cfr. la sua Introduzione al primo corso della scuola interna di partito

(aprile 1925), in A. G., La costruzione del Partito comunista. 1924-1926, a cura diElsa Fubini, Einaudi, Torino 1971, p. 55: «Per lottare contro la confusione che si

è andata [...] creando» a causa del fatto che il 'marxismo' è stato in Italia utilizza-to dai «teorici della borghesia» in funzione antidemocratica, «è necessario che ilpartito intensifichi e renda sistematica la sua attività nel campo ideologico, cheesso ponga come un dovere del militante la conoscenza della dottrina del marxi-smo-leninismo almeno nei suoi termini più generali».

11

Cfr. VALENTINO GERRATANA,  Stalin, Lenin e il marxismo-leninismo,  inAA. VV.,  Storia del marxismo,  dir. da E. H. Hobsbawm, voi. III. 1, Einaudi, Torino 1980; GEORGES LABICA,  II marxismo-leninismo (tra ieri e domani), trad. it.di A. Catone, Edizioni Associate, Roma 1992 e, in riferimento a Gramsci, L. Pag-gi, Le strategie del potere cit., pp. 75-80.

12 Lettera al Comitato centrale del Pcus (in La costruzione del Partito comu-

nista cit., p. 128). Sulle circostanze che accompagnarono la trasmissione della let-tera e sul carteggio che ne derivò cfr. GIUSEPPE VACCA,  «Gramsci 1926-1937: lalinea d'ombra nei rapporti con il Comintern e con il partito», in ID., Togliatti sco-

nosciuto,  l'Unità, Roma 1994, pp. 13-59, qui 23-30. Un'interpretazione dellavicenda in CHRISTINE BUCI-GLUCKSMANN, Gramsci e lo Stato, trad. it. di C. Manci-na e G. Saponaro, Editori Riuniti, Roma 1976,  pp. 310-18; e in PAGGI, Le strate-

 gie del potere cit., cap. Vili: «L'ultima battaglia di Gramsci» (pp. 348 ss.).

" Togliatti, in quel momento a Mosca, aveva replicato a Gramsci critican-do i giudizi espressi nella lettera. Gramsci gli risponde assai duramente il 26 otto-bre, scrivendo tra l'altro: «Tutto il tuo ragionamento è viziato di 'burocratismo':oggi, dopo nove anni dall'ottobre 1917, non è più il fatto della presa del potere da

parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è

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già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente epoliticamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso ilpotere, può costruire il socialismo. L'autorità del partito è legata a questa persua-sione, che non può essere inculcata nelle grandi masse con metodi di pedagogia

scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria, cioè solo dal fatto politico che ilPartito russo nel suo complesso è persuaso e lotta unitariamente» [La costruzionedelPartito comunista cit., pp. 136 s.).

" Lettera al Comitato centrale del Pcus (ivi, p. 130). A Togliatti, che gliobietta che una qualsiasi critica all'operato della maggioranza «non può che risol-versi a totale beneficio della opposizione» (ivi, p. 132), Gramsci replica che taleeventualità «deve preoccuparci fino ad un certo punto; infatti è nostro scopocontribuire al mantenimento e alla creazione di un piano unitario nel quale lediverse tendenze e le diverse personalità possano riawicinarsi e fondersi ancheideologicamente» (lettera a Togliatti cit., ivi, p. 135).

" Lettera del 14/1/1924 al comitato esecutivo del PCdT, in A. Gramsci, 

 Lettere 1908-1926 cit., pp. 189-91. Tra i testi segnalati ci sono Marx e la sua dot-trina di LENIN, L'essenza del marxismo di KARL KORSCH, la Teoria del materiali-smo storico di BUCHARIN,  il Manifesto del partito comunista con le note di DavidRjazanov, un'antologia di testi di Marx ed Engels sul materialismo storico, inoltreì'Antidiibring e L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza di ENGELS e gliscritti storici più importanti di MARX,  come «Il 18 brumaio, la guerra civile inFrancia ecc.» Di questi ultimi occorre far «rivedere e correggere le traduzioni esi-stenti che sono orribili». Si noti che nel 1923 l'Internazionale aveva condannato

 Marxismo e filosofia di KORSCH.16 La dispensa è ora riprodotta, insieme all'unica altra uscita, la seconda, in

A. Gramsci, II rivoluzionario qualificato, a cura di C. Morgia, Delotti Editore, 

Roma 1988. Cfr. anche Introduzioneal primo corso ecc. (in op. cit., p. 56): «Nellaprima parte, che ricalcherà o addirittura darà la traduzione del libro del compa-gno Bukharin sulla teoria del materialismo storico, i compagni troveranno unatrattazione completa» sulla «teoria del materialismo storico». Della Teoria Gram-sci riprende (con omissioni e integrazioni) l'Introduzione e il cap. II. Cfr. PAGGI, 

«La teoria generale del marxismo in Gramsci», in ID., Le strategie del potere cit., pp. 427-98, e BUCI-GLUCKSMANN,  Gramsci e lo Stato cit., pp. 241 s.

17  La scuola di partito, in «L'Ordine Nuovo», aprile 1925 (La costruzionedelPartito comunista cit., pp. 49 s.).

18

Cfr. NIKOLAJ I. BUCHARIN, Teoria del materialismo storico. Manuale popo-lare di sociologia marxista, 1921, trad. it. di A. Binazzi, La Nuova Italia, Firenze1977,  pp. 7-11.

"4,14 [Q 435].2 0 Si noti che Gramsci non poteva conoscere i Quaderni filosofici di LENIN, 

allora inediti, in cui questi, passando attraverso la lettura di Hegel, va molto oltreil materialismo di Plechanov. Il Lenin 'filosofo' che Gramsci (come del restochiunque in quel periodo) ha presente è perciò quello di Materialismo ed empi-riocriticismo.

" 7,33 [Q 882].22 3,31 [Q 309]. La stessa affermazione è anche, a proposito del rapporto

di Lukács con Bucharin, in 4,43 [Q 469] .21 «'Politicamente', il materialismo è vicino al popolo, alle credenze e ai

pregiudizi e anche alle superstizioni popolari» [4,3; Q 424]. Basta gettare unosguardo a un testo di Lenin come Marxismo e revisionismo (1908), per rendersiconto della distanza dalle posizioni di Gramsci: Lenin considera il «materialismo

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dialettico» come marxismo autentico, e riconduce il revisionismo all'espressioneteorica degli elementi piccolo-borghesi proletarizzati e confluiti nelle fila delmovimento operaio (in VLADIMIR I. LENIN,  Opere scelte, Editori Riuniti, Roma1976', pp. 445 e 450).

»4,3 [Q424].a Va notato che Engels, presentando le Test,  adopera gli stessi termini

ripresi poi da Gramsci: «Es sind Notizen für spätere Ausarbeitung, rasch hinge-

schrieben, aber unschätzbar als das erste Dokument, worin der geniale Keim derneuen Weltanschauung niedergelegt ist» (in MARX-ENGELS,  Werke,  vol. 21, Dietz, Beriin 1962, p. 264). Nella traduzione di Ettore Ciccotti, che Gramsci pos-sedeva, ma non aveva probabilmente con sé a TUKI (Ludovico Feuerbach e il pun-to d'approdo della filosofia classica tedesca, in Marx-Engels-Lassalle, Opere, a curadi E. Ciccotti, vol. IV, seconda ristampa riveduta, Milano, Soc. ed. «Avanti!»1922, sez. 9), sono tradotte anche le Tesi. Non è inutile ricordare che il Ludwig

 Feuerbach è, insieme all'' Antidùhring,  il testo engelsiano più frequentato daGramsci nei Quaderni.

26 In «Marx-Engels-Archiv», I (1925), pp. 227-30.2 7 GIOVANNI GENTILE, La filosofia di Marx, Spoerri, Pisa 1899. Sulle fortune

di questa lettura cfr. EUGENIO GARIN,  Cronache di filosofia italiana 1900/1943.Quindici anni dopo 1945/1960,  Laterza, Bari 1966, pp. 211-21; NICOLA DE

DOMENICO, Gentiles Praxis-Philosophie und ihr Einfluß auf die Marx-Rezeption in

 Italien, in AA. VV., Arbeit und Reflexion, a cura di P. Furth, Köln, Pahl-Rügen-stein 1980; BIAGIO DE GIOVANNI, Sulle vie di Marx filosofo in Italia. Spunti provvi-sori, in «il Centauro», 1983, n. 9, pp. 3-25.

28 Nella biblioteca di Attilio Carena si trova un'edizione del volume datatamarzo 1920. Carena era un amico di Gramsci e a lui legato nel «club di vitamorale» (la biblioteca di Carena è documentata da GIANCARLO BERGAMI, Il giova-ne Gramsci e il marxismo (1911-1918), Feltrinelli, Milano 1977, pp. 177-93, qui182).

29

Sebbene fosse in linea di principio possibile, Gramsci non ebbe mail'edizione critica delle Tesi (né, quindi, conobbe L'ideologia tedesca). Il testotedesco che utilizza per la traduzione è infatti contenuto in un volumetto a curadi Ernst Drahn uscito nel 1919, ed è quindi quello engelsiano: cfr K. MARX, Loh-narbeit und Kapital. Zur Judenfrage und andere Schriften aus der Frühzeit, a curadi E. Drahn, Reclam s.d., Leipzig [ma 1919], pp. 43-46. Nelle citazioni darò latraduzione di Gramsci (Q 7, ce. 2r-3r [Q 2355-57]). Rispetto a quella oggi in uso(FRIEDRICH ENGELS-KARL MARX,  Opere complete,  trad. it. di F. Codino, vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 625-27), essa non differisce se non per qualchedettaglio, tranne che in un caso, come si vedrà più avanti. Il testo engelsiano èora edito in MARX-ENGELS, Werke, vol. 3, Dietz, Berlin 1962, pp. 533-35.

3 0 Nell'esposizione che segue terrò presente l'importante studio di GEOR-GES LABICA, Karl Marx - Les «Thèses sur Feuerbach», Puf, Paris 1987. Sul pensie-ro filosofico di Marx fino al 1848 cfr. G. LABICA,  Le Statut marxiste de la Philo-sophie, ed. Complèxe-Puf, Bruxelles-Park 1976.

" È questo il senso del termine tedesco usato da Marx: Gegenstand (comeoggetto realmente di fronte a me) esplicitamente contrapposto allo Objekt comeoggetto dell'intuizione: «Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi -compreso quello di Feuerbach - è che l'oggetto {Gegenstand], la realtà, la sensi-bilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell'obietto [Objekt] o dell'intuizio-ne» (Tesi 1, in Opere complete cit., p. 626; Q 2355; Werke cit., p. 533; si noti cheGramsci non differenzia, nella traduzione,  Gegenstand da Objekt,  rendendo

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entrambi con «oggetto», ma l'interpretazione complessiva del testo indica che hacompreso il senso della distinzione).

'2 Sulla questione del 'pensiero' alla luce del concetto di praxis cfr. infra, al

punto III, e il cap. 3.III, dove viene citata e commentata la Tesi 2." LUDWIG FEUERBACH,  Das Wesen des Christentums,  1841, in Sämtliche

Werke, a cura di W. Bolin e F. Jodl, Frommann Verlag, Stuttgart-Bad Cannstatt1960, vol. 6, p. 237. Cfr. LABICA, Les Thèses cit., p. 33.

5 4 Cfr. CESARE LUPORINI,  «Introduzione» a ID.,  Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. XI s. e, dello stesso autore, Marx: problemi filo-sofici e epistemologici, ivi, pp. 382-85.

" FRIEDRICH ENGELS-KARL MARX, Die deutsche Ideologie, in MARX-ENGELS, 

Werke, Vol. 3 cit., pp. 37 s. (L'ideologia tedesca,  trad. it. di F. Codino, EditoriRiuniti, Roma 19672, pp. 29 s.).

' 6 MARX-ENGELS,  Werke cit., p. 534. In realtà Gramsci traduce «Wesen»

con «realtà», ma dà «essenza» come variante interlineare." ETIENNE BALIBAR, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, manifestoli-

bri, Roma 1994, p. 36.J 8 MARX-ENGELS,  Werke cit., pp. 533 s. Come si vedrà, Gramsci traduce

questo termine con «ambiente», forse influenzato dalla traduzione di Ciccotti?(MARX-ENGELS-LASSALLE, Opere, voi IV cit., p. 41). Ciccotti riprende a sua voltaGentile (La filosofia della prassi, in ID., La filosofia di Marx. Studi critici [1899], quinta edizione riveduta e accresciuta a cura di V. A. Bellezza, Sansoni, Firenze1974, pp. 69 s.).

19 Quest'ultimo termine è nel manoscritto ma non compare nell'edizioneEngels. Cfr. l'edizione critica in MARX-ENGELS,  Werke, vol. 3 cit., p. 6; e la tradu-

zione in Opere complete, vol. V cit., p. 4.40 Qui la traduzione gramsciana contiene un fraintendimento del testotedesco, dato che «das Zusammenfallen», «il coincidere», viene reso con «il con-vergere».

 41

Opere complete cit., p. 626 (trad. leggermente rimaneggiata). Gramscitraduce «umwälzende Praxis» (letteralmente: prassi rovesciarne, sovversiva) con«rovesciamento della praxis» [Q 2356]. L'espressione «umwälzende Praxis» fuintrodotta da Engels al posto della forse troppo esplicita «revolutionäre Praxis»contenuta nel manoscritto di Marx (cfr. Werke cit., pp. 534 e 6). L'origine dellatraduzione gramsciana, del tutto errata, sta nella prima versione italiana delleTesi,  ad opera di Giovanni Gentile, che la rese con «prassi rovesciata» (cfr. G.

GENTILE, La filosofia della prassi cit., pp. 68-71). La stessa interpretazione è pre-sente anche nella traduzione di Rodolfo Mondolfo (Feuerbach e Marx [1909], orain ID., Umanismo diMarx, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, pp. 10 s), che la rende con «praxis che si rovescia». L'errore di Gentile (e di Mondolfo, chea lui esplicitamente si riallaccia) aveva delle ragioni teoriche ben precise, riassu-mibili nella riconferma del dualismo e dell'impossibilità di superarlo a partiredalla «praxis» come «attività sensibile»; un'impostazione che è esattamentel'opposto di quella, radicalmente relazionale, propugnata qui da Marx e, come sivedrà sempre meglio, anche da Gramsci. (Sulla 'barocca' e 'impensabile' metafo-ra della 'praxis che si rovescia' cfr. C. LUPORINI, «Il marxismo e la cultura italianadel Novecento», in AA.VV., Storia d'Italia, dir. da R. Romano, vol. V. 2, Einaudi, Torino 1973, pp. 1583-1611, qui 1605 s.) Ritengo pertanto che questa traduzionesia una deriva linguistico-concettuale, inserita però in un nesso sistematico deltutto nuovo. Non sorprende infatti che, quando compare nei Quaderni in conte-sti argomentativi concreti, l'espressione «rovesciamento della praxis» sia, in defi-

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nitiva, un sinonimo di 'rivoluzione', finendo così per coincidere con il senso deltesto originale di Marx; cfr 11,14 [Q 1403], 10,11,28 [Q 1266], 10,11,33 [Q1279], 10,II,41,X11 [Q 1319].

42 Cfr. anche: «Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri con la suaaffermazione che il marxismo stesso è una filosofia indipendente e originale. Inquesta direzione occorre lavorare, continuando e sviluppando la posizione delLabriola» [Q 422]. «Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la

sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominare» [Q309]. Sul pensiero di Labriola cfr. il classico studio di LUIGI DAL PANE, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1975 (nuova edi-zione del volume pubblicato nel 1934 col titolo Antonio Labriola. La vita e il pen-siero). Cfr. inoltre: GIULIANO PROCACCI, Antonio Labriola e la revisione del marxi-smo attraverso l'epistolario con Bernstein E Kautsky (1895-1904),  in Annali 

dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, III (1960), pp. 264-84; EUGENIO GARIN, 

«Introduzione» (col titolo Antonio Labriola e i Saggi sul materialismo storico) aLABRIOLA, La concezione materialistica della storia, Laterza, Bari 1965; VALENTINO

GERRATANA,  «Introduzione» a LABRIOLA, Scritti politici (1886-1904), Laterza, Bari1970 (dello stesso Gerratana cfr. anche Antonio Labriola e la politica, in «Studi

storici»,  XXVI [1985],  n. 3, pp. 565-80);GIOVANNI MASTROIANNI, 

Antonio Labriola e la filosofia in Italia, Argalia, Urbino 19762

.

V. GERRATANA, Sulla fortuna» di Labriola, in ID., Ricerche di storia del marxismo, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 145-69, qui 157 (ma cfr. tutto il cap.2: «Labriola e Gramsci», pp. 155-63). Questo parere è accentuato da Luporini, Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, cit., pp. 1587 ss., che parla di vera epropria «discontinuità».

44 Ecco i più importanti: gennaio 1918: le simpatie positivistiche «hannofatto ristagnare la produzione intellettuale del socialismo italiano, che pure congli scritti di Antonio Labriola aveva avuto un inizio cosi fulgido e pieno di pro-messe» (A. GRAMSCI,  La città futura. 1917-1918, a cura di Sergio Caprioglio, 

Einaudi, Torino 1982, pp. 614 s.); dicembre 1923: progettando la terza serie del-la rivista «l'Ordine Nuovo», Gramsci esprime il desiderio di realizzare «unnumero unico dedicato ad Antonio Labriola e alla fortuna del marxismo in Ita-lia» (lett. a M. Scoccimarro, in Lettere 1908-1926 cit., p. 138); aprile 1925:«L'attività teorica, cioè la lotta sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nelmovimento operaio italiano. In Italia il marxismo (all'infuori di Antonio Labrio-la) è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo auso della politica borghese, che dai rivoluzionari» (Introduzione al primo corsodella scuola interna di partito (La costruzione del Partito comunista cit., p. 54).

4 5

A. LABRIOLA, Discorrendo di socialismo e di filosofia [1897], in ID., Saggi sul materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 207.

*Jw',pp. 207 s.17  Ivi, p. 207.4 8 7w,p.213. 49 Ivi, p. 207.50 Cfr. ibidem: «I mezzi della convivenza sociale, che sono, da un lato, 

gl'istrumenti, e dall'altro i prodotti della collaborazione variamente specificata, costituiscono, al di là di ciò che offre a noi la natura propriamente detta, la mate-ria e gl'incentivi della nostra formazione interiore. Di qui nascono gli abiti secon-darli, derivati e complessi, pei quali, di là dai termini della nostra corporea confi-gurazione, sentiamo il nostro proprio io come la parte di un noi, il che vuol dire, 

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in concreto, di un modo di vivere, di un costume, di una istituzione, di uno stato, di una chiesa, di una patria, di una tradizione storica, e così via».

51 20,11,31 [Q 1270].

'2

Variante interlineare: «spirito», che viene ripresa anche nella secondastesura: «attività umana (storia-spirito)» [21,64; Q 1492].

" Cfr. GENTILE, La filosofia della prassi cit., pp. 90 e 156-65.54 Ivi, pp. 163-65.

" Cfr. GIANNI FRANCIONI, L'officina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni dal carcere», Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 57 s.; cfr. inoltre DQ 2384e 2386.

* 20,11,6 (IV) [Q 1245].57 L'elaborazione della teoria dell'egemonia è il modo in cui Gramsci si

libera di certe asprezze di cui sopra ho segnalato la presenza nel punto d'avviodei Quaderni. Per averne un'idea si mettano a confronto questi due testi, rispetti-

vamente della primavera 1930 [DQ 2373] e del 1933 [DQ 2417]: «Ciò che è'politica' per la classe produttiva diventa 'razionalità' per la classe intellettuale.Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la 'razionalità' alla 'politi-ca', la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rap-porti storici è da spiegare l'idealismo filosofico moderno» [2,151; Q 134]; «Ilfilosofo 'individuale' di tipo italiano o tedesco, è legato alla 'pratica' mediatamen-te [...], il pragmatismo vi si vuole legare subito e in realtà appare così che il filo-sofo tipo italiano o tedesco è più 'pratico' del pragmatista che giudica dalla realtàimmediata, spesso volgare, mentre l'altro ha un fine più alto, pone il bersagliopiù alto e quindi tende ad elevare il livello culturale esistente (quando tende, sicapisce). Hegel può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioniliberali dell'Ottocento. I pragmatisti, tutt'al più, hanno contribuito a creare ilmovimento del Rotary club» [17,22; Q 1925 s.].

58

4,12, 4,15, 4,20, 4,37, 4,38, 4,45 [Q 433 s., 436 s., 441, 454 s., 455-65, 471 s.].

» Cfr., oltre ai testi già citati, 7,20 [Q 869], 20,11,59.11 [Q 1354] ecc. Comegià ricordato, la Prefazione è tra i testi di Marx tradotti da Gramsci (in parte: cfrQ 7, ce. 3r-4r [Q 2358-60]). Anche in questo caso citerò da questa traduzione.Nell'antologia cit.,  curata da Drahn, il Vorwort  è alle pp. 43-46 (cfr. MARX-

ENGELS,  Werke, vol. 13, Dietz, Berlin 1964, pp. 7-11). Una traduzione recente è:K. MARX, Prefazione a Per la critica dell'economia politica, a cura di E . CantimoriMezzomonti, Editori Riuniti, Roma 1984\ pp. 4-6 (la parte tradotta da Gramsci).

60 La definizione «forze materiali di produzione» («materielle Produk-tivkräfte»: cfr. Werke, vol. 13 cit., p. 8) abbraccia, «oltre la natura [che compren-de anche la forza-lavoro umana], la tecnica, la scienza, innanzi tutto anche l'orga-nizzazione sociale stessa e le forze sociali sin dall'inizio cosi create, mediante lacooperazione e la divisione industriale del lavoro» (KARL KORSCH,  Karl Marx[1936], trad. it. di A. Illuminati, Laterza, Roma-Bari 1977

6

, pp. 213 s.). Si trattainsomma della complessiva energia socialmente organizzata (parte di originenaturale, parte di origine sociale, ma comunque sempre in quanto socialmenteorganizzata) sfruttabile ai fini della riproduzione della vita materiale. Qui sta ilsenso della 'materialità' delle forze produttive. Cfr. il seguente passo della Prefa-

 zione: «Il modo di produzione della vita materiale condiziona generalmente ilprocesso della vita sociale, politica e spirituale» [Q 2358].

Si noti inoltre che l'espressione «reale Basis» non è casuale: «real» è larealtà essenziale, non quella effettuale; la «reale Basis» è pertanto la filigrana (la«struttura» appunto) di quel «corpo» (pelle, muscolatura ecc.) che è la Wirkli-

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chkeit,  di cui però si può render conto scientificamente solo conoscendone la«anatomia». Gramsci mostra di aver colto questo punto quando scrive, in 4,15:«Se gli uomini prendono coscienza del loro compito nel terreno delle superstrut-ture [tesi della Prefazione che Gramsci problematizza in 4,37: cfr più avanti3.III], ciò significa che tra struttura e superstrutture c'è un nesso necessario evitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo scheletro» (Q 437).

61 KORSCH,  op. cit.,  p. 237.62

7,13 [Q 864]. Cfr. anche 4,38 [Q 462], dove tra gli «aspetti parzialidell'economismo storico» si annovera «la dottrina per cui lo svolgimento econo-mico viene ridotto ai cangiamenti degli strumenti tecnici, mentre Marx parlasempre di 'forze materiali di produzione' in generale e in queste forze includeanche la forza fisica degli uomini». Una distinzione netta tra «economismo stori-co» e «materialismo storico» che dà il giusto rilievo alla posizione di Gramscinell'elaborazione del marxismo è operata da Domenico Losurdo, «Economismehistorique ou matérialisme historique? Pour une relecture de Marx et d'Engels», in Archìves de Philosophie, LVII (1994), pp. 141-55.

H 11,29 [Q 1442]. Questa osservazione è riferita a Bucharin. Cfr. anche, contro lo stesso, 4,12 [Q 433]: «Si confonde struttura con 'struttura materiale' in

genere e 'strumento tecnico' con ogni strumento materiale ecc.»."4,25 [Q 443].6 5 B. CROCE,  Le teorie storiche del prof. Loria [1896], in ID., Materialismo

storico ed economia marxistica [1900], Laterza, Roma-Bari 1968, pp. 39 s. Cfr4,19 [Q 440 s.], dove Gramsci riporta per esteso questo passaggio. Cfr inoltre4,26 [Q 445]: «il problema delle cause ultime è [...] vanificato dalla dialettica».

6 6 CROCE, Storia economico-politica e storia etico-politica, in ID., Etica e poli-tica [1931], Laterza, Roma-Bari 1981, p. 225. Questo passo viene richiamato daGramsci in 4,15 [Q436 s.].

67  II Congresso di Oxford, in «La Nuova Italia», I (1930), n. 10, p. 432.Questo passaggio viene richiamato in 7,1 [Q 851].

6 8

CROCE, 

Storia economico-politica cit., p. 226.69 4,15 [Q436s .].7 0 A. GRAMSCI,  Il nostro Marx. 1918-1919,  a cura di Sergio Caprioglio, 

Einaudi, Torino 1984, p. 17.7 1 A. GRAMSCI,  Cronache torinesi. 1913-1917, a cura di Sergio Caprioglio, 

Einaudi, Torino 1980, pp. 443 s. Per quanto riguarda Croce, Gramsci può riferirsiai saggi sul materialismo storico, in particolare Sulla forma scientifica del materiali-smo storico [ 1896], e il cap. V di Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo [1897], in ID., Materialismo storico ed economia marxistica cit. In unarticolo dell'ottobre 1918 («Bellu senese' e dottori») Gramsci allude comunquedirettamente alla Filosofia della pratica, uscita nel 1908: polemizzando con un cer-to Emanuele Pili, afferma che «gli sono estranee le correnti del pensiero modernoche hanno ringiovanito tutta la dottrina dello Stato e del Giure [...] colla riduzio-ne dello Stato e del Giure a pura attività pratica, svolta come dialettica dellavolontà di potenza e non più pietistico richiamo alle leggi naturali, ai sacrari inco-noscibili dell'istinto avito» (A. G., // nostro Marx cit., p. 360). Pochi mesi prima(maggio 1918) aveva scritto, sempre alludendo a Croce ma attribuendo questa

 posizione a Marx (e questo è rilevante) che «la storia come avvenimento è puraattività pratica (economica e morale)» (Il nostro Marx cit., p. 4).

7 2 Sulle metafore biologiche nel giovane Gramsci cfr. MICHELE CILIBERTO, Gramsci e il linguaggio della vita, in «Critica marxista», XXVII (1989), n. 3, pp.679-99 e GIANCUIDO PIAZZA, Metafore biologiche ed evoluzionistiche nel pensiero

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di Gramsci, in AA.VV., Antonio Gramsci e il «progresso intellettuale di massa», a c.di G. Baratta e A. Catone, Unicopli, Milano 1995, pp. 133-40.

" Questo punto è stato messo in luce in modo definitivo da VALENTINOGERRATANA,  Stato, partito, strumenti e istituzioni dell'egemonia nei «Quaderni del carcere di Antonio Gramsci», in AA.VV., Egemonia, Stato e partito in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 37-54.

74

II testo marxiano ha «ausfechten» (Werke, voi. 13 cit., p. 9), che la Canti-mori-Mezzomonti traduce con «combattere» (Per la critica dell'economia politicacit., p. 5). Rendendolo con «risolvere» Gramsci accentua invece il 'portare a ter-mine' presente nell'«aus» e questo, a sua volta, sottolinea ancor di più l'efficaciadel terreno ideologico.

7 5 Cfr. K. MARX, /7 capitale. Critica dell'economia politica, Libro I [1873], 

trad. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974 8, p. 592: «Le forme fenome-niche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensie-ro, il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza. L'economia politicaclassica tocca in via approssimativa il vero stato delle cose, senza per altro formu-larlo in modo consapevole. Essa non può farlo finché è chiusa nella sua pelle bor-

ghese». Cfr. anche // capitale. Critica dell'economia politica, Libro III [1894], trad.it. di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1974 8, p. 930: «L'economia volgarenon fa altro, in realtà, che interpretare, sistematizzare e difendere le idee di colo-ro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questaproduzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l'economia volgare si sen-ta particolarmente a suo agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dairapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto contraddit-tori - e ogni scienza sarebbe superflua se l'essenza delle cose e la loro formafenomenica direttamente coincidessero - e che questi rapporti le appaiano tantopiù evidenti di per sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno, ma cor-rispondono alla concezione volgare». Cfr anche ivi, p. 210.

76

4,37 [Q454 s.].77 Dicendo questo non intendo ovviamente contrapporre crudamente

Gramsci a Marx. Le posizioni di quest'ultimo circa il nesso scienza/ideologia ecirca la questione dell'oggettività sono molto più complesse e sfumate di quantol'accostamento della Prefazione al Capitale lasci trasparire, e anzi la stessa ricercadi Gramsci può essere.tranquillamente assunta come uno degli effetti legittimidel pensiero di Marx. Non è un caso, credo, che esattamente il problema quiaccennato venga oggi considerato centrale nello sviluppo dell'eredità marxista daETIENNE BALIBAR, La filosofia di Marx cit.,  in particolare il cap. V.

7 8 Sul modo in cui Gramsci legge la Prefazione cfr. V. GERRATANA,  Sul con-

cetto di 'rivoluzione' [1977], in ID., Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti, 

Roma 1997, pp. 83-118, qui 109-16 e N. BADALONI, Libertà individuale e uomocollettivo in Gramsci, in AA.VV., Politica e storia in Gramsci, voi. I,  pp. 9-60, qui23-25.

7 9 K. MARX, Lohnarbeit und Kapital. Zur Judenfrage und andere Schriftenaus der Frùhzeit, cit. alla nota 29.

80 Le Thesen (trad. in Q 7, cc.2r-3r) si trovano a pp. 54-57, il Vorwort (trad. alle ce. 3r-4r) è a pp. 43-46.

81 I due principii sono: «Questo problema [quello dei «Rapporti tra strut-tura e superstrutture» F.F.] mi pare il problema cruciale del materialismo stori-co. Elementi per orientarsi: 1 °) il principio che «nessuna società si pone dei com-piti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti» o

esse non siano in corso di sviluppo e di apparizione, e 2°) che «nessuna società

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cade se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rap-porti» (vedere l'esatta enunciazione di questi principii)» [Q 4 5 5 ] che si trovaappunto nel Vorwort. Gerratana («Sul concetto di 'rivoluzione'» cit., p. I l i s.) fanotare che quelli che in Gramsci vengono presentati come due principi cheoccorre mediare dialetticamente, sono nel testo marxiano un nesso di premessa econseguenza («ecco perché...»). In questo modo si apre uno spazio per la poste-riore interpretazione della Prefazione in connessione con il concetto di «rivolu-

zione passiva». Cfr. 15,62: «Pare che la teoria della rivoluzione passiva sia unnecessario corollario critico dell'Introduzione alla critica dell'economia politica»[Q 1827] .

82 «La parola d'ordine di tipo giacobino fu data nel 48 tedesco da Marx :«rivoluzione in permanenza»» [Q 5 3 ] .

83 «Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppatetutte le forze produttive, per le quali essa è ancora sufficiente, e nuovi, più altirapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizionimateriali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vec-chia società. Perciò l'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa puòrisolvere; se si osserva con più accuratezza, si troverà sempre che il compito stes-so sorge solo dove le condizioni della sua risoluzione esistono già o almeno sononel processo del loro divenire» (Prefazione, trad. di Gramsci in Q 2 3 5 9 ) .

8 4 Cfr. la presa di posizione durissima di 5 ,206 [Q 1065]: «Come la termi-nologia ha la sua importanza nel determinare errori e deviazioni, quando sidimentichi che la terminologia è convenzionale e che occorre sempre risalire allefonti culturali per identificarne il valore esatto, poiché sotto una stessa formulaconvenzionale possono annidarsi contenuti differenti. Sarà da notare come ilMarx sempre eviti di chiamare 'materialistica' la sua concezione e come ogni vol-ta che parla di filosofie materialistiche le critichi o affermi che sono criticabili.Marx poi non adopera mai la formula 'dialettica materialistica' ma 'razionale' incontrapposto a 'mistica', che dà al termine 'razionale' un significato ben preci-so». Cfr. su questo punto G. Cospiro, Struttura/sovrastruttura, relazione al semi-nario della IGS Italia sul lessico dei Quaderni del carcere, ms., aprile 20 0 1 .

85

Werke cit., p. 5 3 3 .8 6 Cfr. Opere complete cit., p. 6 2 5 . Anche CICCOTTI (Opere cit., p. 4 1 ) tra-

duce con «carattere terreno», mentre Gentile (La filosofia della prassi cit., p. 6 8 )con «positività».

87

Cfr. supra, cap. 2.Ili, il riferimento alla «terrestrità assoluta».8 8 Sottolinea in generale questa tendenza ETIENNE BALIBAR,  Gramsci, Marx

et le rapport social, in AA.VV., Modernité de Gramsci?, a cura di A. Tosel, Les Bel-les Lettres, Paris 19 92, pp. 259 - 69 , qui 2 65 ss.

8 9

Cfr. LABICA,  Il marxismo leninismo cit., p. 122.

» 4,40 [Q 465], cors. miei.91 Una valorizzazione di questo momento 'autoriflessivo' del marxismo cri-

tico di Gramsci è in DOMENICO LOSURDO, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, Roma 1997 , pp. 2 1 5 s.

92 La contrapposizione teoria/pratica va dunque intesa sia nel senso di 'inastratto' vs 'in concreto', sia in quello di 'nelle affermazioni verbali' vs 'nella con-creta pratica (teorica)'.

9 3

Cfr. E . BALIBAR,  Politique et vérité, in ID., La crainte des masses, Galilée, Paris 1997,   pp. 2 5 1 - 7 9 .

9 4 4 ,4 5 [ Q 4 7 1 ] .9 5

Si noti che già al momento della seconda stesura di questo testo ( 1 932 )

67 

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Gramsci mostra di nutrire seri dubbi sulla concordanza delle proprie idee conquello che accadeva di fatto nel movimento comunista: in tal modo va a mio avvi-so interpretata la seguente variante instaurativa: «è una filosofia liberata (o checerca liberarsi) da ogni elemento ideologico» ecc. [ 1 1 , 6 2 ; Q 1487; cors. mio].Questo passo va messo in relazione con gli appunti sul dibattito filosoficonell'Urss nel 1930 -1931 contenuti nei quaderni 8 e 11; cfr. in particolare Q 1042, 

1387 s. Su questi luoghi cfr. VALENTINO GERRATANA, Impaginazione e analisi dei 'Quaderni', in «Belfagor», XLVIII (1993) ,  n. 3, pp. 3 4 5 - 5 2 ,  partic. 349-51 .

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STATO E SOCIETÀ CIVILE DA MARX A GRAMSCI

di Guido Liguorì

1. IL RITORNO DELLA SOCIETÀ CIVILE

Il tema della società civile è tornato al centro del dibattito

culturale e politico a partire dalla fine degli anni settanta,

nell'ambito della cosiddetta «rivoluzione neoconservatrice» o

«neoliberale», che voleva la radicale messa in questione dello

Stato come soggetto «allargato», per usare una espressione gram-

sciana. Ovvero per sostenere la volontà di riscossa e di rivincitadel non-statuale, e dell'economico e del mercato, sulla politica,

sullo Stato, sullo Stato sociale.

A partire dalla metà del decennio successivo, il concetto di

società civile ha giocato un ruolo-chiave anche nel processo di

ridefinizione innanzitutto culturale di una parte della sinistra

stessa, convinta della necessità di abbandonare un paradigma

interpretativo connotato dal concetto di classe. Tale tendenza ha

trionfato nell'89, con la crisi dei modelli iperstatualisti e autorita-

ri del socialismo reale e con i limiti alfine palesi del welfaresocialdemocratico. Sia nella cultura della destra che in quella del-

la sinistra sono risultati prevalenti - anche se in misura e forme

diverse - alcuni concetti di matrice liberale: supremazia della

società civile sullo Stato come superiorità dell'economico sul

politico, del privato sul pubblico, del mercato sulla programma-

zione. Diremmo con Marx: del bourgeois sul citoyen.

A dire il vero, l'idea di cittadinanza è divenuta centrale per

quella parte della sinistra ormai in fuga dal concetto di.classe1

.

Ma mentre in teoria l'individuo (più come «essere umano» che

come appartenente a una comunità politica nazionale) veniva

«fortificato» in quanto portatore di diritti apparentemente eguali

e inalienabili, di fatto, surrettiziamente, proprio perché separato

da ogni possibilità di far parte di una soggettività collettiva, veni-

va spesso spogliato di tutte le difese erette in duecento anni di

lotta di classe.

Due posizioni certo non eguali, quella neoliberale e neoli-

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berista da una parte e quella liberal dall'altra, ma non senza lega-

mi, concettuali e politici. Per la sinistra liberal il concetto di

società civile significa anche, oggi, soprattutto, «il complesso del-le azioni collettive autonome, distinte sia dal potere corporativo

che da quello dello Stato [...] la società civile significa varie

modalità d'esperienza della volontà della gente indipendente-

mente dal (e spesso in aperta opposizione al) potere costituito,

sia esso economico che politico» 2. Si vede come in tale definizio-

ne sia esplicitamente espunto dalla società civile ogni riferimento

al concetto di classe (mascherato sotto il termine «corporativo»).

Storicamente, è stata una interpretazione «idealistica» della fine

di alcuni regimi dispotici dell'Europa dell'Est a rilanciare questavisione della società civile. Se essa è comprensibile, però, non è

certo condivisibile. Il rinvio ai diritti del non-politico, o del pre-

politico, infatti, quasi sempre finisce col fare tutt'uno con il rin-

vio ai diritti del mercato. Come già scrisse Marx nella Questione

ebraica, l'uomo della società civile finisce sempre con l'assomi-

gliare ah"«uomo egoista», il cui egoismo di solito si chiama

«libertà», all'uomo visto come «ripiegato su se stesso, sul suo

interesse privato e sul suo arbitrio privato» 3. Perché eguale è la

concezione antropologica che sta alle spalle di questa dupliceaccezione di società civile, quella liberista basata sul mercato

come quella liberal fondata sui diritti e sull'associazionismo pre-

statuale e «non classista»: il singolo, l'individuo, concepito a pre-

scindere dal suo essere-in-società 4, dal suo essere determinato

dalla complessa rete di relazioni (economiche, sociali, politiche)

in cui non può non essere inserito.

Vi è anche un differente tentativo di rilanciare, a sinistra, il

concetto di società civile: quello esemplificato dal libro di Bruno

Trentin La città del lavoro5. Riesumando una vecchia querelle del-

la sinistra soprattutto di questo secolo, pro e contro Lenin e il

leninismo, Trentin si è fatto ripropositore di alcune tesi proprie

delle correnti teoriche minoritarie del movimento operaio e

comunista del Novecento, dalla Luxemburg a Korsch, leggendo-

le come lotta di un punto di vista sociale-politico (dove, forse per

vis polemica, è però il primo termine a essere molto più in evi-

denza) di contro a un punto di vista e a una prassi soprattutto

 politico-statuale. L'autore che Trentin usa di più in questa sua

opera, a proposito del tema della società civile, è Antonio Gram-

sci, di cui critica non senza ragioni la torsione tayloristica (pre-

70 

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sente del resto anche in Lenin e in quasi tutto il marxismo

dell'epoca), affermando di accoglierne invece l'accento posto sul

concetto di società civile. Senza accorgersi che così facendo egli

in realtà non accoglie tanto le tesi di Gramsci sulla società civile,

quanto l'interpretazione, notissima ma molto discutibile e in lar-

ga misura errata, che ne ha avanzato Norberto Bobbio in un

celebre studio del 19676

.

Siamo così giunti al tema di questa relazione: Marx, Gram-

sci e la società civile. Poiché la particolare lettura che di questo

nesso ha dato Bobbio non può non costituire un punto di par-

tenza per la presente riflessione, essendo forse l'interpretazione

di Gramsci che più ha influenzato, dopo Togliatti, la ricezione

dell'autore dei Quaderni del carcere.

Detto in estrema sintesi7

, pur senza sostenere la estraneità

di Gramsci rispetto a Marx, Bobbio ne sottolineava fortemente imotivi di «autonomia» (che molti avrebbero poi letto come

«distacco») rispetto alla tradizione marxista, individuati a partire

da una particolare accezione del concetto di società civile. Sche-

maticamente, il ragionamento di Bobbio è il seguente: sia per

Marx che per Gramsci la società civile è il vero «teatro della sto-

ria» (la celebre espressione che Marx usa nella Ideologia tedesca).

Ma per il primo essa fa parte del momento strutturale, per il

secondo di quello sovrastrutturale: per Marx il «teatro della sto-

ria» sarebbe la struttura, l'economia, per Gramsci la sovrastrut-tura, la cultura, il mondo delle idee.

Ma le cose - occorre chiederci - stanno davvero così?

2. LA SOCIETÀ CIVILE DI MARX

Sgombriamo il campo da un problema preliminare. Wolf-

gang Fritz Haug, in un intervento (di grande interesse) del 19898

,

ha inteso contestare alla radice la lettura bobbiana, sostenendoche è errato tradurre l'espressione tedesca «bürgerliche Gesell-

schaft» con «società civile» invece che con «società borghese».

Come è noto, l'espressione tedesca tiene unito ciò che quasi tutte

le altre lingue hanno separato. Questa ambivalenza semantica

segnala del resto una verità storica: non c'è realmente «società

civile» prima della società borghese.

Ma che senso avrebbe tradurre Marx facendogli dire - nel

71

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celebre passo della Prefazione del '59 al Ver la critica dell'econo-

mia politica - che «tanto i rapporti giuridici quanto i rapporti

dello Stato [...] hanno le proprie radici, piuttosto, nei rapporti

materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da

Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi nel secolo

XVIII, sotto il termine di "società borghese"», invece che in

quello di «"società civile"», come si è soliti tradurre9

? Quel

«seguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi» non ci dice,

innanzitutto, che qui, in questo luogo topico dell'esposizione del

suo modello teorico, Marx si sta riferendo proprio alla accezione

più generale del termine, anche se non storicamente indetermi-

nata, quella civil society concettualizzata in Gran Bretagna e

Francia cui fa abbastanza esplicitamente riferimento? Le parole

che vengono subito dopo, nel testo marxiano («e che l'anatomia

della società civile è da ricercare nell'economia politica») sono

certo più ambivalenti, per il problema che stiamo affrontando,

perché «società civile» potrebbe essere anche sostituito con

«società borghese», ma la traduzione prevalente discende dalla

frase marxiana immediatamente precedente.

Anche Gramsci, come è noto, è stato titubante su questo

punto: come l'edizione critica di Valentino Gerratana segnala innota, in carcere, nei suoi esercizi di traduzione, Gramsci aveva in

un primo tempo tradotto «...abbracciava col nome di "società

borghese"; [ma] che però l'anatomia della società borghese è da

ricercarsi nell'economia politica». Cancellando poi la parola

«borghese» con un tratto di penna e sostituendola con «civile»

( Q . 7 , p . 2 3 5 8 )1 0

.

Più in generale, non sembra possibile tradurre, in questo

tipo di contesto, «bürgerliche Gesellschaft» in italiano con

«società borghese». Per l'italiano, con l'espressione «società bor-ghese» vengono comprese sia le relazioni statuali che quelle

extrastatuali. Termine inadeguato dunque a rendere la contrap-

posizione istituita da Marx tra le «forme dello Stato» e Xaltro in

cui queste affonderebbero le loro «radici». E «società civile» il

termine che, derivato dal latino societas civilis (traduzione medie-

vale del greco koinonia politiké), attraverso un lungo lavorio di

depurazione storica, è passato a indicare appunto la societas civi-

lis sine imperio, distinta da quella cum imperio, cioè lo Stato 1 1.

Torniamo a Marx. Come è noto, il tema della società civile e

del rapporto tra Stato e società civile interessa questo autore fin

72

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dalle sue opere giovanili, ne costituisce anzi uno dei motivi cen-

trali. Nella «Critica del '43», la Critica della filosofia hegeliana del

diritto pubblico, Marx - seguendo il procedimento applicato da

Feuerbach alla critica della religione, ovvero il rovesciamento del

rapporto tra soggetto e predicato - afferma che in Hegel il sog-

getto è lo Stato e il predicato è la società civile, mentre nella

realtà è l'esatto contrario: il soggetto va ricercato nella società

civile. Scrive Marx: «Famiglia e società civile sono i presupposti

dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella specula-

zione diventa il contrario: mentre l'idea è trasformata in sogget-

to, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia [...] diventa-

no dei momenti obiettivi dell'idea, irreali, allegorici»12 .

Ha dunque ragione Bobbio quando afferma che lo Stato in

Marx è «momento secondario o subordinato rispetto alla società

civile»1 3

. Questa posizione, che risale al '43, sarà tenuta fermalungo l'intero percorso marxiano. Ho già accennato al brano

dell'Ideologia tedesca che afferma che la «società civile è il vero

focolare, il teatro di ogni storia» e all'altro, molto conosciuto,

della Prefazione al Per la critica dell'economia politica, dove Marx

scrive - proprio a proposito del suo giovanile distacco da Hegel

degli anni 1843-1844 - quanto abbiamo sopra ricordato 14 .

Nell'opera di Marx, tuttavia, si trovano anche elementi che

inducono a una lettura più complessa della dicotomia Stato -

società civile, una lettura in parte diversa, che non vuole negare il«rovesciamento» operato rispetto a Hegel, ma problematizzare

sia il concetto di società civile, i contenuti di cui esso si nutre, sia

l'intera valutazione della separazione società-Stato. (E usando il

termine «società» accenno solo a una questione terminologica

che meriterebbe di essere indagata meglio: il fatto, cioè, che il

Marx della maturità e delle grandi opere di critica dell'economia

politica non userà più «società civile», abbandonerà del tutto

questo termine, preferendo usare «società» tout court).

In merito al termine «società civile», già Gerratana ha a suo

tempo rilevato15 - proprio replicando a Bobbio - che non è del

tutto vero che il concetto di società civile in Marx appartenga al

solo momento della struttura. Nella Questione ebraica} 6 

, del

1843-'44, ad esempio, Marx scrive:

«Questo conflitto mondano [...] il rapporto dello Stato

politico coi suoi presupposti, siano pur essi elementi materiali

come la proprietà privata ecc., o spirituali, come cultura, religio-

73

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ne [...] la scissione tra lo Stato politico e la società civile, questi

contrasti mondani Bauer li lascia sussistere» 17 . I «presupposti»dello Stato, ciò che viene prima dello Stato, sono dunque sia ele-menti materiali che elementi spirituali e culturali. E ancora nella

stessa opera, più avanti, Marx indica come «parti costitutivesemplici» della società civile «da un lato gli individui, dall'altrogli elementi materiali e spirituali»

11

'.

Inoltre, aggiungeva Gerratana, riferendosi alla Prefazione

del '59, «quando Marx scrive che "l'anatomia della società civileè da ricercare nell'economia politica", non si vede perché si deb-ba identificare la parte con il tutto, cioè la struttura portante,1"'anatomia" della società civile con gli elementi che questa strut-tura sostiene e che sono ad essa funzionali» 19 . Sarebbero cioè

presenti nella società civile di Marx sia elementi strutturali cheelementi sovrastrutturali, anche se sono i primi a essere centrali.

Più in generale, a me pare che la dicotomia in questione sia- per Marx - propria della modernità, ovvero della società bor-ghese; parallela o addirittura sovrapponibile a quella fra bour-

geois e citoyen, che Marx critica in nome di una sintesi e di unaricomposizione superiori. Marx cioè non si limita a rovesciare

l'hegeliano rapporto Stato-società, si oppone a questa opposizio-ne, critica la dicotomia tra sfera pubblica e privata, in qualche

modo rifiuta il confinamento del politico nello Stato e del socio-economico nella società, mostra come potere (e politica) attra-versino entrambi i momenti 2 0. È questa concezione dialettica cheancora lo lega a Hegel. Ed è questa stessa dialettica che - ancoradi più - rintracceremo in Gramsci.

In altre parole, si tratta di prendere le distanze da una lettu-ra meccanicistica del rapporto struttura-sovrastruttura in Marx,lettura che invece Bobbio fa sua, lettura che ha nella citata Prefa-

 zione del '59 il suo luogo classico: testo però che proprio Gram-sci ha saputo reinterpretare in senso antideterministico. Si trattadi prendere le distanze da una concezione in cui la determinazio-ne in ultima istanza di uno dei due termini (struttura e sovra-struttura) diverrebbe determinazione forte e immediata dell'altrolivello di realtà: «teatro di ogni storia». In Bobbio, la struttura, ola sovrastruttura, a seconda di quale dei due termini sia conside-rato più importante (in Marx o in Gramsci), sembra determinarecompletamente l'altro. Sembra che non vi siano più momentiinsieme di unità e di autonomia, e di azione reciproca, fra i diver-

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si livelli di realtà, propri di ogni concezione dialettica, come è

indubbiamente la concezione di Gramsci. E come io penso sia

anche la concezione di Marx.

3. GRAMSCI: UNA CONCEZIONE DIALETTICA

Se veniamo ai Quaderni del carcere, il discorso si complica

ulteriormente. Per meglio dire, si complica il tentativo di leggerne

la complessità e ricchezza con gli strumenti categoriali rigidamen-

te dicotomici messi in campo da Bobbio. Come già a Cagliari nel

'67 Jacques Texier obiettò a Bobbio, il concetto fondamentale di

Gramsci non è la società civile ma il «blocco storico»2 1

. Il che

vuol dire, come aveva già ricordato Togliatti dieci anni prima22 ,

riprendendo una affermazione esplicita di Gramsci, che la distin-zione tra Stato e società civile è di natura metodica e non organica.

Sono molte le citazioni possibili dai Quaderni, i passi in cui

Gramsci torna sulla unità reale di Stato e società. Una almeno va

ricordata. E tratta dal §. 38 del Quaderno 4: «si specula [...] sulla

distinzione tra società politica e società civile e si afferma che

l'attività economica è propria della società civile e la società politi-

ca non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà

questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella

concreta vita storica società politica e società civile sono una stes-sa cosa. D'altronde anche il liberismo deve essere introdotto per

legge, per intervento cioè del potere politico» (Q. 4, p. 460).

Viene dunque meno una separazione rigida fra economia,

politica e società. Stato e società civile non sono realtà autonome,

l'ideologia liberale che le dipinge come tali è esplicitamente

negata. Da qui nasce il concetto, centrale nei Quaderni, di «Stato

allargato»23

.

Struttura e sovrastruttura, economia, politica e cultura sono

per Gramsci sfere unite e insieme autonome della realtà. E ancheper questo ha poco senso contrapporre la società civile di Marx,

luogo soprattutto delle relazioni economiche, con la società civile

di Gramsci, luogo soprattutto delle relazioni politico-ideologi-

che: andrebbe di nuovo persa la dialetticità del loro pensiero, e

soprattutto del pensiero di Gramsci, che nel momento in cui sot-

tolinea alcuni aspetti della società civile lo fa sempre anchea par-

tire da Marx e dalla sua lezione, che egli dà per acquisita e a par-

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tire dalla quale si sforza di andare avanti, registrando nella teoria,

come dirò fra poco, le novità intervenute nella storia. Uno dei

punti centrali del marxismo di Gramsci è infatti questo non

separare in modo ipostatizzato alcun aspetto del reale (econo-

mia, società, Stato, cultura). Bobbio, la cui teoria politica è forte-

mente dicotomica e procede per coppie oppositive, pone invece

la dicotomia Stato-società civile anche al centro del pensiero di

Gramsci, negando così proprio ciò che in Gramsci è più impor-

tante: la non separazione, l'unità dialettica tra politica e società,

tra economia e Stato. Stando così le cose si può forse ritenere che

oggi la società civile abbia una nuova accezione rispetto a quella

che troviamo in Gramsci (anche se ho già detto quali siano i limi-

ti idealistici della concezione liberal, o comunque prevalente nel

dibattito nordamericano). Ma non si vede come si possa afferma-

re, fermo restando che «Gramsci è stato il primo e più importan-

te marxista a rifiutare la riduzione economicistica del concetto di

società civile», che l 'autore dei Quaderni abbia insistito

suU'«autonomia» e sul «distacco» della società civile stessa «dal-

lo Stato, ovvero dalla società politica» 24 . Per la sinistra liberal -

ho già ricordato - la società civile è qualcosa di distante sia

rispetto all'economia che allo Stato. Non solo: essa viene anchefatta indebitamente ricadere sulle spalle di Gramsci!

Vi è in Gramsci anche una novità rispetto a Marx? In parte

sì: è quella relativa al ruolo dello Stato e del politico. Detto in

estrema sintesi: Gramsci supera compiutamente (a partire dalla

lezione di Lenin) quella visione riduttiva e strumentale dello Stato

che costituisce forse il maggior punto debole della teoria politica

di Marx. Ciò fa sì che mentre Marx pensa il rapporto dialettico di

società e Stato a partire dalla società, Gramsci pensa il rapporto

dialettico di società e Stato a partire dallo Stato, anche per «cor-reggere» e «riequilibrare» un pregresso squilibrio interpretativo.

Marx e Gramsci, però, concordano su un punto essenziale: anche

la società civile non è un luogo idilliaco e concorde, fatto di con-

senso e di trionfo della democrazia e della cittadinanza quale

appare in alcune rappresentazioni odierne, tese a contrapporre

questa realtà alla realtà, più o meno dispotica e oppressiva, ma

sempre vista come negativa, del politico. Come ha sottolineato

Joseph Buttigieg, la storia della società civile per Gramsci è storia

del dominio di alcuni gruppi sociali su altri, essendo la tramadell'egemonia fatta sempre anche di subordinazione, corruzione,

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esclusione dal potere25

, è storia di lotta di classe.

E nella tematica dello Stato, però, che si misura maggior-

mente la novità costituita dall 'elaborazione gramsciana.

Nell'intero pensiero di Gramsci, la riflessione sullo Stato-nazione

è centrale e legata alla tematica dell'egemonia. Stato-nazione, cri-

si dello Stato borghese, costruzione\superamento dello Stato

proletario e internazionalismo sono nodi problematici che deli-

mitano il cuore della riflessione fin dagli anni dell'Ordine Nuovo,

quando il «primato della politica» inizia a prendere la sua forma

matura, sussumendo gradualmente gli elementi di precedente

«sorelismo», facendo scrivere a Gramsci (palesemente influenza-

to anche dalla lettura di Hegel e degli hegeliani nostrani) che «lo

Stato è sempre stato il protagonista della storia»2 6

. Ancor di più

nei Quaderni la riflessione gramsciana è imperniata sullo Stato: è

su questo punto, anzi, che Gramsci dà il suo contributo piùimportante alla definizione di una teoria della politica marxista,

l'«allargamento del concetto di Stato» o «Stato integrale». Non

solo egli supera lo strumentalismo riduttivo, che era anche di un

certo Marx, «secondo cui lo Stato è uno strumento nelle mani di

una classe soggetto, dotata di volontà»27

, ma ridefinisce la forma-

Stato, indicando come in essa sia compreso anche l'apparato ege-

monico: «per Stato - scrive Gramsci - deve intendersi oltre

all'apparato governativo anche l'apparato "privato" di egemonia o

società civile» (Q. 6, p. 801) . E anche così svelata la non separatez-za della «società civile» dallo Stato, come Gramsci ribadisce nei

Quaderni infinite volte. Affermando ad esempio che «nella realtà

effettuale società civile e Stato si identificano» (Q. 13, p. 1590) o

che «la società civile [...] è anch'essa "Stato", anzi è lo Stato stes-

so» (Q. 26, p. 2302) . Nel pensiero di Gramsci, lo Stato si configu-

ra come luogo di una egemonia di classe, momento in cui si ha

«un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell'ambi-

to della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli

dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppodominante prevalgono ma fino a un certo punto» (Q. 13, p. 1584).

E importante sottolineare che se vi è questo momento di

innovazione teorica rispetto a Marx è anche perché nel marxi-

smo di Gramsci irrompono le novità registrate nel rapporto tra

economia e politica nel Novecento, l'allargamento dell'interven-

to statale nella sfera della produzione, l'opera di organizzazione e

razionalizzazione con cui il politico si rapporta alla società e

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anche la produce. Bolscevismo, fascismo, keynesismo, welfare

sono tutti esempi - sia pure con le ovvie differenze - di questo

nuovo rapporto tra economia e politica che si afferma a partire

dalla prima guerra mondiale (come viene colto con lucidità da

Rathenau in Germania e dibattuto anche negli ambienti socialde-mocratici e comunisti) e che costituisce rispetto al capitalismo di

Marx una novità enorme. Non solo l'economia viene sempre più

invasa dalla politica. Come ha scritto Marco Aurelio Nogueira,

«il politico dilaga, occupa molti spazi. La "politicizzazione del

sociale" è seguita dalla "socializzazione della politica"»2 8

. Gram-

sci, in campo marxista, è fra coloro che meglio colgono teorica-

mente e politicamente questo fenomeno

Quanto detto fino ad ora porta ad affermare che Gramsci è

un teorico dell'«autonomia del politico»? Non credo. Ritengosiano errate quelle letture che, sottolineando più del dovuto il

suo giovanile «sorelismo», rischiano di farne un teorico

dell'«autonomia del sociale». Ma la dialetticità del suo pensiero

(oltre che tutta la sua biografia umana e politica) devono indurre

a evitare anche l'errore opposto.

La modernità del pensiero di Gramsci sta nel fatto che, nel-

la sua concezione, la statualità e la politica che egli propone com-

 prendono la società, anche nel senso che se ne nutrono, che non

la negano, che non se ne separano. Le note sui ceti subalterni, sulfolclore, sulla lotta di egemonia, come il giovanile «spirito di scis-

sione», rimandano a una «concezione allargata della politica»,

oltre che dello Stato. Gramsci ha ridefinito il concetto di Stato,

ma ha anche allargato il concetto di politica. Se si separa società

e Stato, politica ed economia, società e politica, in qualsiasi dire-

zione si voglia procedere, si è fuori del solco del suo pensiero.

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stanno disfacendo nella crisi del dopoguerra; il partito comunistaè una costruzione affatto nuova nella storia, è il luogo della presadi coscienza e della costituzione della comunità operaia21 .

Si osservi quanta distanza separa questo testo del settembre1920 (è il momento dell'occupazione delle fabbriche, il puntopiù alto del biennio rosso) da un testo di soli tre mesi prima (giu-gno 1920), II consiglio di fabbrica:

D processo reale della rivoluzione proletaria non può essere identificato con10 sviluppo e l'azione delle organizzazioni rivoluzionarie di tipo volontarioe contrattualista quali sono il partito politico e i sindacati professionali:organizzazioni nate nel campo della democrazia borghese, nate nel campodella libertà politica, come affermazione e come sviluppo della libertà politi-ca. Queste organizzazioni,  in quanto incarnano una dottrina che interpreta11 processo rivoluzionario e ne prevede [...] lo sviluppo, in quanto sonoriconosciute dalle grandi masse come un loro riflesso e un loro embrionale

apparecchio di governo sono attualmente e sempre più diventeranno gliagenti diretti e responsabili dei successivi atti di liberazione che l'intera clas-se lavoratrice tenterà nel corso del processo rivoluzionario. Ma tuttavia essenon incarnano questo processo, esse non superano lo Stato borghese, essenon abbracciano e non possono abbracciare tutto il molteplice pullulare diforze rivoluzionarie che il capitalismo scatena nel suo procedere implacabiledi macchina da sfruttamento e da oppressione. Nel periodo di predominioeconomico e politico della classe borghese lo svolgimento reale del proces-so rivoluzionario avviene sotterraneamente, avviene nell'oscurità dellacoscienza delle moltitudini sterminate che il capitalismo assoggetta alle sueleggi. Le organizzazioni rivoluzionarie (il partito politico, il sindacato pro-fessionale) sono nate nel campo della libertà politica, nel campo dellademocrazia borghese, come affermazione e sviluppo della libertà e dellademocrazia in generale, in un campo in cui sussistono i rapporti da cittadinoa cittadino: il processo rivoluzionario si attua nel campo della produzione,nella fabbrica, dove i rapporti sono di oppressore a oppresso, di sfruttatorea sfruttato,  dove non esiste libertà per l'operaio, dove non esiste democra-zia; il processo rivoluzionario si attua dove l'operaio è nulla e vuole diventa-re tutto, dove il potere del proprietario è illimitato, è potere di vita e di mor-te sull'operaio, sulla donna dell'operaio, sui figli dell'operaio 22.

Gramsci sembra riferirsi direttamente a quelle pagine del ILibro del Capitale in cui Marx distingue la compravendita dellaforza lavoro fatta sulla base della società borghese, nella sfera del-

la circolazione, dello scambio delle merci, dall'uso della forzalavoro che viene fatto in fabbrica:

Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di qualsiasi altra merce, sicompie fuori del mercato, ossia della sfera della circolazione. [...] La sfera del-

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la circolazione, ossia dello scambio di merci,  entro i cui limiti si muovono lacompera e la vendita della forza-lavoro, era in realtà un vero Eden dei diritti innati dell'uomo. Quivi regnano soltanto Libertà Eguaglianza Proprietà e Bentham

3. LL LAVORATORE COLLETTIVO

Le forti oscillazioni del giovane rivoluzionario in merito allaquestione che stiamo esaminando - il rapporto tra la grande fab-brica e la costituzione del soggetto attivo della transizione alnuovo modo dei produttori associati - sono il sintomo di unadifficoltà che non è certamente solo di Gramsci, ma investe lariflessione e la pratica del movimento operaio primonovecente-

sco, diviso tra «operaisti» e fautori della teoria del partito qualeportatore esterno della coscienza rivoluzionaria. Lo stesso Gram-sci e l'«Ordine nuovo», come abbiamo visto non si sottraggonoall'accusa di anarcosindacalismo.

Ma il problema intom o a cui Gramsci lavora, non è di natu-ra meramente pratico-politica, ma filosofica e attraversa sotterra-neamente molte pagine dei Quaderni: è il nesso dialettico traoggettività - che significa sempre le condizioni storicamentedate, quindi umanamente oggettive - e soggettività quale costitu-zione di soggetti consapevoli e arrivi. D problema che emerge conforza dalla nota 67 del quaderno 9 è - ad onta delle accuse diidealismo rivolte a Gramsci - quello di trovare il fondamentooggettivo alla costituzione del nuovo soggetto collettivo, che nonpuò essere perciò semplicemente dato dall'esterno. Il riferimentoesplicito e forte al Capitale, che incontriamo in questa nota deiQuaderni, può essere allora qualcosa di più del pur importanterinvio al modo in cui Ma rx attronca il tema cruciale della grande

fabbrica; è la professione di on programma di ricerca dei fonda-menti oggettivi della transizione a! nuovo modo di produzione,la quale per Gramsci non potrebbe mai realizzarsi senza la costi-tuzione e l'azione del soggetto rivoluzionario, senza la sua costi-tuzione in classe consapevole. Lo sviluppo tecnico, l'estensionedel sistema di macchine, ne sono il presupposto necessario, maassolutamente insufficiente.

In quella nota del 1932 che abbiamo preso in esame Gram-sci ritiene di aver trovato nelle analisi dello stesso Marx l'anello

di congiunzione tra le condizioni oggettive della grande fabbrica e

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della sua esasperata divisione del lavoro e la formazione del sog-getto collettivo della trasformazione: è il Gesamtarbeiter, il «lavo-ratore collettivo» (o, come è spesso nella traduzione italiana delCapitale, l'operaio collettivo), come Gramsci cita tra virgolette.

Ma Gramsci conferisce a questo termine un significato e unvalore che non sono propriamente quelli che si possono evinceredal contesto in cui Gesamtarbeiter è inserito nel I Libro del Capi-

tale. Salvo in un caso, in cui Gesamtarbeiter , impiegato in coppia

antitetica con Gesamtkapitalist, designa la classe operaia contrap-posta a quella capitalistica24, in tutti gli altri, quelli che interessa-no direttamente il nostro discorso, perché si riferiscono ai pro-cessi di produzione cooperativa - dalla manifattura alla grandefabbrica - il «lavoratore collettivo», o «complessivo», o «combi-nato», lungi dall'essere un soggetto consapevole, è assoggettato

al comando del capitale per accrescerne la forza produttiva.Non vi sono passi significativi in Marx che lascino intende-re il passaggio da questo lavoratore combinato, posto dalla divi-sione capitalistica del lavoro, a un soggetto collettivo consapevo-le. Né si può dire che Gramsci non abbia ben presente il signifi-cato marxiano prevalente di «lavoratore collettivo». In una notadel quaderno 11 del 1932-33 {Introduzione alla filosofia), al § 32,

Quantità e qualità, criticando la genericità e l'astrattezzadell'affermazione secondo cui «ogni società è qualcosa di più

della mera somma dei suoi componenti individuali», Gramsciritorna alla IV sezione del Capitale e alla spiegazione marxianadella cooperazione, «dove si dimostra che nel sistema di fabbricaesiste una quota di produzione che non può essere attribuita anessun lavoratore singolo, ma all'insieme delle maestranze,all'uomo collettivo»2 5. Questo «uomo collettivo» altri non è cheil marxiano «operaio complessivo stesso, combinato di moltioperai parziali», lì dove «l'unilateralità e persino l'imperfezionedell'operaio parziale diventano perfezione di lui come uno. delle

membra dell'operaio complessivo. L'abitudine di compiere unafunzione unilaterale lo trasforma nell'organo di tale funzione,che opera sicuramente e naturalmente, mentre il nesso del mec-canismo complessivo lo costringe ad operare con la regolaritàdella parte d'una macchina» 2 6.

E appunto come «macchina» lo vede il Gramsci di Ameri-

canismo e fordismoanche il complesso umano (il lavoratore collettivo) di un'azienda è una mac-china che non deve essere troppo spesso smontata né rinnovata nei suoi pez-

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 zi singoli senza perdite ingenti*.

A un dato momento, questa «macchina», posta dal capitale,diviene per Gramsci un soggetto consapevole. Soluzione ardua e

problematica, che rivela la presenza, dair«Ordine nuovo» aiQuaderni, di un problema non ancora soddisfacentemente risol-to, ma insistentemente, lucidamente riproposto.

11¿

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NOTE

' M. SALVADORI,  Gramsci e il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino 1973, p. 179. cfr. anche A. BURGIO, «Valorizzazione della fabbrica» e ame-ricanismo, in A. BURGIO, A. SANTUCCI (a cura di), Gramsci e la rivoluzione in Occi-dente, Editori Riuniti, Roma 1999.

2 È il sottotitolo dell'«Ordine nuovo».' A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, 

Einaudi, Torino 1975 (d'ora in poi indicati con QC), p. 1137. È il § 67, Passato e presente, del quaderno 9 del 1932. Si tratta di un testo B, non ripreso in una rie-laborazione successiva. Le evidenziazioni in grassetto sono mie, A.C.

4 Cfr. «L'Ordine nuovo», n. 15,23.8.1919,  . 1, evidenziazione mia, A.C.5

Cfr. Il consiglio di fabbrica, in L'Ordine Nuovo 1919 -1920, a cura di V.Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1987, p. 532.

6K.MARX, Il Capitale, Libro primo, trad. di Delio Cantimori, Editori Riu-

niti, Roma 1967, capitolo 4, Trasformazione del denaro in capitale, pp. 208-209.' QC, p. 1137. [Le evidenziazioni in grassetto sono mie, A.C.]8

K. MARX, op. cit., p. 486 (capitolo XIII, Macchine e grande industria).9 Si veda a questo proposito G. BARATTA, A. CATONE (a cura di) Tempi 

moderni - G ramsci e la critica dell'americanismo, Edizioni associate, Roma 1989,Sezione prima, Dialettica della modernità.

10 Cronache dell'Ordine nuovo, 19 ottobre 1920, in L'Ordine nuovo, cit., p.704.

" K. MARX,  F. ENGELS, Il Manifesto del partito comunista, Laboratorio poli-tico, Napoli 1998, p. 21.

1 2Cfr. QC, p. 2165.

" Cfr. A. GRAMSCI,  L'Ordine nuovo, op. cit.,  p. 432-33. Evidenziazioni ingrassetto mie, A.C.

1 4 A. GRAMSCI, L'operaio di fabbrica, in L'Ordine nuovo 432-35, 21.2.1920, 

evidenziazioni in grassetto mie, A.C."QC, p. 1138.1 6 F. ENGELS,  La situazione della classe operaia in Inghilterra,  in MARX-

ENGELS, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 403.17

K. MARX,  Il Capitale, L. I, op. cit., pp. 470-71l 8 K. MARX, Il Capitale, op. cit., p. 404." K. MARX, op. cit. p. 476, evidenziazioni in grassetto mie, A.C.2 0 A. GRAMSCI,  L'Ordine nuovo, op. cit., p. 655.2 1 A. GRAMSCI, L'Ordine nuovo, op. cit., pp. 655-66.2 2 A. GRAMSCI,  L'Ordine nuovo, op. cit., pp. 532-33.2

' K. MARX, Il Capitale, op. cit., cap. 4, Trasformazione del denaro in capita-

le, pp. 208-20924 Ivi, capitolo 8, La giornata lavorativa, p. 26925 QC, p. 1446, evidenziazione in grassetto mia, A.C.2 6

K. MARX, Il Capitale, op. cit., p. 392.27 QC, p. 2166, evidenziazione in grassetto mia, A.C.

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GRAMSCI, SRAFFA E IL SECONDO LIBRO

DEL «CAPITALE»

di Giorgio Gilibert 

«I miei interessi erano quelli di un economista e di que-sto Gramsci mi parlava»(Piero Sraffa, 1973)

UNA CONGETTURA

L'amicizia che legò Antonio Gramsci a Piero Sraffa è nota atutti e da tempo. Questo legame fu tanto importante, anche esoprattutto sul piano intellettuale, che è difficile studiare la per-sonalità dell'uno o dell'altro senza affrontare il tema dei reciprocirapporti. Un fatto, questo, oggi generalmente riconosciuto, cometestimoniano gli studi pubblicati negli ultimi tempi 1.

Ma l'attenzione si è normalmente concentrata sugli «annidel carcere», più che su quelli precedenti; e sui temi di carattere

politico, più che sugli altri, di carattere economico ad esempio,presenti nella corrispondenza. Una scelta facilmente comprensi-bile, visto che i rapporti tra Gramsci carcerato e la dirigenza delpartito comunista clandestino costituiscono evidentemente unnodo politicamente e storicamente cruciale, e che Sraffa fu il tra-mite principale di questi rapporti. E si potrebbe aggiungere che,sulla base dei documenti esistenti, lo scambio di idee tra Gramscie Sraffa sul terreno della teoria economica sembra piuttostodeludente.

Vorrei qui proporre una congettura, una ipotesi cioè checonsidero non fondata su prove certe (non ancora almeno) maplausibile, sulla base di indizi concreti. E evidente che una similecongettura è interessante soltanto se suggerisce un corso deglieventi diverso rispetto a quello comunemente considerato comeovvio.

Suppongo dunque che uno scambio di idee sull'economia

politica, decisivo anche se non direttamente documentato, abbia

avuto effettivamente luogo negli anni 1924-26; e che, contraria-

l a

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mente alle attese, sia stato il politico - Gramsci - a influenzarel'economista - Sraffa. Gli anni corrispondono al periodo «roma-no» di Gramsci, che va dalla sua elezione a deputato (aprile1924) fino all'arresto (novembre 1926). Sraffa, che in quei mesi

insegnava all'università di Perugia, deve essere stato un frequen-tatore abituale dell'abitazione di Gramsci: tanto da capitare acasa dell'amico anche durante una perquisizione di polizia.

SCAMBI DELUDENTI

Gramsci entra in contatto con l'economia politica in rela-zione a tre argomenti principali. Consideriamoli separatamente

(e rapidamente) avendo soprattutto riguardo allo scambio di ideeche hanno generato.

Un primo tema riguarda la teoria economica pura. Appenagiunto al confino di Ustica, Gramsci chiede che gli venga manda-to «un buon trattato di economia e di finanza da studiare» (lett.a Sraffa: 11/12/26). Sraffa gli manda i Principi di economia di

Marshall e il Corso di scienza della finanza di Einaudi: i due testi

utilizzati nelle lezioni di Perugia. Libri autorevoli - «ottimo»dice Gramsci del primo; «un solido libro da digerire sistematica-

mente» dice del secondo - ma che non devono averlo particolar-mente entusiasmato. I Principi, lasciati a Ustica, spariscono rapi-damente dai suoi scritti. L'opinione che Gramsci si farà poi diEinaudi, sulla base di alcuni articoli sulla crisi del '29, è sferzan-te: un autore «infantile» che indulge ad «arguzie da rammollito» {Quaderni: 8, 216). In generale è tutta la teoria economica orto-dossa, di impostazione soggettivista, che gli appare un esercizioaccademico abbastanza futile. Si pensi al giudizio sui Principi di

economia pura di Pantaleoni (il «principe» degli economisti ita-

liani, nel necrologio di Sraffa sull'«Economic Journal»): «La pri-ma parte del libro, dove si parla del postulato edonistico, potreb-be più acconciamente servire a un raffinato manuale di arte culi-naria o ad un ancor più raffinato manuale sulle posizioni degliamanti» {Quaderni: 10, II, 30).

Il secondo tema riguarda l'economia politica classica.Gramsci si chiede se Ricardo non possa essere considerato comeun anticipatore della «filosofia della praxis» con particolare rife-rimento ai concetti, metodologicamente fondamentali, di «mer-

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cato determinato» e di <degge di tendenza». Prega Tatiana Schu-cht (lett.: 30/5/32) di sottoporre la questione a Sraffa, che nelfrattempo, incaricato dalla Royal Economie Society di curarel'opera omnia di Ricardo, era diventato un'autorità riconosciutasull'argomento. La prega anche di chiedergli se, in occasione delcentenario della morte (1923), erano apparsi studi interessanti

sulla impostazione metodologica di Ricardo. La risposta di Sraffa(21/6/32) ci appare, nel merito, piuttosto fredda: quanto allafilosofia «Ricardo era, e restò sempre un agente di cambio dimediocre cultura»; sui due concetti «confesso di non capire benea che cosa si riferiscano». In occasione del centenario della mor-te, i pochi autori inglesi che hanno pubblicato saggi sull'argo-mento hanno accuratamente evitato i temi metodologici «in que-sto, se non altro... fedeli discepoli di Ricardo». Ci sono - è vero- due operette di autori tedeschi, notoriamente più propensi allespeculazioni astratte: «Confesso che non le ho lette, ma costanopoco (uno o due marchi) e quindi se Nino le vuol vedere rischiapoco».

Il terzo tema va sotto l'etichetta di «americanismo e fordi-smo». E questo, di gran lunga, l'argomento economico a cuiGramsci dedica attenzione con maggiore profondità e continuità.Il suo interesse per l'organizzazione concreta del lavoro di fab-brica risale al periodo torinese dell'Ordine Nuovo e all'esperien-

za dei consigli di fabbrica: Gramsci sosteneva di essere andato ascuola con la classe operaia torinese - ci ricorda Battista Santhià,operaio in Fiat.

Ciò che accomuna le riflessioni del 1919-20 con quelle suc-cessive sul fordismo è il giudizio sempre ambivalente sui momen-ti di riorganizzazione produttiva, sia dentro la fabbrica che nellasocietà esterna: momenti che segnano un aumentato asservimen-to degli operai alle esigenze della produzione capitalistica, natu-ralmente. Ma anche tentativi interessanti e potenzialmente pro-

gressivi di razionalizzare la produzione sociale, nel senso dellaeliminazione progressiva di sprechi e parassitismi e della riduzio-ne del tempo di lavoro necessario: e dunque, in ultima istanza,esperienze preziose nella edificazione eventuale di una «societàcomunista dei produttori».

Sotto questo profilo, la posizione di Gramsci presenta delleaffinità con quella di altri studiosi, specie tedeschi, dello stessoperiodo. Nel corso della prima guerra mondiale, la Germania,

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isolata dai suoi mercati tradizionali, si trovò ad affrontare proble-mi gravissimi, specie per quel che riguarda il rifornimento dimaterie prime. I problemi furono affrontati con una gestionecentralizzata dell'economia bellica, gestione che si rivelò sor-

prendentemente efficiente. Questo convinse molti studiosi delprimo dopoguerra a proporre di far tesoro delle esperienze belli-che per riorganizzare l'economia in forma «razionale» sottraen-dola all'anarchia del mercato. Queste idee ebbero sostenitori tan-to tra i fautori di una economia capitalista - primo fra tuttiWilhelm Rathenau, figlio del fondatore dell'AEG, principaleresponsabile dell'economia bellica e infine ministro degli esteri -quanto tra i fautori di una socializzazione integrale dell'econo-mia, come Otto Neurath, ministro delle finanze nella effimera

repubblica consiliare di Baviera.Sappiamo che nel 1920 Sraffa era di casa all'«Ordine Nuo-

vo», dove aveva potuto assistere al gran dibattito sui consigli esulla gestione operaia delle fabbriche. Tuttavia, se cerchiamotracce di queste discussioni nei primi scritti di Sraffa, e in parti-colare nei due famosi articoli del 1925-26 sulla teoria marshallia-na dell'impresa, dobbiamo accontentarci di pochi accenniall'esperienza quotidiana della produzione industriale (accenniperaltro inconsueti nella letteratura accademica, ieri come oggi).

SRAFFA

Nel 1924 Sraffa ha ventisei anni: cinque anni prima,Umberto Cosmo, già suo professore al liceo D'Azeglio, lo avevapresentato a Gramsci, di sette anni più anziano. A quattro annidalla laurea in giurisprudenza - tesi di economia, relatore LuigiEinaudi - Sraffa inizia la carriera universitaria (libero docente aPerugia nel 1923) una carriera che conosce bene, dal momentoche il padre è rettore dell'università Bocconi.

La carriera è fulminea. Un primo, fondamentale saggiocritico sulla teoria di Marshall (1925) gli garantisce la cattedra aCagliari (1926); e un secondo saggio, sullo stesso tema ma condiversa impostazione, pubblicato sull'Economie Journal (1926)

gli procura fama internazionale. Ma nel frattempo un altro suobreve articolo sulla situazione bancaria italiana (pubblicato sul«Manchester Guardian Commercial», dicembre 1922, e tradot-

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to in italiano) gli aveva anche attirato l'attenzione rabbiosa diMussolini.

Nel 1927, dunque, dopo l'arresto di Gramsci, Sraffa decidedi accettare l'invito di Keynes a trasferirsi a Cambridge pertenervi un corso di Teoria avanzata del valore: le lezioni dovreb-bero cominciare in autunno. La preparazione del corso si rivelaperò più gravosa del previsto, e Sraffa chiede e ottiene un annodi rinvio.

A Cambridge, sempre nel 1927, comincia a scrivere le equa-zioni dei prezzi che sono al centro del suo libro Produzione di

merci a mezzo di merci, libro che però vedrà la luce solo nel 1960.Sraffa attribuisce fin dal primo momento grande importanza allapropria scoperta: decide subito che ne farà un libro, e sottoponei primi risultati a Keynes. D'altra parte - testimoniera lui stesso

nel 1960 - le principali proposizioni del libro sono già compiuta-mente formulate prima del 1930.Sull'origine di queste equazioni si è sempre saputo abba-

stanza poco. Esse non hanno nulla a che fare con la teoria delvalore di Marshall, teoria a cui si era rivolta fino ad allora l'atten-zione di Sraffa e che resta al centro delle sue lezioni di Cambrid-ge.

Dopo la pubblicazione del libro si è diffusa una versionedei fatti che, per essere abbastanza plausibile e per essere conti-

nuamente ripetuta, ha acquistato tanta autorevolezza da nonessere più messa in discussione. Secondo questa versione, dopoaver mostrato le lacune della teoria marginalista del valore, Sraffasi sarebbe rivolto agli economisti classici e a Ricardo in particola-re: le equazioni di Produzione di merci costituirebbero in tal

modo la riformulazione rigorosa e aggiornata della teoria delvalore di Ricardo.

Questa versione - la vulgata, si potrebbe dire - non regge auna verifica accurata. Il lavoro sistematico di Sraffa sui testi di

Ricardo (il cui frutto, la monumentale edizione delle Opere, pre-cede la pubblicazione di Produzione di merci) comincia in realtànel 1930, dopo la stesura delle equazioni dei prezzi, e segna difatto l'abbandono, per oltre un decennio, del lavoro su quelleequazioni. D'altra parte è lo stesso Sraffa ad avvertirci esplicita-mente (nella Nota sulle fonti in appendice a Produzione di merci)

che la interpretazione di Ricardo è stata una conseguenza e nonuna causa della sua riflessione teorica.

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Oggi sappiamo, grazie agli appunti dello stesso Sraffa, chela fonte originaria di ispirazione per le sue equazioni è statoMarx e non Ricardo. Non però, come potremmo aspettarci, ilMarx della teoria del valore-lavoro (I Libro del Capitale); néquello dei prezzi di produzione (III Libro); ma quello degli sche-

mi di riproduzione (2a sezione del II Libro). E ciò è quantomeno sorprendente.Il Capitale, nei suoi quattro Libri (includendovi le Teorie sul

 plusvalore) non è evidentemente un'opera che si presti a una let-tura tutta di un fiato. Possiamo ragionevolmente supporre cheSraffa, studente con simpatie socialiste, conoscesse il I Libro findai tempi dell'università: dopo tutto a Torino la cattedra di eco-nomia politica era coperta da Loria (per il quale in verità Sraffanon nutriva particolare simpatia) considerato ai suoi tempi un

marxista, sia pure sui generis; e il I Libro era disponibile in tra-duzione italiana nella rispettabile Biblioteca dell'Economista. AIcontrario, per una traduzione degli altri Libri - allora ben poconoti in Italia - dobbiamo attendere il secondo dopoguerra. Einfatti Sraffa utilizzò sempre le traduzioni francesi.

Sraffa diede alle sue lezioni sulla teoria del valore un tagliodi storia dell'analisi. Si capisce dunque che nel prepararle si siarivolto con interesse alle Teorie sul plusvalore di Marx (semprecitate come Histoire, con riferimento alla traduzione francese).

Possiamo anche immaginare che sia tornato al primo Libro delCapitale, anche se la teoria del valore-lavoro non esercitava su dilui un fascino particolare. Se avesse seguito il dibattito sul pro-blema della trasformazione dei valori in prezzi - ma di questonon c'è traccia - si sarebbe rivolto anche al terzo Libro. Ma per-ché scegliere il secondo, l'unico nel quale il tema del valore sem-bra messo deliberatamente tra parentesi?

IL SECONDO LIBRO

«Per strano che possa apparire - osserva Rosdolsky 2 - glischemi della riproduzione del Libro II del Capitale rimaseroinosservati per quasi un ventennio nella letteratura marxistatedesca». E - aggiungiamo noi - rimasero inosservati per oltremezzo secolo nella letteratura, marxista e non marxista, di linguainglese, francese e italiana. Eppure al suo apparire (1885) il libro

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fu oggetto sulla principale rivista tedesca di economia di unaapprofondita recensione3, dove gli schemi di riproduzione veni-vano segnalati come strumenti importanti e originali. Ma l'auto-re, Wilhelm Lexis (il maestro di Bortkiewicz) era più noto nelmondo degli statistici che in quello degli economisti: tra i marxi-sti, in particolare, l'unico lettore attento sembra essere statoEngels, che nella prefazione al III Libro definirà curiosamenteLexis «un marxista travestito da economista volgare».

La «scoperta» degli schemi di Marx avvenne, con un decen-nio di ritardo, in Russia, ad opera dell'economista Tugan-Bara-nowsky. Questi pose gli schemi al centro della propria analisi inun libro famoso dedicato alle crisi industriali e pubblicato nel1894. Fu la traduzione di questo libro (1901) che portò final-mente all'attenzione dei lettori di lingua tedesca gli schemi del II

Libro del Capitale. Ne nacque un grandioso dibattito sul cosid-detto problema della realizzazione, cioè sulla inevitabilità dellecrisi nel capitalismo: una delle discussioni teoriche più accese (edurature: oltre un ventennio) che abbia coinvolto gli economistimarxisti. Le opere fondamentali furono il Capitale finanziario

(1910) di Rudolf Hilferding e XAccumulazione del capitale (1913)

di Rosa Luxemburg; ma molti altri furono i partecipanti; tra cuiOtto Bauer, Bucharin e Io stesso Lenin.

Tuttavia la discussione non uscì dai confini dei paesi di lin-

gua tedesca e russa. Quando nel 1938 Leontief, che aveva studia-to a Pietroburgo e a Berlino, pubblicò sull'«American EconomieReview» un saggio sull'economia marxiana, dovette sorprenderenon poco i lettori - senza peraltro destare particolari reazioni -sostenendo che gli schemi di riproduzione rappresentavano ilprincipale contributo analitico di Marx e che costituivano ancorail miglior punto di partenza per una teoria soddisfacente delciclo economico. Di fatto, fu solo negli anni '40, con la pubblica-zione del fortunato libro di Sweezy sulla teoria dello sviluppo

economico, che gli schemi di riproduzione diventarono noti inoccidente a un più vasto pubblico: il libro apparve nel 1942 negliStati Uniti; fu ripubblicato in Inghilterra nel 1946 (e infine tra-dotto anche in Italia nel 1951) .

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GRAMSCI

Nel marzo del 1922, il II congresso del PCd'I decide dimandare Gramsci a Mosca come rappresentante del partito

nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Gramsci, che,lasciando l'Italia, non sapeva quanto tempo si sarebbe fermato aMosca, vi rimase dal maggio 1922 fino al novembre 1923: in que-sto periodo prese parte al IV congresso dell'Internazionale, alterzo esecutivo allargato e a innumerevoli riunioni indette daidiversi uffici politici e organizzativi: «Ci convocano ad ognimomento, nelle ore più impensate» (lett. a Giulia Schucht:13/2/23) .

Non devono essere mancate riunioni dedicate al controllo

operaio e al superamento dell'organizzazione capitalistica dellavoro; alla nuova contabilità necessaria per edificare l'economiasocialista; ai fondamenti di una strategia per lo sviluppo pianifi-cato dell'economia: temi che certamente interessavano Gramsci,reduce dall'esperienza torinese dei consigli e sempre attentoall'organizzazione del lavoro di fabbrica. Nelle discussioni sovie-tiche su questi temi, almeno fino al 1930, il ruolo svolto daglischemi di Marx come punto di partenza obbligato (e il riferimen-to quasi rituale al loro antecedente settecentesco, il Tableau éco-

nomique di Quesnay) non può che stupire.La gran discussione sul problema della realizzazione era

ancora ben viva tra i marxisti: il contributo di Bucharin, dura-mente polemico con le tesi della Luxemburg e per certi versiconclusivo, sarà pubblicato soltanto nel 1925 (e tradotto in tede-sco l'anno seguente).

Come viva era la nuova discussione sulla necessità di inven-tare una contabilità adatta alle esigenze di una economia sociali-sta. Nel 1925 viene pubblicato il Bilancio dell'economia naziona-

le dell'Urss per il 1923-24. L'introduzione, scritta da P. I. Popov,è un vero e proprio manifesto della nuova contabilità; un manife-sto che si apre con un paragrafo intitolato: «Fondamenti teoricidel bilancio: Quesnay e Marx» 4 .

Non si tratta di meri esercizi retorici, come dimostra fral'altro un episodio minore, ma significativo. Il giovane e brillanteLeontief, appena giunto nel 1925 dall'Urss, si presenta ai colleghitedeschi con un breve articolo su una prestigiosa rivista accade-mica. Si tratta della recensione al bilancio sovietico appena pub-

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blicato: «La principale caratteristica di questo bilancio - scriveLeontief - è il tentativo di rappresentare numericamente nonsolo la produzione, ma anche la distribuzione del prodotto socia-le, in modo da ottenere un quadro dell'intero processo di ripro-duzione nella forma di un Tableau économique»'. Con parolequasi identiche, salvo un ovvio aggiustamento geografico, siaprirà, sedici anni più tardi, il libro sulla struttura dell'economiaamericana, che varrà a Leontief il premio Nobel.

Lo schema di riproduzione «allargata» era infine il naturalepunto di partenza per la formulazione di un modello di accumu-lazione socialista e di una teoria dello sviluppo accelerato, comedimostrano i due fondamentali articoli di Feldmann, pubblicatinel 1928. Articoli che vennero conosciuti in occidente soltanto,nel 1957, un anno prima della morte del loro autore, grazie al

resoconto di Evsey Domar.A questo punto sorge spontanea la nostra congettura. Equanto meno verosimile che Gramsci abbia preso parte ad alcu-ne di queste discussioni; che sia rimasto sorpreso dal riferimentocontinuo agli schemi contenuti nel II Libro del Capitale, schemiquasi sconosciuti alla cultura italiana dell'epoca; che abbia pen-sato di chiedere a Sraffa, in cui aveva piena fiducia tanto sul pia-no politico che su quello scientifico, di andare a fondo sull'argo-mento. E che, in questo modo, Sraffa sia stato indotto ad affron-

tare un tema che, unito al suo personale interesse per la teoriadel valore, lo avrebbe portato a scrivere uno dei libri più affasci-nanti di tutta la moderna economia politica.

INDIZI

Quel che Gramsci pensava di Sraffa nel periodo moscovita,tanto sul piano politico che su quello scientifico, risulta chiara-

mente da un documento di sua mano (al comitato esecutivo delPCd'I: 29 marzo 1923). Il documento contiene tra l'altro una«proposta pratica»: costituire in Italia un centro di ricerche eco-nomiche, il quale, pur controllato dal partito, avrebbe dovuto agi-re legalmente e alla luce del sole, pubblicando anche un bollettinoquindicinale o mensile sui problemi economici e del lavoro.

«Vi possiamo indicare due elementi per questo lavoro. Pie-ro Sraffa, conosciuto da Togliatti che ha in Inghilterra lavorato

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all'Ufficio di ricerca sul lavoro del Labour Party e che è uno spe-cialista in quistioni bancarie. Gramsci potrebbe scrivergli unalettera. Lo Sraffa aveva già parlato con Gramsci tempo fa su unprogetto di questo genere e si era mostrato favorevole. È un ele-

mento che ha lavorato a Torino indirettamente, che ha datoall'«Ordine Nuovo» molto materiale, su quistioni riservate, attin-gendo al dossier di suo padre, pezzo grosso della massoneria edella Banca commerciale e non è conosciuto per le sue opinionicomuniste che da un piccolo cerchio di conoscenti. Altro ele-mento potrebbe essere il Molinari»6.

Un secondo documento testimonia di alcune riflessionisull'economia nei mesi di Mosca. Si tratta di una lunga lettera daVienna al comitato esecutivo del PCdT datata 14 gennaio 1924.

Gramsci propone, tra l'altro, iniziative culturali raccolte sottoquattro punti. Per noi sono particolarmente interessanti duepunti: il primo e il quarto. Questo il primo punto (in qualchemodo collegato alla proposta del documento precedente):

«Creazione del periodico trimestrale che dovrebbe servire asuscitare e organizzare intorno ad una attività gli elementi di pri-ma linea del partito».

L'indice «possibile» del primo numero prevede, in terzaposizione:

«Graziadei: l'accumulazione del capitale secondo RosaLuxemburg. Questo problema è quasi sconosciuto in Italia. Sudi esso si impernierà la discussione del V congresso sulla questio-ne del programma del Comintern. Il compagno Graziadei misembra il più qualificato per fare in una trentina di pagine unaesposizione della teoria di Rosa Luxemburg in correlazione conquella di Marx».

E ora il quarto punto:«Le pubblicazioni di libreria organizzate secondo un deter-

minato piano in cui sia contemplata la necessità della propagan-da elementare per la difesa dei nostri principi, del nostro pro-gramma e della nostra ideologia in generale».

Il programma editoriale proposto prevede una cinquantinadi opuscoli, una antologia di scritti di Marx e Engels, e sei saggi:due opere di Marx (tra cui il Manifesto), due di Engels, una diBucharin (quel Saggio popolare, del 1921, poi criticato nei Qua-

derni) e infine un'opera sconosciuta ai più: Borchardt, Il capitale

di Carlo Marx.

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Perché Borchardt? Troviamo la risposta nei Quaderni (10,H,37) : v

«E da riflettere su questo punto: come potrebbe e dovrebbeessere compilato modernamente un sommario di scienza criticaeconomica che riproducesse il tipo rappresentato nel passato e

per le passate generazioni dai compendi del Cafiero, del Deville,del Kautsky, dell'Aveling, del Fabietti, più modernamente dalcompendio del Borchardt... Si osserva: 1) che oggi dopo l'avve-nuta pubblicazione dell'edizione critica, il problema del rifaci-mento di tali compendi è divenuto di soluzione necessaria, scien-tificamente doverosa; 2) che il compendio del Borchardt, inquanto non è compilato sul solo I volume della Critica dell'Eco-

nomia politica ma su i tre volumi, è superiore evidentemente aquelli del Deville, del Kautsky ecc.»

Julian Borchardt pubblicò nel 1919 a Berlino un corposocompendio7 (325 pagine) che dovette godere di un certo succes-so, visto che ebbe una seconda edizione l'anno seguente. Comeosserva Gramsci, il compendio tiene conto di tutti e tre i Libridel Capitale; in particolare, il capitolo 24 , l'ultimo, è dedicato allateoria delle crisi: di Marx, di Hilferding, della Luxemburg. Loschema di riproduzione - con i numeri di Marx - viene espostoin modo semplice e chiaro (e viene anche ripreso in un'appendi-ce sul medesimo argomento, della quale Borchardt è autore in

prima persona).Questa lettera ci consente di trarre alcune conclusioni:

Gramsci conosceva, almeno nelle sue grandi linee, il dibattito sulproblema della realizzazione; sapeva che al tema veniva attribuitaimportanza strategica, tanto da inserirlo all'ordine del giorno delV congresso8; sapeva infine che gli strumenti base utilizzati neldibattito - gli schemi di Marx - erano quasi sconosciuti in Italia:da qui l'opportunità di pubblicare l'articolo sulla Luxemburg edi tradurre il compendio di Borchardt (in attesa di poter dispor-

re dell'edizione critica dei vari Libri del Capitale).

ALTRI INDIZI

Di Sraffa sappiamo che il suo interesse per il II Libro risale ,apparentemente, al 1927 9 . Ma non abbiamo per ora elementi checolleghino questo interesse alla sua amicizia con Gramsci.

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Ci sono - è vero - due testimonianze, suggestive anche seimprecise. «Fu anche grazie all'influenza di Gramsci - ricordaLord Kaldor nel 1984 - che Sraffa fu indotto a trascurare i pri-mitivi interessi per le questioni monetarie e bancarie, a volgersi ai

problemi sollevati dalla teoria classica del valore nella versioneformulata da Ricardo, e a trovare gli strumenti per superare ledifficoltà che lo stesso Ricardo aveva lasciato senza soluzione». Asua volta Khrisna Bharadwaj conferma: «Si pensa che siano stati isuggerimenti di Gramsci a convincere Sraffa a tralasciare gli stu-di monetari per concentrare l'attenzione sull'economia politicaclassica (e su Ricardo in particolare)»1 0.

Anche ammesso che queste due testimonianze siano atten-dibili - nella migliore delle ipotesi possono derivare da tardive

conversazioni con Sraffa, poiché nessuno dei due era a Cambrid-ge prima del secondo dopoguerra - esse destano almeno dueperplessità: da un lato trascurano il fatto che l'interesse da cuiSraffa fu distratto era semmai la teoria del valore di Marshall,non la teoria monetaria e bancaria; dall'altro sembrano rafforzarela vulgata che vede in Ricardo e non in Marx la fonte di ispirazio-ne per le equazioni di Sraffa. Che poi possa essere stato Gramscia spingere Sraffa in direzione di Ricardo sembra, alla luce dellaricordata corrispondenza del 1932, quanto meno dubbio. E tut-

tavia rimane un dato abbastanza significativo: che a Cambridge,non in Italia, si considerava probabile un'influenza di Gramscisu Sraffa sul terreno della teoria economica.

Ma torniamo ai fatti. Sul finire degli anni '40 Giulio Einau-di sottopone a Sraffa, suo consulente editoriale «onorario», ilprogetto di una collana di classici dell'economia. Sraffa proponedi pubblicare il settecentesco Saggio sul commercio di Cantillon -

la pubblicazione dell'opera di Quesnay pone problemi editorialipiuttosto delicati - i tre volumi delle Teorie sul plusvalore diMarx (cioè il IV Libro del Capitale, talvolta chiamato ancora

 Histoire: il II e il III Libro erano in corso di traduzione presso leedizioni Rinascita), il Capitale finanziario di Hilferding e l'Accu-

mulazione del capitale della Luxemburg. E di fatto questa sarà lacomposizione definitiva della collana, salvo per il titolo di Hilfer-ding, uscito nel frattempo da Feltrinelli (1961).

A 16 giugno 1951 Sraffa scrive ad Antonio Giolitti, all'Einaudi:«Riguardo al carattere unilaterale della scelta che hai fatto finora

dei classici dell'economia, mi pare che puoi rispondere ai critici

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che questo è dovuto alla scelta 'altrolaterale' fatta nel passato daliberisti e fascisti - il risultato è che solo i classici marxisti sono inediti»11.

Sono passati venticinque anni dai progetti editoriali vienne-si di Gramsci.

POST SCRIPTUM

Ho ricordato in apertura l'atteggiamento un po' unilateraledei biografi che, dell'amicizia tra Gramsci e Sraffa, tendono a con-siderare soprattutto la corrispondenza durante gli anni del carcere,e a limitare l'attenzione ai temi politici. Questo atteggiamento, purcomprensibile, può portare a conseguenze paradossali.

Nel maggio 1973 Maria Antonietta Macciocchi, dopo avertenuto a Parigi un corso di lezioni sul pensiero di Gramsci, deci-de di andare a Cambridge per conoscere Sraffa.

Giunta nell'appartamento del Trinity College, la Macciocchiprende a interrogare Sraffa quasi a bruciapelo e non senza qual-che ingenuità («Lei non prendeva nota di quel che Gramsci lediceva?»)12 : sui suoi colloqui in carcere con Gramsci; sui rapportitriangolari con Tatiana Schucht, con Togliatti e in generale con ilgruppo dirigente del partito comunista; con Mosca... Sraffa nonritiene di venir meno, proprio in quella occasione, alla regola di

riservatezza (discutibile, certo, ma nota a tutti) seguita per tuttala vita; e dunque, cortesemente, finge vuoti di memoria, dà rispo-ste evasive, svia il discorso:

«Non so, solo di economia mi parlava, di fatti minuti delgiorno, della cronaca. ..»

E poco dopo:«L'Urss? Sapevamo così poco, e poi, vede, io non mi sono

mai interessato davvero di politica: i miei interessi erano quelli diun economista e di questo Gramsci mi parlava».

E ancora.«I piccoli fatti quotidiani voleva conoscere, e poi si discute-

va di economia. .. Io sono un economista...»Sembra quasi un invito: dopo tutto, anche da un punto di

vista strettamente politico, non si può non provare interesse per itemi economici discussi (le visite duravano «una settimana, forsepiù, ma lo vedevo quasi tutti i giorni, e vi andavo quattro o cin-que volte l'anno»): questioni di teoria? l'economia pianificata

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(nel 1930 Sraffa era stato in Unione Sovietica)? il taylorismo? ilcorporativismo fascista?

La Macciocchi non si lascia distrarre: «Ma lei informava ilpartito dei suoi colloqui con Gramsci?».

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NOTE

I Si vedano, ad esempio, tre saggi recentissimi: L. FAUSTI,  Intelletti in dialo- go. Antonio Gramsci e Piero Sraffa, Fondazione G. Piccini, 1998; G. VACCA, Sraf- fa come fonte di notizie per la biografia di Gramsci, «Studi storici», XL, 1 (gen-naio-marzo 1999) ; N. NALDI, The friendship between Piero Sraffa and AntonioGramsci in the years 1919-1927,  «European Journal of History of EconomieThought», in corso di pubblicazione. Devo a questo ultimo saggio e alla cortesiadel suo autore quasi tutte le informazioni biografiche su Sraffa utilizzate in que-sta comunicazione. Desidero anche ringraziare Chiara Daniele per i suoi consigli.Ovviamente, a nessuno dei due deve essere attribuita alcuna responsabilità per imiei eventuali errori.

2R. ROSDOLSKY, Genesi e struttura del Capitale di Marx, Laterza, Bari 1971,p. 529. Il cap. X XX costituisce una utile rassegna di tutto il dibattito sul «proble-ma della realizzazione» a cui si fa cenno nel testo.

5 W. LEXIS, Die Marx'sche Kapitaltheorie,  «Jahrbücher für Nationalökono-mie», XLV (1885)

4 Lo si veda tradotto in Foundations of the Soviet strategy for economie

 growth (1924-30), a cura di N. SPULBER, Indiana University Press, 1964.5 W . LEONTIEV, Die Bilanz der Russischen Volkswirtschaft. Eine methodolo-

 gische Untersuchung, «Weltwirtschaftliches Archiv», XXII (1925), p. 338.6 Alessandro Molinari, statistico, dirigeva l'ufficio municipale del lavoro di

Milano nei mesi in cui Sraffa si trovò a dirigere l'ufficio provinciale del lavoro,sempre di Milano (giugno-dicembre 1922).

7  Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie von Karl Marx. Gemeinver-ständliche Ausgabe, besorgt von J . BORCHARDT, Berlin 1919.

8 La delegazione italiana al V congresso si imbarcherà a Genova quattromesi più tardi senza Gramsci, trattenuto a Roma dalla crisi Matteotti: sul cargosovietico «Rosa Luxemburg».

' Perché soltanto nel '27? Innanzi tutto, posto che la nostra congettura siavalida, dobbiamo pensare a un suggerimento (di Gramsci) più che a un progettoimmediato di ricerca. Suggerimento che poteva diventare efficace solo a patto diavere a disposizione i testi di Marx. Il II libro del Capitale era stato tradotto infrancese nel 1900 e in inglese, a Chicago, nel 1907: edizioni non facili da trovarenell'Italia del dopoguerra. Le Teorie sul plusvalore,  l'opera di Marx più diretta-mente utile per la preparazione delle lezioni inglesi, furono tradotte in francesenel 1925; e presumibilmente Sraffa le comprò a Parigi nel luglio 1927, duranteuna sosta nel viaggio verso l'Inghilterra. È probabile che Sraffa, nella stessa occa-sione, si sia procurato la copia del II libro (e del III) nella edizione parigina del1900, quella poi sempre utilizzata.

1 0

Entrambe le testimonianze sono ricordate da NALDI nel saggio citato.I I Vedi la lettera in L. MANGONI,  Pensare i libri, ha casa editrice Einaudi 

dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999 ,  p. 613.12 E anche con qualche scivolata: «Lei conosce il prof. Cosmo? - ancora, lo

guardo, e ci guardiamo esterrefatti l'un l'altro: come faccio a conoscerlo?».L'intero episodio è raccontato in M. A. MACCIOCCHI,  Per Gramsci,  Il Mulino,Bologna 1974, post-scriptum.

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FI LO SO FI A , ECO N O MI A E PO LI TI CA

IN MARX E GRAMSCI

di Jacques Texier

1. INTRODUZIONE

Il tema che ci viene proposto, il rapporto Marx-Gramsci, èsicuramente molto stimolante e può essere affrontato in più diuna maniera. Gli organizzatori di questo convegno hanno pensa-to bene di precisarlo, aggiungendovi un sottotitolo: «Da Marx a

Gramsci, da Gramsci a Marx». In questo modo essi ci suggeri-scono di prendere in esame le mediazioni senza le quali sarebbeimpossibile capire il passaggio da Marx a Gramsci, ciò che èsenz'altro fondamentale, ma è anche un percorso differente daquello che conduce da Gramsci a Marx, che affronterò invecealla fine di questo intervento.

Non è possibile studiare il rapporto di Gramsci con Marxsenza tener conto delle numerose tappe dello sviluppo teorico-politico del primo. Lo si può studiare prendendolo da uno dei

due capi, come appare negli scritti giovanili e in particolare inquello scritto paradigmatico che è La rivoluzione contro il 'Capi-

tale' ovvero da quello opposto, nei Quaderni del carcere, dove

quel rapporto si presenta ad un tempo come una determinatainterpretazione di Marx e come un programma di lavoro cheprende le mosse da alcuni ben definiti criteri di indagine 2.

Gli scritti giovanili e i Quaderni sono però solo i due estre-mi, e il ricercatore può soffermarsi su altri momenti dello svilup-po teorico-politico di Gramsci: quello, ad esempio, dell'ordinovi-

smo, o quello della formazione del nuovo gruppo dirigente delPartito comunista d'Italia sotto la direzione di Gramsci.

Questa molteplicità di approcci presenta ai nostri occhi unevidente interesse, in quanto ci spinge a pensare che è sempre apartire da un'esperienza politica particolare che Gramsci siappropria, in un certo modo, la sostanza del pensiero di Marx, eche questo non è mai per lui un autore isolato, anche se si puòdire che è senz'altro il più importante.

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Tra la schiera di questi autori-mediatori va nominato, adesempio, Georges Sorel, la cui influenza su Gramsci è stata, sopra-tutto in Italia, documentata in modo assai accurato. Ma se si studiail movimento che conduce da Marx a Gramsci, ci si imbatte in una

sequenza storica che si chiama 'rivoluzione russa', e in un autoreche domina tutti gli altri, e che dirige il partito bolscevico fino allasua malattia, nel 1923 - voglio dire Lenin, secondo il Gramsci deiQuaderni del carcere il più grande teorico della filosofia dellapraxis dopo Marx. Ma con Lenin occorre citare anche Trockij, ilcui concetto di «rivoluzione permanente» ci rinvia direttamentealla grande rivoluzione francese, alla rivoluzione del 1848 e ai testidi Marx ed Engels in cui compare questa idea.

La rivoluzione russa e Lenin: ecco la grande mediazione tra

Marx e il Gramsci dei Quaderni, ed è grazie a questa mediazionedecisiva (che è al contempo teorico-politica e storica) che è pos-sibile affrontarne delle altre, come ad esempio quella di Machia-velli, che è sicuramente uno degli autori più importanti dei Qua-

derni, in quanto dà 0 titolo a una rubrica e ad un quaderno spe-ciale in cui Gramsci raccoglie il complesso delle proprie riflessio-ni sulla scienza della politica, sul partito politico e sulle volontàcollettive in quanto si facciano fondatrici di nuovi Stati.

Tra le mediazioni tra Marx e il Gramsci dei Quaderni del

carcere ce n'è una a cui spetta un posto particolare: si tratta diBenedetto Croce. Si può deplorare il fatto, o al contrario ralle-grarsene, ma contestarlo mi pare difficile. Se si vuol studiare ilrapporto che si stabilisce nei Quaderni del carcere tra Gramsci eMarx, è necessario ricorrere a questo grande mediatore. Colpi-sce, d'altra parte, vedere come Gramsci in qualche maniera pon-ga Croce sullo stesso piano di Lenin, quando ne va dell'integra-zione, nel marxismo del XX secolo, del «momento etico-politicodella politica», senza il quale la storia non sarebbe ciò che deve

essere, cioè «storia integrale»5

; anche se essa smette di esserloquando - come fa Croce nelle due storie, d'Italia e d'Europa - lasi amputi del «momento politico-economico della politica», valea dire del momento della forza e della violenza 4.

Tra Marx e Gramsci si stabilisce dunque nei Quaderni unrapporto, e questo passa in gran parte attraverso la mediazionedi Croce, perché Croce si è occupato di Marx lungo tutta la sua

vita (benché egli preferisca presentare le cose in modo differen-te), ma in modo particolare, ed esplicito, se ne è occupato nella

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prima parte. Lo studio dell'opera di Marx nei Quaderni assumedunque spesso la forma di una circostanziata risposta alle criti-che formulate da Croce 5.

Il «fiir ewig» di cui parla Gramsci a proposito del propriolavoro nei Quaderni, va inteso come un'eternità assai relativa. In

realtà si lavora für ewig quando ci si confronta con ciò che fa epo-ca, e secondo Gramsci Croce fa epoca, come fanno epoca Lenin ela rivoluzione russa. Fa epoca in modo concreto, in relazione allastoria dell'Italia e a quella dell'Europa, perché l'egemonia euro-pea sulla storia del mondo è di lunga durata, e viene sorpassata(in modo relativo) solo con la comparsa dell'«americanismo», dicui Gramsci coglie, significativamente, il significato epocale.

2. QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA DEFINIZIONE GRAMSCIANA DELLAFILOSOFIA DEL MARXISMO

A Croce spetta un posto particolare, in quanto il rapportoche si stabilisce nei Quaderni tra Gramsci e Marx dipendedall'idea che Gramsci in definitiva si fa della filosofia del marxi-smo. Ora, questa idea è mediata dalla ripresa critica dello storici-smo crociano, e da tutto un contesto, in cui figurano sia Giovan-ni Gentile che Antonio Labriola. E così secondo Gramsci la filo-

sofia del marxismo si chiamerà storicismo assoluto, immanenti-smo assoluto, umanesimo assoluto della storia e, in una misura più

limitata, filosofia della praxis6 .

Nel definire la concezione gramsciana della filosofia delmarxismo, occorre senz'altro precisare che Gramsci non è Cro-ce, non più di quanto sia Giovanni Gentile o Antonio Labriola, oMarx, Engels e Lenin. Ma quando la definisce come la definisce,in modo affatto originale rispetto a tutti questi autori, Marx com-preso, lo fa comunque a partire da una configurazione storica e

teorica che è quella della fine del XLX secolo italiano, con il rap-porto triangolare assai complesso che vi si instaura, in riferimen-to alla definizione della filosofia del marxismo, tra Croce,Labriola e Gentile. Ho tentato di precisare i termini di questotriangolo teorico degli ultimi anni dell'Ottocento in diversi lem-mi del Dictionnaire des Oeuvres Politiques {Dizionario delle Ope-

re Politiche] pubblicato dalle Presses Universitaires de France 7. Èda qui che nasce una tesi fondamentale di Gramsci, senza la qua-

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le non si comprenderebbe il posto importante assegnato alla filo-sofia nei Quaderni, e che si potrebbe formulare in questo modo:c'è una filosofia del marxismo, o un momento filosofico delmarxismo, che è fondamentale definire in modo corretto, non da

ultimo al fine di comprendere i suoi altri momenti o parti costi-tutive8. Questa tesi si schiera dalla parte di Labriola e di Gentilecontro la tesi crociana, secondo la quale il marxismo si riduceallo statuto di un mero canone empirico di ricerca storica.

Su questo piano - che è quello della filosofia del marxismo- si dispone un certo numero di questioni di cui si potrebbediscutere a lungo, in quanto sarebbe un modo per studiare il rap-porto Gramsci-Marx nei Quaderni. Uno dei problemi decisivi èquello del materialismo di Marx, e del ruolo di questa istanza

materialistica nel suo pensiero. Il materialismo ci rinvia al con-cetto di natura, e questo a quello delle scienze che la studiano. Ilproblema potrebbe formularsi come segue: lo storicismoassoluto, come viene pensato da Gramsci, si allontana sensibil-mente dalla filosofia implicita nell'opera di Marx? C'è qui indiscussione una materia assai ampia, che è già stata in passatoampiamente dibattuta, ma che probabilmente occorre continua-re a discutere anche oggi, di fronte alla centralità del rapportostoria-natura alla luce della nuova coscienza della crisi ecologica.

E dato che una tradizione vive solo attraversando delle modifica-zioni, c'è da chiedersi se non sia necessario rivedere (almeno inparte) la revisione operata da Gramsci su questo punto, e rein-trodurre l'istanza materialistica nella definizione della filosofiadel marxismo, in modo da poter pensare in modo chiaro l'auto-nomia della natura, la sua finitezza, e con essa quella dell'uomo edella specie umana. L'idea di un'autonomia della natura rispettoalla praxis e alla storia viene assimilata da Gramsci a un residuodi trascendenza: c'è in quel punto, sicuramente, un residuo della

filosofia dello spirito di Croce9

.Su questo stesso livello filosofico si dispongono anche altri

problemi. Sotto molti punti di vista la ridefinizione del marxismocome storicismo assoluto (e talvolta come filosofia della praxis)può apparire soddisfacente e per di più fedele a un aspetto deci-sivo del pensiero marxiano com'esso si presenta nelle Tesi su

Feuerbach. Nondimeno, di fronte a certe tesi alle quali quellaridefinizione conduce Gramsci a proposito del rapporto tra teo-ria e pratica, è per lo meno possibile porsi alcuni interrogativi.

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Qui si entra in una zona dei Quaderni in cui il pensiero di Gram-sci è, con tutta evidenza, ancora in fase di elaborazione, e in cuiesso si definisce man mano nel corso di un dialogo serrato conBenedetto Croce e con Giovanni Gentile. Mi pare che la suaposizione oscilli tra una teoria dei distinti improntata a Croce, euna teoria dell'identità proveniente invece da Gentile. Questaelaborazione interviene in relazione a un contesto storico moltoparticolare come la nuova fase nella quale era entrata la storiadell'Unione Sovietica con la «rivoluzione dall'alto» avviata daStalin a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Si tratta evidentemen-te di quelle che oggi vengono definite la collettivizzazione el'industrializzazione forzata, ma anche delle discussioni filosofi-che vertenti sul rapporto tra teoria e pratica che si sviluppano indiverse istituzioni sovietiche. Le ricerche erudite condotte sullefonti dei Quaderni - in particolare quelle di Nicola De Domeni-co sul rapporto di Gramsci con gli articoli pubblicati dal princi-pe Mirskij nella rivista inglese «Labour Monthly» sulle discussio-ni e le trasformazioni politiche allora in corso negli istituti sovie-tici di filosofia - sembrano attestare che Gramsci concorda sim-pateticamente con esse. Egli vi vedeva un nuovo progresso nelmodo in cui il rapporto tra teoria e pratica veniva concepito daidirigenti del partito bolscevico. Sarà dunque il caso di considera-re se questo passaggio storico non sia accompagnato da formula-zioni relative alla praxis e all'identità di filosofia e politica, chepossano rappresentare dei seri pericoli per il rispetto dell'auto-nomia dell'elaborazione teorica 1 0.

Al contrario, sarà con un pregiudizio favorevole che ioaffronterò il rapporto che Gramsci istituisce tra il concetto dipraxis e la concezione del materialismo storico, ovvero ciò cheegli chiama la concezione marxista della storia e della politica.Ma è un tema talmente centrale, che avrebbe bisogno di una trat-tazione a parte.

Vorrei qui formulare en passant  il mio personale apprezza-mento per la definizione gramsciana della filosofia del marxismocome storicismo assoluto. Evidentemente questo carattere assolu-to dello storicismo non è estraneo alla questione dell'istanzamaterialistica, di cui ho detto prima. Se si crede all'esistenzaautonoma della natura in rapporto alla storia e alla praxis umana,allora la definizione dello storicismo non può non risultarnemodificata. Storicismo, senza dubbio, ma perché 'assoluto'? Si

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deve, come fa Croce, trattare la natura e dio come due formeequivalenti di trascendenza?

La questione dello storicismo va affrontata con delicatezza, tanto più in quanto in Italia si presenta come politicamente sur-

determinata. Quando vedo un italiano negare vigorosamente chelo storicismo sia la concezione del marxismo, non posso impedir-mi di pensare che forse sarebbe più illuminante discutere diretta-mente del bilancio dell'attività teorico-politica di PalmiroTogliatti e più in generale del Pei, con le sue luci e le sue ombre, e lasciare piuttosto da parte la questione filosofica dello storici-smo. Insomma l'Italia non è il paese più adatto per prendervi ledifese dello storicismo. Ma la Francia non è da meno, perché quila critica althusseriana dello storicismo ha lasciato tracce duratu-

re. Qui la critica verte piuttosto sulle supposte insufficienze delconcetto di storia proprio dello storicismo (sviluppo lineare, con-cezione espressiva della totalità, ecc.) e sulla sua incapacità dipensare i rapporti complessi dello storico e del logico (il logicoverrebbe pensato come espressione semplice dello storico).

Idealismo crociano, giustificazionismo politico, ingenuitàgnoseologica: tutto ciò è un pesante fardello per chi intendaprender le difese della concezione dello storicismo. Se è vero, però, che queste critiche non possono semplicemente essere

accantonate, vorrei qui tuttavia abbozzare una difesa della con-cezione dello storicismo.

Chiamo storicistiche quelle elaborazioni filosofiche le quali, sulla scia di quella hegeliana, sono compenetrate di un profondosenso storico. Questo coinvolge tutte le strutture sociali - sianoesse economiche o politiche - non meno delle formazioni teori-che e ideologiche. Queste ultime, come le altre, appartengonosempre al «blocco storico» costituito da una determinata forma-zione sociale, e non si capisce nulla del loro significato se le si

studia indipendentemente dalle trasformazioni attraversate dal«blocco». Sulla scia della grande tradizione hegeliana, e poimarxiana, la messa in opera di questo metodo storicistico puòessere riscontrata (come fa lo stesso Gramsci) in Croce, per nonparlare dell'uso che ne fa lo stesso Gramsci. Questo profondosenso storico proprio di alcune 'filosofie' non implica, a mioavviso, alcuna sottovalutazione dei concetti, e neanche una rispo-sta definita alla delicata questione dei rapporti tra l'ordine deiconcetti e l'ordine storico. A maggior ragione, dunque, lo stórici-

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smo di cui parlo non ha nulla a che vedere con il giustificazioni-smo che si rimprovera a Togliatti e al Pei.

Si può affermare che Gramsci possedeva questo profondosenso storico, e che alcune delle sue elaborazioni concettualimirano ad identificare dei rapporti che restano del tutto inacces-sibili a chi invece ne sia sprovvisto.

Cosa si capisce di Machiavelli se non si definisce il compitostorico che ai suoi tempi doveva essere svolto per permettereall'Italia di essere all'altezza delle grandi monarchie assoluteeuropee? La scienza della politica non sarebbe condannata aessere machiavellismo volgare, se non fosse integrata dalla defini-zione dei compiti politico-statali che esigono la formazione dideterminate volontà collettive, di volontà collettive che potreb-bero anche non sorgere affatto? Cosa ne sarebbe del giacobini-

smo, se non lo si vedesse come la capacità, propria di una frazio-ne della borghesia, di risolvere i problemi vitali della rivoluzioneponendo in modo radicale il problema agrario, e dunque quellodell'alleanza rivoluzionaria con i contadini? Cosa si capisce delXIX e del XX secolo, se non si dispone del concetto di rivoluzio-ne passiva, che rinvia, come suo presupposto, a quello di rivolu-zione attiva?

Si potrà forse obiettare che gli esempi da me scelti coinvol-gono sempre dei problemi 'storici', e che per questo lo storici-

smo vi si attaglia in modo naturalissimo. Ma possiamo ancheprendere ad esempio dei problemi considerati 'metafisici', comequello della soggettività. Avendo il tempo per farlo, si potrebbemostrare che lo storicismo è anche in questo caso l'unico approc-cio produttivo, a meno che non si preferisca restar fermi all'ideadi trascendenza o, in mancanza di questa, a quella del 'trascen-dentale'. Storicismo, dunque, e anche immanentismo assoluto efilosofia della praxis, perché l'identità di storia e politica ci muni-sce di una solida teoria della soggettività come coincidente con la

formazione delle volontà collettive. Gramsci pensa questa iden-tità in modo che l'attività, l'iniziativa e la responsabilità indivi-duali ne siano e debbano essere parte integrante, se si vuole sfug-gire a quello che nei Quaderni chiama «feticismo politico»11 .

Mi sono occupato di Gramsci per la prima volta nel 1966, in un libro dedicato alla sua definizione di una filosofia delmarxismo12 . Se dovessi riscriverlo oggi, sosterrei le stesse tesi, macon qualche modulazione supplementare: lo storicismo e l'imma-

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nentismo assoluto15 , l'umanesimo assoluto della storia 14 e la filo-sofia della praxis sono secondo me delle eccellenti definizionidella filosofia del marxismo; ma a condizione di precisare che lastoria presuppone la natura e che lo storicismo non esclude - ma

al contrario include - la capacità di elaborare dei concetti e ditrattarli secondo un metodo logico o dialettico (se lo si ritieneutile), come fa Marx nel Capitale, e che, infine, lo storicismo noncondanna ad alcuno strumentalismo e ad alcun giustificazioni-smo politico.

3. GRAMSCI TEORICO DELLE SUPERSTRUTTURE E TEORICO DELLA STRUT-

TURA: COS'È LA CRITICA DELL'ECONOMISMO?

La questione dei rapporti tra Marx e Gramsci non è facile.Un'interpretazione corretta dell'apparato concettuale messo inopera da Gramsci nei Quaderni del carcere non esaurisce certo laquestione, ma è certamente una condizione necessaria. Se questoè vero, ci si dovrebbe preoccupare dell'influenza che hanno avu-to e che secondo qualcuno ancora avrebbero le tesi esposte daNorberto Bobbio al convegno cagliaritano del 1967. Ho lettorecentemente due contributi dedicati alle interpretazioni

dell'opera di Gramsci dopo la Seconda guerra mondiale, dovutirispettivamente a Guido Liguori e a Giuseppe Vacca 1 5 . GuidoLiguori mostra come quella di Bobbio sia una delle due grandiinterpretazioni che dominano questa storia, e Giuseppe Vaccaafferma che essa è tuttora dominante. Se egli ha ragione, c'è diche preoccuparsi, ma stento a crederlo. Entrambi gli autori pre-sentano un'eccellente e serrata critica delle tesi di Bobbio; nonme ne vorrete se preferisco quella di Liguori, che ai miei occhi hail vantaggio di segnalare al lettore il ruolo da me avuto al conve-

gno di Cagliari nella confutazione di Bobbio1 6

. Le sue tesi eranoinsoddisfacenti sotto diversi aspetti, e anzitutto, in linea moltogenerale, per l'uso di un metodo 'dicotomico' o 'antinómico'totalmente estraneo al pensiero gramsciano e che garantiva a

 priori la certezza di un risultato catastrofico.

E catastrofico lo fu, su di un duplice terreno: dell'interpre-tazione dei Quaderni e dell'intendimento del rapporto di Gram-sci con Marx. Il pensiero di Gramsci venne presentato da Bob-

bio come una 'inversione' rispetto a quello che aveva pensato e

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detto Karl Marx. Una doppia inversione rispetto a Marx, come siesprimeva l'autore: quella dei rapporti tra la struttura e la super-struttura e, all'interno della sfera delle superstrutture, quella deirapporti tra le ideologie e le istituzioni.

Ho poco o nulla da cambiare alla mia confutazione del1967 e per questo non mi soffermerò sull'argomento. Osserveròche ristabilire un'interpretazione più veritiera del sistema concet-tuale dei Quaderni del carcere non è sufficiente per trattare laquestione dei rapporti tra Gramsci e Marx, ma che ne è senzaalcun dubbio una condizione preliminare.

E indispensabile esaminare in dettaglio il tipo di rapportoinstaurato nei Quaderni da Gramsci con l'opera di Marx. Si trat-ta di un capitolo fondamentale, che va svolto con cura. Mi riferi-sco evidentemente all'insistenza, ma anche alla forte originalità,

con cui Gramsci torna alle formulazioni della «Prefazione» del1859 a Per la critica dell'economia politica, o alle formulazioni

delle Tesi su Feuerbach, o alle cosiddette opere storiche di Marxche ai suoi occhi hanno la massima importanza; ma anche - misia concesso insistervi - alle tesi del Capitale. Ciascuno di questiluoghi meriterebbe un esame dettagliato che evidenziasse ilmodo in cui Gramsci legge Marx ed Engels, e il suo modo diandare a cercare, per così dire, il polline di cui ha bisogno perpoter fare il proprio miele.

Sotto i nostri occhi prende così corpo una lettura di Marx,che a mio avviso dovrebbe metter capo a una duplice valutazio-ne: della sua originalità, anzitutto, che ci dice molto sui problemiteorico-politici di fronte ai quali Gramsci si trova, e che lo obbli-gano a sviluppare il marxismo con tanta vivacità e decisione; maanche a una valutazione della sua legittimità, intendendo con ciònon già la definizione di una lettura canonica, che ne escludereb-be delle altre, ma di una che, pur restando sempre creativa, nondiventa mai arbitraria. Mi sento di dire, assumendo i rischi impli-

citi in questa formulazione, che la lettura gramsciana di Marx èlegittima. Certo, qui c'è già da parte mia un'opzione preliminare,dato che abbiamo oggi di fronte a noi un certo numero di 'rico-struzioni' del materialismo storico, che possiamo anche nomina-re esplicitamente: Lukàcs, Bloch, Althusser, Godelier, Habermas,ecc. Anche il nome di Gramsci deve figurare in questa lista dei'ricostruttori', ma si può pensare (come accade a me) che vioccupi un posto a parte, e non certo in ragione di una peraltro

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impossibile identità con Marx, ma grazie a una sorta di parentelaintellettuale profonda con il suo maestro. Quello di Gramsci èun marxismo del XX secolo, un marxismo mediato da autori diquesto secolo, come Lenin o Croce, o da autori di Gramsci, come

Machiavelli o Hegel, che in altre epoche hanno pensato il mondomoderno. È, altresì, il marxismo di un dirigente politico della IIIInternazionale profondamente coinvolto nella sua storia, sebbe-ne in un modo fortemente originale. Quello di Gramsci resta tut-tavia oggi un marxismo caratterizzato da una potente vitalità,esattamente come quello di Marx, e questa vitalità è senza alcundubbio un elemento che autorizza a ritrovare in entrambi unacomunanza profonda. I principi fondamentali del marxismo diMarx si ritrovano nell'opera di Gramsci, anche se originalmente

rifusi all'interno di un nuovo capitolo del marxismo.Detto questo, sarà il caso di precisare, con l'aiuto di qual-

che formula, dove si trovi la specificità di Gramsci in rapporto aMarx. E dato che altri, prima di noi, hanno assunto il rischio didire questo, ci dovremo anzitutto collocare rispetto a queste for-mule precedenti. La più nota sottolinea il contributo gramscianoall'elaborazione della scienza della storia e della politica. Contie-ne una grande verità e permette di affrontare in una sola mossala questione del rapporto di Gramsci con Lenin e con Machia-

velli.Questa formula la farei mia, complicando però un poco la

questione con l'introdurre l'idea che non è affatto possibile svi-luppare, come ha fatto Gramsci, la scienza della storia e dellapolitica, restando semplicemente il teorico delle superstrutture,dell'ideologia, della «società civile», degli intellettuali, dello Sta-to. E questo, per delle ragioni di fondo, che ho difeso nel 1967affermando che il concetto centrale del suo pensiero è quello di«blocco storico». Per ciò che concerne lo Stato, l'idea dominanteè quella della complementarità della «società civile» e della«società politica», e sarà il caso di aggiungere che questi concett i,insieme ad alcuni altri, non presentano altro interesse se non inquanto ci consentono di pensare la dialettica storica nella ric-chezza dei momenti che essa comporta: questi momenti sono il«rovesciamento della praxis», il «momento politico-economicodella politica» e quello della «espansione etico-politica», la pseu-do-restaurazione e la rivoluzione passiva, la guerra di movimentoe la guerra di posizione, ecc.

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Per queste ragioni di fondo, dunque, che rinviano alla dia-lettizzazione dei concetti, si può dire che le innovazioni che per-mettono di approfondire la scienza della storia e della politicapresuppongono in modo affatto essenziale il ripensamento dellastruttura e dei movimenti a essa propri. E quanto fa Gramsci neiQuaderni, e non sarebbe male prendersi il tempo necessario ascrivere, oggi, un corposo saggio dal titolo «Gramsci teorico del-la struttura».

E possibile cogliere questa necessità prendendo le mossedalla critica dell'economismo, che è una dimensione fondamen-tale dei Quaderni. Se un aspetto dell'economismo consistenell'incapacità di cogliere l'essenzialità dell'attività politica nelmovimento storico, e nel non saper pensare la politica comeespressione condensata dell'economia, vi è però anche un altro

aspetto, forse più difficile da comprendere. Esso consiste nelporre l'economia come sfera separata, e nel non comprendereche, nella sua purezza, l'economia non è altro che un'astrazionemetodologica dalla legittimità affatto relativa; nel dimenticarequesta relatività e nel credere che l'economia sia una realtà con-creta proprio nella sua separazione.

Dopo il riconoscimento della legittimità relativa dei metodidell'economia ricardiana o marxiana, la critica dell'economismoconsiste allora nell'affermare come verità superiore - perché con-

creta - che l'economico non è separabile dallo Stato e dai rap-porti di forza che questo esprime, e che l'economico è esso stessocompenetrato dai rapporti di forza del politico.

E su questa questione decisiva dei rapporti tra Stato ed eco-nomico, come vengono pensati da Gramsci nei Quaderni, chevorrei tentare di dare il mio piccolo contributo. Si tratta senzadubbio di un punto in cui l'originalità di Gramsci - anche rispet-to a Marx - è forte, e dove le sue tesi sono della massima impor-tanza e attualità.

Per esporre il pensiero di Gramsci mi servirò qui di unapiccola deviazione. L'articolo che scrissi nel 1967 per confutarele tesi di Bobbio conteneva un piccolo errore, che mi ha compli-cato un po' le cose. Quell'errore io lo riprendevo direttamenteda Palmiro Togliatti, e da un'interpretazione errata di un puntopreciso ma fondamentale del pensiero di Gramsci; la mia ammi-razione per lui non mi consentì di correggerlo immediatamente.

Parlando dei rapporti tra lo Stato e la «società civile» o, se

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si preferisce, tra la dittatura e l'egemonia, Togliatti affermava,richiamandosi a un testo dei Quaderni che almeno in apparenza

legittimava la sua tesi, che secondo Gramsci tra i due momentisussiste una distinzione metodologica, che non è lecito trasfor-

mare in una distinzione sostanziale, e che in verità, secondoGramsci, nella realtà effettuale Stato e «società civile» s'identifi-cano".

Ora, c'è bensì un testo dei Quaderni in cui si mette in guar-dia dal trasformare una distinzione metodica in una distinzionesostanziale, e si parla appunto di «società civile» e di Stato, maquesto testo non ha affatto il senso assegnatogli da Togliatti 18 .Tanto per cominciare, l'espressione «società civile» non è usatanel senso specificamente gramsciano, in cui designa l'apparato

egemonico che consente a un gruppo sociale di imporre la suadirezione culturale a tutta la società. Essa designa qui invecel'insieme dei bisogni e delle attività economiche proprie di unastruttura economica determinata. L'errore di Togliatti discendevadunque dal non tener conto del fatto che l'espressione «societàcivile» non ha nei Quaderni un unico senso, ma diversi, e fonda-mentalmente due. Nel primo, che è anche il più noto, la «societàcivile» è un aspetto dello Stato inteso in senso integrale, e preci-samente è il complemento dell'apparato di comando giuridico

ovvero della coercizione. In un secondo senso, a lungo ignorato,la «società civile» non è, propriamente parlando, la struttura eco-nomica, ma è l'insieme delle attività economiche che caratterizza-no lo homo oeconomicus di una forma sociale determinata ovve-ro, come anche dice Gramsci, un «mercato determinato». Lascienza economica utilizza il metodo del «posto che», che consi-ste nel prendere le mosse da un mercato determinato, studiando-ne gli «automatismi» o regolarità, e facendo astrazione dallo Sta-to e dai rapporti di forza che esso condensa. L'astrazione è meto-

dologicamente legittima, in quanto si parte da un mercato deter-minato, ma nella realtà effettuale un mercato determinato nonpuò essere separato dai rapporti di forza tra i gruppi sociali fon-damentali e tanto meno dalla legislazione imposta dallo Stato.Stato e «società civile» si identificano in questo senso molto pre-ciso. E in questo caso la «società civile» non ha nulla a che vede-re con l'apparato egemonico che essa designa assai spesso neiQuaderni.

L'errore di Togliatti presenta diversi inconvenienti. Anzitut-

t o '

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to, in riferimento ai rapporti tra la coercizione e il consenso, trala dittatura e l'egemonia, affermare con Togliatti che la distinzio-ne tra esse era metodica ma non sostanziale equivale a regolare inmodo assai restrittivo la questione della natura dell'egemonia; unmodo a mio avviso sbagliato, almeno in riferimento ai Quaderni

del carcere. Insomma in questo modo viene ipotecata tutta laquestione dei rapporti tra egemonia e democrazia. Nei Quaderni

Gramsci scrive che, per essere intesa concretamente, la questionedella democrazia deve essere affrontata a partire dal concetto diegemonia 19 . Questa indicazione non è priva di interesse, a pattoche l'egemonia venga realmente distinta dalla dittatura. E noi,reciprocamente, potremmo dire (cosa che Gramsci non fa) che,per essere compreso in tutta la sua portata, il concetto di egemo-nia deve chiamare in causa quello di democrazia.

Il secondo inconveniente della tesi di Togliatti sta in ciò,che essa dissimulava l'esistenza di una molteplicità di sensidell'espressione «società civile» nei Quaderni, e in particolare diun altro senso fondamentale, in cui la «società civile», comeanche in Marx, possiede un contenuto direttamente economicoin rapporto con la struttura economica della società. Questa ipo-teca semantica ha bloccato la comprensione di tutto un ambitodel pensiero gramsciano che si esprime nei Quaderni in quelliche lo stesso Gramsci chiama «Punti di meditazione per lo stu-

dio dell'economia»20

. Questo ambito è essenziale per compren-dere a fondo la sua critica dell'economismo e il suo rifiuto diseparare l'economico dallo Stato. Noi abbiamo sempre di fronteun «mercato determinato» che è strutturato secondo rapporti diforza politici e grazie all'intervento legislativo dello Stato. Questateoria gramsciana è oggi di grande importanza per comprendereche il neo-liberalismo è un fatto politico, un intervento dello Sta-to, allo stesso titolo delle politiche keynesiane e di quelle del wel-

 fare di ieri. D'altra parte questa teoria investe tanto Marx quanto

Ricardo, ed è perciò per noi particolarmente interessante, inquanto oggi siamo impegnati a riflettere sul rapporto Gramsci-Marx.

Per quanto mi riguarda, ho creduto necessario interveniresu questa molteplicità dei sensi dell'espressione «società civile»in una comunicazione scritta in occasione del cinquantesimoanniversario della morte di Gramsci, poi pubblicata in «Criticamarxista»2 1. A essa mi permetto di rinviare il lettore, e conclu-

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derò dunque su questo punto insistendo ancora una volta sul fat-to che la critica gramsciana dell'economismo non implica sola-mente una rivalutazione del politico nel senso più corrente deltermine, del ruolo dei partiti e della conquista dell'egemonia e

del dominio, ma più in profondità un rifiuto di separare l'econo-mico dal politico o statale, perché il «mercato determinato», peresempio ¿1 mercato capitalistico che noi conosciamo oggi, pre-suppone i dispositivi legislativi e i rapporti di forza che fanno chela merce 'forza lavoro' abbia su questo mercato Io statuto che difatto ha, statuto che spingeva Marx a parlare ai suoi tempi della«schiavitù salariata» come della verità del capitalismo.

4. LA CRITICA DEL VOLONTARISMO E DELL'ESTREMISMO E IL RUOLODELLE CRISI ECONOMICHE NELLA DIALETTICA STORICA

Giacché ho toccato la questione dei rapporti tra politico edeconomico, non vorrei andare oltre senza aver almeno evocatoun punto affatto centrale, che può essere ricollegato a ciò cheGramsci chiama economismo e alla critica che occorre farne.Posso forse rendere la natura del problema che mi interessa,dicendo che i Quaderni non contengono solo una critica

dell'economismo, ma anche, allo stesso titolo, una critica delvolontarismo. L'economismo conduce le masse subalterne allapassività, ma l'errore contrario, che consiste nel non dare suffi-ciente importanza all'esame del primo grado dei rapporti di for-za 2 2, quello direttamente legato allo sviluppo economico dellasocietà, e dunque alla sua strutturazione sociale, conduceall'estremismo e all'avventurismo.

Basta accennare a questo primo grado dei rapporti di forzaper affermare che nei Quaderni la critica dell'economismo è inse-parabile da quella dell'errore contrario. Perché - afferma Gram-sci - è a questo primo grado del rapporto di forze, quello piùstrettamente legato alla struttura e ai raggruppamenti sociali chene risultano direttamente, che è possibile misurare il grado direalismo dei programmi e delle ideologie che si sono sviluppatesu questo terreno.

I commenti di Gramsci alla Prefazione a Per la critica

dell'economia politica di Marx vanno studiati con cura, perché è

sulla base dei due principi che ne ricava, che egli pone (ovvero

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pone a suo modo) il cosiddetto problema delle «condizionioggettive» della rivoluzione socialista. La sua soluzione è certoben lontana dalle affermazioni categoriche dell'articolo del 1917su «La rivoluzione contro il 'Capitale'», ma non perde nulla delleconquiste teoriche conseguite sul terreno della scienza della poli-tica a proposito del momento della soggettività. La scienza dellapolitica studia certo il rapporto delle forze in modo realistico, edunque implica il realismo politico, ma essa conduce Gramscianche ad affermare che il modo migliore per studiare il rapportooggettivo delle forze è di misurarle sul rapporto soggettivo delleforze, che è quello della politica e dell'egemonia, ma anche quel-lo del rapporto delle forze politico-militari e militari. Questo rea-lismo, conquistato sulla base dell'esperienza della rivoluzionerussa, ma anche dello scacco della rivoluzione in Occidente, nonimplica affatto un ritorno a una qualche forma di 'oggettivismo',ma un approfondimento della critica del determinismo. Esso siesprime molto chiaramente nella teoria della previsione storica:ciò che si può prevedere è la lotta e non il suo concreto risultato,perché questo il più delle volte non è scritto da nessuna parte,nemmeno nei libri sul grado di sviluppo del capitalismo in unpaese determinato.

La questione è complessa, e meriterebbe una lunga discus-sione. Ma è Io stesso pensiero di Gramsci che si configura qui

come un pensiero della complessità, un pensiero che introducedelle distinzioni: quella di Oriente e Occidente, ad esempio, chegli permette di mantenere la propria fedeltà politica alla rivolu-zione d'Ottobre, ma al contempo di prendere in carico le diffi-coltà incontrate dalla rivoluzione russa nel 1921, con la rispostainterna costituita dalla Nuova Politica Economica, e poi, dopo Ioscacco della rivoluzione tedesca nel 1921 e nel 1923, dal cambia-mento di politica del Komintern che prende corpo nel ILI e nelIV Congresso dell'Internazionale, e che si riassume in due for-

mule: «fronte unico» e «governo operaio e contadino». È dallaNep e dalla politica del «fronte unico» che prendono costante-mente le mosse i Quaderni.

Un pensiero della complessità, vale a dire un pensiero cheprende in carico le mediazioni che, oggi come allora, sono le for-me concrete che rivestono le famose superstrutture, e dunque, indefinitiva, lo Stato preso nella sua integralità; e dunque anche leforme concrete dello sviluppo della politica e dei suoi momenti:

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la forza e il consenso. A pensarci bene, una rivoluzione ispirata alsocialismo è possibile in Russia e si rivela molto più difficile inOccidente per delle ragioni in ultima istanza economiche; masolo in ultima istanza, perché in prima istanza sono la struttura

dello Stato e della politica - in Russia e in Occidente - che spie-gano lì la vittoria, e qui la sconfitta. Ma lo stato delle «trincee»,delle «fortezze» e delle «casematte» della «società civile» rinviadi bel nuovo, in ultima istanza, allo sviluppo del capitalismo inOccidente, con tutte le conseguenze che ciò implica al livello del-le strutture dello Stato e della «società civi le» 23 .

Detto questo, a proposito di Gramsci, non abbiamo trattatoche la metà della questione, perché ciò che vogliamo è un con-fronto tra Gramsci e Marx. Ma a questo punto la questione

diventa complicatissima, perché il pensiero di Marx ed Engels(Engels va comunque aggiunto, se si vuole avere una visionecompleta del problema) si distende su di un arco temporale cheva dal 1842-43 al 1895, ed è chiaro che il marxismo del 1848-50non è quello del 1885-1895. La famosa Prefazione del 1859 2 4 , è

stata scritta in un periodo intermedio, e si può dire che ha unvalore di autocritica delle illusioni nutrite da Marx ed Engels cir-ca le possibilità di una rivoluzione comunista nella Germania del1848, come nella Francia del 1850. Anche Marx ed Engels sco-

prono faticosamente da una parte il peso delle condizioni ogget-tive, e dall'altra l'importanza decisiva della conquista dell'egemo-nia. Bisognerà attendere il 1890-95 per vedere Engels mettere incampo il concetto di guerra di posizione e operare una criticaradicale delle illusioni condivise con Marx negli anni 1848-71.

È d'altronde assai strano che sia nei Quaderni, sia altroveGramsci sembri ignorare del tutto la famosa «Introduzione» engel-siana del 1895 a Le lotte di classe in Francia di Marx. E verosimile

che egli ne taccia a ragion veduta, dato che nel movimento comu-nista questo veniva considerato un testo opportunistico.

A proposito di questa famosa «Introduzione» del 1895 vor-rei però sopratutto far notare una cosa, che è strettamente legataalla questione dell'economismo. Engels vi adotta una posizioneaffatto radicale rispetto alle comuni illusioni rivoluzionarie del1848-71, ma quando affronta la questione classica dei rapportitra crisi economica e movimento rivoluzionario, riprende tale equale la concezione del 1848-51, senza esprimere la minima

riserva. Se nel settembre del 1850 lui e Marx avevano rotto con il

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gruppo Willich-Schapper, era perché la crisi economica era ter-minata, e le possibilità di un movimento rivoluzionario eranoscomparse insieme ad essa. Esse sarebbero tornate quando fossetornata la crisi: e negli anni seguenti possiamo vedere Marx edEngels che scrutano attentamente la vita economica per cogliervii segni di un nuovo ciclo congiunturale. La prossima crisi doveva

verificarsi nel 1857, ed è quello che effettivamente accade. Ma ilmovimento rivoluzionario non fu presente all'appuntamento.Dunque la Prefazione del 1859 può essere considerata unapprofondimento della teoria marxiana della rivoluzione. Ma inessa non ha luogo una vera e propria revisione del nesso mecca-nico tra crisi e movimento rivoluzionario. E nel 1895 Engelsriprende tale e quale una frase del 1850 che esprime assai benequesta concezione meccanicistica 25 . Egli non prova alcun biso-gno di sfumarla; non vi è su questo punto alcuna revisione.Occorrerà attendere la teoria della guerra di posizione di Gram-sci 2 6, la sua critica dell'economismo e dello spontaneismo di RosaLuxemburg27 , affinché la critica di questa concezione meccanici-stica sia portata fino al fondo. Le cause 'strutturali' non agisconoin modo meccanico: anche in quel caso è necessario pensare lemediazioni e queste sono, di nuovo, delle mediazioni politiche.

5. DA GRAMSCI A MARX: COME CONCLUSIONE

A mo' di conclusione presenterò alcune osservazioni sul per-corso, accennato nell'Introduzione, che va da Gramsci a Marx edEngels e che ci induce a studiare Marx ed Engels alla luce deiQuaderni del carcere. Se Gramsci ha effettivamente apportato uncontributo decisivo sul terreno della scienza della storia e dellapolitica, come non pensare che anche il nostro approccio all'ope-ra politica di Marx ed Engels ne risulterà arricchito?

Lo si può fare in modi diversi. Il più semplice è lo studiopuntuale che consiste nel confrontare il passaggio dalla guerra dimovimento alla guerra di posizione, come lo si trova nei Quader-

ni, all'idea che se ne fa Engels nell 'Introduzione del 1895 a Le

lotte di classe in Francia. E quello che ho fatto nel dicembre del

1997 a Torino al convegno su «Gramsci e la rivoluzione in Occi-dente», e a quel testo mi permetto di rinviare il lettore 28 .

Ma si può tentare anche di farlo con molto maggiore

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ampiezza, una volta che si sia compreso in profondità ciò che è lapolitica nei Quaderni del carcere. È quanto sono stato indotto afare in un libro che ho pubblicato nel 1998 con il titolo Revolu-

tion et démocratie chez Marx et Engels29

.

È difficile dire in poche parole tutto ciò che si impara aindividuare della specificità del politico leggendo i Quaderni, e

che si riscontra poi in particolare leggendo Marx ed Engels. Acominciare dalle categorie specificamente politiche con le qualiessi pensano la politica: rivoluzione violenta e passaggio pacifico,conquista della democrazia e dittatura del proletariato, rivoluzio-ne permanente e guerra di posizione, Stato come strumento diuna classe e relativa autonomia dello Stato, «rivoluzionedall'alto» e «rivoluzione dal basso», lotta di classe e forme politi-

che, partiti, alleanze di classe e loro modalità. Le categorie dellapolitica sono numerose e la loro articolazione una cosa difficileda formulare.

Ma il pensiero politico di Marx ed Engels ha una sua storia:la prima esperienza decisiva è quella del 1848, con sullo sfondo ilmodello della rivoluzione francese. Marx ed Engels sono giacobi-ni? Sono blanquisti? E se sì, sono rimasti tali? Vi sono delle tra-sformazioni notevoli neU'ultimo terzo del secolo?

Ho preso le mosse da un'ipotesi di Gramsci a proposito

della storia del X I X secolo, o meglio è l'ipotesi che si è imposta ame. La Comune è una svolta nel secolo e marca il passaggio dallaguerra di movimento alla guerra di posizione; o, per essere piùprecisi, con la disfatta della Comune la formula politica dellarivoluzione permanente, nata durante la rivoluzione francese edelaborata scientificamente attorno al 1848, giunge ad esaurirsi eviene sorpassata dalla formula dell'«egemonia civile».

In quale misura Marx ed Engels hanno preso atto di questomutamento d'epoca? Sotto quali forme e con quale ritmo? In

particolare, quali innovazioni politiche ha introdotto Engels dal1885 fino alla sua morte nel 1895 nel quadro teorico-politicocreatosi dopo la Comune di Parigi?

Ecco alcune questioni di cui occorre discutere, andando daGramsci a Marx, ma al contempo interrogandosi su ciò cheGramsci ha ricevuto da Marx ed Engels sul terreno specifica-mente politico. Il concetto di «rivoluzione permanente» lo hasicuramente molto interessato a partire dai dibattiti del gruppobolscevico sulla storia della rivoluzione russa e sull'avvenire della

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rivoluzione mondiale. Ma il suo concetto di «cesarismo» Gram-sci non lo riprende dal Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte?

Quello di «rivoluzione dall'alto» o l'idea marxiana di «esecutoritestamentari» della rivoluzione del 1848 non svolgono forse unruolo nell'elaborazione di un concetto così ricco come quello di«rivoluzione passiva»?

Così, il percorso da Gramsci a Marx ci conduce a quelloinverso, in cui si tratta di nuovo di andare da Marx a Gramsci, inun andare e tornare infinito e fecondo. Cammin facendo ci sideve anche chiedere se certi concetti di Marx ed Engels non sia-no assenti dal pensiero gramsciano: come nel caso del concettodi passaggio pacifico al socialismo. Marx non è forse su questopunto più ricco di Gramsci? E non accade forse lo stesso anchenella questione della democrazia? Ma cosa dire della teoria delloStato, per come viene elaborata nei Quaderni? Non è forse piùricca di quella di Marx ed Engels? Sembra proprio di sì.

Così, dopo due percorsi inversi - da Marx a Gramsci e daGramsci a Marx - è infine alla circolarità che siamo condotti: aquesta figura che ci si impone e che è la più feconda.

[traduzione dal francese di Fabio Frosini]

NOTE

' In «Avanti!», 24 dicembre 1917; ora in A. GRAMSCI, La città futura. 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 513-16.

2 Penso qui alle sue considerazioni sull'opera di Marx ed Engels, sul mododi svilupparla e sui criteri necessari a pubblicarla e a studiarla. Cfr. per es. 16,2[Q 1840s.].

' 10,1,12 [Q 1235]: «Contemporaneamente al Croce, il più grande teoricomoderno della filosofia della praxis [...] ha in opposizione alle diverse tendenze

'economistiche' rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrinadell'egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza e come formaattuale della dottrina quarantottesca della 'rivoluzione permanente'».

* 10,1,9 [Q 1226].5

Q 10, parte II [Q 1239 ss.].6 Da quando inizia a stendere i quaderni speciali, Gramsci sostituisce siste-

maticamente «materialismo storico» e «marxismo» con «filosofia della praxis».Tuttavia vi sono alcuni casi in cui l'espressione «filosofia della praxis» ha unavera e propria portata teorica.

7  Dictionnaire des Oeuvres Politiques, Puf, Paris 1986. Cfr. la voce su Mate-

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rialismo storico ed economia marxistica di Croce e quella sullaFilosofia di Marx diGentile. Cfr. anche J. TEXIER,  Croce,  Gentile et le matérialisme historique, in

 Labriola d'un siede à l'autre, a cura di G. Labica e J. Texier, Meridiens-Klinsieck, Paris 1988.

8 Si tratta allora di sapere quali siano per Gramsci codeste parti costitutive.Nei Quaderni è presente una versione vicina alla tradizione, per la quale le parti

costitutive sono la filosofia, la politica e l'economia; ma ve ne è anche un'altra, corrispondente più da vicino al pensiero originale di Gramsci: le parti sono allorala storia, l'economia e la politica. La filosofia è in questo caso la metodologia del-la storia e della politica. E per questa ragione che la concezione gramsciana dellafilosofia trova espressione adeguata nel definirla come storicismo e immanenti-smo assoluti. Tuttavia la storia si identifica con la politica e anche la filosofia, inmodo che l'espressione «filosofia della praxis» ha (oltre alla funzione di dissimu-lazione del «marxismo» e del «materialismo storico») anche un uso teorico nelsottolineare la priorità della pratica.

9 Sulla questione del materialismo cfr. Q 11, parte II [Q 1396 ss.], sul Manuale di Bucharin.

10

N. De Domenico ha ritrovato e pubblicato l'articolo del principe MirskijThe Philosophical Discussion in the C.P.S.U. in 1930-1931 [La discussione filoso-fica nel P.C.U.S. nel 1930-31], di cui parla Gramsci nel quaderno 11 a propositodi teoria e pratica. Questo articolo era in precedenza sconosciuto, anche ai cura-tori dell'edizione critica dell'Istituto Gramsci. Cfr. Atti della Accademia Pelorita-na dei Pericolanti, voi. LXVII, Messina 1991. In appendice al suo saggio DeDomenico pubblica i due articoli di Mirskij citati da Gramsci. Il secondo è digrande importanza per lo studio del rapporto di Gramsci con la rivoluzione 'sta-liniana' degli anni Trenta, ed è anche fondamentale per lo studio della concezio-ne gramsciana dei rapporti tra teoria e pratica, o tra la filosofia e la storia, e tra lastoria e la politica. Ecco i testi principali in cui Gramsci si riferisce al secondo

articolo di Mirskij: 5,169 [Q 1042]; S,205 [Q 1064], 11,12 [Q 1387, 1395]. Ilsaggio sulla «discussione filosofica nel P.C.U.S.» si occupa anche di Bucharin, dicui Stalin sta avviando la liquidazione. Questo ci induce a porre alcuni interroga-tivi circa i rapporti tra la critica a Bucharin sviluppata nei Quaderni, e quantoaccadeva in Urss nello stesso momento. È Gramsci stesso a formulare questorapporto, quando nota che Bucharin non ha modificato punto la propria posizio-ne nemmeno dopo la recente, grande discussione filosofica. Cfr. 11, 22.IV [Q1425 s.]. L'articolo di De Domenico e la sua scoperta filologica mi appaiono delpiù grande interesse, ma sono ben lungi dal condividere tutte le sue analisi. Mipare che egli sottovaluti assai le riserve formulate da Gramsci nei riguardi delrapporto tra teoria e pratica, come viene professato da Stalin e Mirskij. Cfr. 11,12

[Q 1386], dove egli scrive, riprendendo tutta una serie di espressioni che trovanel secondo saggio: «L'insistere sull'elemento 'pratico' del nesso teoria-pratica[...] significa che si attraversa ancora una fase storica relativamente primitiva[...]». E vero però che, nonostante queste riserve, si trovano nei Quaderni delleformulazioni insoddisfacenti, che fanno scomparire la specificità della teoria, come accade in 7,35 [Q 886], dove si legge: «Tutto è politica, anche la filosofia ole filosofie [...] e la sola filosofia è la storia in atto, cioè la vita stessa». Su alcunipunti, infine, le interpretazioni di De Domenico mi sembrano francamente false, come quando sostiene che «il più grande teorico della filosofia della praxis», come viene definito nei Quaderni, non sarebbe altri che Stalin. Valentino Gerra-tana ha risposto a De Domenico in un saggio pubblicato su «Belfagor» (XLVIII

[1993], n. 3, pp. 345-52) intitolato Impaginazione e analisi dei Quaderni, ora in

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ID., Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 143-53. Ilsecondo saggio del principe Mirskij era stato segnalato nel 1991 in un'antologiarussa di testi di Gramsci. Ma prima di De Domenico questa fonte era stata indi-viduata da Robert Paris nell'edizione francese dei Quaderni. A. GRAMSCI,  Cahiersde prison, Cahiers 10 à 13, Gallimard, Paris 1978. Tuttavia si può dire che Parisnon si era avveduto dell'importanza della sua scoperta, come appare chiaramentenella nota da lui redatta per le pp. 185 e ss. dell'edizione francese (cfr. p. 496) , dove rinvia al leniniano Che fare?, mentre il testo gramsciano è intessuto di cita-zioni tratte dal secondo saggio di Mirskij. È per questa ragione che rinvio a DeDomenico, come a quello studioso che ha pubblicato i due saggi in questione erichiamato l'attenzione sull'importanza del secondo, anche se talvolta con argo-menti sbagliati.

11 Ne approfitto per sottolineare una differenza sensibile tra la filosofia diMarx e quella di Gramsci. Il concetto di alienazione, presente nella prima inmodi molteplici, è assente nei Quaderni del carcere, in cui però Gramsci concet-tualizza il feticismo politico.

12J. TEXIER,  Gramsci et la philosophie du marxisme, Seghers («Philosophes

de tous les temps»), Paris 1966, più volte riedito e tradotto in spagnolo (Edicio-nes Grijalbo, Barcelona 1976).

13 II carattere assoluto dell'immanenza non pone secondo me alcun proble-ma: in quanto essere naturale, l'uomo è un essere attivo-passivo. Il principiodell'immanenza si applica pertanto alla natura come alla storia, e l'uomo si situaal punto di articolazione di entrambe.

14 Si può parlare sul piano teorico di umanesimo assoluto della storia perindicare in modo radicale che sono gli uomini che fanno la propria storia, anchese generano delle potenze sociali che li dominano e le loro attività produconodegli effetti distruttivi. L'umanesimo pratico mira dunque a porre termine alleforme dell'alienazione sociale e agli effetti distruttivi sul piano ecologico.

1 5 G. LIGUORI, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Editori

Riuniti, Roma 1996; G. VACCA, L'interpretazione dei «Quaderni del carcere» nel dopoguerra, in AA. VV., Gramsci: i «Quaderni del carcere». Una riflessione politicaincompiuta, a cura di S. Mastellone, Utet, Torino 1997, pp. 3-20.

1 6J. TEXIER, [Intervento - prima seduta di lavoro], in AA. Vv., Gramsci e la

cultura contemporanea, Atti del Convegno internazionale di studi gramscianitenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, a cura di P. Rossi, Editori Riuniti, Roma1969, I, pp. 152-57; e ID., Gramsci teorico delle sovrastrutture e il concetto di società civile, in «Critica marxista», 1968, n. 3, pp. 71-99. Questo saggio è statotradotto in francese, spagnolo, inglese e turco.

1 7 P. TOGLIATTI,  Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma1967, p. 154: «Vi è per Gramsci una differenza, e quale, nello sviluppo di questi

concetti tra il termine di egemonia e quello di dittatura? Una differenza vi è, manon di sostanza. Si può dire che il primo termine si riferisca in prevalenza ai rap-porti che si stabiliscono nella società civile e quindi sia più ampio del primo. Maè da tener presente che per lo stesso Gramsci la differenza tra società civile esocietà politica è soltanto metodologica, non organica».

18 13,18 [Q 1590]: «L'impostazione del movimento del libero scambio sibasa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l'origine pratica: sulladistinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodicaviene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Così si affermache l'attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deveintervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società

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civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una 'regolamen-tazione' di carattere statale, introdotta e mantenuta per via legislativa e coerciti-va: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione sponta-nea, automatica del fatto economico».

"Cfr. 5,191 [Q 1056], testo B.20 Nella prima edizione dei Quaderni gli editori avevano raccolto queste

note economiche sotto il titolo di «Noterelle di economia», in una parte del pri-mo volume. Cfr. A. GRAMSCI,  II materialismo storico e la filosofia di BenedettoCroce, Einaudi, Torino 1948. Leggendo l'edizione critica si scopre che molte diqueste pagine provengono dal Q 10 su B. Croce. Questo basta, secondo GianniFrancioni, per sostenere che il Q 10 non è, propriamente parlando, un quadernospeciale, ma una nuova serie di «Appunti di filosofia». Cfr. G. FRANCIONI, L'offi-cina gramsciana. Ipotesi sulla struttura dei «Quaderni del carcere»,  Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 100 s.

2 1J. TEXIER, Significati di società civile in Gramsci, in «Critica marxista», 

1988, n. 5. Una traduzione francese di questo saggio è apparsa in «Actuel Marx», 1989, n. 5, pp. 50-68.

22

Cfr. 13,17 [Q 1578 s.]: «Analisi delle situazioni: rapporti di forza».2! È quanto si scopre leggendo attentamente 13,7 sul passaggio dalla rivo-

luzione permanente alla guerra di posizione. Cfr. Q 1566.2 4 K. MARX, Per la critica dell' economia politica, trad. it. di E. Cantimori

Mezzomonti, Editori Riuniti, Roma 19715, pp. 3-8. Si veda nel testo la frase checomincia così: «Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppa-te tutte le forze produttive a cui può dare corso» (p. 5).

2 5Cfr. F. ENGELS, Introduzione alla prima ristampa [1895] di K. MARX, Le

lotte di classe in Francia nel 1848-1850, in ID., Rivoluzione e reazione in Francia.1848-1850, a cura di L. Perini, Einaudi, Torino 1976, p. 390: «Una nuova rivolu-zione non è possibile se non in seguito di una nuova crisi. L'una è però altrettan-

to sicura quanto l'altra».26 In 13,17 [Q 1586] Gramsci affronta esplicitamente la questione del ruo-lo delle crisi economiche nella storia.

27 Cfr. 13,24 [Q 1613]. Gramsci scrive esponendo e criticando le idee diRosa Luxemburg: «L'elemento economico immediato (crisi, ecc.) è consideratocome l'artiglieria campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica [...]».

2 8J. TEXIER,  La guerra di posizione in Engels e in Gramsci,  in AA. Vv., 

Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a cura di A. Burgio e A. A. Santucci, Edito-ri Riuniti, Roma 1999, pp. 3-22.

29 Puf, Paris 1998.

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LINGUA, LINGUAGGIO E POLITICA IN GRAMSCI

di Francisco F. Buey

«Tutto il linguaggio è un continuo processo di metafore, e la storia della semantica è un aspetto della storia dellacultura: il linguaggio è insieme una cosa vivente ed unmuseo di fossili della vita e delle civiltà passate».

(Q, 11 (XVITI), 1438,1932-1933)

1. La preoccupazione di Gramsci per la questione della lin-gua ed i problemi linguistici è stata una costante dagli scritti gio-vanili fino alle ultime note dei Quaderni, nel 1935, ed alle ultimelettere. Tale preoccupazione è sufficientemente documentata tan-to per il periodo de «L'Ordine Nuovo» quanto nel caso dei Qua-

derni e delle Lettere del carcere.

Alcuni interpreti della sua opera, come Franco Lo Piparo eTullio De Mauro, hanno sottolineato in differenti momentil'importanza che ebbe la formazione universitaria torinese del

giovane Gramsci, come linguista e filologo, nell'elaborazionedell'insieme della sua opera e nella configurazione del suo pen-siero filosofico e politico.

Lo stesso Valentino Gerratana ha avanzato l'ipotesi che leriflessioni storico-filologiche gramsciane, in particolare la suaconcezione del linguaggio come attività conformatrice, da unaparte, di sentimenti e credenze comuni e, dall'altra, di fratturesociali, abbiano avuto un'importanza decisiva non solo per l'ela-borazione di una teoria della cultura basata sull'idea di riforma

morale ed intellettuale, ma anche nell'elaborazione della teoriadell'egemonia, che è il nucleo centrale della filosofia politica delGramsci maturo.

Credo che oggi sia di particolare interesse tornare a sottoli-neare tale aspetto dell'opera di Gramsci: la sua volontà di comu-nicare al di là del gergo da specialisti e delle formule stabilitenell'ambito di una comune e determinata tradizione di pensiero.

La penso così per due ragioni.

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In primo luogo, perchè mi sembra che se Gramsci è, tra tut-ti i teorici del marxismo, il più noto, quello che ha più cose dadirci, questo si deve non solo a ciò che disse o scrisse, ma anche acome lo disse, alla forma in cui lo disse.

In secondo luogo, perchè la ricerca di un linguaggio ade-guato per mezzo del quale riuscire ad instaurare un dialogo tragenerazioni diverse all'interno della comune appartenenza allatradizione emancipatrice è forse il compito pre-politico principa-le della sinistra degna di questo nome in questo fine secolo.

In effetti, la battaglia per dare senso alle parole della propriatradizione, la battaglia per nominare le cose, è probabilmente ilprimo atto autonomo della battaglia delle idee in questo fine seco-lo. La tradizione socialista marxista si trova in una situazione simi-

le a quella a cui allude Girolamo Savonarola quando, in un'altrafine secolo, alle origini della modernità europea, davanti alla dege-nerazione del cristianesimo ufficiale, propose di continuare ad uti-lizzare le parole chiave della propria tradizione, recuperando,però, il significato concreto che esse avevano avuto un tempo eche continuavano a mantenere solo per una piccola minoranza.

Lo stesso Gramsci ci ha lasciato, su questa linea, una sugge-stiva riflessione che potrebbe utilmente essere applicata al lin-guaggio e alle metafore utilizzate dai fondatori della filosofia del-

la praxis. «Il linguaggio» - ha detto in questo contesto (Q 11,1427-1428, 1932-1933) -, «è sempre metaforico»; ma anche senon conviene esagerare il significato del termine «metafora»sostenendo che ogni discorso è necessariamente metaforico, sipuò comunque dire che «il linguaggio attuale è metaforico perrispetto ai significati e al contenuto ideologico che le parole han-no avuto nei precedenti periodi di civiltà».

Questa osservazione vale anche per determinate parole del-la filosofia della praxis, come «società civile», «ideologia», «ege-

monia» (per non parlare di «socialismo» o di «democrazia mate-riale») che fanno parte del linguaggio corrente delle scienzesociali e del cittadino colto della nostra epoca.

Non c'è dubbio che alcune di queste parole (principalmente«ideologia») furono usate da Gramsci con un'accezione differenteda quella che ebbero nell'opera di Marx. Ma non si può dubitarenemmeno che, passando al discorso corrente ed ai manuali disociologia politica, alcuni di questi termini, oggi, abbiano cambia-to senso. L'espressione «società civile», per esempio, ha acquistato

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tante, e così diverse, connotazioni nel linguaggio politico e sociolo-gico abituale che non si può evitare un certo malessere sentendolao vedendola ambiguamente attribuita a Gramsci.

Il problema, dunque, è cosa fare a partire da tale constata-zione, come operare. Gramsci scarta due soluzioni contempora-

nee e storicamente molto diffuse: l'utopia delle lingue fisse eduniversali e la tendenza paretiana e pragmatista a teorizzareastrattamente sul linguaggio come causa di errore, soluzioni checercavano di risolvere il problema in questione (l'ambivalenza,cioè, del linguaggio quotidiano e il diverso uso che, delle parole,fanno «i semplici» da un lato e gli intellettuali «colti» dall'altro),con un proprio «dizionario» o con la creazione di un linguaggiopuro (formale o matematico) di uso universale.

Indipendentemente da ciò che si pensi della bontà episte-

mologica dell'intento paretiano e russelliano, consistente nel tro-vare linguaggi in cui i termini siano usati univocamente, ed ancheindipendentemente da ciò che si pensi dell'estensione (più recen-te) di tali intenti alla scienza politica, sembra evidente che talepretesa sfugge all'ambito dell'attività politica concreta e che, per-tanto, in essa ci si debba abituare alla impossibilità di superarel'anfibologia, l'equivocità e le metafore. Questo, almeno, il puntodi vista di Gramsci. Ciò implica la ricerca di un linguaggio nonformale o formalizzato, in un certo senso metaforico, nel quale

intellettuali e popolo che lottano per una nuova cultura, purappartenenti a generazioni distinte, possano comprendersi.

Lo dirò in maniera diversa: per poter rinnovare la tradizio-ne marxista e socialista manca, oggi, un considerevole sforzo perquanto riguarda la comunicazione e la comprensione, tra genera-zioni, di esperienze e vissuti diversi: uno sforzo linguistico inno-vatore simile a quello che fece lo stesso Gramsci, dapprima ne«L'Ordine Nuovo» e, successivamente, negli anni del carcere.

Le caratteristiche di tale sforzo gramsciano si possono sinte-

tizzare precisando che esso è metodologicamente innovatore, sulpiano della forma, per come presenta una delle tradizioni del movi-mento operaio (marxista) e, pertanto, nell'interpretazione stessadell'opera di Marx e altrettanto innovatore, sul piano sostanziale,per quanto riguarda l'elaborazione del pensiero socialista, un pen-siero che si vuole figlio della stessa tradizione, ma che presta, inrealtà, un'inedita attenzione ai nuovi problemi socioeconomici eculturali, non cosiderati nè previsti dai classici del marxismo.

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La forma che Gramsci dà al suo discorso, il linguaggio cheegli inventa per interpretare Marx e pensare in continuità conMarx, pur innovando, è, anzitutto, fondamentalmente dialogica.Vorrei qui sottolinearlo. Non è la forma dialettica tendenzial-

mente «architettonica» utilizzata da Marx in Per la criticadell'economia politica e nel Capitale; non è la forma «sistema»

sbozzata da Engels nel' Anti-Duhring e nelle sue riflessioni sulpassaggio dal socialismo utopistico al socialismo scientifico; né laforma «trattato» propiziata da Bucharin ; né la forma quasi sem-pre strumentale adottata da Lenin nella maggioranza delle sueopere; né la forma «saggio» che si impose nel marxismo «teori-co» posteriore. La forma del discorso di Gramsci è, soprattutto,un dialogo, simultaneo o differito, con tre interlocutori: con i

classici della tradizione (per precisare in cosa siano innovatori),con i contemporanei a lui vicini (per decidere, se è possibiledecidere, a riguardo delle preoccupazioni e dei problemi delmomento), e con sé stesso, ma senza superbia, a partire dallariconsiderazione delle esperienze vissute dal 1917.

2. L'importanza che Gramsci diede alla lingua ed al linguag-gio durante tutta la sua vita si può rilevare e studiare in ambiti diriflessione distinti. In questa comunicazione mi riferirò principal-

mente a tre di questi ambiti con un'attenzione speciale ai Qua-derni del carcere.

Il primo ambito di cui si deve tener conto è, naturalmente,quello delle considerazioni specifiche sulla lingua e la sua storia,sulla grammatica, sui problemi di linguistica e sulla cultura e laletteratura italiane connesse a questi problemi.

E noto che, già nel primo piano di lavoro in carcere, quan-do nel marzo del 1927 Gramsci annuncia, con una certa ironia,che vorrebbe fare qualcosa «für ewig», disinteressatamente,facendo propria una concezione di Goethe recuperata da Pasco-li, egli intendeva riservare a tali riflessioni una sezione specifica.Non solo perchè la seconda questione di tale piano era «nientemeno» che uno studio di linguistica comparata, ma anche perchègli altri temi proposti (studiare la formazione dello spirito pub-blico nell'Italia del X I X secolo, la trasformazione del gusto tea-trale a partire dall'opera di Pirandello e la conformazione delgusto popolare in letteratura) presentano un legame diretto coninteressi di natura filologica.

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Anche se, per motivi diversi, negli anni successivi tale pianoavrebbe subito notevoli modificazioni e Gramsci, da un certomomento, avrebbe dichiarato di non avere più un piano propria-mente detto di studi sistematici, tuttavia la sua volontà di «spreme-re il succo da un fico secco» gli permise, senza dubbio, di svolgerealmeno una parte di quel progetto «disinteressato». La malattia,l'impossibilità di disporre, in carcere, dei materiali scientifici edaccademici appropriati, i problemi politici e sentimentali, ilcostante sforzo di introspezione che sostenne negli anni seguenti,convinsero Gramsci che, in tale situazione, ciò che realmente pote-va fare era un'opera sostanzialmente polemica. Nel suo eserciziointrospettivo Gramsci approderà all'unione del socratico «conoscite stesso» con il far di necessità virtù, consapevole che ciò eral'unica cosa che egli potesse fare realmente in quelle condizioni:

Sarà perchè tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico;anche il pensare «disinteressatamente» mi è difficile, cioè lo studio per lostudio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in undeterminato ordine di riflessioni, e di trovare per dir così, nelle cose in sél'interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessariopormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento nessu-no stimolo intellettuale... non mi piace tirar sassi nel buio; voglio sentire uninterlocutore o un avversario in concreto; anche nei rapporti familiari vogliofare dei dialoghi (Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubi-ni, Einaudi, Torino 1965, p. 390).

Ma la realizzazione finale del progetto, da ciò che si vedenei Quaderni, risulta essere qualcosa di più di una semplice pole-mica. Certamente, qualcosa di più di un mosaico di riflessioniframmentarie, come si dice a volte troppo frettolosamente. Qual-cosa di più di una semplice polemica sono, per esempio, le notesulla mobilità e stratificazione della lingua, sulla tensione tragrammatica viva e grammatica normativa, sulle relazioni esistentitra le scelte espressive o stilistiche e le forme della cultura e dellavita sociale, o quelle sulle possibilità di traducibilità dei linguaggie delle formazioni culturali. In tutto ciò c'è un filo rosso, legatoalla questione della formazione di una nuova cultura, la culturadelle classi subalterne, e alla lotta per l'egemonia; un filo rossoche oltrepassa la forma polemica e la frammentarietà delle note.In un certo modo, e per ciò che riguarda questo punto, si puòdire che il progetto di Gramsci si va profilando come la congiun-zione delle sue conoscenze accademiche, come filologo e storico

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della lingua, con l'esperienza acquisita come dirigente politicocomunista, in vista dello studio della storia d'Italia e della criticadella cultura. Ciò che ne risulta, considerando i Quaderni nelloro complesso, è un abbozzo di sociologia politica della contem-

 poraneità, tracciato da un punto di vista esplicito e con grandecoscienza della storia. Le sue iniziali considerazioni storico-criti-che sulla questione della lingua e le classi intellettuali o sui diver-si tipi di grammatica rinviano a considerazioni di politica lingui-stica (Q 29, 23443-45, 1935), di politica culturale, di sociologia

della contemporaneità: riflessioni che vertono, in sostanza, sullariorganizzazione, nel presente, dell'egemonia culturale:

Ogni volta che affiora, in un modo o nell'altro, la quistione della lingua, 

significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione el'allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più inti-mi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di rior-ganizzare l'egemonia culturale. Oggi si sono verificati diversi fenomeni cheindicano una rinascita di tali quistioni... (Q 29, 23 46,1935).

Oltre a constatare, quindi, che la considerazione della lin-gua, dei linguaggi e della letteratura in relazione con l'egemoniasi trova all'inizio (nel primo Quaderno iniziato l'8 febbraio del1929) e alla fine (nelle «Note per una introduzione allo studio

della grammatica» scritte nel 1935) dei Quaderni, c'è da dire chequesto tipo di considerazioni gramsciane continua ad essere digrande attualità, particolarmente in paesi come i nostri, dove laquestione della lingua (o, meglio, delle lingue, delle forme dialet-tali e delle culture che si incontrano e scontrano tra loro) è dive-nuta, da qualche tempo, uno dei principali temi del dibattitopubblico. La principale lezione di Gramsci, anche in questo, è diordine metodologico. Di metodologia in senso ampio, filosofico.

Evitando di fare di tale questione prepolitica un tema poli-tico strumentale (che è quello che sta succedendo precisamentenelle controversie degli ultimi tempi su lingue e culture), Gram-sci seppe intuire molto bene la dimensione politica e politico-cul-turale che si nasconde, o non sempre si dichiara, in ogni progettodi normalizzazione linguistica (quando affiora nuovamente laquestione della lingua), a partire dalle varianti della grammaticanormativa. Oggi nell'epoca del multiculturalismo, ma anche del-la globalizzazione e della nuova avanzata dei nazionalismi e dei

particolarismi, possiamo quotidianamente comprovare fino a che

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punto ciò che è in gioco nelle polemiche, che in principio sem-brano solo linguistiche, filologiche, sociolinguistiche o di antro-pologia culturale, riguardi la lotta per l'egemonia (culturale, eco-nomica e politica) tra le distinte frazioni delle borghesie naziona-li, regionalmente differenziate, tra le distinte borghesie degli statiplurinazionali e plurilinguistici e tra le borghesie e le classi mediedi stati composti da varianti dialettali importanti.

In questo senso mi sembra che avvicinare le acute note diGramsci sull'«americanismo» alle sue considerazioni riguardantilo sfondo politico-culturale dei progetti storici di normatività lin-guistica, o alle sue osservazioni sul nazional popolare, può aiuta-re di molto la comprensione razionale di ciò che sta succedendonel nostro ambito geografico. Che non è precisamente lusinghie-ro. Si potrebbe anche dire che il pendolo della storia ha cambia-

to direzione: mentre Gramsci dall'autonomismo della gioventùevolveva verso una sempre maggiore sottolineatura del «nazionalpopolare» con intenzioni internazionaliste, ma rispettose delledifferenze, al giorno d'oggi, invece, in parte come reazione allaglobalizzazione ed alla standardizzazione culturale che questacomporta, ci si muove verso una identificazione del «nazionalpopolare» con l'autonomismo (in versioni politiche diverse:regionaliste, nazionaliste, indipendentiste, ecc.)

3. Il secondo ambito che riveste in questa sede rilevanza èquello delle considerazioni di Gramsci, nella corrispondenza conJulia e Tania, sulle lingue come veicolo di comunicazione. Daquesto punto di vista si può dire che il problema della lingua edelle possibilità espressive diventa per Gramsci quasi ossessivonella sua comunicazione con Jul ia Schucht.

Questa ossessione ha due dimensioni: una dimensione privatae sentimentale, che si lega allo sforzo di tenere viva una «vera corri-spondenza», un «dialogo autentico» tra persone che si vogliono

bene ma non sempre si comprendono, ed un'altra politica.Ci troviamo davanti ad una relazione tra un italiano che ha

difficoltà a leggere e capire la lingua russa e una russa che si espri-me per iscritto in lingua italiana con una certa difficoltà. Se lacomunicazione tra due persone così, presenta di per sé delle diffi-coltà, anche in circostanze normali, queste si fanno acute con ladistanza (lui in Italia, lei a Mosca), le malattie (fisiche e psicologi-che di entrambi) ed il carcere (che non permette di parlare aperta-

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mente e con franchezza di niente, nè di sentimenti, nè di politica).Si comprende come, in tali condizioni, Gramsci abbia tante

volte insistito con Julia sull'importanza che aveva per lui il fattoche lei si esprimesse con chiarezza e precisione. Si comprende

anche come, a volte, la mediazione benintenzionata di Tania loirritasse. E almeno parzialmente si comprende quella sua ossessio-ne che lo porta a leggere più volte la stessa lettera per afferrare tut-te le sfumature di una informazione o di una affermazione di Julca.

Questa ossessione per il linguaggio della comunicazioneinterpersonale, tanto evidente nella corrispondenza, diventava, inalcuni momenti della sua vita carceraria, una vera nevrosi. Non èpossibile mantenere una relazione sentimentale a distanza, trapersone che hanno figli in comune, con la puntigliosità filologica,

ed a volte pedante, di cui Gramsci dà prova in alcune sue lettere.Lui stesso ne fu cosciente in alcuni momenti. In qualsiasi casotale puntigliosità deve essere considerata come uno degli elemen-ti esemplari della tragedia dell'uomo Gramsci in carcere e dellatragedia di Ju lca a Mosca.

Dato che il tema è delicato ed esige delicatezza nell'esseretrattato lo lascerò qui.

Ma non senza aggiungere, anche se di passaggio, che labanalizzazione della tragedia dell'uomo Gramsci nella sua rela-

zione con Julia Schucht, cui si sta assistendo in questi ultimianni, soprattutto in Italia, produce nausea e toglie la voglia dicontinuare a scrivere. Davanti a questo spettacolo che adesso, aquanto vedo, compare nelle pagine dei giornali, non resta cheripetere le parole pungenti, un poco malinconiche, ma profonda-mente vere, scritte da Valentino Gerratana nel 1992: «Quandoesiste solo un simulacro di cultura, come in questo caso, non vipuò essere un vero dialogo con Gramsci né con nessun altro».

4. Sovrapponendosi alla relazione sentimentale, l'identità o lavicinanza in politica complica la comunicazione tra persone chebasano la dignità della cultura sulla sua capacità di trasformare gliuomini e le relazioni reali. Effettivamente, negli anni della IIIInternazionale, tra persone che, pur condividendo gli stessi obiet-tivi, erano obbligate a prendere decisioni immediate riguardo ledivisioni tra amici e conoscenti, la precisione linguistica, l'usoappropriato delle parole, risultano essere doppiamente importanti.

In tali condizioni perfino lo scherzo e l'ironia si devono misurare.

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Una delle conseguenze negative della russificazione dei par-titi comunisti d'Europa, avvertita da Lenin già nel IV congressodella III Internazionale e opportunamente ricordata dallo stessoGramsci, è che tale processo obbliga a comprendere con altrecategorie, con altre parole, temi e questioni nazionali che a volte

sono di difficile traduzione. La divisione che in questo periodo sivenne creando tra un «marxismo russo» ed un marxismo chia-mato «occidentale» ha la sua origine prepolitica nei problemi ditraduzione che la concezione marxiana della storia e dell'uomopensata in rapporto ai problemi della lotta di classe in Germania,Francia ed Inghilterra, incontrò in Russia per poter essere capitadai contadini, ma anche nel fatto che essa fu poi ritradotta dalrusso (in termini leninisti) in tedesco, in inglese o in italiano.

Per un intellettuale che conoscesse mediamente bene l'ope-

ra di Marx, perfino per un intellettuale come Gramsci cheapprezzava molto l'opera di Lenin, questo doppio processo ditraduzione e ritraduzione, in russo e dal russo, di problemisocioeconomici e culturali relativamente conosciuti doveva equi-valere ad un «tradimento». Dato che, in un certo modo, edanche in questo caso,,«il traduttore è traditore».

In effetti, analizzando le controversie politiche della faseche va dal 1924 al 1936 non si è prestata sufficiente attenzione adun problema preliminare alla definizione propriamente politica e

cioè: se realmente gli interlocutori russi, tedeschi, ungheresi, ita-liani, francesi, polacchi, spagnoli, ecc., intendessero le parolechiave della discussione nello stesso senso, con lo stesso valore.Per non dire poi quando, in questo contesto, si comincia a parla-re della rivoluzione cinese con termini e concetti del linguaggiopolitico francese tradotti dal russo.

Gramsci, che ha dedicato alcuni paragrafi molto acuti deiQuaderni al problema della traducibilità dei linguaggi (Q 11,1468-1473 e 1492-1493, 1932-1933), che ha voluto lui stesso dedi-

carsi alla traduzione, e che ha avuto seri problemi di comunicazio-ne perfino con i compagni del carcere discutendo della strategiadella III Internazionale, evidentemente doveva essere sensibile allaquestione che sto proponendo. Questione che si potrebbe intitola-re così: Babele nell'internazionalismo della III Internazionale;come costruire, cioè, un linguaggio comune intellegibile da perso-ne di tante lingue e nazionalità diverse, sapendo che se, in teoria,gli operai non dovrebbero aver patria, di fatto la possiedono

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(come è stato provato durante la prima guerra mondiale).Non c'è dubbio che quando Gramsci si propone il proble-

ma della traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici, quelloche ha in mente è precisamente il problema delle tradizioni

nazionali nel quadro dell'Internazionale, e questa riflessione pro-viene precisamente da una citazione di Lenin secondo il qualenon si era saputo «tradurre nelle lingue europee la nostra lingua»(Q 11,1468,1932-1933) .

Il problema di tradurre in un linguaggio comune una strate-gia internazionalista condivisa da operai e intellettuali che parla-no differenti lingue ed appartengono a differenti nazionalità è giàpresente nei primi anni della Prima Internazionale. Ed è unaquestione che non si può affrontare solo dal punto di vista della

solidarietà (spontanea o cosciente) di classe. Una parte del movi-mento socialista e comunista ha agito da allora come se l'afferma-zione secondo la quale «gli operai non hanno patria» fosse ungiudizio o una proposizione sociologica dedotta da qualcheinchiesta condotta tra segmenti rappresentativi del proletariatoindustriale mondiale, ma, per poco che si pensi, si vedrà che, inrealtà, si tratta di una affermazione normativa, di un desiderio.

Lo stesso Marx si rese conto dell'importanza di questo pro-blema. In una intervista che concesse nel 1871 alla rivista

newyorkese «The World», disse: «La AIT non impone nessunaforma fissa al movimento politico. La AIT è formata da una retedi società affiliate che abbraccia tutto il mondo del lavoro. Inogni parte del mondo appaiono aspetti particolari del problemadel lavoro; gli operai ne tengono conto e tentano di risolverli allaloro maniera. Dunque le organizzazioni operaie non possonoessere identiche a Newcastle e a Barcellona, a Londra e a Berli-no. L'Internazionale non pretende di imporre su di esse la suavolontà, e nemmeno pretende dar consigli: offre ad ogni movi-

mento in corso la sua simpatia ed il suo aiuto, all'interno deilimiti stabiliti dagli statuti».

Ma Gramsci va più lontano: sposta la riflessione dal pianopolitico-organizzativo ad un piano anteriore, quello della possibi-lità di tradurre linguaggi e culture diverse, cercando di superarecontemporaneamente il primitivismo etnocentrico ed il relativismoassoluto. Criticando tanto l'«esperantismo filosofico» quantol'«utopia delle lingue fisse ed universali» o la «resistenza allo svi-luppo di una lingua comune nazionale da parte dei fanatici delle

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lingue internazionali», Gramsci riesce a istituire una relazione, e amettere in questione, tanto il pragmatismo scientista, di originepositivista, quanto il tentativo di Bucharin del Saggio popolare,

viziati entrambi da un etnocentrismo che non arriva a capire la sto-ricità dei linguaggi e delle filosofie, e che porta a credere che tuttoquello che non è espresso nel proprio linguaggio è delirio, pregiu-

dizio o superstizione (Q 11,1466-1467,1932-1933) .In questo contesto Gramsci mette a punto un paio di criteri

teorici di grande utilità per fondare, nell'ambito della filosofiadella praxis, la possibilità, per imperfetta che sia, di una traduci-bilità reciproca tra lingue e culture nazionali di tradizioni diffe-renti. Questi criteri sono:

a) Chiarire, in rapporto al proprio linguaggio e alla propriaconcezione del mondo, «le dosi di criticismo e scetticismo» neces-sarie per mantenere alternativa la propria cultura senza paralizzarsi(o demoralizzare i propri) e senza scadere nel settarismo;

b) Ammettere non solo come possibilità, ma anche comerealtà, che ci sono culture superiori ad altre, anche se - e questoè decisivo - quasi mai lo sono per le ragioni per cui i propri fana-tici difensori, primitivisti o etnocentrici, credono che lo siano, emai, soprattutto, considerate nel loro insieme o totalità.

5. Il terzo ambito da studiare è quello della ripercussione di

tale preoccupazione per la lingua e i linguaggi nell'evoluzione delpensiero politico di Gramsci. In quest'ambito c'è da dire che,nonostante la riflessione sul nesso tra linguaggio e politica non siasempre esplicita, l'originalità di Gramsci, e particolarmente l'ori-ginalità del suo marxismo, si deve in gran parte alla volontà diesprimere, in una forma nuova, una nuova forma del fare politica.

Tale dimensione dell'opera di Gramsci è stata sempre ricono-sciuta da persone di altre tradizioni e altre culture: da PieroGobetti a Camillo Berneri, da Joaquim Maurin a Benedetto Croce.

Gramsci, dunque, ha seguito il cammino aperto da Marxcon la proposta della mondanizzazione della filosofia come for-ma di realizzazione-superamento della stessa filosofia, sviluppan-do le sue considerazioni intorno ai problemi dell'umanità chesoffre e ai problemi dell'umanità che pensa. Se già nel Marxdegli anni Quaranta del secolo passato, e ancor di più in quellodegli anni Cinquanta, riscontriamo un giornalismo documentato,con cognizioni storico-filosofiche e punto di vista, nel Gramsci

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de «L'Ordine Nuovo» troviamo una forma giornalistica altrettan-to originale: informata, colta, polemica, contemporaneamenteproblematica e verace. Ciò non è casuale, ma è dovuto ad unariflessione specifica sulla cultura alternativa delle classi subalter-

ne (in polemica con Tasca e Bordiga) e sulla forma linguistica dicomunicazione più adatta ad instaurare e mantenere un rapportovivo tra intellettuali e popolo.

Questa riflessione è come un filo rosso, che attraversa tuttal'opera di Gramsci dal 1918 al 1935, condotta tenendo conto fon-damentalmente di due fattori: da una parte, la comparazione dellanuova concezione del mondo con la storia del cristianesimo istitu-zionalizzato nella Chiesa e, dall'altra, la necessità di opporsi a quel-la volgarizzazione del socialismo marxista che tendeva a trattare i

lavoratori come «semplici» o «mera truppa». Gramsci mira ad unlegame tra dirigenti e diretti, nell'ambito di una stessa tradizione(lui dice «concezione del mondo esplicita e attiva»), che si regga sudi un unico, condiviso linguaggio, e non, come avviene nelle chie-se, su due linguaggi: uno per i chierici e l'altro per i semplici.

In questa ricerca la proposta della forma dialogica si accom-pagna a quella di un nuovo tipo di filosofo, da lui chiamato «filo-sofo democratico», la cui personalità non si limita a coltivare lapropria individualità, ma punta soprattutto ad una «relazione

sociale attiva di modificazione dell'ambiente culturale». Questa èla traduzione gramsciana della mondanizzazione marxiana delfilosofare. Il suo adeguamento all'epoca del «pugno nell'occhio»,agli anni del fascismo e del nazismo, si esprime nel riconoscimen-to della necessità di passare, umilmente, dal sentirsi «aratori del-la storia» al considerarsi «concio della storia». «Prima - diceGramsci - tutti volevano essere aratori della storia. Nessunovoleva essere 'concio' della storia. Ma può ararsi senza primaingrassare la terra?. Qualcosa è cambiato, perchè c'è chi si adatta

"filosoficamente" ad essere concio, che sa di doverlo essere, e siadatta» (Q 9, 1128, 1932). La politica, soprattutto nei cattivimomenti, deve essere prima di tutto pedagogia, ed il suo linguag-gio, il linguaggio della politica, pedagogico senza volgarizzazioniné primitivismo, appassionato e sincero.

Questa riflessione conduce Gramsci ad una considerazionesullo stato d'animo e lo stile più adatti al nuovo periodo, a quellafase storica in cui il vecchio stentava a morire ed il nuovo a

nascere.

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Vorrei ricordare in questa sede altri due passi dei Quaderni

altrettanto interessanti per la considerazione della relazione tralinguaggio e politica.

Il primo si riferisce alla questione dei giovani e all'impor-tanza riservata al dialogo intergenerazionale nella lotta per l'ege-monia (Q 115-116, 1929-1930: Q 1717-1718, 1932-1935). Il

secondo, che è anche un dialogo con la propria tradizione, siriferisce allo stile, alla forma più appropriata per elaborare il«blocco storico», per creare un «centro di annodamento» traintellettuali e popolo.

Diverse volte Gramsci ha richiamato l 'attenzionesull'importanza delle rotture e delle crisi generazionali nella lottaper l'egemonia, così come sulla responsabilità dei più anziani,più o meno vecchi, in questa battaglia. La crisi generazionale è in

diretto rapporto con il malessere culturale. Dunque è essenzialetrovare un linguaggio comune grazie al quale persone di diffe-renti età, che aspirano a trasformare il mondo, possano intender-si e comunicare gli uni agli altri i propri differenti vissuti. Gram-sci sta tentando di proporre, in termini positivi, un delicato temaal quale Turgenev e Dostoevskij avevano già dedicato eccellentipagine sotto il titolo di «padri e figli: liberalismo e nichilismo».Dato che questo continua ad essere uno dei temi del nostro tem-po, non sarà inutile, in questa sede, spendere alcune parole per

estendere al nostro presente la preoccupazione di Gramsci.Uno dei problemi a cui adesso, in effetti, dobbiamo far

fronte è il fatto che il dialogo tra generazioni è mediato dalla tri-vializzazione e manipolazione della storia del XX secolo ad operadel «revisionismo» storiografico. Questo sta penetrando inprofondità e appare già come un'ideologia decisamente funzio-nale agli interessi della classe dominante nell'epoca della omoge-neizzazione e della standardizzazione culturale. Ciò che vienechiamato postmodernismo è, sul piano culturale, l'ultima tappa

del capitalismo, e come scrisse John Berger, «il compito storicodel capitalismo è distruggere la storia, tagliare ogni vincolo con ilpassato ed orientare tutti gli sforzi e tutta l'immaginazione versociò che sta per accadere».

Così è stato e così è. Dato che è così, ai giovani, che si sonoformati attraverso la cultura delle immagini frammentarie, biso-gna rivolgere una lettura della storia diversa da quella del granderacconto cronologico tradizionale, affinchè si interessino a ciò

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che furono e fecero Marx e Gramsci, alla tradizione socialistamarxista: una interpretazione della storia, in sostanza, che restau-ri, mediante immagini frammentarie, la persistenza della centra-lità della lotta di classe nella nostra epoca, tra i chiaroscuri delle

tragedie del XX secolo. Gramsci si occupò di teatro, di letteratu-ra popolare, di poesia e di narrativa. E capì l'importanza dellaparola (orale e scritta) nell'elaborazione di una concezione delmondo e nella costruzione di un grande racconto storico. Questariflessione merita di essere proseguita. È probabile che ai giorninostri il linguaggio più adeguato a riannodare il dialogo tra gene-razioni, nell'ambito della tradizione di emancipazione della cul-tura socialista, sia un uso alternativo della tecnica cinematografi-ca e visiva, una combinazione di documentazione storica e di

passione ragionata.Vorrei terminare con una considerazione sullo stile della

nuova forma di far politica. C'è una riflessione, contenuta in unanota del 1935, sulle «contraddizioni dello storicismo e le loroespressioni letterarie», che riassume bene, secondo la mia opinio-ne, la lezione di stile che Gramsci ci ha voluto lasciare. Taleriflessione tratta dell'ironia e del sarcasmo come forme stilistichee possiede una sorprendente attualità.

«'Ironia' - dice Gramsci - può essere giusto per l'atteggia-

mento di intellettuali singoli, individuali, cioè senza responsabi-lità immediata sia pure nella costruzione di un mondo culturale oper indicare il distacco dell'artista dal contenuto sentimentaledella sua creazione (che può 'sentire' ma non 'condividere', opuò condividere ma in forma intellettualmente più raffinata); manel caso dell'azione storica, l'elemento 'ironia' sarebbe solo lette-rario o intellettualistico e indicherebbe una forma di distaccopiuttosto connessa allo scetticismo più o meno dilettantescodovuto a disillusione, a stanchezza, a 'superominismo'. Invece nel

caso dell'azione storico-politica l'elemento stilistico adeguato,l'atteggiamento caratteristico del distacco-comprensione, è il 'sarca-

smo' e ancora in una forma determinata, il 'sarcasmo appassiona-

to'. Nei fondatori della filosofia della prassi si trova l'espressionepiù alta, eticamente ed esteticamente, del sarcasmo appassiona-to... Di fronte alle credenze e illusioni popolari... c'è un sarcasmoappassionatamente 'positivo', creatore, progressivo: si capisceche non si vuol dileggiare il sentimento più intimo di quelle illu-sioni e credenze, ma la loro forma immediata, connessa a un

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determinato mondo 'perituro', il puzzo di cadavere che trapelaattraverso il belletto umanitario dei professionisti degli 'immorta-l i principii '» (Q 26 ,2 29 9- 23 00 ,1 93 5) .

Gramsci distingue bene qui tra il «sarcasmo appassionato»ed un sarcasmo di destra, antiumanista, che raramente è appas-sionato e che sempre si presenta come negativo, scettico e, per-tanto, distruttivo non solo della forma contingente ma anche del-lo stesso contenuto umano di quei sentimenti e credenze. E con-tinua così: «Si cerca di dare al nucleo vivo delle aspirazioni con-tenute in quelle credenze una nuova forma (quindi di innovare,determinare meglio quelle aspirazioni), non di distruggerle». Ma,come sempre avviene, le prime e originali manifestazioni del sar-casmo danno luogo ad imitazioni spesso pedisseque: anche quel-lo che inizialmente fu stile corre il rischio di deteriorarsi in reto-rica ed in gergo; e questo si deve evitare, tanto più in questanostra epoca.

Lo storicismo non può concepirsi come un discorso espri-mibile in una forma apodittica o predicatoria; deve creare unnuovo gusto stilistico ed un nuovo linguaggio come mezzi di lot-ta intellettuale. Il sarcasmo appare, pertanto, come la componen-te stilistico-letteraria di una serie di esigenze teoriche e praticheche solo superficialmente possono presentarsi come insanabil-mente contraddittorie; ne è elemento essenziale la passionalità,

che diviene criterio della potenza stilistica individuale (della sin-cerità, della profonda convinzione opposta al pappagallismo e almeccanicismo).

(traduzione di Antonino Firenze)

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MARX E GRAMSCI

di Marina Paladini Musitelli

PREMESSA

Confesso di provare un certo disagio a prendere oggi laparola e non solo perchè sono la sola donna in questo Congresso(fatto, peraltro, che considero un onore), ma perchè sono l'unica,tra tanti relatori italiani e stranieri, a non essere una studiosa difilosofia. Mi occupo, più modestamente, di storia e teoria della

letteratura e non potrò, dunque, che affrontare da questo specifi-co punto di vista il rapporto tra il pensiero di Marx e quello diGramsci. Il disagio nasce proprio da qui: dalla consapevolezza,cioè, dei rischi che, nel caso di pensatori così complessi comeMarx e Gramsci, si possono correre isolando, in quell'inestrica-bile nesso di problemi di cui sono composte le loro riflessioni,aspetti settoriali di esse e applicando ad essi un'ottica disciplina-re troppo specifica.

Evitare questo rischio è stato, perciò, l'obiettivo prioritario

della mia ricerca. Ciò mi ha portato, da un lato, ad allontanarmidalla strada più battuta dell' analisi, e del conseguente confronto,tra l'insieme degli scritti espressamente riservato da ciascuno deidue pensatori allo studio e alla valutazione di problematiche let-terarie, e a trascurare, di conseguenza, soprattutto per ciò checoncerne il pensiero dei fondatori del materialismo storico, i purinteressantissimi spunti critico-metodologici contenuti nelle belleantologie di Fréville1 e di Carlo Salinari 2; dall'altro, a scegliere unpunto di vista tutto interno allo sviluppo del pensiero gramscia-

no (l'unico, d'altronde, che posso dire di conoscere), grazie alquale ricostruire le linee di fondo e le tappe del rapporto conMarx, e, sul piano della riflessione critico-letteraria, cogliere esottolineare sia gli stimoli che Gramsci andava via via ricavandodalla lettura delle sue opere, sia le ragioni che lo portarono, incerte fasi della sua vita, a cercare nelle indicazioni del filosofo diTreviri i suggerimenti per risolvere alcune questioni cruciali lega-te al rapporto tra l'arte e la lotta per una nuova civiltà.

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L'ARTE E LA LOTTA PER UNA NUOVA CIVILTÀ

Vi è un passo famosissimo nei Quaderni del carcere in cui

Gramsci, a proposito di Lenin 3, annota come spesso «il pensiero

più fecondo» «di una grande personalità» si esprima, più che neicontributi allo sviluppo del campo disciplinare cui quella perso-nalità appartiene, «in altra parte che apparentemente può esseregiudicata estranea» 4. L'osservazione, insieme alla sua premessateorico-metodologica, la convinzione cioè che filosofia politicaed economia siano «gli elementi costitutivi necessari di una stessaconcezione del mondo» 5, può essere estesa anche a Marx, defini-to da Gramsci fin dal settembre 1918, nel polemico articolo La

vera crisi6 , «il filosofo economista di Treviri», e può servire a

capire l'insistenza e la coerenza con cui Gramsci si adoperò adimostrare la presenza di una nuova, rivoluzionaria dimensioneteorico-sistematica in ogni aspetto della riflessione di Marx.

Già in alcuni articoli del «Grido del popolo», a quella chegli appariva come una vera e propria «sterilizzazione delle dottri-ne di Marx» 7 , frutto del determinismo positivista, Gramsci con-trappone una attenzione inedita alla dimensione culturale dellabattaglia teorica marxiana, che si accompagna, mi sembra, aduna analoga sostituzione, nelle preferenze di vecchia e giovane

generazione socialista, della vulgata marxista con i testi marxianidi ispirazione filosofica. Alla conoscenza delle opere di carattereeconomico la «nuova generazione» aveva potuto infatti somma-re, come sembra rivendicare con orgoglio Gramsci a propositodella Sacra Famiglia, la lettura di quelle opere di polemica filoso--fica che il socialismo di fine Ottocento, e la cultura italiana, inte-ressati soprattutto ai testi di contenuto economico o politico daun lato, ai saggi di carattere storico dall'altro, avevano sostanzial-mente ignorato8.

Penso a opere come Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, la Sacra famiglia o Critica critica, la Miseria della Filosofia',

testi che erano stati da poco riproposti all'attenzione del pubbli-co socialista. Nel 1914 era uscito, infatti, per le edizionedell'«Avanti», il 1° volume delle Opere di Marx, Engels, Lassallecurato da Ettore Ciccotti 1 0, che Gramsci doveva aver letto conattenzione, come testimonia più d'un riscontro e di cui si ritrovaun'eco, amplificata dall'influenza della lezione di AntonioLabriola, in molte delle polemiche sostenute in quegli anni con i

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vecchi dirigenti del socialismo italiano 1'. Proprio alla necessitàche il socialismo acquisisse un solido fondamento teorico-filoso-fico con cui giustificare una precisa dottrina di interpretazionestorica e politica, come solo Marx ed Engels avevano dimostratodi saper fare, fa riferimento, infatti, un articolo in cui Gramscipolemizza esplicitamente con la linea del Partito socialista italia-no, quel Bergsoniano!, apparso sulT«Ordine nuovo» il 2 gennaio1921, che si conclude emblematicamente con l'allusione ad unanuova forma di filosofia, propria alla classe operaia, capace diunire in una inedita unità pensiero e azione: «Oh! Saper esserecome l'operaio che sente una precisa direttiva di azione e di pen-siero, ed è filosofo senza saperlo...» 12 .

Si può ipotizzare e dimostrare che la lezione ricavabile daquesto gruppo di testi, rafforzata dall'ammirazione per Antonio

Labriola che questi temi della riflessione marxiana aveva sempreprivilegiato, favorisse il riconoscimento dell'importanza cheanche ai fini dell'azione politica rivestiva la battaglia culturale ela lotta per l'affermazione e lo sviluppo dell'autonomia culturaledel proletariato. Nelle affermazioni con cui Gramsci difende erivendica il ruolo attivo delle idee si possono trovare, ad esem-pio, anche se in formulazioni compromesse con l'idealismo gen-tiliano, le tracce delle suggestioni marxiane ricavate da Per la cri-

tica della filosofia del diritto di Hegel in cui Marx aveva sostenuto

polemicamente che se è vero che «l'arma della critica non puòsostituire assolutamente la critica delle armi, e la forza materialedev'essere sopraffatta dalla forza materiale», è vero però che«anche la teoria diviene forza materiale appena s'impadroniscedelle masse»", così come vi si può scorgere l'influenza prodottadalla lettura della Sacra Famiglia o della Miseria della Filosofia. In

quelle opere, infatti, Marx si era sforzato di dimostrare che sog-getto e oggetto, individuo e mondo ad esso esterno più cheaspetti irrelati della medesima realtà, di cui l'uno finiva, per di

più, col trascendere l'altro includendo in sé l'intero sistema direlazioni tra l'uomo e il mondo, come era accaduto tantonell'interpretazione idealistica dei vari Bauer, Szeliga, quanto nel-la versione materialistica o empiristica di Feuerbach, erano ele-menti strettamente intrecciati, che concorrevano, entrambi, e inpari misura, a determinare concretamente la realtà.

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Poco sappiamo purtroppo, anche dal punto di vista del rap-porto con il pensiero e l'opera di Marx, del periodo moscovitagrazie al quale, però, Gramsci dovette indubbiamente approfon-dire ed ampliare la conoscenza della lezione marxiana. Può esse-

re utile ricordare a questo proposito che presso il Marx-EngelsInstitut di Mosca, diretto da uno dei massimi conoscitoridell'opera di Marx: Rjazanov, si andava preparando in queglianni la pubblicazione integrale, in lingua tedesca, del corpo degliscritti dei due fondatori del marxismo, edizione che sarà poi notacome Mega. Sappiamo comunque che Gramsci, partendo perVienna, come si ricava dalle lettere ai compagni del gennaio1924, aveva portato con sé una antologia russa di scritti di Marxed Engels e che a Vienna già pensava ad una analoga antologia

italiana sul materialismo storico, ad una silloge che avrebbedovuto contenere brani riguardanti tutte le diverse questioniaffrontate da Marx 1 4 , e che, a questo scopo, sollecitava Zino Zini,per la sua conoscenza sia del tedesco che del russo, a «cercare ibrani tradotti in russo sull'originale tedesco, rivedendo e miglio-rando le traduzioni italiane esistenti e facendo le traduzioni deibrani inediti in Ita lia» 1 5.

Certo è che quando Gramsci, in carcere, riprese i propriconti con Marx, che erano ancora una volta, come lo erano stati

nel 1918, conti con le interpretazioni del pensiero di Marx piùdiffuse presso dirigenti e sezioni del movimento operaio interna-zionale - anche se diverse erano rispetto al 1918 le versioni cor-renti del marxismo - lo fece confermando la natura sistematica,di integrale ridefinizione di tutti gli aspetti della realtà, insita nelpensiero marxiano. Anche questa volta sulla base, soprattutto, diuna attenta rilettura critica delle opere filosofiche, dei tre volumiin particolare delle Oeuvres philosophiques curate da Jean Moli-tor, che l'editore Costes aveva pubblicato nel 1927 e Gramsci

ricevuto in carcere nel 1928: una lettura tanto attenta da rilevarela qualità scelleratissima della traduzione 16 .

Questa volta, però, sulla base delle argomentazioni svolteda Marx nelle Tesi su Feuerbach" e sulla falsariga della ricostru-zione della linea maestra e dei risultati della propria ricerca espo-sti nella Prefazione alla Critica dell'economia politica. L'obiettivo è

la riaffermazione del valore rivoluzionario del rapporto dialetticoistituito da Marx tra struttura e superstrutture, contro i rischisempre in agguato di idealismo o di meccanicismo.

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lo studio dello svolgimento della filosofia della praxis25

- in cui

Gramsci - a conclusione di una analisi davvero esemplare deimodi e dei limiti con cui il marxismo era divenuto componentedeterminante della cultura moderna, ma anche elemento di ibridi

connubi - dopo aver chiarito e ribadito che «l'affermazione chela filosofia della praxis è una concezione nuova, indipendente,originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mon-diale è l'affermazione della indipendenza e originalità di unanuova cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsidei rapporti sociali» sottolinea che ciò non esime, però, dal favo-rire in qualche modo la nascita e la maturazione di quella nuovacultura, e ricorda che, da questo punto di vista, molto diversisono i compiti che spettano alle forze rivoluzionarie prima e

dopo la creazione di uno stato socialista. Se Gramsci è convinto,infatti, che «solo dopo la creazione dello Stato il problema cultu-rale si impone in tutta la sua complessità e tende ad una soluzio-ne coerente» ciò non significa che egli ritenga che si debbarinunciare a lottare per quella affermazione. In questi casi, però,l'atteggiamento da tenere nei confronti del problema culturaledovrà essere particolare: in situazioni, infatti, in cui la nuova for-mazione statale è ancora lontana e la realtà culturale, di conse-guenza, «una combinazione variabile di vecchio e di nuovo, un

equilibrio momentaneo dei rapporti culturali corrispondenteall'equilibrio dei rapporti sociali», quando cioè quella concezio-ne originale e indipendente che pure dovrà nascere è ancoraavviluppata nei lacci e nelle contraddizioni della vecchia società,l'atteggiamento culturale da tenere dovrà essere - precisa Gram-sci - critico-polemico, mai dogmatico 26 .

Si tratta di una affermazione di grande rilevanza metodolo-gica che prefigura non solo gli obiettivi, ma le stesse modalità o,potremmo dire con terminologia moderna, le «forme di genere»

della critica materialistica, il cui modello, come cercherò didimostrare, è proprio Marx.

Sin dagli anni torinesi allorché riversa la sua sferzantedisposizione critica in dissacranti rubriche di satira del costume edi cronaca teatrale, sulle pagine del «Grido del popolo» prima,dell'«Avanti» poi, Gramsci, pienamente consapevole di doverdar vita a pratiche e a forme di lavoro critico-culturale profonda-mente nuove, e di dover utilizzare, pertanto, un atteggiamento euno stile altrettanto nuovi, deve aver tenuto presenti le pagine

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polemiche della Sacra famiglia. In quelle pagine in cui la critica diMarx aveva rivolto i propri strali, da un lato, contro la pericolosae reazionaria astrattezza della speculazione filosofica posthegelia-na, dall'altro, contro la dimensione grettamente borghese dellastucchevole, ipocrita ideologia democratica di Eugene Sue, lacapacità di rivelare cosa si nascondesse sotto la superficie diquelle forme solo apparentemente progressive era in gran partemerito dello stile, sarcastico, appassionato, paradossalmente cor-rosivo. Uno stile di cui lo stesso Marx aveva teorizzato l'incisivitàe l'efficacia politico-culturale quando, a proposito di Proudhon,aveva sostenuto, in una lettera pubblicata su «Soziai Demokrat»nel gennaio 1865, che la superiorità della sua prima opera Quest-

ce qu'est la Proprieté  sulle altre era dovuta più che alla novitàdell'argomento alla «maniera nuova e ardita di dire le cose». Aparere di Marx erano state proprio «l'audacia provocante concui Proudhon aveva portato la mano sul santuario economico, iparadossi spirituali con cui si era burlato del grosso senso comu-ne borghese, la sua critica corrosiva, la sua amara ironia, mista aun sentimento di rivolta profondo e vero contro le infamiedell'ordine di cose stabilito, il suo spirito rivoluzionario» 2 7 adelettrizzare i lettori e a suscitare un potente movimento fino dallacomparsa del libro.

Gramsci doveva sicuramente conoscere questa lettera pub-

blicata in appendice alla Miseria della Filosofia, volume edito unaprima volta da Mongini nel 1909, e riprodotto, insieme ad altreopere, nel primo volume delle Opere di Marx Engels Lassarle, icui 7 volumi la casa editrice dell'«Avanti» pubblicò a Milano trail 1914 e il 1916, e non è difficile pensare che, anche a causa dellacoincidenza di date, abbia tenuto presente questa osservazione diMarx, riprendendo idealmente il filo di una certa tradizione discrittura socialista, quando, dopo aver optato per il giornalismomilitante, si accinse a crearsi uno stile adeguato a quei compiti.

E stato già notato come lo stile della scrittura giornalisticadi Gramsci costituisca un apax nella tradizione della prosa italia-na, costruito com'è su un connubio inedito tra il carattere rigoro-so e martellante dell'argomentazione e l'effetto icastico e brillan-te della deformazione espressionista28 . Romain Rolland, in unprofilo gramsciano del 1934, l'aveva paragonato a quello diPéguy, ma forse non è troppo avventato sostenere che esso deri-vi, invece, da suggestioni marxiane soprattutto se proprio al sar-

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casmo graffiante, come già aveva teorizzato Marx, Gramsci rico-noscerà nei Quaderni del carcere la capacità di squarciare il velodelle illusioni popolari, il merito di distruggere vecchi luoghicomuni.

E una tesi, quest'ultima, che Gramsci svolge in una nota delI Quaderno 2 9, a conferma dell'attenzione per la funzione rivolu-zionaria di un simile atteggiamento, contemporaneamente ideo-logico e stilistico, un atteggiamento che in questa occasione eglidefinisce, con una formula particolarmente felice, «sarcasmoappassionato» e di cui individua proprio in Marx «l'espressionepiù alta anche esteticamente».

La nota ha un valore metodico esemplare: in essa infattiGramsci eleva il sarcasmo marxiano a strumento privilegiato -

tanto sul piano dell 'atteggiamento critico che su quellodell'espressione stilistica - di una battaglia culturale che si propo-ne programmaticamente di favorire «il distacco dalle vecchie con-cezioni in attesa che le nuove concezioni, con la loro saldezzaacquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino ad acqui-stare la forza delle 'convinzioni popolari'» 30 . Il sarcasmo che colpi-sce le illusioni popolari non mira, infatti, a mettere alla berlina «ilsentimento più intimo di quelle illusioni», ma a portare le classipopolari ad un grado di consapevolezza critica che renda possibile

l'estrinsecazione piena ed autentica del vero «nucleo umano» rac-chiuso in quelle illusioni. «Di fronte alle 'illusioni popolari' (cre-denza nella giustizia, nell'uguaglianza, nella fraternità, cioè neglielementi della 'religione dell'umanità') Marx - precisa Gramsci -si esprime con 'sarcasmo' appassionatamente 'positivo', cioè sicapisce che egli non vuol dileggiare il sentimento più intimo diquelle 'illusioni', ma la loro forma contingente legata a un deter-minato mondo 'perituro', il loro puzzo di cadavere, per così direche trapela dal belletto» 3 1. Sarcasmo da distinguere - di conse-

guenza - dal «sarcasmo 'di destra', che raramente è appassionato,ma è sempre 'negativo', puramente distruttivo, non solo della 'for-ma' contingente, ma del contenuto 'umano' di quei sentimenti» 32.

Fonte e modello di questa forma di critica è la Sacra Fami-

glia e in essa l'analisi e il giudizio sui Misteri di Parigi ; lo confer-

ma Gramsci stesso quando, a proposito del contenuto «umano»delle illusioni popolari, appunta come personale indicazione diricerca: «vedi in Marx stesso quale significato occorre dargli,specialmente La Sacra Famiglia»."

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Ora se sviluppiamo questa indicazione gramsciana notiamoche il nucleo di valori da salvare e far maturare criticamente ha ache fare con un nucleo di sentimenti, comportamenti, concezionidella vita proprio alle classi popolari. Ciò che Marx era riuscito apreservare dalla sarcastica demolizione cui aveva sottoposto iprocessi di sublimazione con cui Sue e la «critica critica» aveva-

no idealizzato la rappresentazione delle classi popolari era, infat-ti, «l'essenza naturale» di quei personaggi popolari, i loro impulsiumani cioè non ancora soggetti alle «catene della vita civile»: nelcaso specifico di Fleur-de-Marie, ad esempio, quel «principiostoico ed epicureo di donna libera e forte che dimostra come lasituazione civile» - la condizione degradata cioè di prostituta -«avesse sfiorato solo la sua superficie», come fosse frutto di«semplice cattiva sorte», e come essa stessa non fosse «nè cattiva,nè buona, ma umana»34 ; o, ancora, nel caso di Rigolette, l'amabi-le sartina di Parigi, «quel suo passar sopra la forma del matrimo-nio, il suo rapporto ingenuo con Yétudiant  e con Youvrier... cheforma un contrasto veramente umano con la bigotta, meschinaed egoistica moglie del borghese, con tutta la sfera della borghe-sia, cioè con la sfera ufficiale»' 5.

Illustrando sarcasticamente la trasformazione dello Chouri-neur in «bulldog morale», l'idealizzazione borghese della Rigo-lette e la beatificazione di Fleur-de Marie operata da Eugenio

Sue, Marx si era limitato, infatti, a colpire solo la «forma contin-gente» in cui quelle aspirazioni popolari avevano trovato espres-sione e soddisfazione, quel meccanismo di idealizzazione cioè sucui si fondava la tensione speculativa impressa al romanzo daSzeliga e che consisteva nell'assimilazione mistificante delle istin-tive, indefinite aspirazioni popolari entro i parametri imbalsamatidi una morale assoluta, che altro non era, invece, che un'ipocritamorale di classe. Agli occhi di Gramsci ciò non significava peròche Marx intendesse giustificare l'elementarità e l'istintività di

quel nucleo umano di aspirazioni; come Gramsci dimostrava diaver perfettamente capito il risultato che Marx si proponeva era,anzi, proprio quello di «dare a certe aspirazioni una forma nuo-va», di cercare quindi «di rinnovare quelle aspirazioni» 36 .

Vediamo dunque profilarsi in questa nota un ben determi-nato genere di critica la cui natura polemica risulta particolar-mente adatta alle fasi storiche di transizione, quando alle forzeprogressive spetta il compito di favorire, nel vivo di una appas-

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sionata battaglia culturale, quel distacco dalle vecchie concezionisenza il quale gli elementi della nuova, rivoluzionaria concezionedel mondo generati dallo sviluppo storico mai potranno acquisi-re coerenza ed organicità.

A questo specifico atteggiamento critico e a questa finalitàpolitico-culturale mi sembra vada riportato innanzitutto il parti-colare significato che l'attività critica assume nel quadro com-plessivo dell' attività intellettuale gramsciana; esso spiega naturae finalità di gran parte delle note del carcere riservate a questioniletterarie: quelle dedicate alla letteratura popolare, al folklore, alsenso comune, ma anche molte delle note comprese nella rubrica

 / nipotini di padre Bresciani, sì che non sarebbe difficile definire

con l'etichetta di «sarcasmo appassionato» l'intera attività criti-

co-letteraria di Gramsci. Va sottolineato però che essa risultaparticolarmente illuminante per spiegare quello che a molti intel-lettuali degli anni Sessanta e Settanta sembrò un giudizio partico-larmente ambiguo: quella legittimazione dei romanzi d'appendi-ce considerata un ingiustificato cedimento alla demagogia cultu-rale. Lungi dall'essere frutto di una accettazione acritica, quellalegittimazione era, coerentemente alle premesse implicite nel sar-casmo appassionato, il risultato tanto della constatazione dellafondamentale arretratezza di quelle forme culturali, quanto del

riconoscimento della loro capacità di soddisfare un nucleo di esi-genze elementari autentiche, ed era inscindibile, perciò, dal desi-derio e dalla volontà di far maturare quelle esigenze, di elevarlecioè ad un grado di elaborazione culturale superiore.

Per dissipare, d'altronde, quelle polemiche sarebbe bastatocitare e analizzare la difesa che Gramsci fece, in riferimento al Icapitolo del Capitale,

37 dell' atteggiamento marxiano nei confron-ti del senso comune: « Un accenno al senso comune e alla saldez-za delle sue credenze si trova spesso in Marx. Ma si tratta di riferi-

mento non alla validità del contenuto di tali credenze, ma appun-to alla loro formale saldezza e quindi alla loro imperatività quan-do producono norme di condotta. Nei riferimenti è anzi implicital'affermazione della necessità di nuove credenze popolari, cioè diun nuovo senso comune e quindi di una nuova cultura e di unanuova filosofia che si radichino nella coscienza popolare con lastessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali» 38.

Più e prima che da De Sanctis è ipotizzabile dunque che pro-prio da Marx Gramsci avesse ricavato, oltre alla dimostrazione

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dell'importanza fondamentale che la battaglia culturale riveste nel-la lotta di classe, e la conferma del ruolo che un certo tipo di giudi-zio critico-polemico vi deve giocare, anche l'esempio delle formecon cui quel giudizio doveva trovare espressione in un periodo -come lo definì Gramsci stesso - di grandi lotte culturali.

Se ora dal piano dell'atteggiamento metodico - e dello stilea quello più confacente - passiamo a considerare il piano specifi-co della riflessione letteraria, constatiamo non solo che vi sonodiverse analogie con il pensiero di Marx, tutte in gran parte giànote e analizzate, ma che le suggestioni marxiane vi svolgono unimportante ruolo di stimolo problematico.

Penso, ad esempio, al problema del rapporto con la culturae la letteratura del passato che, a chi non voleva accettare passi-vamente l'autorità della tradizione e i valori indiscussi su cuiquella si fondava e intendeva contrapporre un proprio autonomoe originale punto di vista al giudizio borghese sull'arte, poneva ildifficile compito di analizzare e spiegare in termini materialisticila stessa sopravvivenza dell'arte del passato.

Era un problema che Marx si era posto con grande luciditànel 1858 nel manoscritto dell' introduzione alla critica dell'econo-

mia politica39 quando si era chiesto per quali ragioni l'epopea,

espressione di una civiltà scomparsa e per di più forma d'arteincompatibile con il moderno sistema di produzione artistica,

continuasse a procurare piacere estetico.Era comunque un problema - quello del rapporto con leforme culturali e sociali del passato - che, sotto altra forma,Marx aveva affrontato anche in Per la critica della filosofia del

diritto di Hegel, là dove aveva teorizzato, sulla base di uno spun-to hegeliano, che, delle tante fasi che una forma storica attraversaprima di scomparire, l'ultima è sempre <da sua commedia» 40 ; e, inparticolare, nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (entrambe opereben note a Gramsci) dove aveva tentato di spiegare il ricorso a

ideali e simboli del passato e l'uso di riti e costumi ormai scom-parsi con due ordini di considerazioni: la constatazione, da unlato, che proprio nelle epoche di forti rivolgimenti sociali, quan-do gli uomini si battono per modificare se stessi e la realtà, essi sirivolgono alle età eroiche del passato, cui chiedono in prestitoparole d'ordine, nomi, comportamenti, costumi per poter appa-rire sulla nuova scena della storia agghindati con un travestimen-to rispettabile; l'invito, dall'altro, a distinguere la qualità di quel

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ricorso, a constatare, volta per volta, se la resurrezione dei mortiservisse, com'era avvenuto nel corso della Rivoluzione francese odella rivoluzione inglese di Cromwell, a potenziare le battaglie delpresente o, invece, a parodiare quelle del passato; ad ingigantire il

proprio compito storico o, invece, a sottrarvisi; a ritrovare lo spiri-to della rivoluzione o, invece, solo ad evocarne lo spettro, comeera avvenuto nel 1852 con il colpo di stato di Luigi Bonaparte 4 1 .

È indubbio che si tratta di un tema su cui anche Gramsciriflette a lungo e che affronta in diverse note dei Quaderni. Lapiù conosciuta è probabilmente la Nota 16 del Quaderno 6 incui, partendo da un'osservazione di Ugo Ojetti contenuta nella

 Lettera a Umberto Fracchia sulla critica, Gramsci denuncia, in

modi che ricordano il ragionamento del 18 Brumaio, l'uso

sostanzialmente retorico del passato. «Questa osservazione - silegge a conclusione della nota - è fondamentale per un giudiziostorico sulla presente cultura italiana; il passato non è vivente nelpresente, non è un elemento essenziale del presente, cioè nellastoria della cultura nazionale non c'è continuità e unità. L'affer-mazione di questa continuità ed unità è un'affermazione retoricao ha un valore di propaganda, è un atto pratico in quanto la sivuol creare artificialmente, ma non è una realtà in atto. Il passa-to, la letteratura compresa, è visto come elemento di cultura sco-

lastica, non come elemento di vi ta»4 2

.Si può dire però che questo tema, ben al di là di puntuali

possibili riscontri, condizioni tutta la riflessione gramsciana sullaletteratura offrendo rivoluzionarie prospettive di giudizio. Pro-prio nella capacità delle opere letterarie di sopravvivere al pro-prio tempo storico, divenendo elemento vivo delle dialettica sto-rica del presente, Gramsci individua, infatti, uno dei più efficacimetri di misura per mettere a punto il proprio particolare giudi-zio sulla letteratura e commisurare nello stesso momento vitalità

sociale e valore artistico delle singole opere letterarie.

All'influenza della lezione dei fondatori del materialismostorico va collegato anche un altro gruppo di note, stese soprat-tutto negli ultimi quaderni miscellanei, in cui Gramsci si interro-ga esplicitamente sui criteri cui avrebbe dovuto ispirarsi la criticaletteraria di impostazione materialistica45 .

La ragione di questo approfondimento teorico nasce, pro-

babilmente, dal confronto con il manuale popolare di sociologia

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marxista di Bucharin e si inserisce, dunque, in quella critica dellariduzione del marxismo a sociologia che permea tutto il bloccodi note riservato al Saggio popolare. È indubbio infatti che la nota214 del Quaderno 8, che porta il titolo significativo Saggio popo-

lare. Spunti di estetica e di critica letteraria, sia l'estensione al pia-

no del giudizio critico-artistico della denuncia dei limiti e delle

contraddizioni in cui stava scivolando il marxismo sovietico.Lo spunto concreto del contendere consiste nel giudizio

espresso da Bucharin sul Prometeo di Goethe, un giudizio consi-derato da Gramsci meccanico e superficiale e paragonato, non acaso, a quello, ben più problematico di Engels, che egli però, sul-la base dell'erronea attribuzione operata dal testo in suo possesso- un'antologia tedesca di scritti marxiani curata da Drahn - rite-neva formulato, invece, da Marx.

La nota, che riassume alcune ipotesi di un articolo di Leo-nello Vincenti apparso sul «Leonardo» nel marzo 1932, e illustraalcune tesi sull'ode goethiana che giustificano - come segnalaesplicitamente Gramsci - «il breve scritto di Marx e lo illumina-no», si apre, significativamente, con un avvertimento emblemati-co: «Raccogliere tutti gli spunti di estetica e di critica letterariasparsi nel Saggio popolare e cercare di ragionarvi su» 4 4. L'implici-to confronto rivela che, mentre agli occhi di Bucharin, che appli-cava anche all'arte e alla letteratura un rigido schema di rappre-

sentatività sociologica, il mito di Prometeo, di cui - come Gram-sci sottolinea polemicamente - egli ignorava totalmente storia efortuna precedenti e contemporanee, appare come la rappresen-tazione delibazione sempre più vittoriosa dell'uomo sulla naturae la sua forza attiva» 45 , agli occhi di Engels esso esprime invecel'atteggiamento profondamente contraddittorio di Goethe, divi-so tra ispirazione titanica alla ribellione ed una più cauta edintroversa resistenza al potere4 6.

Gramsci, che conosceva molto bene sia l'ode, per averla

appena tradotta, sia la bibliografia critica intorno ad essa, notava,dunque, che con il metodo di Bucharin veniva meno la stessapossibilità di distinguere tra ciò che era proprio a Goethe e ciòche, invece, era un elemento rappresentativo di un'epoca e di ungruppo sociale, laddove «questo genere di giudizi - come sentivail dovere di precisare - in tanto sono giustificati in quanto sononon generici, ma specifici, precisi, dimostrati» 47 . Di fronte allasuperficialità di certe applicazioni meccaniche destinate «solo a

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diffamare la teoria e a suscitare dei faciloni superficiali, i qualicredono d'avere tutta la storia in tasca perchè sanno sciacquarsila bocca con delle formule che sono fatte diventare delle frasi fat-te, delle banalità» 4 8, Gramsci capiva l'urgenza di contrapporrealla schematicità di quell'approccio un giudizio capace di rispet-tare la complessità dell'apporto artistico individuale, delineandoun concetto di rappresentatività capace di tener conto di tutte lecomplesse forze in gioco e delle loro infinite reazioni: indicazio-ne di metodo e di sostanza che, ancora una volta, Gramsci sisforzava di ricavare proprio dalla lezione di Marx.

Che in qualche modo quest'ordine di riflessioni fosse legatoalla battaglia antideterministica che Gramsci aveva dichiarato almaterialismo volgare e intendesse contestare una applicazione

troppo meccanica del rapporto tra produzione e riproduzionedella realtà è dimostrato dal fatto che Gramsci associa a questeconsiderazioni l'invito a «richiamare sempre la frase di Engelsnella sua lettera a uno studente pubblicata nell" Accademia socia-lista'»: quella celebre argomentazione per mezzo della qualeappunto Engels aveva liquidato ogni mitica aspettativa di nessicausali, ricavabili da semplici accostamenti o derivazioni di serieparallele.49

Forse è solo alla luce di questa implicita contrapposizione

alle posizioni dell'«ortodossia» sovietica che si può rileggere lafamosissima nota del Quaderno 23 titolata da Platone Arte e lot-

ta per una nuova civiltà. Alla luce di questa contrapposizione siala polemica nei confronti del modo con cui il materialismo mec-canico concepiva il rapporto artistico, sulla base cioè di unmodello di rappresentatività sociale incapace di distinguere trachi era artista e chi non lo era 5 0 , sia, soprattutto, il duro com-mento gramsciano ai limiti «scientifici» di quelle posizioni 51 , sirivelano spie dell'ambizione di dotare la «filosofia della praxis»,

anche in questo specifico campo dominato dalla critica idealisti-ca, di un autonomo ed agguerrito strumento di giudizio, capacedi contrapporsi a quello della critica borghese rendendo ragionedi tutti i diversi aspetti ed elementi dell'arte, di tutti i modi, diconseguenza, diversi e sempre più complessi con cui l'arte, la let-teratura, il cinema esercitavano la propria funzione sociale.

Si può dire che con questa nota Gramsci chiami in causaproprio quella rigida identificazione tra l'arte e l'ideologia pro-gressiva che avrebbe portato di lì a poco, (nel I Congresso degli

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scrittori socialisti) tutta la critica sovietica a fare propria la parolad'ordine del «realismo socialista». Al rigido schematismo socio-logico dei falsi eredi del marxismo Gramsci contrappone, infatti,un concetto di rappresentatività molto più articolato, suggerendoimplicitamente che, se per il politico, che non potrà mai avere lastessa prospettiva dell'artista, e non sarà, dunque, «mai contento

dell'artista»3 2

, rappresentativo di un determinato ambientesociale sarà sempre colui che rappresenta quell'attività fonda-mentale della vita che predomina sulle altre - l'attività progressi-va, potremmo dire -, per l'artista o il critico rappresentativopotrà essere, in alcuni casi, anche chi del momento storico«esprime gli elementi «reazionari» e anacronistici», anche se siintuisce che ai suoi occhi l'artista realmente rappresentativo èquello capace di esprimere «tutte le forze e gli elementi in con-trasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni dell'insie-

me storico-sociale»Questo tipo di argomentazioni sembra aprire la strada ad

una distinzione tra il riconoscimento del valore estetico diun'opera e la sua valutazione ideologica, della cui legittimitàGramsci doveva aver già trovato conferma in alcuni giudizi diMarx ed Engels. Alludono ad essa infatti sia la convinzione chel'ammirazione estetica può a volte convivere con un certodisprezzo ideologico, ricavata, con buona probabilità, proprio

dai giudizi di Marx su Goethe e su Balzac, sia l'interesse ricor-rente per l'ammirazione manifestata dai fondatori del materiali-smo storico per Balzac e per le motivazioni con cui Engels avevagiustificato questo apprezzamento54 .

Questo riferimento merita una piccola digressione. Si è cre-duto per molto tempo, sulla base soprattutto di una nota di reda-zione di Letteratura e vita nazionale, che Gramsci conoscesse la

lettera di Engels a Margaret Harkness contenente un precisoaccenno al realismo batacchiano. In realtà oggi sappiamo, grazie

all'encomiabile lavoro dell'edizione Gerratana - mai sufficiente-mente lodato - che molto difficilmente Gramsci poteva conosce-re, se non indirettamente, questa o altre lettere sull'argomento. Èvero infatti che nella Nota 230 del Quaderno 8 La religione, il

lotto, l'oppio del popolo - Gramsci dimostra di sapere che in

quello scorcio di tempo, da lui localizzato con un margine didubbio nel 1931, era «stata pubblicata una lettera inedita diEngels su Balzac e l'importanza che occorre attribuirgli», ma è

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altrettanto vero che neppure gli scrupolosissimi collaboratori diGerratana sono riusciti a scoprire da dove Gramsci potesse deri-vare quella notizia. Gramsci non poteva conoscere infatti l'anto-logia francese del Fréville, citata in nota nell'edizione Platone,

perchè pubblicata solo nel 1936, e difficilmente poteva aver pre-so visione di quelle lettere da altre fonti dato che queste furonopubblicate sulla rivista «Litératournoé Nasledstvo» solo nel1932. Ciò non toglie che egli seguisse, sulle pagine delle rivisteitaliane e straniere 55 , preannunci e recensioni di tutte le pubblica-zioni che riguardassero gli argomenti su cui autonomamenterifletteva e che da qualcuna di esse avesse in teoria potuto ricava-re anticipazioni sul contenuto di quelle lettere e sul significatoche esse erano destinate ad assumere nel dibattito sull'arte degli

anni Trenta56

.Distinguere tra giudizio estetico e giudizio ideologico, come

già avevano fatto Marx ed Engels, non significava però ammette-re o reintrodurre l'autonomia dell'arte, né in alcun caso rinuncia-re al compito di capire e giudicare l'efficacia sociale dell'arte, ilcontributo cioè da essa portato alla comprensione della realtà edelle sue contraddizioni. Ma piuttosto ricordare che il giudizioideologico doveva essere ricavato da fattori meno meccanici diquelli sociologici, e che tra l'uno e l'altro si dovevano cercare tut-

ti i rapporti possibili di connessione. E l'ipotesi che Gramsciavanza, mi sembra, (e il mi sembra è doveroso di fronte ad affer-mazioni che sono e restano estremamente sfuggenti e che posso-no dar luogo solo a congetture) nella Nota 38 del Quaderno 15quando afferma che la ricerca del carattere artistico di un'operanon esclude la ricerca di quale massa di sentimenti, di qualeatteggiamento verso la vita circoli nell'opera d'arte stessa, né laricerca del grado di sincerità con cui lo scrittore vive ed esprimeil proprio contenuto 5 7 .

Non è difficile provare che, sul piano strettamente artistico,la qualità di un'opera aveva sempre avuto per Gramsci qualcosaa che fare con la capacità di trasferire in un organismo esteticovivo ed autonomo la propria sincera e sofferta reazione umana almondo rappresentato. Si tratta di una indicazione - quella relati-va alla sincerità dell'ispirazione artistica - che indubbiamente hamolti punti di contatto con il concetto desanctisiano di realismo,dato che nella concezione di De Sanctis il realismo, più che unaforma di rispecchiamento oggettivo della realtà, è l'immagine

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riflessa di questa nella mente dell'artista, arricchita della sua rea-zione morale. Il tema della sincerità dell'artista presenta, però,singolari analogie anche con la concezione marxiana dell'arte.Alla necessità di una partecipazione emotiva dell'artista avevaalluso infatti anche Marx, in uno dei primi commenti alle discus-sioni del sesto Landtag delle province renane intorno al proble-

ma della libertà di stampa5 8

, quando, riprendendo un'afferma-zione di Goethe, aveva sottolineato come «al pittore riesconosolo quelle bellezze femminili, il cui tipo ha amato almeno inqualche persona vivente» 59 . Proprio in quell'occasione Marx ave-va dimostrato, inoltre, di credere che la la libertà e la sinceritàdell'artista costituissero le premesse indispensabili alla riuscitaestetica: ricordando che «il poeta scende dalla sua sfera se la poe-sia diventa un 'mezzo'» 6 0 aveva postulato, infatti, un nesso diimplicazione reciproca tra fedeltà alla propria ispirazione e valo-re artistico, nesso che richiama da vicino il rapporto di incompa-tibilità che Gramsci istituisce tra la letteratura «commerciale»,ispirata a preoccupazioni pratiche esteriori, posticce e insincere,e riuscita artistica 61 .

Queste non sono, ovviamente, le sole analogie che si posso-no istituire tra Marx e Gramsci sul piano della riflessione riserva-ta all'arte; incredibilmente simili sono infatti le loro predilezioni

in fatto di letteratura, frutto di una profonda affinità di gusto.L'ammirazione per Dante, per Shakespeare, per Goethe siaccompagna in entrambi a quella per i grandi realisti europei:per Dickens e Balzac in Marx, per Tolstoj, Dostoevsky e Mau-passant in Gramsci. Altrettanto simile è il loro concetto di reali-smo, identificato con la capacità di rappresentare, con la concre-tezza e il rispetto della complessa articolazione della realtà, l'urtotra concezioni antitetiche della vita. Si tratta però, sempre, dianalogie che noi possiamo sottolineare o istituire essenzialmente

sulla base di un confronto «a posteriori»6 2

. Ciò che mi premevainvece dimostrare in questa sede è il fatto che, indipendentemen-te dalle somiglianze che si possono individuare tra le posizionidei due autori, il richiamo al pensiero di Marx, anche in questospecifico campo di interessi, nasce in Gramsci da una esigenza diapprofondimento problematico interna alla teorizzazione dellafilosofia della praxis, dalla consapevolezza di quanto fosse neces-sario forgiarsi strumenti duttili ed efficaci sia per giudicare il gra-

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do di verità, di coerenza e di sincerità della rappresentazioneartistica, sia per valutare gli effetti emotivi e intellettuali chequella particolarissima forma di esperienza poteva produrre suilettori. Il fatto che senza conoscere le riflessioni più significative

di Marx e di Engels Gramsci fosse arrivato su molti punti a con-clusioni analoghe prova come, tanto negli uni come nell'altro, lapreoccupazione che guidava le loro riflessioni fosse, innanzitutto,quella di capire il ruolo che la letteratura poteva giocare nelladifficile lotta per costruire una nuova civiltà, in quel complessomeccanismo di formazione di una nuova cultura, di una nuovamentalità, di cui poteva favorire la maturazione, ma anche ritar-dare o confondere lo sviluppo.

NOTE

1 KARL MARX FRIEDRICH ENGELS, La littérature et l'art, textes choisis pre-

cedei d'une introduction de Maurice Thorez et d'une étude de Jean Fréville, Editions Sociales, Paris 1954. Una prima edizione ridotta dell'antologia era giàuscita nel 1936.

2 KARL MARX-FRIEDRICH ENGELS, Scritti sull'arte, a cura e con una Introdu- zione di Carlo Salinari, Laterza, Bari 1960.

5 Secondo gli esegeti di Gramsci andrebbe riferita proprio a Lenin l'osser-vazione: «Un uomo politico scrive di filosofia: può darsi che la sua 'vera filosofia'sia invece da ricercarsi negli scritti di politica», Q 1493.

 4 Filosofia politica economia, Quaderno 11, Nota 65, p. 1493.5 Ivi, p. 1492.6 Articolo pubblicato sull'«Avanti» il 21 settembre 1918 ora in II nostro

 Marx, Einaudi, Torino 1984, pp.300-302.7 Su questo tema confronta in particolare La critica critica, un articolo pub-blicato sul «Grido del popolo» il 12 gennaio 1918, ora in La città futura, Einaudi, Torino 1982, pp. 554-558.

8 Con l'eccezione di Antonio Labriola che già alla fine dell'Ottocento ave-va capito l'importanza di queste opere e suggerito ad Engels di fare una riprodu-zione anastatica della Sacra famiglia, testo ormai introvabile. L'opera di Engels eMarx fu ristampata solo nel 1902 e in traduzione italiana ancor più tardi, nel1909.

' Opera, quest'ultima, a cui vi è un accenno, anche se indiretto, in un arti-colo apparso sull'«Avanti» il 1° maggio 1920: I risultati ottenuti, ora in L'Ordine

nuovo, Einaudi, Torino 1987, pp. 498-499.

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1 0 MARX ENGELS LASSALLE, Opere a cura di Ettore Ciccotti, Società Editrice«Avanti», Milano 1914. Il volume, come si legge nell'Indice, comprende leseguenti opere di Carlo Marx: DLe discussioni del sesto Landtag delle Province

 Renane (1842); 2)Un Carteggio del 1843. Per la critica della filosofia del diritto diHegel. Per la questione degli Ebrei (1844) ; 3)Miseria della filosofia (Risposta allaFilosofia della miseria del signor Proudhon con una prefazione di FedericoEngels (1847) ; 4)11 Manifesto del Partito Comunista con un nuovo proemio al let-

tore italiano di Federico Engels (Scritto in unione a Federico Engels) (1848) ; 5)lnnanzi ai giurati di Colonia. Processo contro il presidio della democrazia rena-na, con prefazione di Federico Engels (9 febbraio 1849) ; 6)Le lotte di classe in

 Francia dal 1848 al 1850 con prefazione di Federico Engels (1850) ; 1)11 Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte (1852) ; ^Rivelazioni sul processo dei Comunisti inColonia con una introduzione di Federico Engels «Per la storia della Lega deiComunisti».

" Valga per tutti l'articolo già citato La vera crisi: «Ma è meglio, giacché siè in argomento, mettere il dito sulla piaga e parlare una volta aperto. La crisi, lavera crisi, di parecchie anime socialiste poste eternamente nel bivio del sociali-smo e del suo contrario - da non confondersi con la insussistente crisi del sociali-

smo - è il prodotto di una falsa concezione della realtà, contro la quale un po'inconsciamente il Partito si è levato da qualche tempo, sebbene non abbia avutoil coraggio di prendere il toro per le corna. Condividono, purtroppo, questa falsaconcezione della realtà economica, politica e sociale, i nostri compagni, in un cer-to senso, maggiori; i quali si vantano di avere afferrata la verità trent'anni orsono, e chiamano moda tutta la coltura che li ha superati. Essi, se contraddetti, siappellano a Marx; ma, ahimè, quale travisamento! Marx fra le loro mani diventail più opportunista e gretto dei positivisti. Se alcuno osa affermare che l'idea è ilprincipio del fatto, e che il fatto si risolve nell'idea, è trattato da utopista. Eppuresollevando la praxis marxistica al suo integrale valore, non è difficile vedere qualeparte il filosofo-economista di Treviri abbia fatto al soggetto, all'io, nella realizza-zione del tutto sociale. Quella che si suol chiamare realtà esterna, non è qualcosadi fisso, di rigido, di completamente separato e indipendente dall'idea: istituzionieconomiche e politiche non sono fuori della nostra volontà e della nostra influen-za. Il positivismo ha, sì, insegnato ad astrarre il soggetto dall'oggetto, l'ideadall'azione, la forma dalla materia. Ma tutte le scuole filosofiche moderne tendo-no alla correzione dell'errore: non più astrazione e separazione, ma azione reci-proca, unità. La forma non è vuota, ma efficiente; l'oggetto è nel soggetto e vice-versa; agire è intendere, e intendere è agire», ora in II nostro Marx, p. 301.

12 Ora in Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1972, pp. 12-13." MARX ENGELS LASSALLE, Opere, voi. I, cit., p. 29.14 Lettera del 14 gennaio 1924 in Lettere 1908-1926 a cura di Antonio San-

tucci, Einaudi, Torino 1992, p. 190.15 Lettera a Zino Zini del 10 gennaio 1924 in op. cit., p. 173.16 Come si ricava dalla lettera a Tatiana del 29 giugno 1931: «Ho ricevuto

già da un pezzo i 3 volumi delle Oeuvres philosophiques di Marx che sono tradot-ti in modo scelleratissimo» in ANTONIO GRAMSCI-TATIANA SCHUCHT,  Lettere 1926-1935 a cura di Aldo Natoli e Chiara Daniele, Einaudi, Torino 1997, p. 727.

17 Che spingono Gramsci a rileggere la Miseria della Filosofia come unaapplicazione concreta di quelle Tesi e a vedere invece nella Sacra Famiglia solouna tappa di quel processo, come si legge nella nota 38 del Quaderno 4,  Rapporti tra struttura e superstrutture, Q 463.

18 Quaderno 4, Nota 11, Problemi fondamentali del marxismo, Q433.

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" Quaderno 11, Nota 27, Concetto di «ortodossia», Q 1434.20 Si tratta di uno dei temi centrali della riflessione carceraria svolto estesa-

mente sul piano teorico per la prima volta nella notissima Nota 38 del Quaderno4, Rapporti tra struttura e superstrutture, Q 455-465.

21 Di queste pericolose tendenze Gramsci parla, - e non a caso a propositodella necessità di dare una «base scientifica al materialismo storico», come soloLabriola aveva cercato di fare - nella Nota 31 del Quaderno 3,  Riviste tipo, Q309.

22 Cfr. Q 422. La citazione è tratta da una delle note più interessanti delQuaderno 4, la Nota 3,  Due aspetti del marxismo,  che Gramsci rielaborerà poinella nota 2 del Quaderno 16,  Quistioni di metodo. In essa, richiamandosi allalezione di Labriola, Gramsci affronta il tema della «doppia revisione» del marxi-smo ed attribuisce all'incapacità di elaborare una cultura in grado di superare lepiù alte manifestazioni culturali della propria epoca e di creare, nello stesso tem-po, un movimento capace di coinvolgere tutta la società, la vera causa della scon-fitta del socialismo.

2 3 Q 423.2 4 FABIO FROSINI,  Il 'ritorno a Marx' nei Quaderni del carcere di Antonio

Gramsci (1930), in «Problemi» n° 111, maggio-agosto 1998, pp. 106-129.25 Anch'essa in qualche modo collegata alla nota 3 del Quaderno 4.26 Q 1863. Il ragionamento si conclude con questa frase: «In ogni caso

l'atteggiamento precedente alla formazione statale non può non essere critico-polemico, e mai dogmatico, deve essere un atteggiamento romantico, ma di unromanticismo che consapevolmente aspira alla sua composta classicità».

2 7KARL MARX, Proudhon giudicato da Marx, Appendice 1 alla Miseria della

 filosofia, in MARX ENGELS LASSALLE, Opere, Voi. I, cit., p. 119.28 Su questo tema cfr. la prima parte della mia Introduzione a Gramsci, 

Laterza, Bari 1996. 2

' Quaderno 1, Nota 29, Il sarcasmo come espressione di transizione negli storicisti, pp. 23-24.

3 0 Ivi, p. 24.11 Ivi, p. 23.52

Ivi, pp. 23-24.

" Ivi, p. 24.' 4 Cfr. KARL MARX, La sacra Famiglia ovvero Critica della critica critica.

Contro Bauer e soci, a cura di Aldo Zanardo, Editori Riuniti, Roma, p. 223.35

Ivi, p. 95.3 6 Q 24.

" Cfr. Nota 13 del Quaderno il,Osservazioni e note critiche su un tentati-

vo di «Saggio popolare di sociologia». 38 Q 1400.39 II testo marxiano fu pubblicato per la prima volta, per opera di Kautsky, 

nel 1903, sulla rivista «Die neue Zeit», il che non favorì la sua circolazione; è pro-babile, di conseguenza, che Gramsci non ne avesse una conoscenza diretta.

40 Si tratta del seguente passo: «L'ultima fase di una forma storica mondia-le è la sua commedia. Gli dei della Grecia, che già una volta erano stati tragica-mente feriti nel Prometeo legato di Eschilo, dovevano morire un'altra volta comi-camente nella prosa di Luciano...», in MARX ENGELS LASSALLE,  Opere, voi. I, cit., pp. 26-27.

4 1Cfr. KARL MARX, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, in MARX ENGELS LAS-

SALLE,  Opere, voi. I, cit., pp. 7-9.

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42 Quaderno 6, Nota 16, 1 nipotini di padre Bresciani. La cultura nazionaleitaliana, p. 697.

4' A questo proposito può essere utile ricordare che, a parte una brevissi-ma nota (la nota 31 del Quaderno 7) dedicata a De Sanctis, la rubrica Critica let-teraria fa la sua sporadica comparsa solo nei quaderni 8 (Nota 214) e 9 (Nota124) per ricomparire negli ultimi quaderni miscellanei 15 e 17.

4 4 Q 1071.4 5

NIKOLAJ I. BUCHARIN, Teoria del materialismo storico. Manuale popolaredi sociologia marxista. La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 172.46 Gramsci doveva aver ben presente questo giudizio dato che aveva appe-

na tradotto dall'antologia tedesca KARL MARX, Lohnarbeit und Kapital Zur Juden-

 frage und andere Schriften aus der Frühzeit,  zweite Auflage, Verlag von Ph.Reclam, Leipzig, s.d., tra molti altri, anche il brano Über Goethe compreso allepagg. 58-60 del volume; un brano - attribuito a Marx, ma che faceva parte, inrealtà, di un articolo pubblicato da Engels sulla «Deutsche-Brüsseler Zeitung» il18 novembre 1847 - in cui si poteva leggere il seguente passo: «Goethe nella suaopera è legato in un duplice modo alla società tedesca del suo tempo. Ora le èostile; egli cerca fuggire alla ripugnanza per lei, come nell'Ifigenia e specialmentedurante il suo viaggio in Italia, si ribella contro essa come Götz, Prometeo e Fau-st, egli versa come Mefistofele il suo scherno più amaro su di lei. Ora invece egliè legato d'amicizia, "si adatta" ad essa, come nella maggioranza delle Xenienaddomesticate e in molti scritti in prosa, la celebra, come nelle Mascherate, e per-fino la difende contro il movimento storico che la serra da presso, come special-mente in tutti gli scritti in cui egli viene a parlare della Rivoluzione francese. Nonsi tratta solo di singole parti della vita tedesca, cui Goethe rende giustizia controaltre, che lo disgustano. Si tratta più spesso di diversi stati d'animo, in cui egli sitrova; si tratta di una lotta continua in lui tra il poeta geniale, che è nauseato dallameschinità del suo ambiente e il figlio del prudente consigliere di Francoforte, rispettivamente consigliere segreto di Weimar, che si vede costretto a concluderecon esso una tregua ed abituarvisi. Così Goethe è ora gigantesco, ora minuscolo, ora genio fiero, altero, schernitore, sprezzatore del mondo, ora un filisteo riguar-doso, moderato, angusto, etc.», Parte inedita del Quaderno 7.

 47  Q 1071.4 8 Q 1072.4' Gramsci alludeva, probabilmente al seguente passo della lettera engelsia-

na: « È nella vicendevole influenza di tutti questi momenti che, attraverso lo infi-nito numero di accidentalità - cioè a dire cose ed avvenimenti il cui intimo nessoè tanto lontano e tanto poco probabile, che noi possiamo considerarlo come nonesistente, possiamo trascurarlo - si compie alla fine il movimento economico», lettera che Gramsci poteva aver letto nella seguente edizione: Due lettere di Fede-rico Engels sull'interpretazione materialistica della storia, Mongini, Roma 1906, compresa, successivamente, nel IV volume delle Opere di MARX ENGELS

LASSALLE.50 Polemica già svolta da Gramsci nella Nota 5 del Quaderno 4, Materiali-

smo storico e criteri o canoni di interpretazione della storia e della politica:«Il rap-porto artistico, anche nel materialismo storico, mostra con evidenza maggiore, leingenuità dei pappagalli. Due scrittori rappresentano lo stesso momento sociale, ma uno è artista, l'altro no. Esaurire la questione descrivendo ciò che rappresen-tano, cioè riassumendo più o meno bene le caratteristiche di un determinatoambiente sociale significa non sfiorare la quistione artistica», pp. 425-426.

51 «Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresenta-

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no o esprimono socialmente, cioè riassumendo, più o meno bene, le caratteristi-che di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure ilproblema artistico... non è critica e storia dell'arte, e non può essere presentatacome tale, pena il confusionismo e l'arretramento o la stagnazione dei concettiscientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta cultura-le», Q2187.

52

Come Gramsci sostiene nel Quaderno 15, Nota 58, Critica letteraria, p.1821.

"Cfr. Q2187.54 È nella Nota 209 del Quaderno 8, La religione, il lotto e l'oppio dei popo-

li che Gramsci introduce, quasi incidentalmente, il tema dell'ammirazione diMarx per Balzac, ricordando come fosse stato il genero Paul Lafargue, nei suoiricordi, ad affermare che Marx «aveva una tale ammirazione per Balzac che siproponeva di scrivere un saggio critico sulla Commedia umana» (Q 1068). In unanota di poco successiva, Nota 230, sullo stesso argomento, Gramsci appunta unaltro specifico riferimento all'interesse, questa volta di Engels, per Balzac: «È sta-ta pubblicata in questo scorcio di tempo (forse nel 1931) una lettera inedita di

Engels dove si parla diffusamente del Balzac e dell'importanza che occorre attri-buirgli», (Q 1085). È però solo nella Nota 41 del Quaderno 14,  Balzac,  cheGramsci sembra ricavare da quegli accenni «(Cfr. qualche altra nota: accenniall'ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera ineditadi Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente)» Q 1697 -importanti conseguenze sul piano del giudizio critico: «Ma se tutta la costruzionedel Balzac è senza importanza come 'programma pratico'; cioè dal punto di vistada cui l'esamina Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostrui-re il mondo poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realiz-zata artisticamente, il suo 'realismo' che, pur avendo origini ideologiche reaziona-rie, di restaurazione monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto. E si

capisce l'ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della filosofia dellaprassi»,  (Q 1699).

55 Tra queste vi era ad esempio «La critique sociale», diretta da quel BorisSouvarine noto in Russia col nome di Liefscitz, che per essere stato il rappresen-tante del partito comunista francese nell'Esecutivo dell'Internazionale Comuni-sta, benché fosse stato successivamente espulso dal Pcf nel 1924, doveva essereparticolarmente informato sugli avvenimenti politici e culturali dell'Urss.

56 II 22 dicembre del 1932 la «Pravda» commentò l'importanza fondamen-tale che questi scritti erano destinati ad avere per lo sviluppo della letteraturasovietica, nella consapevolezza che esse avrebbero potuto offrire più d'una solu-zione ai problemi che la tormentavano. Un primo volume di scritti e lettere di

Marx ed Engels su questi temi venne pubblicato in Unione sovietica nel 1933, con il commento di Lukàcs e Franz Schiller. A dimostrazione dell'interesse che ildibattito culturale sovietico riservava alla concezione dell'arte di Marx e diEngels si può ricordare, inoltre, che nello stesso anno Michail Lifschitz pubblicòun saggio sulla concezione marxiana dell'arte e Franz Schiller un'opera dedicataa Engels critico letterario e che, insieme, diedero alla stampa la prima antologiadi testi dei due fondatori del marxismo espressamente dedicata a questi temi.

" Q 1793.58 Pagine giovanili di Marx che Gramsci poteva aver riletto recentemente

in carcere.

" KARL MARX, Le discussioni del sesto Landtag delle province renane (1842)

in MARX ENGELS LASSALLE, Opere, voi. I, Edizioni delI'«Avanti», 1914, p. 7.

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6 0 Ivi, p.31."«Questo pare il punto cruciale della polemica: Tizio 'vuole' esprimere

artificialmente un determinato contenuto e non fa opera d'arte. Il fallimento arti-stico dell'opera d'arte data... dimostra che quel tal contenuto in Tizio è materiasorda e ribelle, che l'entusiasmo di Tizio è fittizio e voluto esteriormente, cheTizio in realtà non è, in quel determinato caso artista, ma servo che vuol piacereai padroni», Quaderno 15, Nota 38, Criteri di critica letteraria, p. 1793.

62 Un confronto non a caso favorito nel II dopoguerra dalla pubblicazionee diffusione delle pregevoli antologie di scritti sull'arte di Marx e di Engels.

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