la camera chiara 3/2014

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CAMERA CHIARA la 3/2014 bimonthly newsletter

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Newsletter del circolo culturale La Bottega dell'Immagine

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3/2014

bimonthly newsletter

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editoriale “una tantum” 3.1 Continuando sfrontatamente, quasi orgogliosamente ormai, a disattendere l’impegno presodi nessun preambolo, grati anche agli esempi che ci vengono dall’Alto (continui over promising su tutto amplificati dai media e social vari) voglio spendere qualche chiosa “anche” per questo numero 3. Lo stimolo ricevuto dall’entusiasmo con cui è stato accolto il nostro giornalino online da Soci e& Amici vari, non è minore della voglia di fare e dire che anima tutti Noi de La Bottega. Qualche volta, si, un eccessivo velleitarismo può far affondare momentaneamente i nostri progetti “materiali”. Ma mai le idee. Le Idee. Il nostro tesoro. E le capacità. Certo non starebbe a noi dirlo, ma ci confrontiamo per questo, fotograficamente e non solo... Certo, noi non abbiamo nel DNA una vocazione univocamen-te “mostraiola” (forse più cazzeggiaiola dirà qualcuno eh eh) ma sono certo che piano piano, anche i più timidi di noi troveranno il modo di racimolare le loro “creature” migliori per mostrarle or-ganicamente a tutti. E per questo, non lo nascondo, conto molto anche sui giovani “cugini” del neonato Circolo di Confusione...sicu-ro che ci daranno belle soddisfazioni. Li attendiamo saggiamente sulla riva del fiume. Questo bimentre, intanto, dopo dei piacevoli e costruttivi tuffi all’esterno, ci proviamo a fare tutto “in casa” anche con l’intento di portare amici e conoscenti a vedere e incontrare “anche” gli Autori de La Bottega. Un’opportunità per confrontare i nostri punti di vista e un pò affermare il nostro stile, se me lo con-sentite, che è quello di avere idee molto simili ma svilupparle in ma-niere completamente diverse. Stratosfericamente diverse. Personali, appunto. E anche per far vedere umanamente le “nostre cose” e, parallelamente, speriamo, procurare un’occasione di crescita e cultura per tutti. Vedi a lato (al solito)....

Q COME CULTURA

tassonomie e archivi umani di Alessandro Pagni

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“...conferire dignitàad un atto di sopravvivenza elementareper trasformarloin un atto di comunicazione...” Manuel Vàzquez Montàlban

(...Lui parlava del cibo, ma insomma...NdR)

L’affascinante lavoro di Nicolai Howalt (http://www.nicolaihowalt.com/), non sembra immune da questa esigenza tassonomica, sebbene ristretta ad un campo particolarmente insolito. Infatti il fotografo danese, nel suo 141 boxers, contrappone, all’interno di una griglia di studio (come quelle teorizzare da Rosalind Krauss), doppi ritratti di giovani pugili, prima e dopo un incontro: le inquadrature dei volti sono serrate e rifuggono ogni pretesa estetica o compositiva, il fine sembra l’indagine asettica e priva di emozioni, come se ci trovassimo in un laboratorio ad analizzare una risultante tangibile della terza legge della dinamica. L’impatto visivo sulla parete, ricorda istintivamente la più famosa “esposizione in tempo reale” di Franco Vaccari, quella del 1972 alla Biennale (Lascia una traccia fotografica del tuo passaggio) con la celebre cabina Photomatic; ma le motivazioni sono distanti dal genere di operazione compiuta a Venezia e 141 boxers sembra accostarsi

La fotografia, fin dalla sua nascita, ha avuto la velleità di ordinare il mondo, di catalogarlo per tipologie, in modo da poter circoscrivere ogni cosa all’interno di un sicuro recinto di definizioni.

“..lasciate che gli artisti si esprimano pubblicamente e liberamente. E se questo contribuirà o meno alla cultura, sarà il popolo a deciderlo....” Fidel Alejandro Castro

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meglio alle ricerche intraprese da Thomas Ruff alla fine degli anni Ottanta, tese a riportare in vita il modello tradizionale di ritratto, in voga fra i fotografi della Nuova Oggettività. Al di là di un chiaro messaggio anti-violento, di cui si fa portavoce anche We Are The Not Dead della fotografa Lalage Snow, che pone in sequenza il volto dei soldati a Kabul, prima, durante e dopo i conflitti Armati (molto vicino formalmente alla serie di Howalt); la cosa che più mi colpisce di questo lavoro fotografico è il generale livellamento delle emozioni superficiali e sensorie, a favore di una maggiore profondità intellettuale, lontana da facili retoriche. Un

approccio all’immagine di tipo archivistico che è figlio, da un lato, delle ricognizioni di Bern e Hilla Becher, iniziate nel 1957, al fine di documentare e, in qualche modo, tutelare la memoria delle archeologie industriali della Germania post-bellica; e dall’altro, delle bizzarre e variegate catalogazioni dell’artista americano Ed Ruscha, totalmente autoreferenziali, incentrate sul concetto stesso di archiviazione (Twenty Six Gasoline Stations, Various Small Fires, Every Building on the Sunset Strip).A cavallo fra anni ’60 e ’70, il tema dell’archivio è stato affrontato da molti illustri esponenti della fotografia e dell’arte concettuale: emblematici i lavori di Robert

Morris (Schedario, 1962), On Kawara (la serie Date Painting, iniziato nel 1966), Gerhard Richter (Atlas, dal 1962).La scelta della forma “archivio”, obbliga a prendere le distanze dai ritratti dei giovani sportivi, soffermandosi sui particolari, strettamente connessi alla medesima condizione che li accompagna e l’uso della griglia, per presentare il lavoro, pone le immagini in una condizione non gerarchica, scardinando ogni possibile intenzione narrativa. Ogni doppia effige, in un susseguirsi che pare infinito, presenta cambiamenti di entità variabile, a volte minimi, a volta palesi, a causa del colore del sangue che spicca sulla pelle, ma il punctum viene insistentemente incanalato nello sguardo di questi individui: è il filo rosso da seguire per leggere la sequenza in modo da capirne la reale portata. Per comprendere questo, prendiamo un altro grande fotografo degli anni ’70, Nicholas Nixon, conosciuto da tutti per un progetto cruciale, in materia di serialità: i ritratti delle sorelle Brown (fra cui la moglie di Nixon), distribuiti nell’arco di 25 anni (uno ogni anno). Qui si gioca con la materia fragile e spietata del tempo, che ogni anno va a solcare differenze apprezzabili sui volti delle quattro sorelle, lasciando aperta una porta sulle possibili implicazioni di una tale assiduità. Cosa sarebbe successo se una di loro fosse morta

durante quegli anni? Se fossero cambiati i rapporti fra loro e fossero sorte delle insanabili incomprensioni? Se cause esterne, imprevedibili, avessero alterato radicalmente il fluido trascorrere delle stagioni sui loro volti? La contrapposizione di immagini seriali, porta automaticamente nella dimensione del non conosciuto, perché sono infinite le possibili vicende dietro l’intervallo di spazio intercorso fra un incipit e un finale e se la griglia nega il dispiegarsi di una storia, questi due poli la sottintendono, in un incoerente altalena di significati, che è propria solo del medium fotografico. È il tempo quindi che ha un ruolo cruciale anche per Howalt (sebbene un intervallo ben più ristretto di quello fra un ritratto e l’altro delle sorelle Brown),

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il tempo e lo sguardo che cambia, che diventa consapevole e onesto, senza artifici, forse per lo sforzo appena compiuto, per il dolore e la stanchezza. Probabilmente è solo una suggestione, ma nella breve cadenza di un incontro, questi ragazzi e queste ragazze, sembrano cresciuti e sembrano aver perso qualcosa, una qualche purezza primigenia degli occhi, trasformati poi in consapevolezza inevitabile, come se ogni volta ri-vivessero una sorta di antico rito di passaggio, una metafora degli anni a venire.

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Song of the wave, questo il titolo del documentario che nel 1973 la BBC realizzò a Sienaper raccontare uno spaccato di vita contradaiola (quello della Contrada Capitana dell’Onda),indagando l’atmosfera del rione nella sua quotidianità, scandendo i momenti della preparazione alla corsa del Palio, tramite vivaci ritratti di personaggi tipici. Una narrazione fresca, svelta(appena trenta minuti), forse datata a livello antropologico ma tecnicamente avanzata, sia dal punto di vista dei mezzi impiegati sia per quanto riguarda la realizzazione; un documento che è riuscito, a suo modo, a infrangere quella dura barriera su cui rischia di inciampare chiunquecerchi di raccontare Siena e la sua festa. Fin dai primi minuti vengono inquadrati, come fossero personaggi di un romanzo, i protagonistidi questo spaccato sociale, che seguiremo nel loro incrociarsi e allontanarsi fra bar e botteghe,carte e lavoro, per ritrovarsi di nuovo insieme, durante

le attività della contrada o attorno ai tavoli delle cene, a cantare la propria passione a perdi fiato. La sensazione è quella di una conoscenza che va a consolidarsi nel corso del filmato fino a lasciarci la lieve nostalgia di qualcosa da cui, a malincuore, dovremo staccarci per riprendere le nostre vite. Lo splendido insidioso demone dell’appartenenza.La corsa c’è, ma non è una presenza prepotente, è qualcosa che aleggia sottovoce, come un dato di fatto, come parte dei riti della stagione: non c’è un compiacimento stucchevole per le cornici pittoresche, gratuiti siparietti folkloristici o una spettacolarizzazione ruffiana dei momenti salienti della festa. L’intento della troupe è quello di capire e di trasmettere questo bagaglio di esperienze accumulato nei mesi, senza giudicare o strumentalizzare, con il montaggio, le immagini, per verificare opinioni precostituite. Complice di questo approccio una regia sapiente, essenziale, priva di artefatti o sovrastrutture visive dominanti.C’è un altro documentario degno di nota in materia di Palio e contrada, dell’olandese John Appel, realizzato esattamente 30 anni dopo, che racconta, con approccio molto simile a quello

Song of the Wavethe italian way - BBC 1973di Costanza Maremmi

CINEMA & FOTOGRAFIA

alla Bottega il 9 maggio 2014

anglosassone, il microcosmo della Contrada Priora della Civetta, al tempo digiuna di vittoria dal 1979. Anche qui risulta palese la presenza della troupe, per lunghi periodi, all’interno del rione,diventando un tutt’uno col suo popolo, in modo da restituire, antropologicamente, un ritratto genuino della vita quotidiana nel suo pulsante avvicinarsi ai giorni del Palio.

Chi volesse vedere Song of the Wave, l’appuntamento è per venerdì 9 maggio alla Bottega, chi fosse invece interessato a The Last Victory, può trovarlo comodamente a questo link: http://vimeo.com/60536610

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mah...è fotografia?incontro con Alessandro “Jedi” PAGNI

INDOVINA CHI VIENE?

Alessandro “Jedi” Pagni, classe 1980. Laureato in storia dell’arte con una tesi sulla storia della fotografia Fotografia e album di Contrada: una questione privata. Questo non tanto per ostentare i suoi meriti scolastici, ma per far capire che dovrebbe essere più che titolato per rispondere al tormentone, ormai usuale quando presenta alcuni dei suoi lavori, “ma…è fotografia?”.

PdP:…dai Ale, partiamo dal principio. Sei giovane, faremo presto. In qualche modo avrai incominciato.

AP: Sì, certo eh, eh. Per “motivi esistenziali”, ho frequentato un corso ad Altopascio, dove sono nato (ora è senese a tutti gli effetti avendo fresca residenza ad Arbia, casa Maragni, anche se comune di Asciano,

NdR). Era tenuto da un bravissimo fotografo lucchese, Marco Barsanti amante/fissato di Ansel Adams che mi aveva indirizzato più alla materia Fotografia che alle fredde formule di camera oscura. Figurati che i libri che mi aveva consigliato erano “La camera chiara” di R. Barthes e “La bellezza in fotografia” di Robert Adams. Ho cominciato da qui. Poi la prima boa: conosco Cos (Costanza Maremmi, la sua attuale compagna) attraverso “Il Barlume” una sua rivista on line, fondata con Emidio Picariello e Denni Romoli, un mix di letteratura e fotografia. Scrivo delle cose, le mando, a lei piacciono e ci fanno incontrare.

PdP: ma, scrivevi solo o facevi già anche fotografie?

AP: Beh…facevo già fotografie, ma

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le usavo per un confronto intellettuale verso zone emotive, funzionali. Sempre molto narrative. Con stimoli contaminati da musica e film. Certo mi sono quasi subito orientato automaticamente verso il concettuale e le avanguardie, concentrandomi su due filoni: uno onirico, istintivo che ritengo sempre la via generale da percorrere e l’altro concettuale, sperimentale, con l’uso di oggetti, materiali, foto, uso dello scanner.

PdP: in pratica un eterno bivio?

AP: Ehhm…ma, sì, se vogliamo. In fondo in questa “contraddizione” ho trovato istintivamente una strada parallela. Da una parte la foto concettuale che non ha pretese estetiche e si basa “solo” sul concetto. La fotografia

La foto concettualeSpecie a quelli tradizionali. Peggio ancora se concerned, come si diceva una volta. Eppure nel mondo della

forme documentativa e alla interpretativa, è bene ricordarlo, e da sempre direi, ha avuto a pieno titolo un suo ruolo. E di grande dignità. Ha però l’irritante caratteristica (ready made, noo?) di avere assolutamente bisogno di un progetto e di una motivazione intellettuale e culturale

artista. Infatti, lo sappiamo, è relativamente facile prendere delle serie di immagini di muri scortecciati di un manicomio abbandonato (dopo Session 9, operazione scontata e velleitaria) o di bambini di colore con gli occhi con le croste pagati a caramelle o monetine per stare rigorosamente dietro a una rete, e titolare, dopo, “riserva dell’anima” oppure “palingenesi” o “il futuro ci guarda”. Ma mettere in piedi un progettino concettuale serio, convincente, necessità di molta fantasia, tanta cultura, buona tecnica e dignitosa umiltà.Prima.E grande voglia di confronto.Tutte queste doti, condite come direbbe Fantozzi, da una cultura mostruosa, non pedante, nelle “discipline” umanistiche e non solo, sono le armi di Alessandro Jedi Pagni. Fotografo a 360° per bisogno intellettuale che però, nelle immagini concettuali

Nato negli ultimi spasmi della foto analogica (brrr) Jedi Pagni non si preoccupa di apparire. E’. E costringe il lettore delle sue opere, singole o facenti parte di un progetto, ad avvicinarsi lentamente al suo mondo. Piano piano, attraverso questa forma mediatica freddissima (M. Mc Luhan) riesce a stabilire un legame indissolubile di reciprocità. Anche con il suo “egoismo” diffuso non solo in questo Sussidiario, ma in tutti i suoi lavori ready made. Ancor più dopo la sua obbligatoria trasmigrazione nel total digital che lo ha liberato dalla schiavitù dello scanner anche se lo minaccia espressivamente con una maggiore immediatezza del mezzo. Media analogico convertito in forma digitale novità.E la Signora con la riservatezza che le è congeniale, lo guarda con gratitudine. Non ha bisogno di

una (bella) immagine vale più di mille, centomila parole, mentre le “mille” immagini hanno (sempre) bisogno di una parola che le spieghi (J. Saramago)Poche chiacchiere, quindi, per questa Slow Photography del mondo intimistico del giovane Pagni, pacato e misurato nei gesti e nelle parole, quanto ipertimico intellettualmente. Da gustare con calma. Pagando umiltà per umiltà. Lui non fa parte della grande tribù dei Tanti piccoli soi-diseur del foto/bla bla bla e del Prostergando i prolegomeni della subcoscienza e subietivando le analisi delle concomitanze (E. Petrolini)…. E con spiegazioni liriche come “il mio buono e il bello del vero” scomodando Berenson e molto più spesso, più o meno consciamente, Freud. Lui, al massimo, ruba frammenti del (suo) tempo per incastonarli tra i

paura di pensare, Alessandro Jedi Pagni si mette “egoisticamente” a disposizione. Grazie.

Gigi Lusini (PdP)

* E. Petrolini 1884-1936

“Un bruco, vedendo una farfalla, disse:Puah, non mi vedrai mai conciato in quella maniera”M. McLuhan - Gli strumenti del comunicare/ Il Saggiatore 1967

MA … E’ FOTOGRAFIA?“… prostergando i prolegomeni...”*

solo mezzo. Dall’altra invece, cedo sempre più all’estetica “funzionale” dell’immagine. Con i suoi linguaggi e la sua poesia.

PdP: e quindi le tue fotografie?

AP: Nascono così delle piccole serie, se vogliamo chiamarle così. Grazie anche alle amorevoli insistenze di Cos, mi convinco a portare uno di questi lavori, che chiamo “Fragile, Sciocca Pretesa” alla Bottega dell’Immagine che lei frequentava da tempo.

Ammetto che l’esperienza fu traumatica e il commento di Gigi Lusini non fu certo dei più incoraggianti. Eh, eh.

PdP: Avrai subito pensato di lui quello che pensano un po’ tutti al primo contatto.

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grazie a Cos, insistere è stato positivo. Vedendo che le mie cose non erano superficiali, ma bensì con solide radici intellettuali, Gigi in poco tempo e divenuto un sostenitore della mia fotografia, oltre che un amico. Devo “anche” a lui se il mio lavoro più noto “Il Sussidiario Egoista”, mi ha dato le prime soddisfazioni anche in campo nazionale (copertina di IL FOTOGRAFO, mostra itinerante in Italia a seguito vittoria del pPremio CONFINI09, ecc.). il progetto successivo “Guida pratica all’ipnosi” un lavoro più maturo e questa volta con l’aiuto di una reflex digitale seria, mi ha fatto guadagnare un terzo premio al Portfolio mdell’Ariosto e il diritto ad una mostra personale alla Settimana della Fotografia del Circolo Fotocine Garfagnana/FIAF.

PdP: Lavori in cantiere? E con quale posizione mentale derivata da questi successi/esperienze?

AP: Oddio, anche se ora, lavorando, il tempo è certamente risicato (e devo dire che ero stato avvertito, eh, eh) sto lavorando ad un nuovo progetto ***, cercando nello stesso tempo di trovare un po’ di maturità in un viaggio che mi riporti “consapevolmente” questa volta, al puro istinto.

PdP: Bene. Noi, al solito, staremo a vedere. Un’ultima cosa prima di chiudere. Da tecnico/storico più che

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Alessandro “Jedi” PAGNI

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da autore. Per la tua tesi, pezzo davvero unico per Siena (un altro Numero Unico, eh, eh) hai avuto modo di analizzare tantissime foto di Palio, diciamo da dopoguerra ad oggi. Cosa hai ricavato da questa esperienza fotografica (premettendo che Alessandro, en passant, ha scattato anche delle ottime foto della Corsa, NdR)?

AP: Mah, sai, qui devo essere molto obbiettivo. Soprattutto ho capito che il fascino del Palio e dei suoi aspetti più intriganti e veri, le sue cose più belle, sono già state dette. Più si parla e meno si riceve. La bulimia ha tolto molto fascino, ripetendole asetticamente, a cose che sono già state mostrate. Oggi vediamo tante, troppe cose virtuose grazie ai mezzi attuali. Ma sicuramente meno affascinanti. Forse….un po’ di silenzio fotografico non ci starebbe male…

PdP: Bene, allora grazie Alessandro, il resto lo dirai insieme alle tue immagini. L’appuntamento è per venerdì 23 maggio. Alessandro “Jedi” Pagni, “non solo fotografie” (ma sono o non sono????.....mah!!!)

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gianluca lecchi, l’hamilton de noantriconversazione di Alessandro Pagni

con l’Autore Glamour de La Bottega

INDOVINA CHI VIENE?

AP: Intanto, prima di tutto, c’è un bagno?

Esordisce così il giovane Pagni, forse per l’emozione di scavare nell’intimo del più produttivo ed elegante fotografo di genere de La Bottega (ma non solo, ricordiamolo): Gianluca Lecchi, classe 1967 (JL). Genere femminile, come ormai universalmente, anche grazie ai social network, pure i muri gli

riconoscono.

AP: Questa è scontata, ma serve per orientarci: come e quando hai cominciato con la fotografia?

JL: Diciamo che la “colpa” è del Montone. Eh, eh. Nel 1989 acquistai la mia prima macchina, una Pentax P30 e con la vittoria del “suddetto” nel ’90 mi sbizzarrii con foto di corteo, festa, cene. Scatti semplici

anche se pubblicabili e pubblicati. Ma che mi fecero venir voglia di approfondire.

AP: Come hai cercato di “crescere”, allora?

JL: Ho preso l’occasione di un corso AICS alla Cassa Edile. Erano i primi anni ’90. Era tenuto dal “Bettino” e dal Mattii. Mi sono iscritto. Una sera, come ospiti/cammeo vennero “quelli” di un Circolo cittadino, odiato e ammirato, a quel tempo non sapevo perché, La Bottega dell’Immagine. Gigi Lusini, Daniela Cappelli e Claudio Ferri portarono le loro foto e il loro foto-pensiero.

Ammetto che fu una scoperta. Fu così che cominciai a frequentare la “mitica” Bottega.

AP: E questa “mitica” in sintesi cosa ti offriva?

JL: Apparentemente niente di spettacolare. Più che un Circolo fotografico classico si rivelò subito quello che è anche oggi, una “cerchia” di amici con cui condividere passione, esperienze,

gite, corsi, workshop, cene, merende e tanta, tanta Fotografia. Tanta. Ma non oppressiva. Il confronto. Grande cantiere per la crescita individuale.

AP: Ma, con tutta onestà, problemi iniziali anche per te?

JL: Beh, sai un po’ di “severità” di giudizio, specie del Lusini dapprincipio era un po’ spiazzante. Ricordo come oggi, l’episodio ormai leggendario, del “croppaggio” del 30x40 del povero Anichini, ah, ah. Ma in generale pian piano trovavo grande obbiettività, come sai anche te, analisi del tutto e contrario di tutto. Sintesi. Non regole della Bottega, ma discussioni e grande rispetto delle “nostre” regole e creatività. se la vogliamo chiamare così...

AP: I tuoi primi risultati?

JL: Sai, da contradaiolo, certo le prime cose sul Palio. Ma poi…persone, persone, persone. Ritratti, figure. Interagire con gli altri è bello e certo è stata la cura migliore per

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la mia atavica e abissale timidezza.

AP: Quindi soprattutto figura e ritratto o…solo quello?

JL: Da principio solo quello. Ma specialmente alla ricerca del “quid”. Non solo la bellezza esteriore. Che non guasta, ma non basta. Ed è importantissimo stabilire un rapporto con il soggetto. Univoco. Spesso gli spettatori, se ci sono, distolgono.

AP: Ma per i tuoi scatti glamour, ormai conosciuti ed apprezzati, preferisci lavorare in esterno o in studio?

JL: ma, sai mentre in esterno devi aspettare il tempo buono (e il sabato e la domenica, io devo anche lavorare sennò la

mia creatura cosa mangia?) dal 2007, nel “nostro” studio ho le mie luci, il mio ambiente. Questo mi permette, grazie alla acquisita sicurezza tecnica e operativa (non male Jeanluc, non male NdR) di riflettere il tutto in una migliore “vestizione” dei soggetti (…e detto da uno che fa le foto che fa, un sorriso scatta per forza, come la battuta….NdR).

In studio ci vai quando vuoi e quando hai tempo.

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Controlli luce e soggetto. Lavori in piena tranquillità….

AP: Ma il filone glamour come è iniziato?

JL: Sai dapprincipio ho messo in rete degli annunci. La prima a rispondere è stata Alessandra, ora cara amica, che venne “shooting” accompagnata da Sara Cerboni, ora amica, allieva e ormai….maestra.

Poi i risultati hanno parlato, si vede. Perché ormai vado avanti con le offerte spontanee. È evidente che mi hanno conosciuto e dato che la voglia di farsi fare belle foto è sempre più dilagante, ho davvero tante richieste.

AP: Eh, eh. E te come ti comporti nei confronti di tutte le offerte che ti piovono da tutta Italia?

JL: Sai, io considero le persone, come tali. Non modelle da selezionare. E spesso non si può dire di no, anche se farsi fotografare è una dote naturale che è importante quanto la capacità del fotografo, per il prodotto finale. A volte si scoprono dei veri fenomeni. Altre…..meno.

AP: Sembri molto soddisfatto di quello che fai. Hai un sogno, chessò, nel cassetto? Se tu avessi maggiore diponibilità di tempo e di mezzi, che genere di fotografia vorresti fare?

JL: Ma, non so. Almeno in fotografia credo che continuerei a fare quello che faccio ora. Né più né meno.

AP: Per finire, la domanda di rito: hai per caso un autore di riferimento?

JL: Che domanda, Gabriele Rigon, ovviamente. (sogghigna NdR)

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NONSOLOFACEBOOK

foto di Bruno LAMBIASE

Bruno. Dal sud...con tanta poesiadi Gigi Lusini

Uno che ha la tua stessa malattia lo riconosci subito. Da come si muove, parla respira. Bruno Lambiase, appena lo vedi sembra pensieroso, serio, distante. Poi ci parli e sfodera un sorriso carico di umanità insieme al suo meraviglioso “accento”. Che accende e riscalda ogni argomento. Come le sue Fotografie. Che ci ha cortesemente concesso con il suo esemplare entusiasmo. Insieme ad alcuni “aforismi” con cui condirne la lettura. Grazie Amico Bruno. Ad Maiora.

In italiano esistono due parole, sonno e sogno, dove il napoletano ne porta una sola, suonno. Per noi è la stessa cosa

Erri De Luca

Napule è mille culure / Napule è mille paure / Napule è a voce de’ criature / che saglie chianu chianu e / tu sai ca nun si sulo. / Napule è nu sole amaro / Napule è addore ‘e mare / Napule è ‘na carta sporca / e nisciuno se ne importa e / ognuno aspetta a’ ciorta.

Pino Daniele, Napule è, 1977

Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno

Curzio Malaparte (Kurt Erich Suckert), La pelle, 1949

Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York.Andy Warhol

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LONDRA - Se c’è una cosa che non riesce proprio a capire, Gianni Berengo Gardin, è perché la gente passi il proprio tempo ad «autofoto-grafarsi» o a fare scatti a «cose che non interessano nessuno». Il grande fotografo italiano, il cui lavoro verrà celebrato dall’11 aprile al 23

SPUNTI PER RIFLESSIONI

Berengo Gardin boccia i selfie:non sono la vera fotografia

da Articolo di Cristina Marconi Il Messaggero Spettacoli e Cultura

Martedì 8 aprile 2014condiviso nella pagina FB

de La Bottega dell’Immagine

maggio in una mostra a Londra alla galleria Prahlad Bubbar, ripercorre con il Messaggero la sua carriera e la sua idea di foto perfetta, che na-sce da un lavoro intellettuale prima ancora che da un istinto: documen-tarsi, pensare prima di scattare e non, come spesso accade, procedere

al contrario. Di questo lavoro è la pellicola ad essere complice ideale, mentre del digitale Berengo Gardi riconosce a fatica i vantaggi: «Dà un un risultato freddo, metallico, piatto. E si scatta a mitraglia». L’unica eccezione la concede ai fotografi di guerra, come la tedesca Anja Niederhaus uccisa a Kabul, a cui manifesta la sua ammirazione. «Ci vuole un gran coraggio per fare le foto di guerra. Io sono un fifone terribile, ho una sola vita e ci tengo», spiega ironico e sincero. La mostra londinese, intitolata “The sense of a moment”, il senso di un attimo, raccoglie circa una ventina di scatti dell’India risalenti al 1977, quando Berengo Gardin andò più volte nel subcontinente per pre-parare il suo libro, “L’India dei Villaggi”. Accanto a queste, nello spazio londinese verranno esposte anche una decina di sue foto classi-che dell’Italia.

Che impressione le lasciò l’India di quegli anni? Perché si concentrò sui villaggi?

«Naturalmente andai anche nelle grandi città - Calcutta, Bombay - ma quando avevo 25 anni lessi un libro su Gandhi in cui diceva che gli occidentali cercano l’India nelle grandi città, ma che l’India vera è

in realtà quella dei villaggi. Quello che trovai lì fu una grande civiltà contadina, molto simile alle nostre. Le civiltà contadine, in fondo, si somigliano tutte. Certo lì c’erano pochi trattori e molta manodopera, ma gli indiani erano molto simili ai contadini italiani. Tranne ovvia-mente che per le regole dovute alla loro religione».

Sono quasi quarant’anni che lei non espone nel Regno Unito, è felice di questo ritorno?

«Feci una mostra a Londra negli anni ’60 all’istituto di architettura, su Venezia, voluta da Bruno Zevi. Con Massimo Vignelli, che poi è diventato uno dei maggiori grafici a New York, avevamo preparato il menabò per un libro su Venezia, che era stato rifiutato da otto editori. A Londra passò un editore svizzero, Clairefontaine, lo vide e in 20 gior-ni fece il libro, Venise des saisons. Per l’epoca era un record, visto che di solito ci volevano mesi e mesi».

Ma qual è il suo rapporto con il Regno Unito. La interessa come soggetto fotografico?

«Dell’Inghilterra ho fotografato molto, ho fatto molti viaggi lì. Del Paese sono un fanatico, mi piace il rapporto tra le persone, veramente democratico, mi piacciono i tessuti,

mi piacciono le auto, ho avuto una Austin e una MG, mi piace fumare la pipa, mi piace tutto».

Mi scusi, ma come si fotografa il rapporto democratico tra le perso-ne? «Al pub, il signorotto di campagna che beve con l’imbianchino o con il muratore. Non ce lo vedo in Italia l’industriale al bar con l’operaio. Forse allo stadio…»

Del digitale lei pensa tutto il male possibile?

«Io sono rigorosamente a pellicola. Le uniche due possibilità in più del digitale sono il fatto di poter mandare subito le foto a New York o a Nuova Delhi, ma a me non serve, posso aspettare un giorno o due. L’altra è quella di cambiare la velocità degli Iso se sei in un posto chiaro o scuro. Ma il digitale non mi interessa, il Dna della fotografia è nella pellicola».

E l’India? Cosa le ha lasciato? Per molti andare lí ha un impatto molto forte.

«È stata sicuramente un’esperienza importante, ma ogni volta per me è un argomento diverso, è un’espe-rienza importante. Ho lavorato per il Touring Club italiano e per l’Istituto Geografico De Agostini per tanti anni, ho girato il Paese».

Chi sta raccontando bene l’Italia in questo momento?

«Ma ci sono Ferdinando Scianna, Ivo Saglietti, Francesco Cito… Certo, sono per lo più non giovanis-simi».

Cosa c’è nei giovani fotografi che non la convince?

«Ai giovani direi di non fare il mestiere del fotografo, ma di fare il fotografo. Sono tutti lì con il telefo-nino che si dicono fotografi, e quin-di hanno una concorrenza enorme. Quasi tutti ad un certo punto si buttano sulla pubblicità o sulla moda per pagarsi il panino. Io direi di non dimenticare di interessarsi di più alla cultura fotografica».

Tra selfies e digitale, lei deve vedere in continuazione immagini che ritiene bruttissime.

«Purtroppo è una rovina, ma le garantisco, ci sono tante storie inte-ressanti ancora da raccontare».

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La Luce che non si vedeovvero: il Flash, questo sconosciuto

a cura di CHENZ 2

Lo ammetto. Volevo continuare tranquillamente la “nostra” bella operazione archeologica sulla pellicola. Molti consensi. Davvero. Mi ero anche già rimesso il cappello di cuoio. Ma,

guardando attentamente le immagini del talentuoso Lecchi che si trovano in questo numero, mi sono tolto il cappello e mi sono truccato da…genio della lampada. E quale genio non è tale

se non può cambiare idea? La lampada in questione è logicamente quella del flash. Che a me piace più “arcaicamente” (ci risiamo) chiamare “lampo”. Come per tanti anni l’abbiamo chiamato. E rende l’idea, non è vero? Ora, guardando, dicevo, le foto dell’Hamilton de Voantri (eh eh) come lo avete affettuosamente chiamato, si nota un uso essenziale, quanto raffinato, di questo tipo di illuminazione che da sempre ha diviso e divide in egual misura i fotografi dilettanti e professionisti. Si dice. A me viene sempre da catalogarli come post-francesi (H.C. Bresson & C.) o post-americani (Wegee & Co). Infatti, mentre Il Lampo, la luce che non si vede, mette imbarazzo un buon 50% che preferiscono usare sempre e solo la luce ambiente, esiste un altrettanto 50% di fotografi pronti a battersi all’ultimo

sangue pur di non rinunciare mai al colpetto di schiarimento ( bilanciamento, compensazione, riempimento o come altro si voglia chiamare)Sempre più sono i nativi digitali d’assalto che, poverini, eh eh, potendo lavorare ormai a

sensibilità “galattiche” (iso24000-1/60 f 2,8/sotto) sostengono che il lampo, con la sua luce dura e imprevedibile (???!?) snatura la scena e le toglie il fascino ambientale (è vero SuperGiulia?) Ombre chiuse? Occhevvordì? O sono evocative e aumentano la tensione scenica. Mentre il restante 50% di divide tra quelli che vogliono controllare “finemente” i loro scatti senza affidarsi, non legati all’albero, ai canti seducenti delle sirene del Photoshop che promettono comunque miracoli, dopo, e quelli che barricandosi dietro ai meccanismi ormai incontrollabili ( ci sarebbe da leggere, almeno, il libretto di istruzioni, ma si sa…in italia non leggete nemmeno più la Gazzetta dello Sport…) che fanno partire i lampi quando meno te lo spetti (ohhhh!) Una prova? Basta guardare una qualsiasi ripresa televisiva (ah, si, il nemico) della corsa del vostro splendido Palio. Durante la Corsa, e non solo, guardando la gente dentro la Piazza, si notano migliaia e migliaia di piccoli lampi che le macchinette dei

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turisti, e non solo, sparano automaticamente al momento dello scatto. Dal mezzo di piazza. Con lo stesso risultato dei turisti che fotografano di notte il vostro splendido Palazzo Pubblico con la macchinetta tenuta con una sola mano e un bel lampone di accecante…solo chi passa davanti.Molto probabilmente un giorno dovremo affrontare, stimolato dalle vostre curiosità, l’argomento dell’uso del lampo in maniera tecnica, chiara ed esauriente. Oggi voglio spendere invece un po’ di inchiostro ( lo sapete, no?, che il vostro Chenz II scrive sempre con la stilografica?) sulla SINCRONIZZAZIONE: del lampo, appunto. Si perché il vostro (??!!?) Chenz II, è convinto che la prossima tappa, rivoluzionaria come tante ogni giorno in questo campo ma più “epocale” sarà

proprio in questo settore. E non vorrei che venissero molti a dirvelo,,,prima di me.Allora analizzando il mistero sincronizzazione, che si riduce ad un movimento a saracinesca delle due tendine che scorrono parallele nascondendo o scoprendo il sensore e la prima delle quali fa partire il lampo quando arriva a “destinazione”, vediamo che a quel punto la seconda “può” partire e il syncro è fatto. Sempre che non sia partita la seconda prima che “la prima” sia arrivata. (si lo so che il lampo può scattare anche alla partenza della seconda, ma per

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La Luce che non si vede

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diaframma elettronico, intanto “ti” levo lo specchio (altra rogna storica) con le mirrorless con prestazioni da Enterprise, poi….Otturatore Elettronico. Ecco l’uovo di Colombo! Al posto delle

favore, non complichiamoci la vita, ora). Quello che voglio farvi capire oggi è solo che questa/e tendina/e rappresenta un bel collo di bottiglia in un mondo che si muove e ragiona in micro o nanosecondi.La tendina, prima o seconda poco importa, impiega SEMPRE lo stesso tempo ad attraversare lo spazio del “formato (o del sensore, se preferite) E questo è sempre un tempo relativamente lungo. Lunghissimo in termini elettronici . E’ sempre un pezzo di titanio o di carbonio che si deve spostare, capite? Per questo da anni, dopo tempi di syncro di 1/30, 1/60, 1/125, oggi siamo arrivati “col fiatone” al syncro di 1/250. Ma è difficile fare meglio. Sembra anche per il problema del rimbalzo traditore delle tendine quando arrivano troppo veloci a fine corsa…E allora, in attesa del

antidiluviane e lumacoidi tendine e relativi syncro limitati e limitanti, basterà “spengere” elettricamente in modo progressivo il sensore per arrivare a velocità di scatto ultrasoniche e syncro impensabili anche…oggi, che non ci stupiamo più di niente.Chissà fra poco potremo scattare foto ad 1/10000 di secondo e usare il lampo per i nostri bisogni. In una bella spiaggia scattare foto a tutta apertura con un 400mm f/2,8 (chi non ce l’ha?) magari congelando ad 1/8000 un bel salto gioioso (le modelle o tristi mortuarie o mussanti come fuochi d’artificio) e rischiarando a modìno il nostro controluce o le nostre ombre moleste. Non ci credete? Aspettate (poco, pochissimo) e vedrete. E poi, non dite che non ve l’avevo detto………

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APPUNTAMENTI DA NON PERDERE IL PROGRAMMA

maggio - giugno 2014

9 MAGGIO

23 MAGGIO

6 GIUGNO

20 GIUGNO

26 GIUGNO

PROIEZIONE del Film Documentario SONG OF WAVE /BBC 1973(il Palio negli anni ‘70)a cura di Costanza Maremmi

Incontro con l’Autore: ALESSANDRO PAGNI“MA, ....è FOTOGRAFIA”Serata “concettuale”, e non solo.

RISPOLVERIAMO LA TECNICATecnologie vecchie e nuove a confronto. FLASH. Teoria e pratica

la CAMERA CHIARA - NewsLetter del Circolo Culturale La Bot-tega dell’Immagine di Siena. Redatto in proprio - Maggio 2014

fare mostra di sé (autoritratto?)

30 Marzo - 11 Aprile 2014Castelnuovo di Garfagnana (LU)Sala SuffrediniCICOLO FOTOCINE GARFAGNANA - BFI FIAF (locandina a lato)

O QUANTA BELLA GENTE.....

Incontro con l’Autore: GIANLUCA LECCHIL’Hamilton de NoantriFIGURA & GLAMOUR (finalmente!)

TRADIZIONALE CENA D’ESTATEaperta a Soci & AmiciTEMA:“Tra pochi giorni il palio...”progetti singoli e di gruppo