da una rispettosa distanza

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    Questo volume è stato pubblicatoper iniziativa del Comune di RavennaServizio Politiche per l’Università e Formazione Superiore,con il sostegno e la collaborazione di

    Fondazione Flaminia, Alma Mater Studiorum,Dipartimento di Beni culturali, Università di Bologna, Campus di Ravenna.

    Progetto grafico e impaginazioneErratacorrige, Bologna

    Prima edizione 2015© Edizioni ArtebambiniVia del Gandolfo, 5G40053 Bazzano (Bologna)www.artebambini.itStampato in Italia

    ISBN 10: 88-98645-34-3ISBN 13: 978-8898-645-34-3

    Per l’immagine di Achille Mauri apagina 23 © Archivio Alinari, FirenzeLa riproduzione fotograca di pagina 22 è tratta dalla Fototeca della

    Fondazione Federico Zeri. I diritti patrimoniali d’autore risultano esauriti.

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    a cura di Donatella Mazza e Antonio Penso

    PAESAGGI

    in MOVIMENTOItinerari di formazione in Europa

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    INDICE

    ■  PRESENTAZIONE

      Una nuova vocazione per Ravenna di Giannantonio Mingozzi ...................................................................................................................................... 6

    ■  Da una rispettosa distanza di Mario Neve ........................................................................................................................................................... 8

    ■  La dimensione europea della pedagogia e della didattica del patrimonio

    di Donatella Mazza ................................................................................................................................................. 31■  Le classi europee del patrimonio – L’esperienza di Ravenna

    di Alain Riffaud ........................................................................................................................................................ 36

    ■  APPENDICE DOCUMENTARIA

      a cura di Donatella Mazza e Paula de Angelis Noah

    Schede di sintesi dei progetti europei sulla pedagogia delpatrimonio approvati e finanziati dalla C.E 1992 – 2013 .............................................................................. 41

    La pédagogie du patrimoine en EuropeLe jardin, monument vivantPédagogie du patrimoine des jardins en Europe – misure di accompagnamentoLe «Grand Tour» en Europe: art, paysage, jardins, créativité, innovation

    Paysages croisés en EuropeLes langages du bleu. Créativitèé et interculturalitéMosaico fra Oriente ed Occidente – Workshop M.O.R.O.Ravenna–Bacau: confluences interculturelles et artistiques

    Altre esperienze e collaborazioni in ambito europeo

      PUBBLICAZIONI E PRODOTTI MULTIMEDIALI ELABORATI NEL CORSO DEI PROGETTI ..................... 69■  NOTE SUGLI AUTORI E RINGRAZIAMENTI ..................................................................................................... 70

    Nella pagina a fianco:Petrus Henricus Theodor Tetar Van Elven (Amsterdam 1831- Milano 1908)Veduta Fantastica dei Monumenti d’Italia, olio su tela, 250x351 cm, Genova, Galleria d’Arte Moderna.

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    Come si comunica il patrimonio culturale? E soprat-tutto, è necessario farlo?Stando al giudizio di Hannah Arendt dovremmo ri-spondere affermativamente, per evitare che coloro

    che verranno dopo di noi si trovino ad essere «ere-di senza testamento»:

    il testamento, affermando ciò che spetterà le-gittimamente all’erede, destina averi passati adun futuro. Senza testamento o, per sciogliere lametafora, senza tradizione che sceglie e nomina,che tramanda e custodisce, che indica dove sono

    i tesori e quale il loro valore sembra che non visia un’esplicita e voluta continuità nel tempo edunque, in termini umani, né passato né futuro,solo il sempiterno mutamento del mondo e il ci-clo biologico delle creature viventi1.

    Un testamento esprime una volontà, una scelta,mentre della tradizione si parla solitamente come

    qualcosa d’immutabile, un dato, un oggetto che sipassa di mano in mano tra generazioni. Ma è pro-prio così?Eppure, nel caso del patrimonio culturale che l’Une-sco considera «tangibile» o «materiale»2, è in qual-che modo inevitabile che il passaggio avvenga, con osenza testamento, perché in fondo scegliere di non 

    prendere una posizione è prendere una posizione,una posizione che ha comunque i suoi effetti.Quando infatti questa posizione si traduce nellascarsa cura nei confronti di un territorio geologi-camente giovane e quindi fragile come quello italia-no – il 68,9% dei comuni ha nel proprio territorioaree classicate a potenziale rischio idrogeologico

    elevato – gli effetti sono signicativi: 5.400 alluvioni

    e 11.000 frane negli ultimi 80 anni, 70.000 personecoinvolte e 30.000 miliardi di danni negli ultimi 20anni (per stare solo ai dati aggiornati al 2003)3.Se dunque non si vuole negare alle generazioni fu-

    ture la possibilità di confrontarsi con un patrimoniofrutto di scelte, opinabili sì ma consapevoli, è neces-sario comunicare tali scelte, assegnando un passatoal futuro. Ma andiamo avanti.

    Oltre a comunicare cosa lasceremo agli eredi, vo-lenti o meno, e perché, sarebbe altresì necessario

    comunicare l’interpretazione di quanto a noi stessiè stato lasciato. Qual è il senso che gli abbiamo dato.Dico interpretazione perché tradizione, contraria-mente a quanto spesso si afferma corrivamente,non equivale a qualcosa di immutato nel tempo.Al contrario, è proprio di ogni tradizione l’esseresoggetta a rielaborazioni per poter essere viva ed

    efcace nel contesto storico e sociale in cui opera4

    :

    esiste patrimonio quando c’è una ricostruzionedel passato: lavoro del tempo sulle cose. Il lavo-ro fatto sull’oggetto concreto è tanto importan-te quanto l’oggetto stesso. La prova a contrario èdata dal fatto che l’oggetto può scomparire senzasmettere di fare ancora parte del patrimonio cul-

    turale della società o dell’umanità sotto forma ditracce diverse o di ricordi. La Biblioteca d’Ales-sandria d’Egitto ne è un esempio per eccellenza.Questa biblioteca, distrutta nel 47 a.C., è rimastanella memoria dell’umanità5.

    D’altra parte, è con la tradizione cristiana che il ter-mine latino traditio si salda all’idea di tradimento, de-

    signando sia il consegnare (o consegnarsi) al nemico

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    DA UNA RISPETTOSA DISTANZAdi Mario Neve

    a Lucio Gambi 

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    sia la dottrina tramandata con autorità, a partire daltradimento (‘consegna’) del Cristo, come ricordavaopportunamente Aldo Carotenuto6.

    Che poi Ravenna sia stata precorritrice nella comu-nicazione del patrimonio culturale non stupisce. Nésorprende che Donatella Mazza abbia, con giustoorgoglio e generosità, tracciato in questo volume unbilancio che ha tutte le caratteristiche della trasmis-sione di cui parlava Hannah Arendt: elenco di sceltefatte con consapevolezza e coraggio (dal modello

    del Grand Tour , al micromosaico, al colore) e rilancioverso il futuro.Per dar conto del come e del perché comunicare ilpatrimonio culturale ho scelto quindi, da geografo,di farlo con un itinerario, un Grand Tour  sul mio tavo-lo, per così dire, al modo di Diderot:

    se la nave non è che una casa galleggiante, e se con-sidererete il navigatore che attraversa spazi immensi,rinserrato e immobile in uno spazio ben ridotto, lovedrete fare il giro del mondo su di una plancia, comevoi e me il giro dell’universo sul nostro parquet7 .

    Ci muoveremo nei luoghi e tra i luoghi del patri-monio provando a mostrare cosa c’è dietro questaidea, quando non la si lega esclusivamente alle opered’arte o ai monumenti, e perché dovrebbe ancoraavere senso per noi: in breve, ci sforzeremo di evi-denziare il fatto che il patrimonio culturale è unarete. A tal ne dovremo sforzarci di guardarlo come

    Timothy Brook consiglia di osservare i dipinti:

    se pensiamo agli oggetti in essi non come oggettidi scena dietro delle nestre ma come porte da

    aprire, allora ci troveremo dentro passaggi cheportano verso scoperte […] Dietro queste portesi snodano corridoi inaspettati e scorciatoie ingan-nevoli che collegano il nostro confuso presente adun passato tutt’altro che semplice – in una misurache non avremmo potuto immaginare, e in modiche ci sorprenderanno8.

    Certo, bisognerà fare attenzione alle «scorciatoieingannevoli» contro le quali ci mette sull’avviso Bro-ok. E una l’abbiamo già individuata: il credere che latradizione sia una sorta di oggetto, di testimone che

    si passa inalterato nel tempo; mentre invece «rimo-dellare è vitale quanto conservare. Come Orwellavvertì senza mezzi termini quegli Inglesi che vede-va impantanati in un atteggiamento di compiacenteconservatorismo: «dobbiamo incrementare il no-stro patrimonio o perderlo»9.Bisognerà fare attenzione dunque, nel nostro itine-

    rario, a queste scorciatoie, come ad altre che incon-treremo. E tanto più a causa della nostra tendenza asentirci ‘a casa’ in un luogo quando non lo notiamopiù, quando l’abitudine ha steso la sua patina rassi-curante di ovvietà sulle cose e sui gesti che com-piamo, dandoci quell’aria contraddittoria di condi-scendente indifferenza e orgogliosa consapevolezza

    di fronte al turista che si sofferma con curiosità adosservare ciò davanti a cui noi passiamo frettolosa-mente tutti i giorni:

    lo scopo della maggior parte dei monumenti co-muni è quello di suscitare un ricordo, di incatenarel’attenzione o di dare ai sentimenti un indirizzo pio

    […] e a questo scopo principale i monumenti fal-liscono sempre […] Non si può dire che noi nonli vediamo; sarebbe più giusto affermare che essinon si fanno osservare, che si sottraggono ai nostrisensi […] Tutto quello che dura perde la forza dicolpire. Tutto quello che forma le pareti della no-stra vita, per così dire, le quinte della nostra consa-pevolezza, perde la capacità di recitare una parte in

    questa coscienza10

    .

    Partiamo quindi da Ravenna.Così ne scriveva, alla metà degli anni cinquanta, Ar-naldo Momigliano:

    quando desidero comprendere la storia italiana,prendo un treno e vado a Ravenna. Lì, tra la tom-ba di Teodorico e quella di Dante, nella rassicu-

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    rante vicinanza del miglior manoscritto esistentedi Aristofane e in quella meno rassicurante delmiglior ritratto dell’imperatrice Teodora, possocominciare a sentire quel che la storia italiana èstata in realtà11.

    Solo vent’anni prima, una delle ultime autentiche viag-giatrici ne condensava il ritratto nel proprio diario:

    non v’è città ove meglio si riveli lo iato tra l’inter-no e l’esterno, tra la vita pubblica e la segreta vitasolitaria. Sulla piazza, il sole scalda le sedie di ferro

    sulla porta di un caffè; bimbi sudici, donne tra-boccanti maternità sbraitano per le strade tristi.Ma qui, in queste pure tenebre che l’assuefazio-ne rende ben presto trasparenti, fuochi luccicanoqua e là, limpidi come quelli di un’anima in cui siformano lentamente le cristallizzazioni dell’infe-licità. Le colonne ruotano con la terra. Le volteruotano con il cielo12.

    Due sguardi diversi sulla stessa città, da parte di dueestranei che vedono quello che gli abitanti non no-tano. Teniamo a mente questa differenza perché ciaiuterà in seguito.In queste pagine, in questi sguardi diversi e quasiopposti di viaggiatori, vi è comunque la medesima,

    ferma convinzione che una città italiana possa con-densare nel suo patrimonio di pietra e carta nonsoltanto tutta la propria storia, ma persino quelladell’intero paese.In fondo è su questa convinzione che si basa la cele-bre immagine dell’Italia delle «cento città» – quellaesemplicata dalla fortunata collana editoriale dell’I-

    talia artistica (diretta da Corrado Ricci), che usciràdal 1902 al 1930 e il cui volume inaugurale sarà de-dicato, signicativamente, a Ravenna.

    Il caso di Ravenna può apparire, in verità, un caso li-mite per il suo antico ruolo di capitale imperiale, maè stato notato come nel Mediterraneo, e in partico-lare in Italia, vi sia tutta una moltitudine di ‘ravenne’.

    E davvero l’Italia sembrerebbe essere la patria del

    singolare, del localistico, sembrerebbe conservarenel tempo una sua gura ad arcipelago, un arcipela-go di città mai davvero dominate e omologate da un

    centro forte. Una collezione d’individualità urbaneche, sia nei centri storici minori che nelle vere eproprie «città d’arte», conserverebbe, a volte oc-cultati a volte esposti, i sedimenti, il precipitato dellapropria storia.Ora, non bisogna prendere questa idea per una ve-rità storica. Un conto è la propaganda turistica, un

    conto la verità della ricerca. E questo spesso induce

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    Copertina del primo numero de l’Italia artistica,1902,Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grache. 

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    una certa freddezza da parte degli operatori eco-nomici e delle istituzioni locali nei confronti deglistudiosi.In sostanza, se la ricerca avvalora e accredita l’im-

    magine che di quei luoghi si promuove all’esterno,allora tutto va bene; ma la ricerca può essere solouna sorta di cavalletto utile a reggere il quadro chesi vuole mostrare, che sia un falso o meno? E poi,siamo sicuri che questi due punti di vista siano in-conciliabili in modo diverso?

    Da Ravenna spostiamoci per un momento a conside-rare il suo contesto mediterraneo. L’idea che il Medi-terraneo sia quello pubblicizzato dal Romanticismo,con la sua buona dose di esotismo, del ammeggiare

    goethiano delle arance dorate tra il cupo fogliame,del clima mite, può trarre facilmente in inganno, e sipresta benissimo a ni pubblicitari. Ma per chi fa ri-

    cerca è un’immagine che rischia solo di confondere:

    ed è proprio questo il pericolo del Mediterraneo‘impressionistico’. Se non può dimostrare che è‘realmente Mediterraneo’, dipende da una costru-zione; se dipende fortemente da una costruzione,perde obiettività e diventa più vulnerabile alle ac-cuse di partito preso13.

    Ora, che la ricchezza del nostro patrimonio siaquella di avere il massimo di diversità culturale inun minimo di spazio (ciò che Régis Debray affer-mava dell’Europa al paragone con gli Stati Uniti) èinnegabile. Ma cercare di capirne i perché non vuoldire per questo distruggerne il fascino. Anzi. È que-

    sta una caratteristica presente pressoché in tutto ilMediterraneo.Negli anni trenta del Novecento, Jules Sion avevadenito il Mediterraneo «la terra del discontinuo»,

    proprio a causa di queste sue caratteristiche natura-li che hanno marcato in profondità l’organizzazionespaziale dei gruppi umani che vi si sono avvicendati.

    Come ammonisce Maurice Aymard:

    del Mediterraneo oggi tendiamo a vedere solo loscenario, l’insieme del sole e del mare, della mon-tagna e della vegetazione, il felice dono di una natu-ra generosa e rigogliosa, e tuttavia ingrata. Perchésotto i ori ecco apparire subito la pietra. Appena

    l’uomo distoglie per un attimo l’attenzione e ral-lenta le cure, i terrazzamenti pazientemente edi-cati scompaiono, invasi dalle sterpaglie, la macchiaspunta sulle foreste incendiate e le pianure torna-no ad essere degli acquitrini14.

    Il Mediterraneo, suolo geologicamente giovane, si

    presenta con poche e poco estese pianure, conaree sismicamente attive e vulcani, rilievi espostiall’erosione, regimi delle piogge irregolari, strati fre-quentemente sottili di terra coltivabile. Queste suecaratteristiche ambientali sono state evidenziateattraverso le diverse pratiche religiose che hannoassociato a luoghi specici, rappresentativi del rap-

    porto della comunità con l’ambiente, divinità, eroi,patti fondativi. Il protagonista de Il sole anche di notte dei fratelli Taviani, dopo che l’eremo in cui si eraritirato era stato assediato da una folla attirata dallasua presunta fama di santità, dichiara sconfortato:«sono diventato un luogo». Nei riti che anticamen-te, ad Atene e a Creta, segnavano il passaggio del

    giovane che lasciava lo statuto di efebo per essereaccolto tra i cittadini adulti – militando come pe-rìpolos15 prima dell’integrazione e poi piantando unolivo al termine del periodo di prova –, lo spazio ci-vico coincideva con l’estensione degli oliveti, comespecie arborea base del paesaggio agrario ellenico epianta sacra legata ad Atena16.

    In realtà, il Mediterraneo è un mosaico di «micro-ecologie», generalmente ridotte come supercie,

    estremamente variabili e la cui discontinuità divental’aspetto paradossalmente unicante: «in ogni data

    località, tratti relativamente più uniformi dell’altopia-no o della pianura possono mescolarsi con la pres-soché assurda variabilità della topograa interrotta

    in cui ogni pendenza o terrazzo del anco di una val-

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    le, ogni avvallamento, duna o stagno di una pianuracostiera, possono avere la propria identità»17.Questo genere di situazione ha reso l’obiettivodell’autosufcienza, dell’autarchia, un ideale da uti-

    lizzare più come espediente retorico che non unameta realisticamente perseguibile: da qui la grandeimportanza per tutti i centri mediterranei di qual-siasi taglia di saper sfruttare nel corso del tempo lereti di scambio e redistribuzione sia a corto che amedio e lungo raggio. L’area mediterranea ha rap-presentato per secoli «un luogo di sforzo tenace e

    protratto, dove un successo si ottiene con la lottae si mantiene a prezzo di una ininterrotta cura»18.Negli anni venti del Novecento Rudolf Borchardtaveva trovato una metafora pregnante per la com-plessa natura del giardino mediterraneo:

    poiché, nella storia come nella vita, nulla vien dato

    all’uomo in dono e nulla viene perdonato, gli abi-tanti della campagna devono scontare, da contadini,quello che hanno perpetrato da guastatori di terra;e dove questa campagna è di nuovo o diventa unparadiso, non lo deve al cielo che tace, indifferentealla nostra sapienza e alla nostra insipienza, ma auna fatica umana con cui nessun lavoro dei conta-dini del Settentrione può reggere il confronto […]

    L’elasticità delle condizioni naturali del clima e delsuolo è solo nascosta dietro un grande scenariod’inclemenza e di svantaggi ambientali, ma esiste re-almente e somiglia a quell’arco di Ulisse che, men-tre gl’incapaci imprecano, il padrone soltanto tendeall’improvviso19.

    Se a Ravenna e verso il Delta il problema era il u-

    me, le paludi, l’ingressione marina; sulla costa adria-tica a sud di Cattolica, sul Tirreno, sulle isole, potevaessere la natura sedimentaria delle rocce, i movi-menti di terra dovuti allo scorrimento superciale

    (erosione) e profondo (frane) delle acque e la fra-gilità complessiva ambientale: come in Liguria, il cuidelicato equilibrio poteva suggerire pagine come

    queste:

    terreno avaro, terreno insufciente su roccia a

    strapiombo, terreno che franerebbe a valle e chel’uomo tien su con grand’opera di muraglie a ter-razze. Terrazze e muraglie n su dove non cominci

    il bosco, milioni di metri quadri di muro per quin-dici, per venti chilometri dal mare alla montagna,milioni di metri quadri di muro a secco che chissàda quando, chissà per quanto i nostri padri, pie-tra per pietra, hanno colle loro mani costruito. [...]Muri e terrazze e sulle terrazze gli ulivi contorti atestimoniar che han vissuto, che hanno voluto, cheerano opulenti di volontà e di forza. [...] Perché gliulivi, lentissimi a crescere, tardissimi a dare, solo ipopoli ricchi li han coltivati20.

    Veduta della costa ligure (da: M. Fazio, I centri storici italiani ,

    Milano, Silvana Editoriale d’Arte, 1976).

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    Ed è il glio un agronomo e di una botanica (anzi,

    della prima donna in Italia ad avere la libera docenzain botanica) a indicarci come non ci sia mappa ingrado di raccontarci una tale diversità, una varietà

    talmente complessa di colture e culture:

    la forma in cui le nostre abitudini mentali ci rap-presentano la Liguria è non d’una supercie ma

    d’una linea, o meglio d’una strada, che segue ap-prossimativamente l’arco della sua costa, da Po-nente a Levante21.

    Solo oggi la Liguria appare aggregata intorno al trac-ciato odierno della via Aurelia, mentre la sua multi-versità culturale affonda nelle diverse modalità concui nel tempo le popolazioni hanno affrontato la co-mune fatica del lavorare un ambiente difcile:

    tanto al mare quanto alla montagna ciò che serveper vivere dev’essere strappato con sforzo. Sonodue facce d’un mondo di fatica e parsimonia22.

    Non una linea, come appare una strada su una map-pa, può dar ragione dell’articolazione della varietàculturale complessa di una regione come la Liguria.O come le Marche, che ne hanno fatto uno slogan

    pubblicitario: «l’Italia in una regione».Anche qui la lunga storia della «costruzione dellosguardo» che ha prodotto l’idea delle Marche «giar-dino» (con Urbino, lo «Stato paesaggio»), comenota acutamente Giorgio Mangani23, deve essereripercorsa per comprendere e valorizzare adegua-tamente ciò che oggi ci si consegna nell’ingannevole

    semplicità di «questo modello, un po’ vero, un po’immaginario, un po’ glorioso, un po’ sottoculturaledell’identità regionale, fatto di contrapposizione an-tico / nuovo, di tradizione e innovazione, nalmente

    di ‘classicità’ esemplare»24. E questo modello, cherecupera addirittura l’antica concezione della me-dietà25, dell’equilibrio naturale di clima, paesaggio e

    carattere degli abitanti, non può essere narrato dal-

    la supercie di una mappa.

    Piuttosto, se proprio gli si vuol dare un’immagine,allora torna utile uno sguardo più profondo e sen-sibile, lo sguardo di un grande paesaggista contem-

    poraneo, che ci mostra nella suggestione della graaumana del coltivo che modella nanco il cielo, un

    conne storico del paesaggio italiano, quello della

    piantata, «la versione più elaborata della colturapromiscua e perciò la più sosticata tra le nostre

    architetture campestri», la cui estensione non simotiva solo in base a considerazioni climatico-am-

    bientali, ma a seconda della maggiore o minore in-uenza delle città, per secoli polo essenziale dell’e-laborazione del paesaggio italiano:

    dai colli marchigiani i lari scendono a ranghi al-lentati, sistemati a rittochino, verso il fondo dellavallata. Ma appena sulla sponda opposta, in corri-spondenza dei primi dossi dell’Abruzzo marittimo,

    l’arbusto si dissocia sul campo dall’albero, e ogni

    T. Pericoli, Rittochino, olio su tela, 2006(da: T. Pericoli, I paesaggi , Milano, Adelphi, 2013).

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    disposizione rettilinea bruscamente scom-pare: e ciò appunto a segno del più debolee tardo intervento dei capitali urbani26.

    Certo, il paesaggio italiano, anzi, i paesaggiitaliani in gran parte sono stati modicatidecisamente, dall’espansione edilizia, dallemutazioni delle aziende agrarie, dalle scel-te di politica del turismo, a tal segno darendere i discorsi di stampo puramenteconservativo un puro esercizio retorico.

    E d’altra parte, che senso ha credere dipoter immobilizzare il paesaggio? di po-terlo mettere sotto vetro? Il paesaggioè vitale, si trasforma anche senza nessunintervento umano. Se è vero che l’idea dipaesaggio come si è affermata in Europa nel tardoMedioevo proviene dall’ambito artistico questo non

    giustica di per sé la trovata di modicarlo per adat-tarlo ad un’immagine pressata. Come è avvenutoper la montagna provenzale resa celebre dai dipintidi Cézanne, la Sainte-Victoire. Divenuta da tempometa turistica, ha subito un incendio nel 1989 che neha alterato la sionomia. Gli interventi di riforesta-zione sono stati quindi progettati secondo il modello

    visivo stabilito dalla pittura di Cézanne, il monte èstato restaurato «come un quadro»27, con l’obiettivodi ripristinare ciò che i turisti si aspettavano di trova-re: un paesaggio riconoscibile perché visto e reso fa-miliare prima in immagine, quando Cézanne ne avevamostrato le pressoché innite potenzialità di visione.

    E allora come prenderne cura? Nel nostro viaggioabbiamo appena incontrato un esempio di questacura, lungo le coste liguri. Ma se ci spostiamo ra-pidamente più a sud, diciamo in Salento, troviamoanche qui esempi del genere, lungo questa strisciadi terra in cui «come un demonio schia il vento

    tra le rocce che vanno da Otranto a Capo Santa

    Maria di Leuca; i cespugli di nocchio selvatico sulla

    scogliera si contorcono, il vento li batte, li batte enella risacca trascina via tutte le acque del mare, sì

    che la terra mostri il suo corpo nudo», come narraMaria Corti28.È così breve la distanza tra il Salento ionico e quelloadriatico che il Salento stesso ha la natura propriadelle isole, nell’offrire ovunque ci si trovi visionisgombre d’albe e tramonti.E qui, come lungo la maggior parte delle terre adia-

    centi le rive del Mediterraneo, è ancora diffusa lapratica di spietramento e dissodamento in cui lepietre, ostacolo alla coltivazione, costituiscono ilcaptatore dell’umidità atmosferica e, allo stessotempo, lo sbarramento che difende il terreno stes-so dal dilavamento delle pioggie nel caso dei terraz-zamenti collinari29.

    Sono queste le cosiddette «conoscenze tradizio-nali», rivalutate dall’Unesco: dalle oasi sahariane, aisistemi di cisterne dello Yemen, ai qanat iraniani, aisistemi d’irrigazione cinesi, no ai nostri terrazza-menti liguri e alle gravine pugliesi e lucane30.

    È errato […] considerare le conoscenze tradizio-

    nali marginali rispetto ai grandi processi economi-

    Muri a secco e specchie nel Salento (da: P. Laureano, Atlante d’acqua,Torino, Bollati Boringhieri, 2001).

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    ci e tecnologici in corso. Anche dal punto di vistaquantitativo il loro impiego sostiene ancora la mas-sima parte dell’umanità, che è distribuita nei paesimeno industrializzati. Paradossalmente in questiluoghi dove le tecniche tradizionali sono ancorautilizzate in modo massiccio, esse sono conside-rate dal pensiero modernista come fenomeno diarretratezza, mentre nei paesi avanzati divengonoelementi di immagine e di incremento di valore[…] Le conoscenze tradizionali sono auspicatenon perché hanno un minore grado di tecnologiarispetto alle convenzionali, ma perché risultano lepiù tecnologicamente adeguate rispetto al determina-

    to contesto ambientale e sociale [...] Inoltre le cono-scenze tradizionali vengono riproposte attraversoogni possibile uso innovativo, in associazione cioècon tecnologie moderne che possano agire nellastessa logica31.

    Ma cos’è, in fondo, che rende i paesaggi italiani tutti

    con una certa aria di famiglia, nonostante la loro di-versità? Qual è il marchio di originalità che distingueeppure apparenta il Salento, diciamo, alla Toscana (alpunto che gli stranieri afuenti, avendo quasi esau-rito le possibilità di acquisire e ristrutturare casalitoscani, si sono volti alle masserie di questa estremapropaggine meridionale)?

    Anche qui è un dato di lungo periodo, consolidatosiin quasi dieci secoli: il rapporto intimo, organico, trai centri urbani e la campagna. Certo, la diversità neisistemi di conduzione agraria ne evidenziano anco-ra oggi le differenze: le dimensioni medie dei centririspecchiano ancora nella generalità la prevalenzadell’insediamento accentrato nel meridione – a se-

    gno della prevalenza del bracciantato – di fronte allacampagna abitata centro-settentrionale.Pure, ogni borgo italiano si è concretato32  in unocon un contado, così come all’orizzonte dellosguardo di un qualunque agricoltore nei campi siprola sempre una città, come segnalava il geografo

    francese Henri Desplanques33.

    Ed è in questo senso che il termine paesaggio si è

    affermato nella lingua italiana, ingannevolmente cal-cato sul francese paysage ma con un senso affattodiverso, proprio a causa del diverso senso del paese,per noi inevitabilmente congiunto allo sguardo reci-

    proco tra il lavoratore dei campi e il cittadino.

    Al giorno d’oggi è un luogo comune stimare il sape-re artigianale come il prodotto locale di una tradi-zione di lunga durata che viene conservata gelosa-mente e tramandata spesso per linea familiare. Mauno sguardo al passato smentisce questa sempli-

    cazione. Erede delle gilde nate nell’VIII secolo, ilcompagnonnage  francese nasce nel XII-XIII secolo,essenzialmente nel quadro dei cantieri di costru-zione delle cattedrali. Parte integrante dell’appren-distato e mezzo principale per acquisire una for-mazione ed un’esperienza impensabile all’interno diuna sola bottega era il tour de France, come viag-

    gio attraverso le città afliate, sostenuto dall’asso-ciazione, e la storia europea è piena di esempi digrandi opere realizzate da maestranze appartenenti

    La cattedrale di Chartres (da: Chartres Cath+Gare by Ireneed- Own work. Licensed under CC BY-SA 3.0 via Wikimedia

    Commons)

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    alle più disparate nazionalità. Ilsapere artigiano si arricchivaproprio dalle possibilità offertedallo spazio-movimento delle

    reti delle associazioni, e questospiega la complessa geograa

    degli stili costruttivi che anco-ra oggi si può ammirare neglisplendidi esempi del goticoeuropeo, come ricorda HenriFocillon:

    così si fa e si disfa costantemen-te, al di là delle differenze di tra-dizioni e di tonalità, una sorta diunità europea in movimento […]Il muratore che ha realizzato unarco a sesto acuto sotto la vol-ta del deambulatorio di Morienval ne ha preso il

    modello dagli edici vicini, in Normandia o in Inghil-terrra, ove il procedimento si era diffuso in virtù diesperienze costruttive che hanno un proprio valoree che devono essere studiate nelle loro caratteri-stiche34.

    È nei cantieri delle cattedrali, infatti, i principali la-

    boratori costruttivi della rivoluzione industriale delXIII secolo, che si rivela il ruolo della tradizione neltrasmettere conoscenze non ancora separate dallepratiche, che dunque non poggiavano sulla moder-na idea di progetto e certamente non mettevano alriparo da fallimenti anche rovinosi, ma consentiva-no di affrontare imprese grandiose in una peculiare

    mescolanza di saperi circolanti a scala europea esoluzioni localmente speciche35.Negli anni cinquanta, Francesco Rodolico ricordavacome, pur nella gran varietà di pietre reperite inloco o fatte giungere da altre località (oltre a quellederivanti dal riuso di materiali provenienti da edi-ci antichi, abbattuti o in rovina), le città italiane,

    almeno no all’inizio dell’Ottocento, presentassero

    ognuna una distintiva qualità estetica dell’edicato,

    che il «colore del tempo» contribuiva ad amalgama-re. Di ogni città si poteva comprendere le relazionicon altri centri o l’idea medesima che essa aveva dise stessa studiando le pietre di cui era fatta:

    città come Venezia o Milano, già da tempo aveva-no tratto la pietra da territori ben lontani dai loro

    dintorni; territori però – e qui sta la differenza –che sotto innumerevoli aspetti economici politiciculturali gravitavano su di loro. Per quanto svinco-late in questi casi estremi dal paesaggio naturalecircostante, si trattava sempre delle ‘pietre di Ve-nezia’ o delle ‘pietre di Milano’, in quanto legate alparticolare complesso di valori umani, suscitato inproprio da ciascuna città. Spezzando invece questi

    legami, ponendo la diffusione delle pietre su basidel tutto nuove, radicalmente diverse, le condizioniattuali hanno reso privo di senso il concetto stessodi ‘pietre delle città’36.

    D’altro canto, il nostro stesso senso del tempo èincarnato dalla materialità dell’edicato urbano: la

    materia architettonica è materia temporalizzata. La

    Area e direttrici di diffusione delle pietre alpine come materiali da costruzione (da:F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1953).

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    materia del costruito – com’era ben chiaro a Rodo-lico – si condensa in tempo, cioè in un materiale dacostruzione che appartiene ad uno specico tempo

    e luogo (la facciata in travertino del Colosseo adesempio), e tuttavia le sue trasformazioni nel  tempo

    (a causa dell’erosione atmosferica, dell’inquinamen-to, dell’intervento umano) sono le condizioni dellacoscienza sociale urbana della temporalità (le sva-riate ‘versioni’ del Colosseo osservate dalle gene-razioni che si sono succedute dalla sua fondazionesino ad oggi).Oggi praticamente nessun turista è in grado di co-

    gliere il senso di tutto questo, essendo stati tuttieducati ad un senso della parola ‘città’ che riutala multiversità italiana, il che spiegherebbe la lungafortuna di Firenze come città da visitare rispetto aBologna.La fortuna della prima, che già materialmente simostra come proiezione imposta al contado, cen-

    tro dominante come il senso comune sostiene, dicontro alla seconda, nodo di una rete il cui ruolostorico si svela, appunto, già nel rapporto mimeticocon la campagna:

    quello appunto del materiale edilizio, che restaidentico non soltanto tra campagna e città maanche nelle sue espressioni urbane più alte e di

    spicco; quello dei dominanti motivi architettoni-ci, appunto d’origine campestre, delle torri e deiportici; quello del comune colore rosso e ocra –appunto il colore della terra – delle case e dei pa-lazzi, ben diverso dallo squillante bianco, di marcacittadina, delle facciate delle case orentine, visto-

    samente esportato nel contado a segno di domi-nio. Nel Bolognese, al contrario, il movimento neisecoli trascorsi è stato inverso, è la città che haimportato le forme e i colori rurali, nel senso cheha agito al servizio del suo intorno incaricandosi,all’intersezione dei circuiti locali e regionali, conquelli continentali, della proiezione di quest’ultimoverso l’esterno37 .

    Il fatto poi che il tessuto architettonico manifesti lacompresenza di elementi di epoche storiche diver-se viene percepito, in questo genere di situazione,anche attraverso l’educazione impartita sia dalle re-lazioni sociali, sia, soprattutto, dai sistemi d’istruzio-ne. L’architettura e le strutture urbane divengono

    un «passato non vissuto»38

      dal soggetto, apparte-nente al mondo del soggetto ma estraneo alla suaesperienza diretta.È in questo senso che l’espressione, ormai desueta,di «comune sentire», che un tempo era sinonimodi opinione pubblica, può essere intesa come ‘sensocomune’, come ambito percettivo in comune che i

    residenti di un’area urbana condividono come siste-

    Bologna, portici in via Saragozza dentro mura (da: I miei portici  di Francobraso - Opera propria. Con licenza CC BY-SA 3.0

    tramite Wikimedia Commons)

    Firenze, piazza della Santissima Annunziata (da: Piazza SS An-nunziata Firenze Apr 2008 di Gryfndor stitched by Marku1988

    Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons)

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    ma d’orientamento delle loro azioni quotidiane.Sigmund Freud, nelle prime pagine del suo saggio Il di-sagio della civiltà39, esamina il problema della conser-vazione di elementi di formazione originaria dell’Io

    nell’evoluzione successiva dell’individuo, e ricorre alparagone dell’evoluzione storica della città di Roma.La straticazione delle successive epoche nel costru-ito, pur spesso sommerse dalle edicazioni seguen-ti, si conservano e, a volte, aforano come rovine

    o come elementi riutilizzati in edici successivi. Lo

    spazio storico della città di Roma è dunque un’in-

    tricata massa plurisecolare di sedimenti di passatonon vissuto. Se tale spazio, nota Freud, lo immaginia-mo per assurdo come «un’entità psichica dal passatosimilmente lungo e ricco», allora si avrebbe una si-tuazione impossibile spazialmente, perché nel mede-simo luogo dovrebbero coesistere diversi edici ap-partenenti ad epoche diverse. Ma in fondo è proprio

    quello che è sempre avvenuto soprattutto nelle cittàitaliane, in cui, alla varietà delle culture di fondazione,si sommano, spesso coesistendo, i segni delle diverseegemonie che ne hanno modellato le forme.Anche se in larga misura inconsapevolmente, un re-

    sidente ‘sente’ i materiali di cui è fatta la città in cuivive: forse la maggioranza dei orentini non sarà a

    conoscenza della storia che calpestano, ma se inve-ce che sui lastrici di pietra macigno di Monte Ceceri

    (che dal XV secolo almeno è stata usata per l’edili-zia di pregio e le pavimentazioni stradali) si trovanoa camminare su un materiale diverso, è difcile che

    non ‘sentano’ in modo diverso la strada, e la cittàstessa. La scena in Roma di Fellini40 (1972), in cui lo scavodella nuova linea della metropolitana incontra gli

    ambienti quasi del tutto intatti di un’antica casa ro-mana provocando, con la brusca immissione dell’a-ria esterna nelle stanze, la sparizione degli affreschie lo sbriciolamento delle statue, ben esemplica

    il dato incontestabile che la materialità della cittàcome insieme di tracce costituisce uno degli ele-menti essenziali del fenomeno urbano.

    Per stare a Dante, egli sapeva bene che le mappenon possono ben rendere la diversità culturale del-le città italiane. Nel De vulgari eloquentia egli privi-legia il senso est-ovest, al contrario di quello cui

    siamo avvezzi oggi tra nord e sud che èun effetto collaterale dell’unicazione,

    e poi vede sì l’Italia come un unico pa-ese, ma la cui articolazione e diversitàinterna è estrema:

    Dante guarda l’Italia dando le spalle alleAlpi, da settentrione verso meridione,risalendo con lo sguardo dal basso ver-

    so l’alto e muovendo prima lungo il latodestro e poi lungo il sinistro: a drittal’Italia si compone, oltre la Puglia, diRoma, del Ducato di Spoleto, della To-scana e della Marca di Genova; a man-cina, della Puglia, della Marca di Ancona,della Romagna, della Lombardia e dellaMarca di Treviso con Venezia […] La lin-

    gua cambia in rapporto «agli intervalli

    Lo scavo della metropolitana sta per incontrare l’antica casa romana.

    Foto di scena da Roma di F. Fellini (1972).

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    di luogo e di tempo», e ciò vale anche all’internodi una singola città, ad esempio per i bolognesi divia San Felice e quelli di Strada Maggiore […] alvolgare italiano, che in qualche maniera compren-de tutti i linguaggi locali manca, appunto perchéonnicomprensivo, qualsiasi possibilità di individua-zione […] ottenuta per via di comparazione percosì dire complanare. Insomma: nessun altro vol-gare conna con esso, nessun altra parlata italiana

    può essergli letteralmente afne, cioè risiedergli

    accanto41.

    Anche la Galleria delle Carte geograche del

    Vaticano42 – voluta da papa Gregorio XIII Bon-compagni e progettata e diretta dal suo ex-col-lega all’Alma Mater bolognese, il geografo Egna-zio Danti– pur presentandosi da nord verso sud,come negli itinerari dei viaggiatori che in questoperiodo (gli anni ottanta del XVI secolo) stanno

    ormai consolidando quella moda che nirà perdiventare il Grand Tour , mette in mostra lungo i 120metri del suo «bellissimo spasseggio»43 un’Italia lecui suddivisioni regionali sono in gran prevalenzadovute alla tradizione più che alla politica. E in cuiil «dosso appenninico» di dantesca memoria operacome un diaframma, e nell’oltrepassarlo «si entra

    in un altro mondo»44

    . D’altra parte, per secoli, ealmeno no alla carta d’Italia di Giacomo Gastal-di (1561) e poi di Giovanni Antonio Magini (1608),non sono i conni politici, peraltro assai instabili, a

    prevalere, quanto le suddivisioni storiche ereditatedalla romanità, anche se il loro valore amministra-tivo era pressoché nullo. Addirittura, no al tardo

    Cinquecento l’Appennino è sentito a tal puntocome partizione che lo si immagina in direzioneovest-est, con l’Adriatico a nord e il Tirreno a sud,e spesso sono le vallate uviali a rappresentare l’ar-ticolazione interna delle identità locali e la varietàquasi incomprensibile dei popoli italici45. Varietà chegli scrittori risorgimentali, come Cesare Correnti,

    tenteranno di ricondurre ad unità: «tutto ciò con-

    catenato, alternato, disposto a meglio stimolare lavita umana nelle sue differenze innite e a ricon-giungerle poscia in una possente armonia»46.

    Siamo a metà circa del nostro viaggio, e abbiamoimparato alcune cose.

    Che non c’è barba di carta geograca o mappa checi possa mostrare la complessità del paesaggio. Chei nostri paesaggi, anche se oggi questo rapporto siè in gran parte interrotto o comunque modicato,

    sono stati generati da un intimo legame con la sto-ria delle nostre città. Che gli aspetti materiali delpaesaggio e delle città raccontano molto a saperli

    vedere, e non semplicemente guardandoli.Lo so che vi avevo già chiesto di tenere presentequesta distinzione tra guardare (to look at) e vedere(to see)47, ma devo chiedervi di pazientare ancora unpoco perché ci tornerà utile alla ne di questo viag-gio. Per il momento vi invito a riettere su un punto.

    Ricordate quando ci siamo soffermati sull’abitudine?

    È Rilke a rammentarci il nostro debito nei confronti

    Veduta della Galleria delle Carte geograche, Città del Vaticano.

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    del romanticismo, la sua eredità nei confronti delpaesaggio e del valore identitario che ancora oggigli attribuiamo: «si sa quanto male riusciamo a ve-dere le cose tra le quali viviamo, e spesso soltanto

    chi viene da lontano sa dirci che cosa ci sta attor-no»48. Lo stesso pensiero espresso da Musil sui mo-numenti che avevamo incontrato all’inizio di questoviaggio.Che conoscere qualcosa signichi banalizzarla non

    deve essere associato automaticamente ad una sva-lutazione. Per poterci muovere negli spazi urbani di

    tutti i giorni restando concentrati sul nostro impe-gno del momento, dobbiamo aver ‘metabolizzato’ iluoghi e i percorsi che attraversiamo e in cui sog-giorniamo: il che distingue a una prima occhiata lemovenze di un residente da quelle di uno straniero.Ma questa necessaria banalizzazione non vuol direche ci sia preclusa la scoperta o la meraviglia, che

    sembrano appannaggio dello straniero.Come dice Rilke, per avere il paesaggio è stato ne-cessario «spinger via le cose da sé, così da esserepoi in grado di accostarsi a esse in modo adeguatoe sereno, con minore condenza e da una rispetto-sa distanza»49.E qui sta il miracolo della rappresentazione del pa-

    esaggio, l’essere un’immagine circoscritta che allostesso tempo è una totalità che apre sull’innito. Noisappiamo che «non è mai il Mondo che incontriamoma un angolo di paesaggio, allo stesso modo che nonè mai all’Uomo che ci rechiamo a far visita ma a unnostro amico». Eppure, «io non vedo mai che unaben piccola parte del mondo, ma in fondo non lo

    credo, non voglio saperlo. È il mare che vedo, o il cielo,non un pezzo di mare o un frammento di cielo»50.

    Quando però è il nazionalismo a impossessarsidel paesaggio, esso diventa un simbolo di unità ches’impone sulla diversità, non come la «possente ar-monia» di Cesare Correnti, ma come riduzione ad

    un’omogeneità imposta.

    Il paesaggio diviene così un «territorio-museo»51,che sintetizza in uno spazio ridotto i caratteri attri-buiti all’identità nazionale. Il legame con la propagan-da nazionalista è talmente stretto che l’iconograa

    di questi luoghi ne forza sovente il carattere simbo-lico, trasgurandoli: è il caso del paesaggio nazionale

    tedesco consacrato dalla nascita del Reich  (1871)nella rappresentazione della Teutoburger Wald , luogodella vittoria di Arminio (Hermannschlacht) sulle le-gioni di Quintilio Varo nel 9 d.C.52, la cui sommità èstata sempre rafgurata coronata da querce, specie

    vegetale sacra nell’immaginario nazionale tedescoma inesistente sulla cima di questa celebre selvacollinosa germanica53.È anche il caso delle città d’arte e dei paesaggi italiani.Quel che è curioso, è che nello scegliere un’immagi-ne che ci desse un’«unità nella varietà », compito, loabbiamo visto, non da poco, ci si sia orientati verso

    l’integrazione del concetto che gli stranieri avevanodi noi nell’idea che ci andavamo facendo di noi stes-si, perno nei suoi aspetti stereotipati. L’immagine

    dell’Italia, quindi, divulgata dai viaggiatori54.La varietà e molteplicità dei paesaggi italiani eraconsiderata come una qualità, un tratto tipico daiviaggiatori stranieri che generarono il mito d’Italia

    come paese da visitare assolutamente55. Se, dun-que, vi è nel caso italiano uno sguardo dall’esterno«integrato nell’immagine» che l’Italia si andava fa-cendo «progressivamente di se stessa», a causa delpeculiare contesto storico, culturale e politico deicomuni italiani, il paesaggio nazionale veniva intesocome una collezione di luoghi il cui paesaggio era

    strettamente connesso con i centri urbani56.

    Gli itinerari (anche se si reggono su immagini pre-concette, miti e qualche pregiudizio) sono in fondoalla base di quella che è diventata l’immagine delnostro patrimonio.La stessa percezione dell’ambiente mediterraneo

    è stata a lungo prevalentemente ‘dal basso’, dalla

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    posizione del viaggiatore: sguardo del viandante odel soldato a livello della strada o del navigante adaltezza del ponte della nave.I romani, che tanto hanno segnato il nostro paesag-

    gio col loro imponente sistema viario, lo sapevanobene. Le strade erano parte integrante del sensodi civiltà, il cui «solo limite era l’immagine mentaledel termine della strada, dal momento che la stra-da conferiva ordine a ciò che era sconosciuto»57.Come narrano i risvolti meno conosciuti di un ce-lebre episodio che ci riporta a Ravenna,

    la sera del 12 gennaio del 49 a.C., sul tardi, Giu-lio Cesare, accompagnato da alcuni amici, salì su diun carro a Ravenna, dopo aver preso a prestito daun fornaio locale alcuni muli, per mettersi in viaggioverso Rimini. Doveva essere un viaggio d’importan-za decisiva, dal momento che attraversando il ume

    Rubicone, dove il suo esercito stava attendendo il

    suo arrivo, egli avrebbe automaticamente innesca-to la guerra civile che mutò il corso della storia.La strada che egli prese era probabilmente la viaPopilia che si congiungeva alla via Æmilia, una dellegrandi arterie stradali dell’Italia Repubblicana, a Ce-sena. Tuttavia, in qualche modo, egli si smarrì e, dopoaver vagato quasi tutta la notte, all’alba una guida glimostrò come tornare alla strada principale a piedi

    per stretti sentieri. Al buio, suppongo, chiunque puòsmarrirsi. Ma perché Cesare avrebbe avuto bisognodi una guida per ritornare sulla strada una volta chesi era fatto giorno? La campagna a nord del Rubico-ne non è impraticabile, e i compagni di Cesare de-vono aver viaggiato spesso lungo la strada. La strada,già. Ma una volta lontani dalla strada, essi avevanobisogno di conoscere la regione, e a questo scopo

    essi avevano bisogno di una mappa. La marcia piùimportante della storia a momenti non ebbe luogoper mancanza di una mappa58.

    Anche in seguito, con la cristianità, il viaggio verso iluoghi sacri (non il vagare senza meta, metafora delpeccato), diviene un’esperienza fondante, esperien-

    za d’altra parte codicata anche dall’Islam:

    la cristianità reinventò l’homo viator classico, comeOdisseo, che viaggiava per virtù […] La prospettivaorizzontale del viaggiatore è la stessa di prima, mai conni erano andati in pezzi. Gli orizzonti inter-nazionali si andavano espandendo sotto l’impatto

    di pellegrini come Egeria o monaci dall’India, dallaPersia, dall’Etiopia e le periferie barbariche, i quali‘vi si accalcavano dai quattro angoli della terra’59.

    Ma è con la moda, consolidatasi in tradizione, delviaggio in Italia che le immagini delle nostre città edei nostri paesaggi verranno denitivamente a far

    parte della cultura europea, nonostante e al di làdegli stessi stereotipi.Se nel 1591 esce a Londra il primo esemplare diguida di viaggio in Europa, e in particolare in Italia,l’idea del viaggiare per piacere, per cultura, per com-pletare la propria formazione, si va già affermando,e durante il Seicento si rafforzerà l’idea dell’Italia

    come sede della classicità, con Colbert, ministro diLuigi XIV, che fonda l’Accademia di Francia a Romanel 1666 e le peregrinazioni di artisti in cerca di«inediti itinerari d’arte»60, eredità che verrà tra-smessa a quello che è considerato il «secolo d’oro»del viaggio in Italia: il Settecento.È lo stesso secolo barocco a coniare l’espressione

    Grand Tour , ed è curioso poiché compare per la pri-ma volta in una guida all’Italia, il The Voyage of Italy  di Richard Lassels (1670), per poi godere di granfortuna nell’etichettare «un giro che in ogni caso –sia che si prendano le mosse da Parigi, da Londra, daVienna o da Anversa – ha come obiettivo effettivo,privilegiato e protratto la visita alle mirabilia urbane,

    artistiche e antiquarie d’Italia»61.Allo stesso tempo, se nel corso del Settecento lospirito cosmopolita del secolo ingloba l’immagined’Italia nel patrimonio della «civiltà europea»62,il limite meridionale del Tour   va spostandosi pro-gressivamente no a comprendere la Sicilia. Un fe-nomeno che se, da un parte, si lega al fascino che

    l’instabilità naturale e la storia politica di queste

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    terre esercita sugli Illuministi, come specchio di unarivoluzione europea in atto pur se sotterranea63,dall’altra, sembra aver propiziato il mito dell’Italiacome paese che contiene condesata tutta la storia

    dell’Europa nelle sue fasi fondanti storico-culturali:per cui, a mano che si prosegue verso sud, si va dalRinascimento, al Medioevo comunale, alle vestigiadell’Impero romano, no alle ‘origini’ greche (ma

    anche fenicie e, in parte, arabe).Il Tour  tenderà a privilegiare determinati itinerari, alpunto che, nonostante qualche variante, il percorso

    canonico mostrato da Stendhal è rimasto invaria-to per più di due secoli64: Torino, Genova, Livorno,Lucca, Pisa, Firenze, Roma (via Siena o Arezzo), Na-poli, Paestum (limite meridionale per la gran partedei viaggiatori), Sicilia, ancora a Roma, poi Ancona(via Terni, Spoleto, Foligno, Macerata, Loreto), Rimi-ni, Bologna, Ferrara, Venezia (tappa iniziale per te-

    deschi e austriaci, nale per tutti gli altri), Milano. Ilresto delle città italiane e dei loro paesaggi (a partequalche itinerario alternativo battuto dai più esi-genti o dai conoscitori che comprende centri comeCortona o Perugia) non compare nemmeno sullemappe delle guide ottocentesche65.Ma quel che ci interessa qui ora è il modo in cui

    questi sguardi dall’esterno sono diventati parte delnostro sguardo sull’Italia e il suo patrimonio cultu-rale. Dato che siamo quasi alla ne del nostro viag-gio vi basti un solo esempio. 

    Nel Seicento il genere cosiddetto «vedutistico», cheinuenzerà anche la letteratura del Tour , sserà le im-magini più rinomate e diffuse all’estero (quindi anchegli stereotipi) delle città italiane. Dei vedutisti è certol’olandese Gaspar van Wittel (1652-1736)66  quel-lo che costituisce la fonte maggiore del vedutismosettecentesco, elaborando vedute i cui punti di vista

    niranno per diventare addirittura i prototipi irri-nunciabili da cui ritrarre determinate città (come nelcaso della veduta veneziana di piazzetta San Marco).Il suo diventa pressoché ‘lo’ sguardo degli stranierisulle città italiane (e anche su alcuni paesaggi).Bene, il modello vanvitelliano è talmente inuente

    che alcune sue vedute, come ad esempio questa ve-

    duta di Roma con Castel Sant’Angelo e San Pietrosullo sfondo, verranno puntualmente riprese dopol’Unità da coloro che si assumono, col modernomezzo fotograco, il compito di costruire l’immagi-ne dell’Italia unita, delle sue città e dei suoi paesaggi:i fratelli Alinari.E la prima Carta dell’Unità d’Italia, prodotta per

    festeggiare l’annuncio dell’Unità d’Italia il17 Marzo 1861, in occasione della pro-clamazione a Torino di Vittorio EmanueleII Re d’Italia, gioca ancora sì con l’ideadel paese visto idealmente nella sua uni-tà attraversando le Alpi, ma il «panoramaitaliano» che ci offre è già disteso nella

    prospettiva nord-sud che diventerà unodei temi ricorrenti di discussione e dipolemica nel secolo e mezzo della suastoria. Qui però siamo già alla ne dell’epoca del

    Tour , anche se i suoi strascichi si prolun-gheranno ancora a lungo (come mito se

    ne possono ancora trovare tracce nel lm

    Gaspar van Wittel, Veduta di Roma con Castel Sant'Angelo e ponteSant'Angelo verso la basilica di S. Pietro, 1689, collezione privata.

    Foto Fondazione Zeri.

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    del 1996 Io ballo da sola di Bertolucci, ma forse la suarielaborazione più riuscita è quel Tour  di italiani allascoperta del paese del boom economico che è Fratellid’Italia di Arbasino del 1963). Ma già con l’invenzionedel turismo (in cui la parola tour  continua a risuonare,ma solo foneticamente) l’idea del viaggio, così com’e-ra stata intesa per secoli, muta radicalmente. E il pri-

    mo vero e proprio tour operator  – inventato nel 1841da un predicatore battista inglese, Thomas Cook, eancora oggi tra i principali operatori mondiali (www.thomascookgroup.com) – giungerà, appena a ridos-so dell’Unità, a inserire nel suo catalogo dei GrandCircular Tours of Europe l’Italia67. Non si tratta più diitinerari perlopiù a piedi e individuali o in pochi, ma

    di viaggi collettivi e con mezzi come il treno o la nave.

    La nostra percezione delle città e del paesaggio oggiinfatti, è bene tenerlo a mente, è ormai ben diversadal girovagare secolare che abbiamo descritto. E giàa partire dall’introduzione del viaggio in treno conl’Unità.

    La velocità del treno già agli esordi era mediamente

    tre volte quella delle carrozze postali. Con lo svilup-po del mezzo e l’estensione nel territorio europeodelle linee la percezione delle relazioni con luoghiun tempo lontani cambia drasticamente. Il viaggiono a quel momento signicava l’attraversamento

    di una serie di luoghi e paesaggi ad un ritmo chefaceva del viaggio una vera esperienza:

    ciò che rende tanto straordinaria, e tanto impossi-bile a rinnovarsi, la prima visione di un borgo, di unacittà nel paesaggio è il fatto che in essa lontano evicino vibrano nel più rigoroso accordo. Ancora l’a-bitudine non ha compiuto la sua opera. Non appenacominciamo a orientarci, ecco che il paesaggio è dicolpo sparito, come la facciata di una casa quan-

    do vi entriamo. Ancora la vicinanza non ha preso ilsopravvento grazie alla costante esplorazione dive-nuta abitudine. Una volta che abbiamo cominciatoa orientarci nel luogo, quella primissima immaginenon può presentarsi mai più68.

    Questa è l’esperienza di chi si sposta a piedi, mo-

    dalità di viaggio non inconsueta ancora negli anni in

    A sinistra: Achille Mauri, Veduta panoramica, dal Ponte Umberto I, di Castel Sant’Angelo e dell’omonimo ponte. In lontanza la cupola diSan Pietro, 1860 -1870 ca. (Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze, Inv. FBQ-F-004453-0000).

    A destra: Società Editrice dell’Emilia, Carta dell’Unità d’Italia, 1861, Litograa Rochi, Milano (collezione Brandozzi).

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    cui Benjamin scriveva, e non solo in città, ma anchesu lunghi percorsi69. I luoghi attraversati erano luo- ghi colmi di tempo.Al punto che Benjamin stesso propone una splendi-

    da analogia, tra il viandante e il copista.

    La forza di una strada è diversa a seconda che unola percorra a piedi o la sorvoli in aeroplano. Cosìanche la forza di un testo è diversa a seconda cheuno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede soltantocome la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi oc-chi essa procede secondo le medesime leggi del

    terreno circostante. Solo chi percorre la strada neavverte il dominio, e come da quella stessa contra-da che per il pilota d’aeroplano è semplicementeuna distanza di terreno essa, con ognuna delle suesvolte, faccia balzar fuori sfondi, belvedere, raduree vedute allo stesso modo che il comando dell’uf-ciale fa uscire i soldati dai ranghi70.

    La ferrovia provoca invece un annullamento nellapercezione dei luoghi intermedi tra l’origine e ladestinazione e allo stesso tempo amplia lo spaziodel trasporto71.Questo provoca un mutamento radicale nella per-cezione dei luoghi e del paesaggio, e non soltantoperché lo spazio del viaggiatore «non è più sico,

    non è più quello la cui coscienza nasce dal ritmo delrespiro di chi faticosamente lo percorre»72.Annullando l’esperienza dei luoghi attraversati, iltreno annulla l’individualità dei luoghi stessi, ciò

    che costituiva l’essenza primaria dell’esperienzadel viaggio, il fatto stesso che la diversità dei luoghicostituisse il primo diaframma da affrontare per ilviaggiatore, il ltro culturale che, prima ancora di

    qualsiasi conne o frontiera, rappresentava il fat-tore territoriale costitutivo della differenza incon-trata; una differenza che, in un territorio carico di

    storia come quello europeo, si manifestava anchenel raggio di poche miglia. È questo l’esordio di unatrasformazione profonda che con il Novecento siacuirà ed è parte integrante del disorientamentoche tuttora viviamo.Quando Walter Benjamin o Joseph Roth, al principiodel Novecento, descrivevano con vivezza i paesaggi

    urbani o rurali europei lo facevano dalla prospettivadel viandante, di chi si sposta a piedi. Buona partedei paesaggi odierni sono invece percepiti percor-rendo in auto una linea – strada o autostrada – chetrasforma la stessa città in un insieme di panoramida esperire alla velocità del mezzo automobilistico,con un ritmo di visione incredibilmente accelerato

    e una frammentazione spettacolare, incui la modalità narrativa cede il passoalla proiezione di una serie di diaposi-tive73.La stessa sorte dei luoghi viene riserva-ta poi alle cose prodotte e scambiate,e questo dovrebbe risaltare maggior-

    mente se si ricorda che praticamenteno all’Ottocento ad essere traspor-tati su lunghe distanze erano soprat-tutto i beni di lusso per le classi agiatee quelli oggetto di speculazione, comeil caffè o il tè, mentre, ad esempio, lederrate agricole, prima dell’avvento

    della ferrovia e del perfezionamento

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    dei metodi di conservazione, erano consumate acorto raggio, sui mercati locali.Inoltre, i luoghi attraversati dal treno divengono pa-esaggi-spettacolo, e non fortuitamente, nei primi anni

    del cinema, sono molto frequenti le scene di treniche entrano in stazione. Addirittura, ai primi del No-vecento farà furore un’attrazione, lo Hale’s Tour  (dalnome del capo dei pompieri di Kansas City che sene fa promotore), che farà la fortuna degli investi-tori (nomi come Sam Warner, Adolph Zukor, CarlLaemmle, futuri grandi produttori hollywoodiani): si

    tratta di un vagone passeggeri che circola su un bi-nario ad anello dentro un tunnel e sulle cui paretitrasparenti vengono proiettati lm di paesaggi.

    Il viaggio alla volta di una località raggiungibile conla ferrovia non sembra qualcosa di diverso da unospettacolo a teatro o da una visita in biblioteca. L’ac-quisto di un biglietto ferroviario equivale all’acqui-

    sto di un biglietto per il teatro. Il paesaggio di cui sientra così in possesso si trasforma in spettacolo74.

    Ma lo stesso treno ci riporta a Ravenna, e per unultimo paesaggio ancora, ma di un genere partico-lare, un paesaggio la cui memoria stenta ad esserericordata come dovrebbe75.

    Dall’Unità infatti un nuovo paesaggio italiano si an-drà formando, la «nuova pianura» riscattata alle ac-que dalle boniche76, in fasi diverse e su un periodoche durerà no agli anni sessanta-settanta del No-vecento, quando gli impatti ambientali negativi sualcune aree risulteranno evidenti77. Un’opera chegià all’inizio della Prima guerra mondiale assogget-

    tava più di 1 800 000 ettari dal Piemonte alle isole78,e che, soprattutto nel Delta e nell’Agro romano epontino, si scontrava con la potestà esercitata dellamalaria.A ne novembre 1884, il medesimo anno del grande

    colera a Napoli che porterà al celebre progetto delRisanamento, quasi 500 braccianti giungono con un

    treno speciale nell’Agro romano, nell’area di Ostia e

    Maccarese. Vengono da Ravenna, della cui situazioneambientale Boccaccio non diceva un gran bene a Pe-trarca (in linea con un giudizio che risaliva alla città di«rane e zanzare» di Sidonio Apollinare)79, dove i soci

    della prima cooperativa italiana formata da bracciantihanno ottenuto il subappalto per la bonica di un’a-rea inserita in un continuo di paludi che andavano daTerracina no a Piombino. Si separarono in due gran-di gruppi di 220 e 242 uomini, assegnati a due diversearee di bonica, ad Ostia e a Fiumicino. Le squadre

    di lavoro degli «scariolanti»80, analfabeti, avevano as-

    segnata ognuna una donna, l’unica a saper leggere escrivere, che oltre a occuparsi del ménage, davverominimale, del gruppo, attendeva alla corrispondenzacon le famiglie e, dunque, manteneva viva la vita direlazione in un contesto ambientale e lavorativo let-teralmente intollerabile.Non si limitarono ai terreni, e generarono veri e

    propri insediamenti, nonostante solo nel primoanno di lavoro ne morissero un centinaio di malaria.Nel 1889 iniziarono a funzionare le prime idrovore,ma ci vollero ben sette anni per portare a com-pimento la gran parte del compito. Restano comericordo di quel periodo a Ostia toponimi come ilviale dei Romagnoli, parallelo alla Via del Mare e alla

    Ostiense, e, proprio in fondo affacciata sulla marina,la piazza dei Ravennati; oppure, tornando indietrolungo il viale dei Romagnoli no agli scavi di Ostia

    antica, il Sacrario alla memoria dei bonicatori. Sen-za contare il dialetto che, si dice, continui ancora aessere parlato da alcuni discendenti.E anche questo è paesaggio.

    Si diceva dell’abitudine e di come si potrebbe recu-perare il senso della meraviglia e della scoperta chesono propri di chi visita i luoghi per la prima volta,ricordate?Questo è possibile se ci si strappa alla trappola del-la nostalgia, che fa dei luoghi, come diceva Benja-

    min, degli «oggetti-ricordo», qualcosa di morto, per

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    i quali come «la reliquia derivadal cadavere, il ‘ricordo’ [deri-va] dall’esperienza defunta, chesi denisce, eufemisticamente,

    ‘esperienza vissuta’»81. Se i luo-ghi sono straticazioni di me-morie orientate, allora il rico-noscerli come una risposta allenostre domande di oggi , ci im-pedirebbe sia di metterli sottovetro inutilmente (città e pae-

    saggi hanno senso quando sonoabitati) sia di studiarli come unmorto passato. Bisognerebbeguardare Ravenna (come le suecompagne) con lo sguardo che Joseph Roth riservò alle cittàdel Sud della Francia: le «città

    bianche» in cui non era mai sta-to prima, ma che aveva «sogna-to da ragazzo» avendo trascor-so un’infanzia «grigia in città grigie». Allora sì chevedremmo Ravenna (e tutte le città in cui viviamo)invece di limitarci a guardarla.Peccato che tra turisti, o comunque estranei, e locali

    non vi sia praticamente contatto se non tangenziale

    e accessorio, se non tra ‘operatori’ e ‘utenti’ di un‘servizio’: quanto si comprenderebbe di più e megliola ricchezza dei luoghi se si potesse confrontare enarrarsi reciprocamente i diversi sguardi che questa

    città (come tutte le città) attira82.

    Ravenna, Piazza del Popolo (da: Ravenna Piazza del Popolo Westseite 0609 vonKaiser von Europa in der Wikipedia auf Deutsch. Lizenziert unter CC BY-SA 3.0über Wikimedia Commons)

    1 H. Arendt, Between Past and Future. Six Exercises in PoliticalThought, New York, Viking Press, 1961, p. 5.2 La Convenzione di Parigi del 1972 denisce all’articolo 1 pa-trimonio culturale:«– i monumenti: opere architettoniche, plastiche o pittoriche

    monumentali, elementi o strutture di carattere archeologico,iscrizioni, grotte e gruppi di elementi di valore universale ecce-zionale dall’aspetto storico, artistico o scientico,

     – gli agglomerati: gruppi di costruzioni isolate o riunite che, perla loro architettura, unità o integrazione nel paesaggio hannovalore universale eccezionale dall’aspetto storico, artistico oscientico,

     – i siti: opere dell’uomo o opere coniugate dell’uomo e del-la natura, come anche le zone, compresi i siti archeologici, di

    valore universale eccezionale dall’aspetto storico ed estetico,etnologico o antropologico».e all’art. 2, patrimonio naturale:«– i monumenti naturali costituiti da formazioni siche e bio-logiche o da gruppi di tali formazioni di valore universale ecce-

    zionale dall’aspetto estetico o scientico, – le formazioni geologiche e siograche e le zone strettamen-te delimitate costituenti l’habitat di specie animali e vegetaliminacciate, di valore universale eccezionale dall’aspetto scien-tico o conservativo,

     – i siti naturali o le zone naturali strettamente delimitate divalore universale eccezionale dall’aspetto scientico, conser-vativo o estetico naturale» (http://www.unesco.beniculturali.it/index.php?it/28/normativa).

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    Nel 2003 è stata integrata dalla Convenzione sul patrimonioimmateriale, cioè:«– le lingue, i dialetti e le isole alloglotte diverse dall’italiano – le arti performative, musica, danza e forme di teatro

     – le pratiche sociali, riti, feste e cerimonie – le conoscenze e le pratiche intorno alla natura e all’universo – le modalità e le tecniche, i saperi, del lavoro artigianale».(http://www.unesco.beniculturali.it/index.php?it/93/convenzio-ne-patrimonio-immateriale).A questo proposito, di alto rilievo è la fondazione della BancaMondiale delle Conoscenze (http://www.tkwb.org), sostenu-ta dall’Istituto Internazionale per le Conoscenze Tradizionali(http://www.ipogea.org/site2/index.php/it/itki).3 I dati sono dell’Istituto Superiore per la Protezione e laRicerca Ambientale: http://www. apat.gov.it/site/it-it/Temi/Suolo_e_Territorio/Rischio_idrogeo- logico/.4 J. Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerungund politische Identität in frühen Hochkulturen, München, C. H.Beck’sche Verlagsbuchhandlung, trad. it. La memoria culturale.Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Tori-no, Einaudi, 1997.5 C. Raffestin, Il tempo come scultore dei luoghi , in R. Barbanti,L. Boi, M. Neve (a cura di). Paesaggi della complessità. La tramadelle cose e gli intrecci tra natura e cultura, Milano, Mimesis, 2011,p. 339.6 A. Carotenuto, A., Amare tradire: Quasi un’apologia del tradi-mento, Milano, Bompiani, 2000.7 D. Diderot, Supplément au voyage de Bougainville ou Dialo- gue entre A. et B. sur l’inconvénient d’ attacher des idées morales à

    certaines actions physiques qui n’en comportent pas [1771], in D.Diderot, Oeuvres complètes, éd. par J. Asszat, M. Tourneux, Paris,Garnier Frères, 1875- 1877, t. 2, p. 194.8 T. Brook, Vermeer’s Hat: The Seventeenth Century and the Dawnof the Global World , New York, Bloomsbury Press, 2008, pp. 9-10.9 D. Lowenthal, «Fabricating Heritage», History & Memory , Vo-lume 10, Number 1, Spring 1998, p. 19.10 R. Musil, «Denkmale» [ Monumenti ] [1927], in R. Musil, Ge-sammelte Werke, A. Frisé (hrsg.), Reinbek bei Hamburg, RowohltVerlag, 1978, VII, trad. it. in R. Musil, Pagine postume pubblicate invita, Torino, Einaudi, 2004, p. 63.11 A. D. Momigliano, «Cassiodorus and Italian culture of histime», Italian Lecture at the British Academy, 25 maggio 1955,in Secondo contributo alla storia degli studi c lassici , Roma, Edizionidi Storia e Letteratura, 1960, p. 191.12 M. Yourcenar, «Ravenne ou le péché mortel» [1935], in En

    pèlerin et en étranger , Paris, Gallimard, 1989, p. 101.13 N. Purcell, «The Boundless Sea of Unlikeness? On Dening

    the Mediterranean», Mediterranean Historical Review , 18:2, 2003,p. 14. Cfr. anche F. Farinelli, «Il Mediterraneo, la differenza, il

    differimento», Geotema, (4)12, 1998, pp. 57-62.14 M. Aymard in F. Braudel, La Mediterranée. 1: L’espace et l’hi-stoire, 2: Les hommes et l’héritage, Paris, Flammarion, 1985-1986,trad. it. Il Mediterraneo. Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradi- zione, Roma, Newton & Compton, 2002, p. 128.15 I peripoloi  erano giovani tra i 18 e i 20 anni che formavanopattuglie che erano a guardia dei conni della città.

    16 M. Detienne, L’écriture d’Orphée, Paris, Gallimard, 1989, pp.71-84.17 P. Horden, N. Purcell, N., The Corrupting Sea: A Study of Med-iterranean History, Oxford, [U.K.]; Malden, Mass, Blackwell Pub-lishers, 2000, p. 78.18 O. Ribeiro, Il Mediterraneo. Ambiente e tradizione, Milano,Mursia, 1976, p. 36.19 R. Borchardt, «Aus einem südlichen Garten», MünchnerNeueste Nachrichten, 24 novembre 1927, trad. it. Da un giardinodel Sud , in Città italiane, a cura di M. Marianelli, Milano, Adelphi,1989, p. 76 e 78.20 Giovanni Boine (1887-1917), La crisi degli olivi in Liguria, inIl peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti , a cura di D. Puccini,Milano, Garzanti, 1983, pp.395-413, la citazione è a p. 397.21 I. Calvino, in Liguria [1973], un documentario di Folco Qui-lici, testo di Italo Calvino, direttore della fotograa Vittorio

    Dragonetti, commento musicale di Piero Piccioni e di L.E. Ba-calov, Roma, Esso italiana, DVD versione restaurata 2004. Orain I. Calvino, Saggi , a cura di M. Barenghi, vol. II, Milano, Monda-dori, 1995, p. 2376.22 Calvino, Liguria, op. cit., p. 2381.23 G. Mangani, Geopolitica del paesaggio. Storie e geografe dell’i -dentità marchigiana, Ancona, Il lavoro editoriale, 2012, in part.pp. 31-116.24 Mangani, Geopolitica…, op. cit., p. 204.25 M. Neve, «Limiti dell’identità europea. Note sulla costruzio-ne degli stereotipi geograci», Griseldaonline, 12 (giugno 2012)‹http://www.griseldaonline.it/temi/estremi/neve-costruzione-stereotipi-geograci.html›.

    26 F. Farinelli, «Lo spazio rurale nell’Italia d’oggi», in P. Bevilac-qua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contempora-nea, vol. I, Spazi e paesaggi , Venezia, Marsilio, 1989, p. 231 e 232.27 Alain Roger, cit. in P. D’Angelo (a cura di), Estetica e paesag- gio, Bologna, il Mulino, p. 186.

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    28 Nel suo romanzo pubblicato postumo (ma scritto neglianni quaranta) La leggenda di domani   (Lecce, Manni editore,2007, con una premessa di Cesare Segre e una postfazione diAnna Longoni).29 Si veda E. Bertaux, «Etude d’un type d’habitation primitive.

    Trulli, caselle et specchie des Pouilles», Annales de Géographie,vol. VIII, n. 39, 1899, pp. 207-30; C. Maranelli, «La Murgia deiTrulli», in Scritti di Geografa pubblicati in onore di G. Dalla Vedova,Firenze, Ricci, 1908, pp. 105-43.30 Si veda P. Laureano, Atlante d’acqua. Conoscenze tradizionaliper la lotta alla desertifcazione, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.31 P. Laureano, Atlante d’acqua…, op. cit., p. 262, corsivo mio.32 Dal latino concrescere, crescere insieme.

    33 Ricordato da Franco Farinelli in «Lo spazio rurale nell’Italiad’oggi», op. cit..34 H. Focillon, «L ‘Histoire de l’art», in AA.VV., Les Sciences so-ciales en France. Enseignement et récherche, Paris, Hartmann, 1937,pp. 163-183, trad. ital. in Estetica dei visionari e altri scritti , a curadi M. Biraghi, Bologna, Pendragon, 1998, p. 89 e 90, corsivo mio.35 D. Turnbull, «The Ad Hoc Collective Work of BuildingGothic Cathedrals with Templates, String, and Geometry»,

    «Science, Technology, & Human Values», vol. 18, n. 3, 1993, pp.315-340. Si veda anche, dello stesso autore,  Masons, Trickstersand Cartographers: Comparative Studies in the Sociology of Scienti-

    fc and Indigenous Knowledge, Amsterdam, Taylor & Francis, 2000.36 F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier,1953, p. 31.37 F. Farinelli, «Un racconto di due città», E|C Serie Speciale,Anno IV, n. 6, 2010, p. 117.

    38 Si veda B. Stiegler, La technique et le temps 3. Le temps ducinéma, Paris, Galilée, 2001.39 S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur , Wien, InternationalerPsychoanalytischer Verlag, 1931, trad. it. di E. Sagittario, Il disagiodella civiltà, in S. Freud, Opere 1924-1929, a cura di C. L. Musatti,vol. 10, Torino, Boringhieri, 1978, pp. 557-630.40 B. Zapponi (a cura di), Roma di Federico Fellini , Roma, Bul-zoni, 1972.

    41 F. Farinelli, «L’immagine dell’Italia», in P. Coppola (a cura di),Geografa delle regioni italiane, Torino, Einaudi, p. 37 e 38.42 L. Gambi, M. Milanesi, A. Pinelli, La Galleria delle Carte geogra-fche in Vaticano, Modena, Franco Cosimo Panini, 1996.43 A. Pinelli, in L. Gambi, M. Milanesi, A. Pinelli, La Galleria…,op. cit., p. 35.44 U. Tucci, «Credenze geograche e cartograa», in Storia

    d’Italia, vol. 5, tomo I, Torino, Einaudi, 1973, p. 61.

    45 Tucci, «Credenze geograche e cartograa», op. cit., pp. 58-68.

    46 Citato in Tucci, «Credenze geograche e cartograa», op.

    cit., p. 69.47 W. M. Davis, «The Geographical Cycle», The Geographical Journal , Vol. 14, No. 5 (Nov., 1899), pp. 481-504.48 R. M. Rilke, Worpswede, Bielefeld und Leipzig, Velhagen und

    Klasing, 1903, in Sämtliche Werke, Band 1–6, Band 5, Wiesba-den und Frankfurt a.M., Insel Verlag, 1955–1966, trad. ital. di A.Iadicicco, Worpswede. I postimpressionisti tedeschi e la pittura dipaesaggio, Milano, Claudio Gallone Editore, 1998, p. 9.49 Rilke, Worpswede, ibidem.50 Ch. Godin, La Totalité, 1. De l’imaginaire au symbolique, Seys-sel, Champ Vallon, 1998, pp. 69-70.51 F. Walter, Les fgures paysagères de la nation : Territoire et

    paysage en Europe (16e-20e siècle), Paris, EHESS, 2004, p. 340.52 La rovinosa battaglia della selva di Teutoburgo (9 d.C.), fra iromani al comando di Quintilio Varo e i germani in rivolta sot-to il comando di Arminio, diventerà in seguito un vero e pro-prio mito fondativo (Hermannschlacht) della ‘nazione’ tedescain epoca romantica, consacrando la selva come paesaggio pri-migenio germanico; mito che verrà ripreso dal nazionalsociali-smo. Su questo mito si vedano S. Schama, Paesaggio e memoria,

    Milano, Mondadori, 1997; Ch. B. Krebs, Un libro molto pericoloso.La Germania di Tacito dall’Impero romano al Terzo Reich, trad. ital.di Maria Luisa De Seta, postfazione di Paolo Fedeli, Ancona, illavoro editoriale, 2012.53 Walter, Les fgures paysagères de la nation…, op. cit., p. 344.54 R. Albert, «La Grande Plaine hongroise, symbole national.Genèse d’un imaginaire, XVIIIe-XXe siècles», in R.-M. Lagrave(dir.), Villes et campagnes en Hongrie XVIe-XXe siècles, Les Ca-

    hiers de l’Atelier 1, Budapest, Atelier – Centre Franco-hongroisen Sciences Sociales, pp. 25-6.55 Si tratta, ovviamente, del Grand Tour , del viaggio d’istruzio-ne e formazione che la gioventù aristocratica e alto-borgheseeuropea intraprendeva al ne di completare la propria educa-zione. Il termine tour , che soppianta quello di travel  o journey  o voyage, evidenzia come la caratteristica di questa moda sisostanzi nel suo carattere di movimento circolare – partico-

    larmente lungo, ampio e ininterrotto, con partenza e arrivonello stesso luogo –che può attraversare anche i paesi conti-nentali ma ha come traguardo favorito e irrinunciabile l’Italia.Si veda in proposito: F. Farinelli, «Storia del concetto geograco

    di paesaggio», in T. Maldonado (a cura di), Paesaggio: immagine erealtà, Milano, Electa, 1981, pp. 151-58; F. Farinelli e T. Isenburg,«Le intenzioni del Pittoresco: viaggiatori stranieri in Italia me-ridionale fra Settecento e Ottocento», in T. Maldonado (a cura

    di), Paesaggio: immagine e realtà, op. cit., pp. 159-65; C. De Seta,

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    «L’Italia nello specchio del Grand Tour», in Storia d’Italia, Annali5, Il Paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino, Einaudi, 1982, pp.125-263; L. Di Mauro, «L’Italia e le guide turistiche dall’Unità adoggi», in Storia d’Italia, Annali 5, Il Paesaggio, op. cit., pp. 369-427;A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale,

    Bologna, il Mulino, 2006. Sui centri storici italiani si veda M. Fa-zio, I centri storici italiani , Milano, Silvana Editoriale d’Arte, 1976;C. De Seta, «Sul concetto di centro storico», in La città europeadal dal XV al XX secolo, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 356-60; G.Dioguardi, Ripensare la città, Roma, Donzelli, 2001.56 È ciò che differenzia il termine paesaggio – legato a ‘paese’ – rispetto ai termini come landscape o landschaft.57 C.R. Whittaker,Rome and Its Frontiers: The Dynamics of Empi-

    re, New York, Routledge, p. 80.58 Whittaker, Rome and Its Frontiers…, op. cit., p. 63.59 Whittaker, Rome and Its Frontiers…, op. cit., p. 74.60 A. Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione cultu-rale, Bologna, il Mulino, 2006, p. 42.61 Brilli, Il viaggio in Italia, op. cit., p. 48. Si veda sopra la nota 55.62 Su tale nozione e sui paradossi che ne sono derivati, sivedano M. Neve, «Limiti dell’identità europea…», op. cit.; A.M.

    Medici, «Mediterraneo planetario», R. Barbanti, L. Boi, M. Neve(a cura di). Paesaggi della complessità…, op. cit., pp. 351-393.63 F. Farinelli e T. Isenburg, «Le intenzioni del Pittoresco…»,op. cit..64 Si veda Viaggio in Italia partendo da Parigi e ritornandovi attra-verso la Svizzera e Strasburgo / itinerario e note dettate da Henri

    Beyle (Stendhal), Milano, Tranchida, 1987.65 Brilli, Il viaggio in Italia, op. cit., p. 213.

    66 Padre dell’architetto Luigi Vanvitelli (nome italianizzato diLodewijk van Wittel), autore della reggia di Caserta e del Laz-zaretto e del Molo Nuovo di Ancona, tra le altre opere.67 Brilli, Il viaggio in Italia, op. cit., pp. 73-4.68 W. Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926–1927 , Torino,Einaudi, p. 41.69 A questo proposito si leggano le cronache di Joseph Rothne Le città bianche (Milano, Adelphi, 1986) o i ricordi familiari di

    Sergio Solmi (S. Solmi, Poesie, meditazioni e ricordi. II Meditazionie ricordi , Milano, Adelphi, 1984, in part. pp. 192-3).70 Benjamin, Strada a senso unico…, op. cit., p. 10.71 Si veda W. Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino,Einaudi, 1988, in part. p. 38.72 A. Dupront, «Espace et Humanisme», Bibliothèque d’Huma-nisme et Renaissance, Tome VIII, 1946, p. 99.73 Si vedano J.-C. Gay, «Vitesse et regard. Le nouveau rapport

    de l’homme à l’étendue», Géographie et Cultures, n. 8, 1993, pp.

    33-50; J.-L. Piveteau, «La voiture, signe et agent d’une nouvellerelation de l’homme à l’espace», in W. Leimgruber (éd. par),La transfromation de l’environnement quotidien. Représentations et

    pratiques,Rapports et Recherches, vol. 2, Fribourg (CH), Istitut deGéographie, pp. 93-103.

    74 Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia…, op. cit., p. 42.75 P. Fallai, «Gli eroi della bonica di Ostia arrivarono in

    500 da Ravenna nel 1884», Corriere della Sera, edizione diRoma, 19 novembre 2014, http://roma.corriere.it/notizie/cultura_e_spettacoli/14_novembre_18/gli-eroi-bonica-os-tia-arrivarono-500-ravenna-1884-8adb2ff6-6f50-11e4-a038-d659db30b64c.shtml#, ultimo accesso 14 marzo 2015. Perun approfondimento si vedano P. Isaja, G. e V. Lattanzi, Pane e

    lavoro. Storia di una colonia cooperativa: i braccianti romagnoli e labonifca di Ostia, con introduzione di F. Fabbri, Ravenna, Longo,2008; V. Emiliani, Romagnoli e romagnolacci. Cento e più r itratti dipersonaggi della Romagna dell’altro ieri, di ieri e di oggi , Argelato,Minerva Edizioni, 2014.76 La storia delle boniche e del loro impatto è ovviamente

    ben più complessa di quanto si possa tracciare in poche righe.In proposito si può consultare L. Gambi, L’insediamento umano

    nella regione della bonifca romagnola, Roma, Consiglio Nazi-onale delle Ricerche, 1949, rist. anast., Bologna, Forni, 2011;G. Haussmann, «Il suolo d’Italia nella storia», in Storia d’Italia,vol. 1, Torino, Einaudi, 1972, pp. 63-132; B. Bianchi, «La nuovapianura. Il paesaggio delle terre bonicate in area padana», in

    P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età con-temporanea, vol. I, Spazi e paesaggi , Venezia, Marsilio, 1989, pp.451-94; P. Bevilacqua, M. Rossi-Doria (a cura di), Le bonifche in

    Italia dal Settecento ad oggi , Roma-Bari, Laterza, 1984.77 Si veda B. Bianchi, «La nuova pianura…», op. cit., pp. 476-82,per quanto riguarda l’area del Delta.78 G. Haussmann, «Il suolo d’Italia nella storia», op. cit., p. 108.79 Si veda P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggioitaliano, Milano, Garzanti, 1992, in part. pp. 156-7.80 «La carriola era un mezzo indispensabile per il lavoro.Ogni scariolante ne aveva una, di sua proprietà, preziosa quasi

    come le sue braccia. Partiva da casa alla mattina con la carriolaal traino, legata alla bicicletta. Qualcuno la portava rovescia-ta in testa, con la parte posteriore appoggiata alla schiena, epedalava così». Testimonianza di Alero Gualtieri raccolta in

    M. Garuti, La terra e l’acqua. Storie di pianura e di montagna fra ilReno e il Panaro, Argelato, Minerva Edizioni, 2007.81 W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, p. 40.82 M. Neve, F.A. Santoro, Il Teatro della Memoria. un foglio del

    Libro delle città pugliesi , Fasano, Schena editore, 1989.

  • 8/18/2019 Da una rispettosa distanza

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