cèsar calvo- le tre metà di ino moxo

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Le tre metà di Ino Moxo e altri maghi verdi Cèsar Calvo romanzo

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Page 1: Cèsar Calvo- Le tre metà di Ino Moxo

Le tre metà di Ino Moxo

e altri maghi verdi

Cèsar Calvo

romanzo

Page 2: Cèsar Calvo- Le tre metà di Ino Moxo

Dedica

Non molti anni fa, quando i nativi della selva amaz-zonica venivano sterminati dai caucheros,1 il capo degli ama-waka, stregone che si era guadagnato la fama di onnipotente con il nome di Ximu, capi che il suo popolo sarebbe sopravvissuto soltanto se, oltre ad usare lance e frecce contro i mercenari bianchi, avesse usato anche armi da fuoco. Siccome a quei tempi era proibito vendere fucili agli aborigeni, il capo Ximu fece rapire il figlio di un canchero e lo designò suo successore ribattezzandolo, in lingua amawaka, Ino Moxo: Pantera Nera. Fu cosi che i tanto temuti an-tropofagi, capeggiati da un bianco, riuscirono a sopravvive-re. Ino Moxo riprese la sua antica identità sostituendo i suoi indumenti indigeni con pantaloni e camicia di uno straniero morto, e infiltrandosi nelle città, ottenne armi da fuoco e ne insegnò l'uso agli uomini amawaka.

Quando mio cugino Cèsar Calvo, nato in quella zona, mi confidò questa storia, non soltanto suscitò la mia curiosità e aumentò la sua, ma entrambi diventammo preda di una stessa ossessione: realizzare ciò che nessuno era mai riuscito a fare in più di due decenni, parlare con Ino Moxo, leggendario capo degli amawaka.

Con Cèsar ho viaggiato da Lima a Pucallpa, da Pucallpa a Atalaya, da Atalaya, sfidando su una piroga i capricci del clima e dei fiumi, fino a quel territorio che si nasconde oltre il fiume Mishawa. Durante il viaggio abbiamo conosciu-

1 Cauchero: chi raccoglie e lavora il caucciù. [N.d.T.]

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to altri stregoni, Don Javier, Don Juan Tuesta, Don Hilde-brando, Juan Gonzalez, e raccolto altre storie e fatti di altri personaggi che hanno finito per travalicare le intenzioni del nostro reportage.

Se qualcuno, comunque, pensasse di vedere in queste pagine qualcosa di più che delle semplici 'pagine', come Ino Moxo direi che "il miracolo sta negli occhi che guardano e non nelle cose guardate ". Perché, in realtà, questo libro non è un libro. Né un romanzo né una cronaca. Appena un ritratto: la memoria del viaggio da me compiuto da sonnambulo, trascinato da indomabili presagi e dalla ayawaskha, droga sacra dei fattucchieri amazzonici. Ed è forse per questo che il racconto ha inizio con le mie prime visioni di ayawaskha, le immagini che ci hanno aperto la rotta del viaggio, i sentieri che Ino Moxo aveva deciso di rivelarci.

— Non è giusto che la gente soffra per mali come il diabete o come il cancro, che noi qui sappiamo debellare — mi dirà Ino Moxo nel momento del commiato. Tutto quello che ti ho detto di me, della vita, l'ho detto pensando a questa gente. È probabile che qualcuno senza più speranza, vittima di una malattia che anche i medici con tanto di titolo credono incurabile, leggendo quello che tu scrivi verrà da noi, e, allora, recupererà forse la gioia di vivere. Per questo ti ho raccontato le cose che ti ho raccontato...

E per questo stesso motivo ho riunito qui Le 3 Metà. Tutto ciò che in esso c'è di valido, ammesso che ci sia qualcosa, mi è stato detto da Ino Moxo, più attraverso visioni che parole, durante una seduta di ayawaskha mescolata con tohé, un altro allucinogeno dall'effetto forse più sconvolgente e più forte.

— Non l'ho comunque detto a te, ma a un altro te stesso, a uno di quelli in cui ti sei sdoppiato durante le visioni, durante il viaggio attraverso la droga..

Aggiungerò soltanto che ciò che documenta il testo si basa su diciassette bobine registrate, su alcune fotografie e sul glossario inseriti alla fine, ed inoltre si basa su un libro del cauchero Zacarìas Valdez stampato nel 1944

con il titolo di "II Vero Fitzcarrald Di Fronte Alla Storia", di cui ho trovato un esemplare nella Biblioteca del Consiglio Municipale di Maynas, ma soprattutto si basa sul resoconto paziente dei Maghi Verdi che hanno acconsentito e svelarci una parte dei loro misteri e dei loro poteri.

Iquitos, Gennaio 1979 Cesar Soriano C.

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a mo' di prologo: Ino Moxo enumera tutto dò che appartiene all'aria

— È una lunga storia, te l'ho già detto. Se ti raccontassi tutto non mi crederesti. Mai si può credere tutto. Sai? E mai si può ascoltare tutto...

— Sono disposto ad ascoltarti, maestro Ino Moxo, e non mi sfugge il tono seducente della mia voce, sono venuto per questo...

— Potresti? Credo proprio di no. La testa si inclina da una parte ma il suo sguardo la riporta in posizione eretta:

— Per farti solo un esempio, guarda la selva. Se ti metti ad ascoltare tutto ciò che risuona nella selva, che cosa senti...?

E come preda di se stesso, come se allo stesso tempo fosse la cerbottana e il dardo e la selvaggina e il cacciatore e la legna accesa in cucina in attesa, Ino Moxo mormora confusamente:

— Non senti solo il grido delle scimmie, non solo il ronzio delle zanzare, della arambasa, che è l'ape più fiera e più scura, del chinchilejo, che tu sicuramente chiamerai libellula, del chushpi che se ti punge ti infetta, della ca-rachupaùsa che ti succhia il sangue senza che tu te ne accorga, non solo senti la ronsapa che sibila nell'aria, la man-tablanca che beve dai tuoi capelli, la quilluavispa dai voli gialli, il papàsi che nasce dal verme ma non è verme, la wairanga che non tocca mai terra. Non solo senti l'uccello flauto, il firirìn che non sa volare pur avendo le ali, né

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l' ushùn né il tabaquerìllo né il shànsho né il piurì né il timelo grigiastro né il tibe bianchissimo, né il nerissimo taràwi che mangia le chiocciole, né la sharàra che sa vivere bene sottacqua e ancora meglio sopra il vento, né il piccolo zuizùi celeste né lo yungurùru grande le cui uova sono del colore dello zuizùi, né quell'airone gigante biancorosso chiamato tuyùyu. Non solo senti l' urkutùtu presuntuoso, Né la quichagarza, dagli escrementi lenti e frequenti. Né l' ucuashéro né il tiwakuru, che mangia soltanto formiche e canta dall'alto delle wimbras, né il pàwkar dalle piume nere e gialle, che sa imitare tutti i canti degli uccelli, né l' unchala simile a colomba color rosso vino, né il paujil, forse l'avrai mangiato, più saporito della carne della scimmia makisapa, più della carne della lucertola bianca, più buona della ciliegia gigante del taperibà, né il tatatao, uccello rapace che qualcuno chiama virakocha. Non solo senti l'anitra mariquina, il locrero, la pinsha, il montete che in alcune zone chiamano trompetero, il tuhuàyu, il pipite, la panguana che deposita sempre cinque uova e poi muore, quei pappagalli azzurri che chiamano marakàna, né la wa-papa carnivora, sicuramente l'avrai vista nel fiume Mapuya, non solo senti suo cugino wankàwi che avvisa ogni volta che si avvicina un essere umano, né il chiwakùllin né il korokóro né l' ayaymàman che piange come un bambino abbandonato, né il camùnguy, né quell'airone dalle piume grigie, grande come un uomo, che si chiama manshàku, e tanti altri ancora... Non solo senti il suono di dense nubi di insetti, di sera, tra i rami intricati del bosco. Non solo il suono della serpe sospettosa, del tùnchi che annuncia una morte, della tigre, l' otorongo che in silenzio si procaccia carne tiepida, né del ronsoco bavoso nei campi di man-dioca, né quello degli enormi pesci dalla grande testa in trappola nelle reti.

E non solo senti il suono dei pesci: l' akarawasù, la gamitana, il tamborero, il paiche, tre metri di lunghezza e lingua ossea che partorisce creature invece di uova, il peje-

torre, che si gonfia d'aria e galleggia come una boa, la dorada priva di spine, il chàllualagarto, il kunchi, Vana-shùa, l'anguilla che ti uccide con una sola scarica elettrica, la manitóa, il shitàri, la doncella avvolta di strisce nere, il chullakaqla orfano di squame, il tiriri, il fasàcuy in fondo ai laghi, il shirùi, il maparàte, la shiripira, il bujùrqui, la makàna simile all' affilatissima sciabola, il shùyu che sa muoversi anche sulla terra, e il canero che si infila nell'ano e ti mangia le budella, il dementochàllua che vola anche se poco, e il sorprendente saltón, un pesce gigantesco che salta dall'acqua per parecchi metri nonostante i suoi cento chili e più e i suoi due metri di lunghezza. Per non parlarle della pana, la conosci, molti la chiamano pirana, che ti mangia in un attimo senza troppi complimenti. E la kawàra, enorme, e la palometa che ha un sapore dolciastro, e il bujéo, chiamato anche delfino dei fiumi, il bujéo, la cui femmina in amore è più piacevole di una donna, più eccitante, così dicono i pescatori che ci sono stati, e ha la stesa vagina e i seni duri e partorisce come fosse donna. È noto che con le labbra del suo sesso tagliate e curate, gli shirimpiàre fabbricano dei braccialetti infallibili nei casi di amore respinto. E senti anche la carachama dalla bocca di pietra che resiste fuori dell'acqua anche più di una settimana, nata molto prima del diluvio, prima di quella tigre che tanti secoli fa mise in fuga i nostri progenitori asha-nìnka. E tanti altri ancora...

Non soltanto senti le serpi: la afaninga innocente, inof-fensiva tra l'erba, e che si difende scuotendo impercetti-bilmente la coda, e l' aguajemachàcuy che respira nell'acqua e che ha la pelle simile al frutto della palma, e la naka-naka piccola e mortale in agguato nei fiumi, e la mantona con i suoi dieci metri inutili dal momento che non fa male a nessuno, dieci metri di colori carichi, semplici ornamento, e la chushùpe velenosa lunga cinque metri che si accanisce sulla sua preda mordendola ripetutamente, e la yana-boa che supera i quindici metri, grossa come un uomo, che

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prima ipnotizza e poi divora. E la sachamàma, boa con orecchie, da cui si differenzia la yakumama che vive soltanto nell' acqua. Anaconda di terra è la sachamàma, si mimetizza senza volerlo: l' erba le cresce da sola sul corpo. Anche il jergón si mimetizza, ma volutamente: man mano che cresce la sua pelle va assumendo un colore marrone pezzato, come lucido fogliame, che puoi distinguere soltanto per quell'alone di luce splendente che proietta sul luogo in cui sta per passare, come un preavviso, come un'anima. Infinite esistenze ascolti, un'infinita silenziosa saggezza senti quando presti l'orecchio alla selva. Senza contare che non è più possibile udire il canto dei pesci che rallegravano le acque del Pangoa, del Tambo, deU'U-cayali, animali musicali che presentendo l'arrivo del grande otorongo nero sono fuggiti in tempo e si sono messi in salvo. Devi sapere che questo otorongo con i suoi artigli gi-ganteschi provocò un torrente di pietre e limo ponendo fine all'esistenza dei fiumi. Soltanto i pesci che cantavano e che nelle loro canzoni prevedevano il futuro perché lo sentivano, sono riusciti a sopravvivere alla melma di quegli artigli. Oggi forse non sanno più cantare, e se cantano ancora, sicuramente cantano senza più fare profezie, con suoni a cui il nostro udito non è abituato, suoni impercettibili, diversamente organizzati... Devi sapere che tutti, per-sino gli esseri umani, quando sono piccoli, sentono il futuro come i pesci del diluvio, come oggi tanti animali, tante vite che sanno ciò che succederà e non possono dirci niente, non possono avvertirci. I bambini, in genere, possiedono nove sensi e non cinque, alcuni persino undici, come mi è capitato di vedere. Man mano che crescono e che i loro corpi si vanno avvelenando di cibo e di sofferenza, e man mano che le loro anime diventano sede di pensieri e di sogni contaminati, i corpi e le anime degli uomini perdono quei sensi, quelle forze. Per questo gli stregoni, i grandi shirimpiàre, per esercitare a pieno i poteri dell'aria, per sviluppare al massimo la potenza del loro sguardo, usano gli spiriti dei bambini, anime simili a famiglie appena

costituite che occupano le dimore del loro corpo, le case rovinose...

Non soltanto senti gli animali: la awiwa, quel verme che si può mangiare come lo zùri, un altro verme commestibile dai colori vivaci, e quel rospo gracchiante che pesa più di un chilo e si chiama wàlo, e il bocholócho che canta e che cantando sa solo dire il suo nome, bocholó-choooo, solo quello, all'infinito, e la manakaràcuy litigiosa, invincibile tra gli uccelli, e il cupisu, piccola tartaruga d'acqua che mangia le sue uova e la sua carne, e la feroce wangàna, maiale selvatico che avanza in branco con le zanne voraci, e il tokón, una scimmia dalla coda gigantesca e pelosa, e l' allpacomején, formica condannata a vivere sulla terra, e la bayuca, verme velenoso ricoperto da una peluria azzurra, gialla, rossa, verde, e quella formica grande e senza veleno che si ciba di funghi che chiamano curuince, e l' anuje, della grandezza di un coniglio, e l' isango che non possiamo vedere e ci punge conficcandosi nella carne come se ci volesse punire, e l' ayahàwi, l'occhio dei morti, che altri chiamano lucciola, e l' achùni ricercato perché il suo fallo osseo con la cui polvere vengono preparate pozioni per gli impotenti, e quel cinghiale dalla dura setola bianca come neve intorno al collo e che chiamano sajino, e il ronsoco, il roditore forse più grande di questa specie, un me-tro di lunghezza e cento chili di peso, e la apashira, un ca-maleonte, il cui nome viene usato dalla gente del luogo per designare il sesso femminile.

E non soltanto senti tutti gli animali che hai visto, e quelli che non hai visto, e che nessuno vedrà mai, animali che imparano a pensare e a parlare come gli esseri umani... Senti risuonare anche le piante, i vegetali: la katàwa dalla linfa velenosa, la chambira che ci presta le sue foglie per fabbricare corde, il pan-de-àrbol che chiamano pandisho, e l'alto makambo dalle grandi foglie e dai frutti come testa

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d'uomo, la nejilla spinosa che cresce nelle zone paludose, il rugoso pashako, il machimango maleolente, la chimicùa i cui rami si spezzano al minimo soffio, il wakapù più solido dello stesso palosangre, l' itininga, il witino, la itahùba, il wikingu dagli aculei neri e quell'albero dritto che si chiama espintana, che quando cade può essere usato per seder-cisi e parlare, e la wakapuràna ottima per legna da ardere, e la chonta, cuore di alcune palme: la wasài, la cinami, la pijuàyu, la hunguràwi. E l' hunguràwì il cui frutto espelle un olio che fa crescere i capelli. E la wayùsa rampicante le cui foglie contengono un tonico potente che elimina la stanchezza. E il sapote dal frutto color verde scuro. E il tawarì durissimo. E la shiringa, la shiringa, quel caucciù che senza volerlo ci ha portato tante disgrazie... E la qui-nilla, e il timaréo, e la shapàja dai frutti oleosi, e la wi-ririma, e lo shebón gigantesco che ci offre le sue foglie per i tetti delle case, e quell'avorio vegetale che noi chiamiamo tagua, e il situili, quel banano rarissimo dai grandi fiori rossi, e il wingu, arbusto il cui frutto diventa contenitore di bevande, detto tutùmo, e il pitajày, la pona nera e dura, e l' aguaje immenso, e la andiroba, e il caimito dai frutti simili a seni di adolescente, e la waqrapona, palma panciuta, e l' anona saporita, e il cashù che fuori è come mandorla ma dentro più dolce e succoso, e la apasharàma la cui linfa serve per conciare il cuoio, e il bar basco dalla radice velenosa, e il camucàmu citrico, semiacquatico, e la capirona unica per fare legna e carbone, e la aripasa dal frutto schiacciato, scuro e rotondo che non si deve mangiare, e la cumala, e la punga, e la cumacéba, e la cashi-rimuwéna, e l' ashùri che protegge i denti dalla carie, e la catirima per i cui frutti alcuni pesci litigano e si divorano, e la bella cocona, e quel tubero che si mangia crudo e che si chiama ashipa, e il pukaquiru dal cuore rosso, durissimo, e il punqùyu frondoso, fitto di foglie, sotto la cui ombra nessuno sopravvive perché espelle veleno dai suoi rami, e l'ancora più frondoso parinàri dal frutto allungato e rosso che si chiama sùpay-ocóte, culo-del-diavolo. E la lupuna, l'albero più grande di tutta l' Amazzonia, che sta sulle rive,

con le sue ali immobili, bianche o rosse, adagiate sulla su-perficie della terra. E quell'altro che gocciola come grondaia d'inverno. E quell'altro ancora, nella parte più interna della selva, che si gonfia ed esplode come nella notte centinaia di proiettili, e il renaco più esteso di un bosco senza foglie e senza fiori, e il garaoatokasha che cura diversi tipi di cancro e ridà vigore agli arti che invecchiano, e il tamshi che ti difende dal freddo, e la coca che si usa con l' ayawaskha per divinare, e la kamalonga che serve per fare diagnosi, e la renakilla che distrae gli invalidi, e la wankawisacha che guarisce gli alcolizzati, e il chamairo che aiuta a masticare la coca, e il tornillo-negro che galleggia sott' acqua, nei gracili fiumi più insidioso del succo di tohé, quando la luna è verde e la stagione è buona per abbattere il cedro senza spaccare la corteccia. E la paka che risuona simile a un tunnel sul bordo del fiume scomparso, e la zarzaparrilla che cura la sifilide, e la papaya verde che elimina la rogna e la parassitosi, le cui foglie avvolgono le carni più dure e le trasformano in teneri animale tti. E la wenàira dall'ombra velenosa come il succo del fiore del tohé. E il tohé che ti fa vedere i mondi di oggi e di domani che formano il nostro mondo. E la para-para, più nota come hiporùru, foglia che non perde mai la propria forma come se fosse di gomma, ostinata: tu la tagli dal gambo, la stropicci, la pieghi, e subito ritorna com' era sul ramo, riprende sempre la sua forma, la sua grandezza, la grandezza e la forma delle sue due nascite, e non è per questo ma per i poteri che le vengono da lontano che la foglia di hiporùru sa restituire agli uomini il vigore sessuale. E la quina-quina che da secoli purifica le ferite infette. E la liana-del-morto, ayawaskha sacra, La Madre Della Voce Nell'Orecchio. Con l'ayawaskha, con l' oni xuma, se te lo meriti, puoi passare dal sogno alla realtà senza uscire dal sogno... E tante altre ancora, tutte hanno un suono. La abuta, stai ben attento, la abuta, albero di media grandezza la cui radice rossastra si fa bollire per ottenere un liquido che, se bevuto, elimina, in pochi giorni, ogni traccia di zucchero dal sangue: scompaiono

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i diabetici. E la mariquita, metà innamorata e metà fiore, che sa solo aprirsi nell'ombra più assoluta. E la tzanga-pilla, arancione e grande, figlia unica, fiore che scotta più di un febbricitante. Tutte hanno un suono, come le pietre...

E ancora di più risuonano i passi degli animali che siamo stati prima di diventare uomini, i passi delle pietre e dei vegetali e delle cose che ogni essere umano è stato. E anche ciò che abbiamo sentito prima, tutto questo risuona nella notte della selva. Dentro ognuno di noi, nei ricordi di ciò che abbiamo ascoltato durante la nostra vita, balli e pifferi e promesse e menzogne e paure e confessioni e grida di guerra e gemiti d'amore. Lamenti di agonizzanti che abbiamo emesso o semplicemente ascoltato. Storie vissute, storie future. Perché tutto ciò che ascolteremo risuona con anticipo, in mezzo alla notte della selva, nella selva che risuona in mezzo alla notte. La memoria è qualcosa di più, è molto di più; lo sai? La memoria veritiera ricorda anche le cose che stanno per accadere. E persino quelle che non accadranno mai, anche questo ricorda. Pensa. Pensa un po'. Chi mai potrà riuscire a sentire tutto?, me lo sai dire? Chi potrà mai riuscire a sentire tutto nello stesso momento e crederci?...

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di come alcuni stregoni creano le persone

Il primo uomo non fu uomo, mi dice Don Javier im-pigliandosi tra profonde risate. Il primo uomo fu donna.

Non tutti i maestri, solo per il fatto di essere tali, sono (capaci di creare un chullachaki, spiega Don Juan Tuesta lasciandosi andare sulla dura corteccia di un tronco di espin-tana che funge da sedile, mentre concede gli occhi alla Plaza Rumania che si apre di fronte, tra le case dell'isola Muyuy.

Poco distante, nel punto in cui nasce una lunga strada polverosa parallela al corso del Rio delle Amazzoni, un cartello muto in cima a un palo dice : Avenida Calvo de Araùjo. La dose di ayawaskha che ieri sera mi ha offerto lo stregone non si è ancora dissolta, persiste nelle mie vene, nonostante l'alba, da candida che era, sia diventata indaco. Dalle capanne vicine arrivano i primi rumori: padelle che friggono, corpi che si lavano, gente che mangia. La corrente del Rio delle Amazzoni, dietro di noi, assorda e illumina il ciclo. Sento il rombo di un aereo, sollevo la testa, lo vedo abbassarsi e rimpicciolirsi, ormai trasformato in wakamayu, si posa con le sue piume scintillanti sui rami di una apasharàma. Non so perché ricordo cose che non ho mai saputo; forse Don Juan Tuesta, lo stregone, mi sta parlando da lontano, oltre l'ayawaskha, venticinque anni fa, quando per la prima volta presi la droga, ieri sera: il wakamayu è un dio di altri tempi, al posto dei suoi

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occhi ardono due smeraldi e non c'è nessuno dietro quelle verdi luci evanescenti, l'anima del wakamayu è puro orna-mento senza ragione né passione, spazio vuoto, e i grandi spiriti sono grandi perché invece di annientare il wakamayu nella sua vanità lo alimentano nella sua assenza: sostituiscono gli smeraldi con chicchi di granturco e il wakamayu guarda allora le cose dell'affetto, dimentica i suoi occhi e i suoi denti, e si nutre soltanto della fame dell'affetto. Io ora lo vedo, apre le ali, non è più un wakamayu, canta con voce muta; l'aeroplano che ho visto, che è caduto, ora è wapapa trasparente, il suo corpo si dissolve in canto trasformato in una lenta pioggia minuta di foglie dai colori intensi, morbide come seta. Ogni foglia è una musica diversa, ogni foglia scivola su una nota e la sua caduta infinita è il suo suono; nessuna mai riesce a posarsi a terra, le brume del Rio delle Amazzoni le sgualciscono e le cancellano contro l'aria tiepida. Chiudo gli occhi, cerco di vincere gli ultimi effetti della liana-del-morto: la mano del Rio delle Amazzoni, riesco a vedere, è rugosa e grigiastra. Li riapro: c'è soltanto la voce di Don Juan Tuesta. Scintilla, alla mia destra, sulla espintana caduta ai margini di Plaza Rumania e sovrasta quella mano azzurro-marrone, il serpente dalle cinque teste che il fiume-mare protende verso di noi.

— Il maestro Ino Moxo, lui sì, dotato di sufficienti poteri, può creare un chullachaki, e non soltanto lo crea, lo inventa dove e quando vuole. Voglio fare una domanda, non so se ci riesco, ed ecco la voce di Don Juan Tuesta che mi risponde:

— Un chullachaki è qualcosa di più, non solo quel de-monio della foresta, quel mostro che crede la gente, no. È qualcosa di più. Un chullachaki è come una persona. È molto di più di una persona, ma anche molto meno: solo apparenza di persone. Mi capisci quando dico apparenza? Il maestro Ino Moxo può creare così: persone che al tempo stesso sono e non sono persone, troppo e troppo poco, sempre che si consideri il più e il meno della gente, secondo le normali credenze. Mi capisci? A quanto mi risulta, Ino

Moxo è molto abile, ha tutti i requisiti di forza e di saggezza per creare un chullachaki. Di questi chullachaki ne esistono due specie principali: tutte e due invenzione, sforzo di uno stregone autorizzato dagli esseri dell'aria. È facile riconoscere il chullachaki, servo del Maligno, creato per fare del male, perché al posto del piede destro ha una zampa di tigre o di cervo. E mai riesce a nascondere questa malformazione, persino quando si maschera con il corpo di qualche nostro amico. L'altro chullachaki, invece, artificio per raggiungere la verità, è persona del bene e nessuno, proprio nessuno, può riconoscerlo; i suoi piedi sono perfetti, in tutto è perfetto, umanamente umano...

Nessuno può distinguere questo chullachaki, prosegue Don Juan Tuesta. È apparenza di persona, ma di persona completa, non c'è dubbio. Soltanto gli occhi accorti capiscono che il suo corpo non è unico e che più persone, più vite vivono in esso. Come se ciascuna parte del suo corpo avesse un'esistenza autonoma, diverse esistenze che solo agli occhi degli altri il chullachaki armonizza in una sola. Sono chullachaki che ignorano il male, incapaci di odiare persone e cose. Finché esistono, esistono soltanto per amare, per contribuire al bene.

La mano del Rio delle Amazzoni si ritrae, la vedo, e ricordo tra brume di colori la notte in cui lo psichiatra Oscar Rìos, originario della selva, definì la sensazione primordiale dell'ayawaskha:

— Nella liana-dell'anima tutto è armonia, assolutamente tutto.

— Nella capanna di Don Juan Tuesta, dice mio cugino Cèsar Calvo, nel 1953 circa, quando avevo tredici anni, ho partecipato per la prima volta a una seduta di ayawaskha, una bevanda allucinogena che i maghi della selva usano come reattivo, e i cui poteri servono per scrutare i tempi passati e futuri e per liberare dal dolore corpi

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e anime. E fu allora, forse, che nel bere il succo dell'aya-waskha, droga sacra che i fattucchieri estraggono dalla liana-del-morto, bevvi anche l'inquietudine che più tardi mi avrebbe portato...

— Certo, tutto è armonia, ripete Oscar Rìos. Ed è appunto questo che io respiro adesso, armonia, è

questo che scorre dalle sorgenti vegetali e dalla apasharàma che ombreggia un lato della Plaza Rumania, è questo che offre la chiesa del paese, di legno, di calma, di giocattolo, senza porte, con la sua corona di calamine argentate, verdi di ossido di pioggia e di erbacce irriverenti. Armonia, ripetono i primi mormorii dell'abitato, gli uomini che rientrano all'alba con le reti e le canoe e i cesti colmi, è questo che Don Juan Tuesta rafforza nella mia memoria, tutto è armonia, assolutamente tutto.

— La moglie di Don Javier, la conosci?, ha un fratello chullachaki. Ecco, per esempio, lui è un altro tipo di chul-lachaki...

La prima volta che bevvi ayawaskha ebbi la stessa sen-sazione, però più duratura: la certezza di possedere due corpi, di vederli, di toccarli, due Cèsar stesi sul pavimento della casa dello stregone. Perché fu qui, nell'isola di Muyuy, proprio nella casa di Don Juan Tuesta, a tredici anni, che per la prima volta conobbi l'ayawaskha. E accadde. Erano altre immagini, altri colori, ma lo sdoppiamento somigliava a quello di questa notte che stenta ad andarsene. E quelli che compaiono e che scompaiono non sono soltanto i miei due corpi. Mi vedo, a tratti, alla destra di Don Juan Tuesta, seduto sulla espintana rovesciata, poi a sinistra, con un volto simile al mio ma al tempo stesso incerto, che tende a cancellarsi per ricomporsi con fattezze che riconosco ma che non mi appartengono. Accetto comunque di riconoscermi in questa immagine, come accetto la mia incapacità a trovare le parole adatte per spiegarmelo. Mi osservo scisso in due, ai lati dello stregone di Muyuy, due

esistenze, due identità, siamo nel 1953, due memorie che proprio perché così estranee mi sono già familiari.

— Il fatto è che alcuni stregoni per mancanza di pre-parazione o forse per mancanza di merito, non riescono ad inventare un chullachaki compiuto. Ed è per questo che rapiscono le persone, quasi sempre bambini che ammaliano per i loro scopi. Se infondono al rapito poteri malefici, il suo piede destro si altera, si fa mostruoso e il suo passo assurdo lascia inesorabilmente un'impronta umana e una di tigre o di cervo. Se il suo aspetto è invece di animale, a seconda delle dimensioni della specie scelta, il suo piede destro calpesta come se fosse quello di un bambino o di una donna o di un uomo.

— Forse, a tredici anni, devo aver bevuto, dice Cèsar Calvo, l'inquietudine che poi mi avrebbe portato a indagare sulla vera identità di Ino Moxo. Lo stesso Don Juan Tuesta mi ha parlato di lui, quella notte, nella sua capanna di fronte al fiume, quando l'alba andava già attenuando in me gli effetti della droga, e ormai era scomparso quel mormorio che avevo sentito dentro di me all'inizio della seduta, quel vapore, come arcobaleno, che precipitando dall'alto, trasformava il Rio delle Amazzoni in mille frantumi di pietre preziose.

— Di lui non posso raccontarti più nulla, dice Don Juan Tuesta. Niente di più di quello che ti ho già raccontato.

— Ma se non mi ha ancora raccontato niente!, protesto. — Ma sì, ti ho raccontato molte cose, e forse senza che

tu lo sappia, senza che te ne renda conto, dentro di te, nella tua memoria, rimarrà ben impresso tutto quello che ti ho detto su Ino Moxo. Se l'ayawaskha non ti permette di ricordare, non preoccuparti: la fune-del-morto non si sbaglia, sa tutto...

— Saprai che al chullachaki piacciono le lupunas, mi dice ora Don Juan Tuesta. Il chullachaki vive felice all'ombra delle lupunas, in attesa di entrare in azione. Ti è mai capitato di sentire nel fitto del bosco il suono di un man-

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guaré che nessuno percuote? Forse era un chullachaki del bene, stanco di stare solo, che ti chiamava perché voleva essere tuo amico, forse erano i tuoi piedi che ti invocavano battendo sul tronco della lupuna. Se tu fossi accorso all'ombra di quella pianta e se la lupuna fosse stata bianca, sicuramente il chullachaki si sarebbe presentato nelle sembianze di una persona a te molto cara, o forse nel modo più informe, assumendo un aspetto impensabile, odioso, sfidandoti a combattere senza altra giustificazione che la sua insolenzà. Perché se un chullachaki si manifesta e ti dice che vuole essere tuo amico, prima di tutto devi combattere con lui. E lo devi vincere. Non è difficile, ma è inevitabile. Il chullachaki, pur di diventare tuo amico si lascerà vincere. Raggiunto il suo scopo, ti porterà ovunque, farà sì che gli animali ti seguano quando vai a caccia, ti regalerà molte cose: campi di fertile terra, fiumi quieti, generosi, rigonfi. Ti darà tutti i figli che vorrai, figli felici, tutte le vite di cui avrai bisogno per vivere libero, ti darà sapienza e forza, ti darà soltanto grandi sentimenti. Alla tua vita concederà vite utili e morti generose e resurrezioni. E molto altro ancora ti può dare. Il chullachaki fatto per il bene è padrone del mondo e dei tempi, è padrone del tempo e dei mondi. Anche se non sempre, il chullachaki ti proibisce però di fumare, di farti del male facendo male agli altri, né ti permette di andare in chiesa ma solo a casa sua. Ma nemmeno questo è difficile: lui stesso si preoccupa per farti trovare una casa che ti aspetta, qualunque cammino tu percorra, sia che tu vada verso la foresta che verso l'abitato, verso la vecchiaia o verso il sonno. Questa specie di chullachaki è legato da un indissolubile patto d'amore con le diverse specie di lupuna. Persino la lupuna rossa gli si sottomette, diventa sua complice, la stessa lupuna che ha usato per attirarti a sé continua a servirlo: battendo contro le sue ali rugose ti procura fortuna e beni. Questo chullachaki è bontà pura. È persino divertente per la sua eccessiva bontà, quasi ridicolo. Chi lo ha visto in possesso delle proprie facoltà, senza l'aiuto della fune-dell'anima, lo descrive piccolo, arrampicato su due enormi scarpe ros-

se, camicia rossa, sciarpa rossa, pantaloni e cappello rossi. Così appare all'inizio, ma subito si trasforma, cresce o si rimpicciolisce a seconda delle intenzioni, può diventare un sajino, cinghiale del tutto inoffensivo, o un otorongo o una farfalla, o un cervo, può spuntare in forma di pesce o in canto di uccello a seconda del recipiente di cui dispone. E ti porta con sé, senza usare la forza, senza costrizione: si mette a correre perché tu lo segua. Questi chullachaki sono come le ragazze; non scappano perché sono inseguiti ma perché qualcuno li insegua. E tu, anche se volessi ribellarti, gli obbedisci. Lo segui come si insegue la felicità. Fai bene. Anche se sbagli fai bene; si tratta sempre della felicità...

Di nuovo la sensazione svanisce, mi ritrovo dentro un unico corpo, qui sull'espintana corrosa dal muschio alla destra dello stregone che continua a parlare. Non so quale nostalgia mi assale, una triste sensazione di vedovanza ricordando l'altro che sono stato per pochi attimi e che si è arreso di fronte alle allucinazioni dell'ayawaskha.

— Il fratello di Ruth Càrdenas, mi dice Don Juan Tuesta, quello più piccolo, il cognato più giovane di Don Javier, appartiene a un'altra specie di chullachaki; proprio così. Quando andrai a Iquitos da Ruth Càrdenas, la moglie di Don Javier, chiedile di raccontarti di suo fratello Aroldo Càrdenas; parlale a nome mio e lei ti dirà tutto quello che vorrai sapere.

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tutti i campa vengono uccisi ma nessuno muore

I virakocha, cioè i bianchi, vivevano in passato in mez-zo a una laguna, mormora Don Juan Tuesta con gli occhi chiusi in piena notte di ayawaskha. Qualcuno che non è Don Juan Tuesta, ma che è Don Juan Tuesta, è entrato dentro il suo corpo che non riesce più a contenerlo e lo espelle attraverso la sua bocca di sonnambulo.

Vicino ai virakocha vivevano i campa, chiamati anche ashaninka. Un giorno un campa udì dei latrati che prove-nivano dalla laguna. Bene, disse, prenderò quel cane, e se ne andò portando con sé qualche banana come esca. Ma poiché la banana è cibo per gli uomini, il cane si offese e si rifiutò di mangiare. Al suo posto uscirono dalla laguna tutti i virakocha che cominciarono a inseguire i campa e ad ucciderli. Li uccisero tutti. La laguna si prosciugò. Sopravvisse un solo campa, uno stregone, uno di quegli stregoni chiamati shirimpiàre, un campa che masticava tabacco. Forse saprai che tra gli stregoni, solo gli shirimpiàre masticano tabacco. Gli altri stregoni hanno altri compiti e un nome diverso, si chiamano katziboréri. Lo shirimpiàre sopravvissuto chiamò Tziho, il feroce rapace, e gli disse: vieni, aiutami, i virakocha hanno ucciso tutti i miei fratelli. Dove?, domandò Tziho alla shirimpiàre campa. Ovunque, rispose, ma soprattutto nel Gran Pajonal. Saprai che il Gran Pajonal, mi dice Don Juan Tuesta, è il territorio dei campa, più di centomila chilometri quadrati di selva piana, un altopiano infinito in mezzo ai grandi boschi e

fiumi che confinano con la selva dell'alto Rio delle Amazzoni, in direzione di Cusco. Lì, nel Gran Pajonal, i campa respinsero prima i conquistatori inka, poi quelli spagnoli e ancora oggi sono vietate le chiese occidentali, le caserme, le scuole in stile virakocha. Quando Tziho ebbe udito il racconto sulla strage perpetrata dai bianchi, consegnò allo shimimpiàre campa l' ivenki, erba magica chiamata anche piri-piri. Grazie all' ivenki, quello stregone campa riuscì ad uccidere tutti i virakocha. Se ne salvò soltanto uno che scappò lungo l' Ucayali. Per questo nell' Ucayali, e forse non solo lì, rimangono ancora dei virakocha. Frattanto, nel Gran Pajonal, Tziho mangiava i virakocha morti, prima li cucinava e poi se li mangiava...

Don Juan Tuesta si alza e mi si avvicina nell'oscurità della capanna, poi si siede di nuovo; il suo corpo vibra con il pavimento di palme intrecciate, riesco a vedere il suo suono azzurro e poi arancione che sale in delicate colonne trasparenti sfiorandomi i capelli e, come un soffio fresco, di tabacco, mi deterge la fronte sudata. Pelle di serpente spaventoso, la mano del Rio delle Amazzoni si allunga, circonda la capanna, in un pauroso abbraccio temibile: è la prima notte di ayawaskha. Ho di nuovo tredici anni, la mano del Rio delle Amazzoni appare sulla porta, spalanca la bocca azzurro-arancione delle sue due teste, come un kotoma-chàcuy, boa gigante e bicefalo che vive sul fondo dei laghi eterni, e dalla bocca del Rio delle Amazzoni, dalle sue due bocche, esce, nelle mie visioni, la voce di Don Juan Tuesta:

Pachakamàite è Pawa, Padre e Dio, e vive sul fiume. Non è né virakocha né uomo delle Ande, che noi chiamiamo chori. Pachakamàite è figlio del Sole e la sua sposa è Mamàntziki. Pachakamàite fa tutto: machete, pentole, polvere, cartucce, sale, fucili, munizioni, asce. Infatti un tempo gli ashaninka erano poveri, non avevano nulla, non avevano né machete, né asce, niente. Dove si procuravano gli ashaninka le cose che gli servivano? Andavano da Pachakamàite e ottenevano tutto. Così era una volta. Oggi non lo sappiamo. Invece prima gli ashaninka lo sapevano. Dal

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Gran Pajonal scendevano il fiume portando con sé delle zucche che si mettevano in testa per non essere morsi da Piri, il pipistrello. Per arrivare da Pachakamàite, infatti, bisogna attraversare delle grotte piene di enormi pipistrelli, vampiri che escono di notte verso le spiagge alla ricerca di sangue tiepido. Poi ci si imbatte anche in Oshéro, il grande granchio, grande come un ashaninka. Oshéro se ne sta fermo in mezzo al cammino, e non ti lascia passare. Perciò è necessario portare con sé dell' achiote, solo quando gli dai l' achiote Oshéro ti lascia passare. Finalmente l'ashaninka arriva da Pachakamàite ma non può sedersi. Deve camminare, andare avanti e indietro senza mai sedersi. E Pachakamàite gli dice: che cosa vuoi? Nella casa di Pa-chakamàite c'è di tutto, machete, fucili, munizioni, asce. L'ashaninka sempre senza sedersi dice: voglio questo e quello, e sceglie.

Se per caso si siede, quando deve andarsene e fa per alzarsi non ci riesce, rimane attaccato per terra. Il Pawa Pachakamàite non gli permette di andarsene. A questo punto la terra trema. Tremano le case degli stregoni, tremano a Pucallpa, a Iquitos, e ancora più lontano, a Atalaya... Lungo la strada si incontra anche Pokinàntzi, che vuole trovare marito e cerca gli ashaninka. Contro Pokinàntzi è necessario portare piume di diversi uccelli, piume di Han-kàtzi, di Itamìri, di Herótzi, di Wapapa; soprattutto di Wapapa e lasciarsele cadere dietro, lungo il cammino. Pokinàntzi, che segue e vorrebbe afferrare l'ashaninka, vedendo le piume vistose si ferma per raccoglierle e così l'ashaninka può fuggire.

— E dove sta adesso il dio Pachakamàite?, sento qual-cuno dire dentro di me.

— Pachakamàite sta lontano, molto lontano, mi risponde la voce di Don Juan Tuesta, la bocca e il corpo immobili, come se ricevesse le parole dall'aria: Pachakamàite sta più lontano di Iquitos, ma il cammino è stato ostruito dalle assi delle zattere dei virakocha e degli uomini andini, dei chori. Prima gli ashaninka sapevano andare dal dio Pachakamàite, ma ora sono morti tutti. Le cose che oggi ci

portano i chori e i virakocha, machete, asce e munizioni, gliele da Pachakamàite, lo sappiamo. Gliele da per noi, per permettere ai figli degli ashaninka di andare a caccia, di lavorare la terra, di seminare. Ma i virakocha e i chori ce le vendono dicendo che le hanno comprate, che le hanno pagate e molto. È una bugia. Il loro signore gliele dà per noi, per gli ashaninka...

— Non sapevo che lei fosse campa, Don Juan Tuesta. — Discendente da ashaninka da parte di padre e di madre,

come Don Javier, come Don Hildebrando. Discendiamo dai primi uomini di quel tempo, i campa o ashaninka, che furono i primi esseri umani, figli dei figli di Kaametza e Narowé, che rispettando la volontà del dio Pachakamàite si insediarono laggiù, quando El Gran Pajonal non era ancora El Gran Pajonal, ma un'isola circondata da oceani di ceneri. Il maestro Ino Moxo, invece, discende dagli uro e dai virakocha. Sua madre era uro, suo padre virakocha. Saprai che gli uro vissero in un'epoca remotissima; gli uro, ormai estinti, erano gli antenati degli inka. Per questo Ino Moxo ha gli occhi strani, la pelle scura e i capelli color sabbia, e un'anima saggia che gli viene dalla madre, che è uro. I miei antenati erano campa, ashaninka legittimi, che conoscevano la storia del passato, di quando i campa vivevano ancora insieme nei villaggi popolosi, famiglie che costituivano una sola famiglia, e occupavano un solo territorio. In quei tempi lontani, dall'alto dei monti che circondano il Gran Pajonal precipitò una tigre, un otorongo nero, grande come una montagna. Fu lui che mise in fuga gli ashaninka, li costrinse a vivere separati, lontani gli uni dagli altri, a trasferire con la vita la casa, a separare i gruppi che facevano capo a una sola famiglia, sempre in fuga per proteggersi. I virakocha, i bianchi dicono che si trattò di un diluvio; ma loro che ne sanno. Non c'è stato nessun diluvio; è stato un otorongo, una tigre nera... Ma tu non mi ascolti, caro Soriano, hai lo sguardo assente, come se stessi da un'altra parte, lontano...

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il bambino Aroldo Càrdenas viene trasformato in spirito

Non mi piace parlare, non mi piace proprio parlare di tutta questa storia, dice seccata Ruth Càrdenas, moglie di Don Javier, qui a Iquitos, nella sua casa di calle Napo, numero 385, a pochi metri da Plaza de Armas. Lo faccio soltanto perché me lo chiede Don Juan Tuesta. Non ne ho mai parlato: è la prima volta. Mio fratello, che adesso è chullachaki, si chiamava e ancora si chiama, forse, Aroldo, Aroldo Càrdenas. Aveva quattro anni quando gli è successo, quando ci è successo.

— Era il più piccolo? — No, mia madre aveva avuto un altro bambino da

appena quindici giorni. Vivevamo in un piccolo paese, Te-niente Cornejo, vicino alla città di Contamana... Mio padre in cambio di due bottiglie di acquavite aveva ottenuto dallo stregone Julio Valles, nostro vicino, un terreno. Ricordo che mio padre aveva lavorato duro per sarchiarlo e seminarlo e ne aveva fatto un appezzamento molto bello. Quando lo stregone Julio Valles vide il campo lavorato e reso fertile, volle riappropriarsene e propose a mio padre di restituirgli le bottiglie di acquavite come unico rimborso, senza tenere conto delle spese da lui affrontate in semi, tempo, concime e lavoro. Naturalmente mio padre non acconsentì. Lo stregone Julio Valles non fece commenti, ma cambiò atteggiamento nei suoi confronti. Davanti a mio padre non disse nulla ma con altre persone che vivevano lì vicino, giurò che si sarebbe vendicato.

Anche mio padre era uno stregone, aveva cominciato a prendere ayawaskha molto presto, sin da piccolo aveva cominciato a digiunare, aveva imparato le arti della stre-goneria: ci avvertì che lo stregone Julio Valles gli voleva fare del male e si preparò a difendersi...

— E come fece? — Ma, si difese con i mezzi che solo loro conoscono. E

allora lo stregone Julio Valles vedendosi nell'impossibilità di danneggiare mio padre, decise di vendicarsi sui suoi figli. Non scelse il più debole, ma il più adatto, perché il neonato non era adatto per i malefizi, era troppo piccolo, non era quasi nessuno, e il Maligno non lo avrebbe potuto rubare né fargli del male.

A quel tempo c'erano dei braccianti che lavoravano il nostro campo. Mia madre, non potendo portargli il pranzo perché era occupata con il fratellino appena nato, mandò me e mia sorella, che eravamo già abbastanza grandi. Ricordo: Aroldito voleva venire con noi, ma mia madre disse di no perché, secondo lei, noi non avremmo avuto cura di lui. Andate sole, ordinò. E così, Aroldito rimase, senza sapere che non ci saremmo mai più rivisti. Cominciò a piovere a dirotto. Mia madre, che stava facendo il bagno al piccolo, corse a ritirare i panni stesi e i pezzi di paiche messi a seccare al sole nel cortile — devi sapere che mio padre era anche un bravo pescatore — perché non si bagnassero. E così lasciò soli i due bambini. Indaffarata come era, non si accorse che Aroldo si stava allontanando, e solo dopo essere ritornata in casa, e dopo avere sistemato tutto, si accorse che Aroldito era scomparso; lo cercò dappertutto, sotto una pioggia torrenziale. Invano. Quando ritornammo la trovammo che piangeva disperatamente perché Aroldo non c'era più. E così, tra le lacrime, ci chiese di andarlo a cercare. Nonostante la pioggia, uscimmo per avvisare mio padre e insieme a lui lo cercammo nel bosco, nel lago, aiutati dai braccianti che non avevano neanche voluto mangiare.

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Qualcuno ci disse di avere visto Aroldo incamminarsi verso il bosco proprio quando era cominciato a piovere. ' Torna a casa, dove vai ' piccolo gli avevano detto, perché cosi lo chiamavamo a casa, e Aroldo aveva risposto: ' Vado da mia madre '. E loro: ' Ma se tua madre è a casa, l'abbiamo appena vista ' ma Aroldito aveva insistito dicendo ' no la mamma è nel bosco, mi ha appena chiamato, mi aspetta ' e se ne era andato. Tutti lo avevano visto incamminarsi verso il bosco per raggiungere mia madre che stava invece dalla parte opposta, affaccendata a ritirare i panni e il paiche. Nessuno lo vide ritornare indietro. Si fece buio, ma di Aroldito nessuna traccia. Mio padre andò a Contamana per avvertire la polizia. Con i poliziotti si mossero persino i soldati e tutti insieme setacciarono il bosco alla ricerca di Aroldito, o per lo meno di una traccia, di un indizio che ci rivelasse che era stato divorato da una tigre, quella è una zona di otorongo grandi e neri, o che era affogato. Lo cercarono anche nel fiume, frugando tra le canne sulla riva, per parecchi chilometri. Dopo diverse settimane si abbandonarono le ricerche. Aroldo fu dato per scomparso.

Due anni dopo conoscemmo un campa, un ashaninka che viveva oltre il paese, si chiamava Severo, credo, sì, si chiamava Severo Quinchókeri. Ci raccontò che in una sua visione di ayawaskha, aveva visto come lo stregone Julio Valles aveva rapito mio fratello servendosi di un chullachaki. Severo Quinchókeri ci fece sapere che lo stregone si finse un chullachaki identico a mia madre, e assumendone con l'inganno lo stesso corpo e persino la voce, era riuscito a rapire mio fratello. Il campa Severo Quinchókeri ci disse inoltre che Aroldo, a quel tempo ancora molto piccolo, di notte piangeva chiamando mia madre; lo stregone allora per farlo calmare lo portava vicino a casa nostra. Nascosto nel buio, il bambino sentendo la voce di mia madre, o meglio il pianto di mia madre, perché piangeva giorno e notte, si tranquillizzava. Si tranquillizzava pur sentendolo piangere. Intorno alla casa c'erano soltanto palme yarina e si

poteva camminare liberamente. Le vicine andavano a trovare mia madre e la consolavano e facevano i turni per non lasciarla sola di notte. Ma mia madre voleva Aroldo, non loro. E pensare che in quegli stessi giorni il chullachaki veniva, di nascosto, con mio fratello, quasi fin sotto casa, tra le palme yarina, e mia madre piangeva senza sapere che il suo pianto ridava gioia ad Aroldito. O forse lo sapeva, chissà. Col passare del tempo mio fratello imparò a andare in giro da solo. E allora lo stregone Julio Valles lo portò lontano. E Aroldo cominciò a dimenticare mia madre e ad abituarsi alla sua assenza.

— Era lo stregone Julio Valles che portava tuo fratello di nascosto?

— No, il chullachaki lo portava, cioè il demonio che lo aveva rubato, assumendo l'aspetto di mia madre. Severo Quinchókeri, quel campa, ci disse inoltre che grazie all' aya-waskha sapeva che il bambino non era stato mangiato da nessuna tigre né era annegato, e che a rapirlo era stato un chullachaki e non lo stregone Julio Valles. O forse era proprio lo stregone Julio Valles, vestito con un corpo che non era il suo. E il campa Severo Quinchókeri disse che non aveva voluto rivelarci prima la verità perché aveva scorto negli occhi di mio padre un desiderio di vendetta. Severo Quinchókeri, nelle sue visioni di ayawaskha, aveva visto mio padre sgozzare lo stregone Julio Valles con un coltello di pietra.

E ricordo anche che c'era un uomo prigioniero a Con-tamana, un certo Juan Gonzalez, che a volte invitava le guardie a bere ayawaskha nella sua cella. Volete vedere quel bambino che si è perduto? Ve lo posso far vedere, diceva. E tutti bevevano, perché potevano vederlo soltanto se bevevano ayawaskha. E questo stregone che era in carcere, credo per la denuncia di un medico invidioso, questo Juan Gonzàles, si metteva a cantare e a chiamare mio fratello per nome. E mio fratello appariva a tutti, liberamente, ormai cresciuto. E tutti quelli che bevevano ayawaskha

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lo vedevano. Ecco il figlio di Càrdenas, raccontano che diceva lo stregone prigioniero. Quando mio padre lo seppe andò a trovarlo in carcere per chiedergli di aiutarlo; unendo le loro forze con l'ayawaskha, forse avrebbero potuto far ritornare Aroldo. Juan Gonzalez rispose che gli dispiaceva molto, ma finché fosse rimasto dentro non avrebbe potuto "lavorare". Gli permettevano di bere ayawaskha soltanto di rado e per potersi concentrare avrebbe dovuto prenderne di più e più spesso, e fuori del carcere. Aggiunse che avrebbe avuto bisogno di due o tre mesi di intenso lavoro interamente dedicato a interrogare ogni sera la liana-del-morto.

— Ma quando Juan Gonzalez con l'ayawaskha vedeva tuo fratello riusciva anche a distinguere il luogo in cui si trovava?

— Sì, ma confusamente. Disse soltanto che Aroldo viveva vicino ai monti, fuori della selva. Nelle sue visioni gli appariva ai piedi di grandi montagne sconosciute. Doveva chiamarlo a lungo per farlo comparire, sicuramente stava molto lontano. Ci disse che in quello stesso giorno di pioggia in cui Aroldo fu rapito, mia sorella e io eravamo passate accanto a lui senza accorgercene. Ci disse che il chullachaki lo aveva reso invisibile ai nostri occhi e perciò non avevamo potuto vederlo anche se gli eravamo passate vicine diverse volte mentre lo cercavamo. Juan Gonzalez era certo che se avessimo fumato una sigaretta icarada da uno stregone, sicuramente l'avremmo visto nonostante gli sforzi e la scienza del chullachaki Julio Valles. Ma noi come potevamo saperlo? Non venne in mente neanche a mio padre, disperato com' era... Di Aroldo non abbiamo saputo più nulla, sappiamo solo che lo hanno fatto chullachaki.

— E chi lo ha fatto, chullachaki? Non è stato per caso lo stregone Julio Valles?

— Certo, anche lui... Perché, vedi, un chullachaki non è più quello di prima; un chullachaki non è più una persona, è un'apparenza di persone, non somiglia a nessuno. Aroldo, per esempio, non è più Aroldo. È un recipiente vuoto che gli stregoni riempiono a loro piacere con le ap-

parenze dei corpi che vogliono, di quei corpi con cui vogliono trarre in inganno. Dentro quel nulla che è il chullachaki, e che nonostante tutto ha grandi poteri, loro mettono le persone che vogliono, le persone che loro vogliono farci vedere, non so se mi capisci...

— Lo stregone Julio Valles fece diventare chullachaki tuo fratello Aroldo per metterlo al suo servizio? Lo fece chullachaki al servizio del Maligno?

— No, al servizio dei... E lo sguardo di Ruth Càrdenas si posa sul registratore, poi

si alza incerto. — Sicuramente al servizio delle sue anime e degli altri

suoi stregoni. Perché anni fa venimmo a sapere che Julio Valles era morto. Ma mio fratello non è più tornato. Mio fratello Aroldo non è più Aroldo...

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don Juan Tuesta dice che le cose non non sono come sono ma come db che sono

Raccontami le tue visioni di ieri sera, l'ultima delle tue visioni, mi dice Don Juan Tuesta, facendo vibrare la capanna con le sue parole come se si rivolgesse all'aria. L'ultima

persona che ho visto è stato Don Javier, gli dico, nel Cusco. Ho sognato che stavo a Pisaq, nella parte più alta

della cittadella inka di Pisaq. E che io non ero io, Cèsar Soriano, ma mio cugino Cèsar Calvo, che dall'alto vedevo l' Urubamba, il Fiume Sacro, argentato e giovane, lo vedevo serpeggiare tra i campi dorati di granturco, campi di oro azzurro e arancione, verso le selve...

E Don Juan Tuesta, sempre rivolto all'aria, mentre guarda da un'altra parte, con lo sguardo che si perde verso il Rio delle Amazzoni:

— Niente altro? — E io, costretto dalla mia bocca: — Ho sognato che Don Javier viveva nel Cusco, non a

Pisaq, ma a Pawkartampu, in un luogo che si chiama Tres Cruces, ho sognato che Pisaq diventava Pawkartampu e che Don Javier era un cacciatore di condor dell'epoca degli inka, cosi l'ho visto nella mia visione...

— Dimmi come lo hai visto, chiede agitato Don Juan Tuesta.

E io, privo del mio essere, recipiente del mio corpo invaso di nuovo dalle persone e la voce di Cèsar Calvo:

— Era notte di sole là a Tres Cruces, nella parte più alta di Pisaq - Pawkartampu.

L' inka Manco Kalli, spuntò da dietro il sole, vestito con un poncho lungo che noi chiamiamo cushma, una cushma gialla fino ai piedi, la veste del sole, e il sole era dieci volte più grande e dieci volte più rosso e l' inka Manco Kalli aveva tra le mani un vaso di legno intagliato che stringeva al petto, uno di quei vasi che gli antichi conoscevano come Qero, e il Qero che Manco Kalli stringeva traboccava della saliva del sole. Manco Kalli mi si avvicinò camminando lentamente, e io ero Don Javier, e lui mi disse di andare a caccia di condor e io ero molto vecchio e gli dissi, non posso, ormai sono vecchio e poi non ho mai saputo cacciare. Allora Manco Kalli mi costrinse a guardarmi le braccia : e le vidi segnate di cicatrici e tatuaggi strani. Guarda bene, mi disse l' inka, soltanto i cacciatori di condor hanno queste braccia; tu sei sempre stato cacciatore di condor; va' e portami il più grande che esista sulla terra e nell'aria. E allora io non ero più Don Javier, ero lui ma al tempo stesso un'altra persona, non ero Cèsar Calvo né Cèsar Soriano, ma qualcun altro che non ho mai visto...

— E quella persona che non eri tu, quello sconosciuto, aveva cicatrici sulle braccia?

— Le stesse di Don Javier, più una meno profonda sulla faccia color rame, quasi nera, da mulatto, che dalla guancia destra scendeva verso il collo, e un'altra sull'avambraccio destro... Salii dunque sulla cima delle Tres Cruces e lì scavai due pozzi, uno grande e uno piccolo, uniti da un tunnel. Ricoprii il pozzo più grande con una grata di rami grossi, solidi, i più resistenti e i più giovani che trovai legati con corde d'oro e d'argento e su di essa collocai un cerbiatto, ancora senza corna, con la fronte devastata dai pallini rivolta verso il cielo. Trappola per attrarre il condor! Mi infilai nell'altro pozzo, strisciai lungo il tunnel rivestito di canne di paka, graffiato dalle sue spine ricurve come bocche di condor appena nati, e mi trascinai fin sotto al tetto di rami, sistemandomi sul fondo del pozzo più grande, sotto al cerbiatto che sanguinava sangue di sole,

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la sua testa senza corna attraversata da dardi di tohé. E lì rimasi immobile per sette giorni. Poi arrivò il condor, enorme, più grande del monte in cui lo aspettavo, sbattendo le sue ali di lupuna rugose e bianche e nere allo stesso tempo. Si avvicinò, poi si abbassò fino al cerbiatto e lottò con forza per trascinarlo via. Subito ne approfittai: infilai le mani tra i rami, a fatica gli afferrai prima un artiglio poi l'altro, lottando duramente, e il condor padre lacerò le mie braccia, lasciando ferite già cicatrizzate. In quel momento riapparve l'inka Manco Kalli e mi disse: hai assolto il tuo compito. Io, figlio del sole del mezzogiorno, disse, sposo di Mamàntziki, io ti nomino mio ayùmpari. E con le mani morbide e olivastre come inguantate con la pelle di un bambino, Manco Kalli liberò il condor che, diventato giallo, se ne andò con il figlio del sole, piccola farfalla, docile e tremante, poggiata sul suo petto...

— È tutto qui il tuo sogno? — No, Maestro, dico a Don Juan Tuesta. Ho visto che io

ero di nuovo Don Javier e mio cugino Cèsar Calvo allo stesso tempo, e ci incontravamo nella parte alta di Pisaq, vicino al cimitero inka, più in alto del Tempio del Sole, più in alto del Tempio della Luna. Ho visto che io, Don Javier, cercavo tra le vecchie tombe un vaso cerimoniale degli inka, un Qero di legno e lo regalavo in silenzio a mio cugino Cèsar Calvo. E ho visto anche che io, che ero Cèsar Calvo, ricevevo il Qero datemi da Don Javier, il vaso di legno che io stesso mi offrivo con le mani di Don Javier, allungando verso di me le mie braccia ricoperte di cicatrici. E nelle mie visioni Don Javier cominciò a suonare sulla sua cassa, chiuse gli occhi per raccogliere le armonie dell'aria, cadenze che fluivano visibilmente dal ritmo delle sue dita. All'improvviso si sollevò dalla cassa, levò le braccia verso il cielo, le immerse nel pozzo del sangue del sole, per ritirarle intatte e mostrarmele senza più cicatrici.

— Non sono stato io a suggerirti questo sogno, sussurra Don Juan Tuesta. È che le cose non sono come sono, ma come ciò che sono. Tredici anni non sono nulla. Ma forse un giorno, più tardi, le vedrai.

si avverano le profezie del fiore di tohé

— Questa pioggia è mezza pazza, non è vero zio Cè-sar?, dice la piccola Ruth-Ruth, di appena cinque anni, ultima figlia, qui, di Don Javier.

— Perché?, fingo di guardare dall'altra parte per na-scondere la mia sorpresa.

— Perché, dinnn! cade all'improvviso; dinnnn!, spa-risce, proprio come Dio, questa pioggia...

E sua sorella Selva, volgendo lo sguardo verso il tavolo da pranzo, si avvicina alla finestra oltre la quale lampeggia il cielo del tramonto.

— Sì, anche Dio deve essere mezzo pazzo. Non ti sembra? Proprio come la pioggia: dinnnn! appare e, dinnnn! scompare...

— Come fai a saperlo? L'hai forse visto? E Javico il maggiore dei tre figli: — Dio e tutti quelli che sono morti si vedono solo tra

loro...

Il ritorno di Ruth Càrdenas mi salva; riprendiamo la nostra conversazione di ieri. Il Cristo di legno intagliato da Agustìn Rivas apre le sue ali su una parete della stanza. Ha smesso di piovere e il silenzio della strada mi tranquillizza; aspetto che la moglie di Don Javier si sieda, parlo:

— Don Juan Tuesta mi ha detto che hai preso il tohé. Com' è? Provoca le stesse sensazioni dell'ayawaskha?

— Il tohé non produce allucinazioni, è diverso. Con

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il tohé vedi tutto al naturale, così come nella realtà, solo è un'altra cosa...

— E come? — Con il tohé vedi un'altra realtà, diversa. Se bevi tohé in

questa casa, non vedrai più questa casa, ma altri luoghi, altre persone. I tuoi occhi sono aperti ma non vedono quello che stanno vedendo, quello che ti circonda, vedi cose che sono lontane. E le vedi uguali, precise. Voglio dire che le vedi chiaramente, come se stessi guardando proprio quelle cose...

— Quando l'hai bevuto? — A diciassette anni, per pura curiosità. C'era stato un

furto a casa nostra, avevano rubato i documenti a mia madre, lasciandola senza identità. Una vecchietta che viveva in cima al paese mi suggerì di prendere tohé, disse che il tohé mi avrebbe permesso di sapere chi aveva rubato i documenti a mia madre. Se si beve il tohé, si può veder tutto, mi disse, il passato e il futuro, nulla ti può sfuggire. Accettai. Approfittai di un viaggio di mio padre per andare a casa di quella vecchia e prendere il tohé. Del furto non vidi nulla. Sono bastate poche gocce di tohé perché il suo effetto durasse sette giorni e sette notti. Ho visto molte cose, molti luoghi, ho parlato con molte persone, ma del furto niente...

— Da dove si estrae il succo di tohé? Dal fiore? — Il potere è nel fiore, ma il succo si estrae dal gambo.

Rosa Urquìa, così si chiamava la vecchietta, recise un ramo di tohé, che in terra virakocha fa un fiore più piccolo, meno bianco e meno potente. Nella selva, invece, è più grande; sono più grandi sia il gambo che il fiore. Il fiore è addirittura il doppio, come se fossero due fiori, uno dentro l'altro... Rosa Urquìa tagliò un ramo e incise verticalmente il gambo verso il basso, ne raschiò il cuore carnoso come una mela, finché non cominciò a scorrere il succo. Lasciò cadere le gocce, una a una, dentro un piccolo mate; misurò il liquido con il pollice che infilò nel recipiente fino a metà unghia, poi mi fece bere. Come prima cosa vidi mio padre. Lo vidi mentre veniva verso di me e, pur sapendo

che si trovava in viaggio, parlai normalmente con lui. Parlai con lui sapendo che non era lui, ma il tohé, e lui mi rispose. Il tohé mi rispose. Con il tohé puoi vedere le persone e ci puoi parlare e loro ti rispondono con naturalezza. Tutto è naturale, più naturale del naturale stesso. Poi mi vidi in un ospedale, affidata alle cure di due infermiere in camice bianco. La più bassa teneva tra le braccia un neonato. Maschietto, signora, mi diceva... Anni più tardi vidi quello stesso bambino, ma senza tohé. Sono stata in quello stesso ospedale, tra quelle stesse infermiere della mia visione, e il neonato era Javico, il mio primogenito, nato qui, identico all'altro. Quella volta, sotto l'effetto del tohé ho visto anche mio marito. Un giovane, in camicia a fiori e pantaloni verdescuro, bussava alla porta di casa mia a Contamana. Lo vidi attraverso la finestra e all'inizio non volli aprire. Egli bussò con più forza, con grande sicurezza. Io, nulla. Bussò di nuovo. Chi è?, osai chiedere con una sensazione di paura che forse non era paura. È la felicità, rispose il giovane ridendo. La felicità bussa alla tua porta!... E io, come se non fossi io, aprii, contro la mia stessa volontà, ridendo. Più tardi, senza l'aiuto del tohé, rividi quella stessa scena. Ricordo: lo stesso giovane, più adulto, più robusto e con la barba, si trovava in mezzo ad altre persone anch'esse sconosciute. Tra loro c'eri anche tu. Tutti indicavano il giovane con la barba e mi dicevano, guarda è tuo marito, il padre dei tuoi figli. E io ridevo. Sotto l'effetto del tohé ridevo perché sapevo di non aver mai visto quel signore, non mi ero ancora sposata né pensavo di sposarmi, non lo conoscevo...

— E quando poi hai conosciuto Don Javier, lo hai ri-conosciuto? Era lo stesso che avevi visto con il tohé?

— No, quando conobbi Don Javier non ci ho pensato; solo dopo molto tempo mi sono ricordata di lui, di quando il tohé ci aveva fatto conoscere quindici anni prima.

— Il Don Javier del tohé era lo stesso Don Javier di oggi?

— La stessa voce, la stessa risata, le stesse fattezze, identico.

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— Tutto quello che hai visto sotto l'effetto del tohé, in quei sette giorni, si è avverato, è accaduto nella tua vita?

— Questa vita? — Sì. — Quasi tutto, solo una cosa non ho potuto vedere.

Camminavo in una città molto grande, tra case stranissime, grigie, immense, con balconi in ferro battuto e vasi di fiori, tutte cose che non avevo mai visto. Allora io non conoscevo Iquitos, non riuscivo ad immaginare un paese cosi grande. Neanche adesso me lo posso immaginare, non sapevo che esistessero simili case. Ricordo che avevo paura dentro quella città, mi sentivo schiacciata da quei palazzi, e camminavo, camminavo...

Nella penombra della sera lampeggia sempre di più. La piccola Ruth-Ruth ci interrompe di nuovo: — Quant' è grande l'anima di quelli che sono morti? Se muoio piccola, sarà piccola anche la mia anima? E senza lasciarmi il tempo di rispondere:

— Come sarà la faccia delle anime? Javico si intromette: — Sono confuse, perché sono lontane. L'anima vive

lontano, vive seduta sul legno. Per questo bisogna passare di corsa. Se ti vede, si alza, viene verso di te e ti parla...

— Di che ti parla?, mi sorprendo a chiedere — Di tutto, perché quando l'anima muore, muore sa-

pendo tutto. Sua sorella Selva aggiunge: — È Dio che ordina all'anima di parlare. Lo abbiamo

scoperto a Pucallpa. Abbiamo visto un'anima che usciva da una lettera. Era l'anima del padre della signora Chabela. La lettera era una lettera di suo padre. L'anima uscì scintillando, splendente e ci disse: Nella mia vita non ho potuto tutto ciò che ho potuto, queste cose solamente, così ci disse l'anima, perché nella mia vita non ho mai cominciato a esistere. Così ci ha detto. L'abbiamo vista e sentita tutti e tre, è vero Javico?...

Ruth Càrdenas li manda di nuovo a giocare in cortile. Fuori è ricominciato a piovere. Il Cristo di legno apre le sue ali sulla parete, di fronte al renaco blu dipinto da Yando Rìos.

— Nei sette giorni del tohé hai dovuto digiunare? — Rosa Urquìa mi dava da mangiare un pezzo di banana

al giorno, cotta sulla brace. Se avevo sete potevo bere soltanto gocce di succo di banana. Nessuno mi poteva vedere né toccare né parlare. Soltanto Rosa Urquìa... Il tohé è pericoloso, se qualcuno interferisce è molto pericoloso. Ci sono persone che non sono più tornate indietro, che sono rimaste nel tohé condannate a vedere per sempre le cose che vede il tohé...

— E hai potuto dormire? — Perfettamente. Sognavo tutte le notti. Ma anche i

sogni erano diversi, come diverse erano le veglie. Anche quando dormivo continuavo a vedere strani paesaggi, i miei sogni erano quelli di un'altra realtà. Dormivo poco, co-munque. Allora ero molto magra, ma nelle mie visioni mi vedevo grossa, come adesso, e allora chiedevo a Rosa Urquìa perché mi vedevo così grassa. E lei mi rispondeva che sarei stata così da adulta, dopo avere avuto il primo figlio...

— E quando finisce l'effetto del tohé? — L'effetto, normalmente, dura sette giorni e sette

notti, qualche volta di meno. Poi loro ti curano per farti ritornare...

— Per farti ritornare?... — Sì, per farti ritornare alla realtà. — E come? — Ti mettono due gocce di succo di canna in tutti e due

gli occhi, e tutto finisce come per incanto, niente altro.

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ho visto un Cristo felice aprire le ali e andarsene volando

delle motociclette occupa l'aria tranquilla di un tempo, una brezza timida si insinua sotto l'insolito acquazzone e agita deboli tentazioni, gonne svasate e pantaloni larghi sul ce-mento che nasconde l'antico selciato della piazza. Nell'aria, una sorta di richiamo tardivo denuncia che gli alberi di mango sono stati decapitati insieme alle melerose, che Don Daniel Guzmàn Cepeda non è in casa, che è uscito. È uscito con il pittore Calvo de Araùjo, senza avvertire nessuno; e insieme hanno calpestato teneri rami, ormai trasformati nell'unico enigma che non riveleranno mai.

Dalla casa di Don Javier, in calle Napo, fino atta casa di Don Manuel Guzmàn Cepeda, in Plaza 28 de Julio, a Iquitos, non ci saranno più di un centinaio di metri, ma arrivo ansimante come fossero cento metri di sole, l'aria arde pur essendo sera.

Questa è la casa che vent' anni fa mi ospitò studente du-rante le vacanze estive, grazie a una lettera dello zio Cèsar Calvo de Araùjo, il pittore della Selva. Il vento non è passato. Sono le stesse finestre di legno tante volte dipinte, persiane che mio zio ha saputo trasferire con dita di acquaragia, tabacco e pennelli osservando la Plaza 28 de Julio come saggia spatola che raccoglie colori e memorie affidando tutto al cavalietto dove un'altra finestra di tela tesa e bianca lo aspettava. Lo stesso tetto alzato contro le perversità dell'estate, le stesse stanze ampie e affettuose come anime, la stessa ostinata gioventù canora di Julio Meza Penaherrera, fondatore del paese dell'isola Muyuy dove Don Juan Tuesta regala miracoli. Il vento non è passato. Non è passato? Nella casa, nuove suddivisioni e tramezzi e mobili che non scricchiolano, sedie a dondolo di metallo, giradischi che suonano musica popolare, divani tappezzati di scuro; fuori, la casa ha un numero diverso: il 59 del Jirón Aguirre è diventato l'861, la polvere detta strada di quel tempo giace sotto l'asfalto, lo sgradevole frastuono

Il secondogenito di Don Daniel Guzmàn Cepeda, breve di nome e languido di statura, si chiama Roosevelt; nella sua stanza c'è posto per un altro letto. Ma a poco serve perché non riuscii a dormire. Per ore vagai con la memoria per l'isola Muyuy, per rivedere da lontano l'ultima notte di ayawaskha in casa di Don Juan Tuesta. Legando nostalgie e affetti ai rami azzurri, alla mano arancione del Rio delle Amazzoni nella voce della notte allucinata, ricordando la storia che lo stregone mi aveva raccontato su mio cugino e su un'incredibile farfalla gialla; ore di insonnia, ricordando la conversazione con Ruth Càrdenas sul chullachaki e sul tohé, mentre sentivo il respiro di Roosevelt nel letto accanto sotto la grande zanzariera, mentre osservavo, attraverso la mia, le pareti di legno lucido, la spessa porta fissata con due chiavistelli troppo grandi, le piccole lucertole tigrate che scompaiono tra le travi, sette travi e nessuna finestra in tutta la stanza, soltanto un filo di orizzonte per far passare l'aria, lungo una fessura che si apre all'altezza del soffitto riparata da una invadente reticella metallica inaccessibile. I galli interrompono i miei ricordi, devono essere le cinque del mattino, il primo cielo di Iquitos brilla senza luce dall'orto e fa scorrere sagome tremolanti lungo le travi. Strappo finalmente un po' di sonno. Sogno Roosevelt che affonda in un enorme lago pieno di anguille, mi chiama senza voce, lo vedo, mi chiama agitando le braccia, lottando per avvicinarsi alla riva dell'implacabile lago

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che sprofonda con lui, tra alberi di porpora. Il mio sogno è brevissimo. Apro gli occhi e sento Roosevelt che si lamenta nel letto accanto. Forse è un incubo, dico a me stesso, ancora nelle nebbie del dormiveglia, sollevo la zanzariera che ripara il mio letto di insonne, mi dirigo verso Roosevelt e lo chiamo in un sussurro. Niente, sono soltanto le angosce del sonno. Accendo la lampada che oscilla al centro della stanza. — Roosevelt!, insisto con voce più decisa, lo sveglio. Pallido, sudato e tremante, Roosevelt Guzmàn apre gli occhi spaventato; con la mano destra stringe con forza la caviglia mostrandomi la carne livida intorno a un dardo nero.

— Mi hanno avvelenato con un virote — dice. Portami un coltello da cucina, ma non fare rumore, aiutami a far uscire il veleno... Senza capire, impaurito tolgo i chiavistelli alla porta, poi ritorno nella stanza, Roosevelt ha estratto il dardo avvelenato, madido di sudore incide la ferita, poi tremando mi chiede di succhiare il sangue e mi dice di sputarlo per non avvelenarmi. Ormai più tranquillo si preoccupa del mio spavento e mi spiega che quella freccia è un virote, che è nel potere dei fattucchieri colpire con il virote da lontano, non c'è muro che impedisca ai seguaci del Maligno di colpire in questo modo i nemici, è eterna la guerra tra coloro che praticano la magia nera e coloro che, come Roosevelt, si sono affiliati alle oscurità del bene, che Cèsar chiama magia verde. Vengo cosi a sapere che Roosevelt, figlioccio di Don Juan Tuesta, da tanti anni è anche suo discepolo.

— Esattamente da quando mi ha curato il piede dice Roosevelt. Ti ricordi che mi ero fatto male al piede destro? Mentre aggiustavo il tetto ero scivolato su un'asse di legno piena di chiodi rompendomi l'osso del tallone... Poi, mentre andavo a caccia, al centro dell'isola Muyuy, ero stato morso da un serpente nello stesso punto. Ti ricordi come zoppicavo con questo piede che i medici di Lima avevano dato per perso? È stato il mio padrino Don Juan Tuesta, dopo molti digiuni nel bosco, a guarirmelo.

E solamente adesso ricordo che ieri, mentre apriva la porta per accompagnarmi netta camera da letto, Roosevelt camminava normalmente. E ora mi chiede di affittare una barca veloce in uno dei moli di Belén e di andare a Muyuy per spiegare al suo padrino quanto è successo e per pregarlo di venire a Iquitos. Nel frattempo avrebbe simulato un'influenza per non allarmare i parenti. Mi imbarco ancora incredulo.

— La ghigliottina non è nette mani del boia, dice Don Juan Tuesta, esaminando l'enorme caviglia un po' meno scura dette macchie di sangue sul lenzuolo. Sul collo della vittima, è li che sta la ghigliottina, aggiunge lo stregone del-l'isola Muyuy. Continuo a non credere ai miei occhi, pre-ferisco non pensare.

Ho visto anche una cerimonia, dico a Don Juan Tuesta seduto sull'espintana di fronte a Plaza Rumania, un tripudio mai visto, una festa di sangue, yàwar festa. Raymi-yàwar, così si dice in quechua, mi informa. Ho sognato un paese circolare, lo interrompo, un sogno con persone dalla pelle di argilla dura, vecchi, bambini, ragazze che ridevano sul prato e si toglievano i mantelli colorati, lliqlla è il loro nome, dice Don Juan Tuesta, e tutti ballavano fino allo sfinimento, felici sotto la luna piena, grande due volte il sole. Ho visto dei contadini, gridavano cose dolci e inebrianti, inseguivano un gigantesco toro nero, lo accerchiavano e lo legavano a un albero che era un pisonay e al tempo stesso una melarosa dai fiori rossi. Dall'alto del monte che chiudeva il paese si mossero due file di uomini che gridavano. Davanti a tutti, sotto un poncho giallo con stelle scure, avanzava Don Javier, sul braccio, come fosse una rondine, un condor dalle ali enormi. All'improvviso vicino al pisonay in fiore, Don Javier sussurrò sorridente qualcosa all'orecchio del condor, e il condor si staccò dal braccio graffiato, segnato da profonde cicatrici; sembrava che volesse volare verso le cime dei monti, e invece no, tornava indietro e planava sul dorso del toro e il toro cercava di

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difendersi sotto il condor di pietra; schiumava sangue, emetteva grida di sangue. Ho visto che Don Javier, conti-nuando a ridere, conficcava gli artigli del condor sulla nuca del toro nero, li legava con liane di ayawaskha, si avvicinava all'orecchio del torocondor che si era rimpicciolito, più piccolo di un passerotto con corna di lumaca, e il toro-condor udendo la voce dello stregone cresceva sempre di più, superava in grandezza la piazza del paese, apriva le ali da una collina all'altra e le corna dalla luna al sole, si dilatava sul tempo, unendo il giorno precedente con questa stessa sera. Ecco quello che ho visto nelle mie visioni, dico a Don Juan Tuesta.

Poi ho visto Don Javier togliersi la cushma gialla e usarla come cappa rossa da torero, agitarla verso il bicefalo che calpestando il prato con gli zoccoli lo caricava volando. Don Javier lo schivò diverse volte, prendendosi gioco di lui; infuriato il torocondor colpi con le unghie e le zampe e le corna e le ali. Poi Don Javier, che aveva ormai il viso di Don Hildebrando, fece passare la sua cushma tra gli uomini del paese, tutti altissimi, almeno il doppio di noi, perché lottassero uno dopo l'altro. Io osservavo da un fiore del pisonay, dentro il tronco della melarosa. Ad ogni mossa degli uomini, il condor si accaniva col becco contro il toro a cui era legato, e gli uomini bevevano in un vaso di legno intagliato, in un Qero degli inka, bevevano il sangue nero del toro, finché l'animale non si accasciò sull'erba devastata. A questo punto della visione mi si confondono le immagini: il volto di Don Hildebrando abbandona il corpo di Don Javier e Don Javier slega il condor dal toro che giace sanguinante, no, non è così; Don Javier sistema il condor sul braccio destro, no, monta su di lui, se ne va volando su quella farfalla dalle ali azzurre, arancioni, no, Don Javier cerca il condor soltanto per lasciarlo, no peggio, o forse meglio, lo cerca per lasciarlo libero. Ho visto il condor sollevarsi verso il sole che cantava, verso Pinti che suonava come un pozzo di arcobaleni. Il condor disteso nell'aria riuscì a chiudere la bocca del pozzo del sole, anticipò la notte. La notte scese sul paese con le ali piegate. E la luce

della notte era dorata, insostenibile e dorata. E non potei vedere più nulla.

Ma continuai a guardare, aprii gli occhi alle mie visioni e vidi un'altra festa mai vista prima. Entravo a cavallo in un paese di cui non so il nome, Yauriski, forse, tra mi-gliaia di uomini e di donne che pregavano. In piena notte, inspiegabilmente angosciato, partii con gli altri verso una collina petrosa, poi verso un'altra più fredda e più ripida, poi verso un'altra ancora fino a raggiungere, l'ultima sera, le falde di un monte impossibile, ammantato di nevi eterne. Koylluriti! gridavano. Stella di neve!, gridavano. Per tutto il cammino, da Yauriski fino all'innevato Koylluriti, raccogliemmo piccole pietre, luminose, rosse, i ciottoli più belli e più rari del sentiero che si inerpicava. Una pietra per cia-scun peccato!, gridavano. Io continuavo a raccogliere. Una pietra per ciascun peccato commesso durante l'anno! Io raccoglievo e raccoglievo. Alcuni arrivarono alle falde del Koylluriti ricurvi sotto un sacco di pietre, altri, leggeri, agili, ipocriti, con le bisacce mosse dal vento gelide, appena rigonfie di poche falsità, poche paure, piccoli furti, ingiustizie. E ai piedi di quel monte, senza fine, costruimmo, con i nostri peccati, infime fortezze, piccole case, piccole chiese di pietra, in omaggio alla montagna innevata, la Stella di Neve, come segno di pentimento e, soprattutto, come segno di gioia. Perché dopo quella cerimonia ballammo e bevemmo caria e chicha ' ben fermentate e fornicammo fino all'alba, tra le sinuosità della cima bianca. Sognai che lei usciva dalla montagna, dal suo ventre. Il Koylluriti si biforcava come un albero e lei, Don Juan Tuesta, appariva, piccolo, livido per il vento freddo che lo aveva preso tra le braccia. E lei era già adulto. E ci gridò: visioni, venite! E tutti noi contadini, nella mia visione io ero un contadino quechua, un uomo delle Ande, un chori, tutti noi che ave-

1 Bevande alcoliche ottenute rispettivamente dalla fermentazione della canna da zucchero e del granoturco. [N.d.T.]

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vamo raggiunto in pellegrinaggio quel luogo, no, soltanto noi giovani, tagliammo enormi blocchi di ghiaccio e li caricammo sulle spalle. E sotto il peso del ghiaccio incominciammo a scalare la Stella di Neve, l'inaccessibile Koylluriti, inciampando, ansimando, morti di freddo, prendendoci gioco l'uno dell'altro, tra minacce e risate continue e sonore. Fui il primo ad arrivare sulla cima del monte conquistato e li scorsi una grotta di neve iridescente e in fondo, su un altare di pietre rosse, i peccati, sorrideva un Cristo crocifisso. Il viso di quel Cristo felice era il viso di Don Hildebrando, no, era di nuovo il viso di Don Javier. Lo vidi chiaramente proprio come ora vedo lei. E Don Javier, inchiodato su quella croce di pietra rossa, su quella croce di neve e di palosangre, mi diceva: dal momento che sei arrivato primo hai diritto a esprimere tre desideri che si avvereranno. Così parlò il Cristo di Koylluriti, sorridendo. E io gli dissi:

— Voglio essere libero.

E lui, liberate le mani dai chiodi, in un perdono mi tra-sformò in un essere invisibile. Mi guardai: non c'ero più. Non c'era nessuno al mio posto. Intorno a me andavano e venivano guardie, cauchero*, uomini mai visti prima, che battevano i sentieri del caucciù in mezzo ai boschi, caricando enormi winchester mi cercavano nella selva. Ridevo di loro, nella mia visione li prendevo in giro in silenzio, ridevo delle loro pallottole che mi inseguivano invano nell'aria, sulla terra, nei fiumi. Così sopravvissi.

— Qual è il tuo secondo desiderio?, chiese il Cristo. — Voglio essere libero, dissi. Subito mi vidi crocifisso sulla croce di pietra, con le

braccia aperte e sanguinanti, sorridevo a Don Javier che en-trava attraverso la bocca della grotta di ghiaccio e assorto mi guardava sulla croce. Don Javier con le mie mani slegò dalle sue spalle il blocco di ghiaccio giallo che mi ero caricato ai piedi del Koylluriti e dalla porta della grotta bianca mi chiese per la terza volta:

— E il tuo ultimo desiderio? — Voglio essere libero. Le mie parole continuavano a sognare nella mia bocca,

quando le mie braccia mi staccarono dalla croce di palosangre e si trasformarono in ali. Vidi che volavo via dalla grotta tramutato in un condor che solcava l'aria del giorno e della notte, e planava su un paese circolare, mai visto prima, e posava i suoi artigli, i miei artigli, sulla schiena di un immenso toro nero. E conficcavo il becco sulla nuca del toro, scavavo e bevevo il sangue, scavavo e bevevo. E il sangue del toro cantava dolcemente, era troppo dolce, era troppo tardi. Questo è quello che ho sognato...

— I condor sono nati nella selva, risuona Don Juan Tuesta oltre le mie visioni. Molti anni fa, quando il grande otorongo precipitò sui campa e li mise in fuga, i condor fuggirono, uscirono dal fondo di un vaso di legno sacro e si rifugiarono tra le cime, si abituarono a vivere al tempo stesso sotto il sole e sotto la notte, sui gelidi ghiacciai delle Ande, e sui pascoli tiepidi. Da allora i condor continuano a vivere li. Una cosa non hanno mai imparato: a sopportare i venti che soffiano sul mare e a rassegnarsi a vivere lungo le coste sabbiose...

— Ora sento che ritornano, li sto sognando in questo momento, li vedo volare verso la selva — sento che rispondo a fatica dall'ayawaskha con una voce che viene da lontano.

— Non stai sognando, mormora Don Juan Tuesta. E vedo la sua bocca dire qualche altra cosa, vedo altre

parole uscire luccicando. La mano del Rio delle Amazzoni, ancora più grigiastra e rugosa, cancella la voce dello stregone contro l'aria dorata, alle mie spalle.

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ho visto anche un altro paese che non ho mai visto

Don Juan Tuesta si alza dal tronco della espintana e mi invita ad addentrarci nel bosco. Ancora in preda alle sensazioni della droga, attraverso Plaza Rumania per rag-

giungere il centro fitto dell'isola che il Rio delle Amazzoni circonda con il suo fragore. A poco meno di un'ora di cam-mino, si apre davanti a noi un fiume d'aria, un corso d'ac-

qua prosciugato al quale fa da ponte un albero caduto. Don Juan Tuesta, i cui occhi emanano una calma particolare, mi lascia passare, a metà tronco mi fermo: alla mia destra, all'interno di un paesaggio, che è un tunnel di rampicanti flessibili come canne delicate e spinose, noto che dai nodi dei tronchi partono delle spine ad uncino, minacciose, due per ogni nodo. Paka, si chiama quel rampicante, mi dice Don Juan Tuesta. E dal fondo del tunnel appare una farfalla dalle ali vellutate e gialle punteggiate di nero, vola sopra di me lentamente, nel silenzio va a posarsi su un ramo morto sopra il fiume invisibile. Anche se non ci sono mai stato, riconosco il paesaggio dietro quelle ali. L'ho visto in un quadro: lo stesso posto, gli stessi colori, la stessa luce che canta tra le spine del rampicante. Non c'è dubbio che il pittore Calvo de Araùjo ha dipinto quell'olio da questo punto, la memoria seduta su quest'albero; l'ho visto mentre lo dipingeva anni fa a Lima. Mi investe un irrefrenabile desiderio di manifestare la mia riconoscenza: parlare con il paesaggio, sfiorare le sete della farfalla.

— Toccala pure, dice Don Juan Tuesta, se la tocchi

non avrà paura. Mi avvicino lentamente, e ancora più len-tamente allungo la mano verso i suoi veli gialli; la farfalla rimane immobile, si lascia accarezzare, mi confonde forse con l'aria che scorre al posto del fiume, penso. Rimango così, sorpreso, non so per quanto tempo; poi mi alzo respirando di nuovo e la farfalla riprende a vibrare, mi gira intorno nel silenzio più profondo, entra ed esce dal quadro del paesaggio, poi, decisa, vola dritta verso il mio petto e si posa tranquilla sotto la mia spalla sinistra. Non mi muovo per timore di spaventarla, e ancora una volta lo stregone mi incoraggia:

— Puoi continuare a camminare, non avrà paura. Così raggiungo la parte opposta del ponte, la farfalla

quieta sul mio cuore; continuo a camminare per un'ora, due ore, lungo il sentiero che si addentra e che alla fine si arresta di fronte a una Kocha dì acque scure. Il caldo mi spinge ad avventurarmi, sarebbe piacevole fare un bagno, la farfalla abbandona la mia camicia bagnata, sorvola le acque ricoperte di una bava viscosa e giallastra e le attraversa, così, come in un sogno, nel silenzio, fino a raggiungere l' isolotto che verdeggia al centro della palude torbida.

— Non è una farfalla, mormora Don Juan Tuesta, è l'anima di un tuo parente morto, è l'anima del mio amico Calvo de Araùjo...

Pieno di forze, allora, fradicio di sole e di allegria, mi tolgo la camicia, i pantaloni; non entrare nel lago! grida allarmata una vecchietta dietro di me, è pieno di anguille1. Don Juan Tuesta non si scompone, Rosa Urquìa, le dice, non aver paura, Rosa Urquìa, e a me: non ti preoccupare, entra, non ti succederà niente. Proprio ieri è scivolato il mio vitello e le anguille me lo hanno restituito tutto nero, bruciato, morto, insiste Rosa Urquìa. Giro intorno alla riva detta kocha, vedo la farfalla che sfolgora di fronte, nell'isolotto, gioiello luccicante fra gli arbusti, e mi tuffo nelle acque sempre più scure, più calde, più chiare, fuggo dal sole che brucia il vento fermo e dal pomeriggio che arde, con poche bracciate raggiungo l' isolotto in ombra. La farfalla ritorna da Don Juan Tuesta, vicino atta vecchietta ammu-

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tolita che non vuole neanche guardarmi. Mi tuffo di nuovo nelle fresche acque dense, non so perché ricordo un uccello carnivoro che si chiama wapapa, nuoto sottacqua verso la riva, qualcosa che non vedo sfiora il mio ventre, la pelle gommosa e arida di una, di infinite anguille, ma non può essere, il mio cuore sussulta, le mie gambe fuori pericolo. Quando esco dal piccolo lago Rosa Urquìa sembra rina-scere, non crede ai propri occhi e si allontana da me con fare prudente. Bagnato, con la camicia e i pantaloni ba-gnati, mi fermo davanti allo stregone che distende un sorriso stanco e soddisfatto.

— Non c'era nessuna anguilla, gli dico mentre cammi-niamo ritornando a Muyuy.

Don Juan Tuesta rimane a lungo in silenzio. Riprende a parlare quando entriamo in paese:

— Si, c'erano le anguille in quella kocha, dice, quella kocha è piena di anguille mortali. E di nuovo tace. Di fronte ai miei occhi che l'ayawaskha ha rifiutato da molto anche se non del tutto, tremano in lontananza, e poi sempre più vicine, le prime luci delle capanne, color seppia, di cui abbiamo sentito la mancanza.

— Prima che ti tuffassi nel lago ho separato il tuo corpo dalla tua anima. Le anguille ti hanno colpito con le loro scariche elettriche, non te ne sei accorto? Ma hanno toccato solo il tuo corpo, la tua anima non ha sentito niente. Per questo sei vivo, mi dice Don Juan Tuesta che cammina accanto a me, attraversando Plaza Rumania cancellata dalla notte.

Dopo giorni e giorni di cammino, dalla città di Pawkar-tampu, raggiunsi un paese che non avevo mai visto. Ero solo. Mi vidi salire lungo il pendio di Challabamba, e perdermi mentre andavo verso le selve del Cusco, verso Qosni-pata. Ricordo un'indicazione in cima a un palo, che diceva Rio Carbón. Non so perché non lo seguii, presi a sinistra, di fronte a me i monti ricoperti di neve brillavano di un colore tra l'azzurro e l'arancione, a tratti seppia. Non rio

carbón, ma risate,1 dissi, e risi per aver pensato una cosa cosi sciocca. Ridendo, scalai quelle cime, scesi verso altre più dolci, meno fredde, attraversai un piccolo paese che si chiama Patria, un insieme di misere capanne in una radura di quei boschi, e continuai a scalare colline e colline. Im-provvisamente, dietro un intreccio di liane di garabatoka-sha che si attoreigliava al tronco di una melarosa, mi fermai ad osservare il paese.

Ecco, lo vedo anche adesso, dico a Don Juan Tuesta, lo vedo perfettamente: piccola piazza di terra battuta cir-condata da sette case di pietra grigiastra, rugosa, sette case il cui tetto è fatto di palme dalle foglie giallo-scuro, az-zurro-scuro e che sfidano il sole. Ho quasi paura di entrare nella piazza, lo vedo. Di fronte a me, accovacciati in se-micerchio, i vecchi del paese masticano foglie di coca, le masticano mescolate al chamairo, una liana dolce, come fanno gli abitanti della selva, contrariamente agli andini che la mescolano con la calce. E come gli abitanti della selva vedo che modellano l'impasto della coca usando cenere di capirona. Alle loro spalle, dietro il semicerchio silenzioso, all'ombra, pende un enorme kosho de masato. Il kosho è un recipiente fatto da un tronco cavo come fosse una piccola piroga, una inafferrabile canoa che trabocca di succo di mandioca e di saliva. E più mi allontano, più nelle mie visioni mi sorprendo: sono veramente nel Cusco?, mi dico sudando freddo a causa dell'ayawaskha nera, perché dietro le allucinazioni so perfettamente che nel Cusco non si parla il quechua che mormorano questi vecchi.

— Ci stiamo scambiando delle conoscenze, mi sussurra un vecchio con un sorriso che non è un sorriso, con una voce che non è una voce.

— Sì, ci stiamo scambiando delle conoscenze, ma ce le scambiamo come una volta, astralmente, dice un altro.

— Viaggiando senza il corpo, così ci scambiamo ciò che sappiamo, mi dice un altro più anziano. È, come se mi

1 L'autore gioca con la duplicità semantica della parola rio, che nella forma sostantivata vuol dire "fiume" e in quella verbale (prima persona del presente indicativo) "rido". [N.d.T.]

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trovassi nel cuore di un gioco di bambini, questa è l'esatta sensazione, come se mi trovassi in mezzo a un gioco di bambini, vedo venirmi vicino un altro vecchio:

— Abbiamo digiunato per mesi per poter venire, perché le nostre conoscenze potessero andare e tornare, conoscenze di altre epoche, di altri mondi che vivono nell'aria...

Il più maestoso di tutti, avevo già notato quel volto, si alza interrompendo gli altri, appoggiandosi con difficoltà, con rabbia, come un convalescente, con molta lentezza, su un bastone d'argento. È il varayoq, dico, è il sindaco, dico a me stesso, è la massima autorità del paese, di tutti gli abitanti della zona. E il paese si chiama Qero, mi rispondo, si chiama con lo stesso nome del vaso di legno sacro che usano gli antichi. Qero: nessuno è mai arrivato quassù, né i conquistatori spagnoli né quelli successivi, noi peruviani, così come non è mai arrivato nessuno nell'invincibile territorio dei campa, nel Gran Pajonal. Di colpo il varayoq mostra un volto terso, grigiastro, indefinibile, arrossato, rugoso, rigido nelle tempie e nel mento, implacabile negli zigomi, gli occhi presenti ma lo sguardo lontano; riconosco quel volto. Lo riconosco?... Occhi della memoria! Memoria ormai senza occhi!... il volto di mio nonno Vìctor, divorato dalla terra da più di quindici anni, eppure è così giovane. Così il volto sfatto del varayoq ospita le fattezze gioiose di Isidro Kondori, giovane poeta quechua che conobbi a Cusco, mentre cantava dall'alto della fortezza di Saqsaywaman, durante le cerimonie in omaggio del Dio Sole. Orgoglioso come tutti i contadini, e solitario come tutti gli orgogliosi, Isidro Kondori accettava a volte di parlare in spagnolo, ma quando cantava lo faceva esclusivamente in quechua, in runasimi, nella lingua-dell'uomo. "Sono comunero, senza comunità", cantava. "Quando avevo l'aratro, mi mancavano i buoi. Quando avevo i buoi, mi mancava l'acqua. Quando avevo l'acqua, mi mancava la terra". Così cantava Isidro Kondori. "Quando avevo la terra, mi mancava l'amore". Giudici e padroni spogliarono Isidro Kondori del piccolo appezzamento di terra che costituiva la sua eredità. La fame e il coraggio lo spinsero a recupe-

rare parte delle cose rubate senza chiedere il permesso. In altre parole: Isidro Kondori diventò abile nel sedurre vacche e convincere cavalli. Abigeato, così le nostre leggi designano il furto di bestiame. Ancor oggi, con orgoglio, Isidro Kondori antepone, a qualsiasi altro titolo, il titolo rischioso e rispettato di Abigeo. "Non corteggio mai però il bestiame dei miei fratelli contadini, recupero soltanto quello che ci appartiene, le vacche che si nutrono delle nostre antiche terre".

La sua voce delicata, dorata, ora scorre dura attraverso la bocca sigillata del vecchio varayoq. Isidro Kondori sta cantando, dalle labbra dell' inka Manko Kalli, la Danza del Ladro di Bestiame! E in questo canto di uomini liberi, l'inno degli indios eretici e ladri, indomabili e docili, leali e donnaioli e giusti e ubriachi, in questo canto, lo vedo ancora, si riflette, come un sole di cuoio, la vera vita del poeta Isidro Kondori, scivolano luccicanti le note del Wywa Suaq Tusuynin, le vanterie di quel canto che Isidro Kondori compose una notte in una delle sue prigioni, forse soltanto per proteggerci, per dire la verità sulle nostre debolezze di un tempo, là nei sotterranei del carcere di Cusco. Adesso, come allora, vedo Isidro Kondori cantare:

WYWA SUAQ TUSUYNIN

Kamaq qelqa maskawasban sua kaskay rayku nispa, kamaq qellqallataq niwachun imaraykun kawsani mijuspa. Juchuy allpa, sumaq allpa paytan noqa yumarani tarpuspa, werasapa acendarutq charanq'arata ruwarasunki suwaspa. Koyway kamakoq weraqocha noqapag kasqanta muchuyrispa

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manaraq hatun llakita tarpushqti yawamuywan nispa.

Il rugoso e grigiastro varayoq dei Qero trattiene per un attimo ancora le fattezze di Isidro Kondori, poi le abbandona per riprendere il suo volto millenario, ma la sua voce si ostina a rinascere, non mi sbaglio, ascolto, è la voce del poeta Luis Nieto, di Cusco, nella sua voce vedo la Danza del Ladro di Bestiame che spunta luminosa dalla bocca del vecchio alcalde dei Qero:

Se le leggi mi cercano perché rubo, dicendo, che le leggi mi dicano di che vivo, mangiando. Piccola terra, affascinante, che io ho fecondato seminando: il signor possidente ti ha reso puttana, rubando. Dammi, Signor Governo, ciò che è mio soffrendo, prima che semini la tua disgrazia con il mio sangue, dicendo.

Il varayoq batte sul pavimento il suo bastone d'argento lavorato. Il pavimento si solleva come un condor di colori che suonano. Mi vedo avanzare verso di lui e lui mi sorride, si rallegra con il volto di Don Javier crocifisso sulla croce di ghiaccio. Penso che dovrei inginocchiarmi per riverirlo, ma mi limito a un cenno di saluto con la fronte, la mia fronte fa un cenno di saluto al vecchio Cristo, e dalla mia fronte spunta una farfalla nera e gialla, a lutto e gialla, attraversa la piazza di terra, si posa sul petto del vecchio che si è seduto di nuovo, come prima immobile in quel semicerchio di silenzi, di ombre, di quiete, che formano gli altri

vecchi del paese. E nella mia visione la piazza non è più una piazza ma l'atrio del Tempio del Dio Puma, l'atrio di Q'enqo, così si chiama il luogo sacro degli antichi quechua, degli inka, e accanto a me, cresciuto dal mio stesso corpo, sta l'altare del Dio Puma, gigantesco fallo di pietra rugosa e grigiastra che penetra le nubi che sovrastano il Cusco. Sto per essere giudicato, mi vedo, in piedi, tra quel tremendo priapo di granito che nasce dal mio ventre, tra i ministri del tribunale solare, i sacerdoti, le persone-del-sole che mi guardano con gli occhi chiusi, in semicerchio, e il Sommo Sacerdote, il Willaq Umu, si alza e additandomi:

— Tu non sei Manko Kalli!, così mi accusa il vecchio varayoq. E conficcando in terra il suo bastone d'argento:

— Perché usi il volto di Manko Kalli, se non sei Manko Kalli?

E piegandosi per consultarsi verso il silenzio, verso l'ombra lucente seduta alla sua destra:

— Manko Kalli non è chori, non è virakocha, né uomo delle Ande, né uomo bianco, Manko Kalli ha un'origine an-tichissima, è un discendente diretto dei primi figli di Kaa-metza e Narowé, dei primi esseri umani i cui nomi erano Kaametza e Narowé, la donna e l'uomo.

— È il nonno legittimo, diretto, di Juan Santos Atao Wallpa, il primo a ribellarsi ai conquistatori virakocha, — gli dice in silenzio l'ombra seduta alla destra del vecchio varayoq.

— Da lui, da Manko Kalli, nonno di Santos Atao Wallpa, ci viene il sangue che forse abbiamo avuto, — risponde il varayoq all'ombra seduta, a quel silenzio seppia.

E estraendo dal collo della sua cushma gialla un vaso sacro di legno, un recipiente inciso, antichissimo:

— È in questo Qero che ci ha lasciato il suo sangue, ce lo ha lasciato, a tutti noi Qero, perché scorresse nelle nostre vite. In questo vaso di palosangre scolpito ci ha trasmesso l'esistenza attraverso i secoli. Ci ha inviato il SUD sangue, la nostra esistenza, da lontano, attraverso gli uru...

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In quel vicolo quasi bianco che chi è stato nella Fortezza di Saqsawma conosce come calle De Las Piedras Campana, Julio Cortàzar, in piedi, con un poncho tessuto con lana di alpaca, avvicina l'orecchio alla pietra più alta del muro inka, e ascolta. La compagna di Julio Cortàzar; Ugné Karvelis, si china attenta e avvicina la guancia destra alla superficie di una pietra meno grigia e leggera. Più in alto, all'altro lato della strada, un bambino quechua, con il viso rosso come le mele di Antapampa, solleva lentamente un sasso e più volte lo lascia cadere sulle rocce che coronano il muro imbiancato. Ad ogni colpo del bambino, Ugné e Julio allontanano l'orecchio dalla pietra con gioia e il vicolo risuona come acqua limpida, risuonano l'intera Fortezza di Saqsawma e l'aria tutto intorno al Cusco, in pieno pomeriggio.

Prima, a mezzogiorno, avevamo camminato fino a Tam-pu Mach'ay, il Tempio dell'Acqua. Eravamo poi arrivati alle falde di Q'enqo, il Tempio del Dio Puma. Lì avevo cercato Anìbal Tupayachi, figlio del guardiano delle rovine di Q'engo, della cui amicizia sono grato al poeta Luis Nieto.

— Anche questo signore è un artista, un haraweq, dissi al piccolo Anìbal Tupayachi, indicandogli Julio Cortàzar. È un nostro fratello, è un nostro wauqechay, è venuto dall'altra parte del mare, è venuto per conoscere, per sapere, perché tu lo conduca al Tempio del Dio Puma, al Tempio del Dio della Fecondità...

Anìbal Tupayachi prese Julio Cortàzar per mano e sor-ridendo se lo portò in mezzo alle rocce e lo condusse ai piedi dell'altare del Dio Puma, un impossibile fallo di pietra che divideva i cieli del Cusco. Colpito dalle storie di Anìbal Tupayachi, Cortàzar passò vicino al semicerchio di sedili scolpiti nella pietra dove un tempo si riposavano i sacerdoti inka, le persone del Sole. Ugné Karvelis rimase al mio fianco, entrambi guardavano con gli stessi occhi l'immagine tenera del bambino quechua che guidava quel gigante bianco sotto il poncho nero, come se si trattasse di

un fratello più fragile e più piccolo. Poco dopo, sulla roccia rotonda, in cima al Tempio, ci apparvero i profili di Anìbal e di Julio, i loro lineamenti di bronzo radianti sotto la pace del sole.

— Queste due colonne di pietra che lei vede, sicuramente avrà detto a Julio Cortàzar il bambino quechua, in cima alla roccia, queste due colonne si chiamano Intiwa-tana, anche se i virakocha le conoscono con il nome di Orologio Solare. Ma loro sbagliano, non sono Orologio Solare. Nella lingua dei nostri antenati, Inti vuol dire sole, Watana legare. Qui, noi inka, legavamo il sole; lo legavamo con corde d'oro e d'argento perché non fuggisse durante la notte, perché non ci abbandonasse. Così il Sole rimaneva legato per tutta la notte. E l' lntiwatana serviva anche per altri usi, avrà detto Anìbal Tupayachi a Cortàzar. Su queste colonne venivano fatte salire le ragazze, un ginocchio su ciascuna pietra, per vederle urinare. Se le loro urine cadevano in questo punto, di fronte alle colonne, bagnando questa fenditura, voleva dire che la vergine era ancora vergine, degna di entrare nella Aqllawasi, la Casa de las Nustas del Inka, la Casa delle Vergini del Sole...

Il ragazzino e Cortàzar ricomparvero poco dopo dall'atrio del Tempio, vicino ai resti del grande fallo di pietra, di fronte ai 19 luoghi scavati nelle rocce che formano la piccola piazza sacra.

— Qui si sedevano i sacerdoti, al centro il Willaq Umu, il Sommo Sacerdote del Sole; si sedevano in questo semicerchio di pietra per fare giustizia, così, sicuramente, avrà detto Don Anìbal a Don Julio. Qui giudicavano quelli che trasgredivano i nostri comandamenti: Ama sua, Ama llulla, Ama qella: non essere ladro, non essere bugiardo, non essere ozioso...

Fu dopo che andammo alla Fortezza di Saqsawma. Il suo vero nome non è Sacsayhuaman, come si ostinano a chiamarla i bianchi virakocha. Il suo nome non è Falco Grigio, Falco di Pietra: Saqsaywaman, ma Testa Grigia,

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Testa Venata, di Pietra: Saqsawma, ci informò Anìbal Tu-payachi. Perché prima la città di Cusco aveva la forma di un otorongo, di una tigre, i contorni precisi del corpo del Dio Puma. E per questo i nostri antenati la veneravano come fosse la Città di Dio, la Città Sacra. E la Fortezza di Saqsawma, la testa del puma, questa testa venata, di pietra, riuniva tutte le memorie, tutti i pensieri e i sogni e i tradimenti di Cusco. E il petto e la testa della città erano unite, ancora oggi lo sono, da una strada chiamata Puma-kurku. La Colonna Vertebrale del Puma. E la coda della città di pietra era d'acqua, la coda del Puma-Cusco era il fiume Watanay, quel ruscello che scorre senza sosta, impetuoso, fino al villaggio di San Sebastian...

Ugné Karvelis e Julio Cortàzar osservavano attoniti la Fortezza di Saqsawma, e manifestavano lo stesso stupore: come diavolo avevano fatto a trasportare pietre così enormi?... Anìbal Tupayachi ci spiegò che erano state scavate e trasportate dagli inka da una cava non molto distante, può essere dimostrato, i macigni avevano percorso solo quaranta leghe. Sì, va bene, ma come, chiese ancora Cortàzar, come, se oggi una gru non potrebbe trasportare neanche la pietra più piccola, che forse pesa venti tonnellate. Com' è possibile che qualcuno abbia potuto, e possa oggi, non dico trasportarle, ma soltanto muoverle?...

— Lo facevano cantando, gli disse Anìbal Tupayachi. I nostri antenati le muovevano con le canzoni, signore, con icaro, le canzoni magiche. Così, cantando, facevano viaggiare queste pietre gigantesche...

Adesso, nella mia nostalgia, il bambino quechua ha i capelli castani, occhi quasi chiari, o meglio evanescenti, pelle diventata bianca sotto lo scurirsi di quei quattro secoli di vita sotto il sole.

— Manko Kalli ha guidato la nostra vita da lontano, attraverso questo vaso di palosangre scolpito, mi dice il vecchio Willaq Umu, il Sommo Sacerdote, mentre, nella mia visione che continua a sorprendermi, conficca il suo basto-

ne d'argento nella terra prodiga, mi sfuggono le cose che so né so bene quello che sto vedendo, il varayoq che costringe la Sorella Marna Oqllo sotto il Fratello Manko Kapaq e li manda sul monte Wanakawre affinchè lì, alle sue falde, ai piedi del fulgido, ombroso Qoylluriti, l'incestuoso fallo d'oro penetri l'Ombelico del Mondo mostrando finalmente, fiero presagio, il contorno di pietra e di silenzio della città di Cusco. È questo che vedo, che ho visto, dico a Don Juan Tuesta, alla sua voce che si allontana con passi felpati, artigli e zanne di otorongo, di puma. E cade il Rio delle Amazzoni dall'alto della sua fronte di saggio. Mi vedo in Plaza de los Qeros, rettangolo di terra, palosangre scolpito dalle unghie del Sole, mi vedo viaggiare con i migliori ballerini Qero, scendere a Challabamba, entrare a Pawkartampu tra canzoni, pifferi e tamburi degli indios bora.

Ho sognato di camminare con i Qero, dico a Don Juan Tuesta, nel villaggio dell'isola Muyuy. Di camminare, io, ballerino Qero, con gli altri ballerini. Dopo quattrocento anni avevamo accettato di ritornare a Cusco. Il nostro rifiuto dura ormai da quattro secoli. Da quattro secoli rifiutiamo tutto; nel nostro paese nessuno parla spagnolo, né veste da spagnolo, né vive da spagnolo, come nella terra degli ashaninka, dei campa. Noi esistiamo come prima, come sempre, senza caserme né scuole né parrocchie virakocha, vestiti con un semplice poncho corto e capelli lunghi, noi maschi, con trecce nere le nostre femmine, come le donne della città di Tinta...

— Saprai che le donne di Tinta, mi dice Don Juan Tuesta, mi dice il vecchio Willaq Umu, mi dice il sorridente Cristo della Stella di Neve, saprai che da quando gli invasori hanno assassinato Tupac Amaru, il Serpente Risplendente, le donne di Tinta per esprimere il loro dolore osservano il lutto indossando la lliqlla, uno scialle che vela di dolore le loro spalle. È il tutto più lungo della nostra storia, 200 anni di sofferenza. Da quando nella Plaza de Armas di Cusco hanno condannato ingiustamente il Serpente-Dio, il ribelle Tupac Amaru, la piazza che allora si

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chiamava Luogo-Dove-Si-Prega, variando una sola delle lettere del suo nome quechua, è stata destinata a una diversa funzione e a una diversa solitudine, e ancora oggi si chiama Waqaypata, Luogo-Dove-Si-Piange; da allora le donne di Tinta si sono tinte di pena...

Mi vedo, assolto dal tribunale dei Qero, assediare le vette che circondano Cusco, e conquistare insieme a loro la cima del monte Wanakawre. Il vecchio Willaq Umu ci ordina di fermarci. I ballerini scoprono la fronte e singhiozzano. In lontananza, in basso, risuonano le luci della Città-Puma, la Città Sacra degli inka. Ci ritroviamo a contemplarla dopo quattrocento anni. A un gesto del Sommo Sacerdote cominciamo a scendere verso il petto del Puma di pietra, danzando al suono di pifferi, tamburi fabbricati con pelle di traditore, flauti e qena fatti con ossa di traditore. Entriamo in un tripudio di danze, le nostre teste ornate con wapapa e aironi disseccati, cappello d'ali nere picchiettate di giallo il cui collo scende lungo la nostra schiena, chiuso il becco insanguinato che inutilmente ormai colpisce la vita vincitrice e flessuosa. La città si spaventa. I virakocha impauriti ci osservano mentre entriamo nella piazza di Cusco, nella grotta di ghiaccio iridescente. In mezzo alla Waqaypata sorride il Serpente-Dio-Splendente da una croce di palosangre, Tupac Amaru ci riceve...

— Perché hai tardato?, mi rimprovera il pittore Calvo de Araùjo dal moletto della sua proprietà Shapshico, nelle mie visioni lo vedo seduto dietro il fumo di una sigaretta lunga e stretta, preparata con foglie di tabacco silvestre.

— Ti aspettavo al tramonto, mi dice. Ti sto aspettando da più di quattrocento anni...

Ma invece di ascoltarlo apro le ali nere del condor che mi adorna la testa e con i Qero mi affretto verso uno squallido sentiero, un cammino in mezzo alla boscaglia per raggiungere gli altri e insieme proseguire verso il cuore del Cusco...

— Perché ridi tanto forte?, si preoccupa Don Juan Tuesta

— Perché quando piango, piango altrettanto forte, come se si rompessero i secoli, sento che gli rispondo.

— Non sarai stato stravolto dall'ayawaskha?, mi chiede ancora più preoccupato lo stregone dell'isola di Muyuy. Io però non riesco a vederlo nelle sue parole: la mano del Rio delle Amazzoni le cancella contro l'aria dorata, alle mie spalle. E tra il terrore dei notabili della città di Cusco, dei commercianti dietro le loro bilance e i loro portafogli, tukuyrikuy, boia, allqoruna, che rinchiudono rimorsi e colpe tardive in un'unica paura, tra un groviglio di carceri, alberghi, chiese, case e bordelli di invasori, ritorniamo dopo quattro secoli e cantando ci impadroniamo della piazza, cantando la muoviamo, riportiamo il Cusco fino alla selva, pietra su pietra, silenzio su silenzio, cantando. Lo trasportiamo ballando e cantando. Con icaro, le canzoni magiche, con bubinzana, lo muoviamo, pensando...

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le donne che non possono avere figli partoriscono arcobaleni

E poi ho visto una roccia poco più grande di una casa, le cui falde erano avvolte da muschi e da liane, orizzonte di terra unito alla terra. Una cortina di acque ne chiudeva l'entrata, copriva, come cateratta imprigionata, cadendo da terra verso il cielo, la bocca della pietra. Ed io me ne stavo li seduto, a guardare. Sulla roccia, in ombra, ho visto degli uomini che parlavano in silenzio, le voci e gli occhi sospesi nel tramonto del sole. Avevano i capelli lunghi, uno o due giri di treccia, il poncho e i pantaloni corti, stretti alle ginocchia, e parlavano in un quechua che io non riuscirò mai a imparare.

— Questo è il Tempio dell'Arcobaleno, disse dall'alto della roccia, nelle mie visioni, un volto che non ho mai visto ma che ricordo. E fissando il sole che si dissanguava:

— Qui vengono le donne che non possono, attraversano a piedi nudi la porta d'acqua, entrano sul fare della sera, ma è ancora giorno; il cielo mente. Escono all'alba, dopo aver passato la notte intera dentro la pietra, dopo aver conosciuto la solitudine senza colore né calore, la vera solitudine dell'arcobaleno. E quando escono possono. Ogni donna che prima non poteva, quando esce può...

E rivolgendo il viso alla sera che scendeva dal Palazzo dell' Inka Sinkhi Roka, qui a Chincheros, a mezza giornata di cammino dalla città di Cusco, e che avanzava sul fiume Willkanota, il Fiume Sacro che scorre vicino, giovane ancora e non ancora Urubamba:

— Sì, ogni donna che prima non poteva, quando esce può. E i figli che più tardi concepisce con allegria, sono conosciuti come figli dell'arcobaleno.

Dall'alto della vallata, quella roccia si trova nella vallata che si estende dal Palazzo dell' Inka fino al fiume Willkanota, ho visto venire un vecchio, molto vecchio, con un bastone di bambù rosso che forava la terra: scendeva lentamente con una coppia di pernici, di quelle che chiamano panguanas, sulle braccia piene di tagli. Era venuto vicino a me ma non mi guardava, attraverso di me vedeva la cortina d'acqua. Visioni, venite!, gridò. Al richiamo della sua voce rugosa ho visto la panguana femmina entrare nella roccia, passare sotto le acque che piovevano dalla terra verso il cielo, perdersi nella penombra umida e muschiosa della grotta di neve. Qoylluriti!, gridò il vecchio. E ho visto che era il giorno successivo, la sera precedente aveva scavalcato la notte ignorandola, deviandone per sempre il corso nel tempo senza tempo, e si era unita al nuovo giorno. Ma no, la notte se ne era andata scivolando lungo il Willkanota e poi il Wilcamayu fino all'Urubamba, in direzione della selva. La panguana femmina usciva dalla roccia e deponeva cinque uova sul posto occupato dal mio corpo invisibile, sulla terra che io calpestavo, non visto. E la panguana maschio volava dalle braccia del vecchio e si sedeva sulle uova. E allora ho visto che la panguana che covava ero io.

— È il maschio che cova, sentenziò il vecchio. E io gli dicevo: — Perché non può vedérmi, maestro? — È il maschio che cova, ripetè tra sé senza sentirmi né

vedermi. E io, il luogo che io ero, ostinato e tra le lacrime: — Perché non riesce a vedermi, se sono diventato

invisibile proprio per farmi vedere da lei...? E lui, risalendo la vallata dopo aver raccolto le panguanas

e le uova: — Forse perché hai perduto i tuoi poteri, probabil-

mente te li hanno tolti...

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— Lei mi può icarare, magnetizzare, proteggermi!, protestai. Lei mi può liberare dal maleficio!

— Tutto è meritato, sentii che lo stregone mi diceva mentre si allontanava ansimando, appoggiato sul suo ba-stone d'argento lavorato che fecondava la terra. Era di nuovo notte. E di nuovo giorno. E di nuovo notte. Le mie visioni mi avevano confuso, era giorno ed era notte allo stesso tempo. Ho visto un negro che tossiva o che piangeva sangue sotto il mare e il mare suonava come una cassa musicale. Ma non era né una cassa musicale né il mare: era un man guaré bianco, di lupuna, di luna, e suonava sul fondo del Rio delle Amazzoni. E il negro si chiamava Narowé e aveva il viso, la voce e le mani di Don Javier. E entrava nella sua cassa come chi si immerge nel mare o nella morte o in un sogno-senza-fine, insieme a una wapapa, uno di quegli uccelli carnivori che mangiava con indifferenza senza la minima paura. Non suono da quattro secoli!, gridava. E non voglio suonare più!, disse colpendo la luna con un ramo di palosangre. Ho visto anche il suono lontano di due giovani tamburi che invece di suonare si colpivano a morte. Ho visto il tamburo maschio dissolversi dentro un ruscello, mentre la femmina singhiozzava, imprecava, si abbandonava al conforto di un fuoco nella notte. Perché era di nuovo notte. Le mie visioni mi contraddicevano. Era l'alba. Ho visto due gocce dolci, luminose come pianto di canna, staccarsi dalla cortina d'acqua che copriva la roccia e, volando, posarsi sul mio occhio destro. Poi ho visto altre due gocce ancora più dolci spuntare e immergersi fluttuando nel mio occhio sinistro.

E non ho visto altro. Mi sono svegliato.

II

Il viaggio

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non invano quegli alberi si chiamano palosangre

Il bimotore ci lasciò ad Atalaya, con le ultime luci. Volammo per due ore da Pucallpa, inseguiti da venti e piogge minacciose. Sotto, in un viale spazioso che insidiava la boscaglia contrastando pascoli gialli e sterpaglie polve-

rose, due file di lampade a petrolio delimitavano la precaria pista di atterraggio. Quando scendemmo dal bimotore la notte era già calata. Soltanto la luce rossiccia delle lampade consentiva il cammino verso l'abitato disegnando sagome di passeggeri e di alberi. Camminammo per due chilometri trasportando i nostri bagagli fino al centro del paese: cinquemila abitanti tra pescatori tristi, funzionari statali, bambini pallidi, trafficanti di legname in disgrazia, commercianti obesi e allevatori di bestiame accigliati e strade e vicoli di fango secco.

— Winchester contro frecce, pensi un po', armi a ri-petizione contro aste di legno — esclama lo spagnolo An-drés Rua, allevatore di bestiame, esaltato dal ricordo, ad Atalaya.

A sette ore dall'abitato, se si viaggia con la piroga remando senza contrariare l' Ucayali, un ruscello profondo si getta, all'improvviso, dalla riva sinistra nel grande fiume, costeggiato da due file di alberi dalla chioma foltissima e dalla corteccia molto dura, più dura e più brillante dell'acciaio: venature del prezioso palosangre sulla cui superficie si spezzano le lame delle seghe dentate, anche di quelle dure come punta di diamante.

1.

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Quell'alveo allegro che taglia il bosco rosso è l' Unine. La corteccia del palosangre è verde cenere, più di dieci metri di tronco sema rami. L' Unine nasce in alto, oltre le cime alberate, al centro di una pianura conosciuta come il Gran Pajonal: centomila chilometri quadrati di altopiano di selva fino a oggi inviolato; qui abitano disseminate le invincibili, ospitali, feroci tribù ashaninka. Gli ashaninka, che gli stranieri chiamano campa. Dal Gran Pajonal, lungo l' Unine scesero, barbuti, stanchi, con armi sospettose e strani vestiti e colori di pelle e occhi e capelli, intorno al 1965, diretti alle montagne di Mesa Pa-lada nel Cuzco, i guerriglieri comandati da Luis De La Puente. Erano sicuri che gli ashaninka, senza dubbio i più abili e ribelli abitanti della selva peruviana, si sarebbero alleati con loro.

— Nessuno volle seguirli, dice Don Andrés Rua. I pochi che lo fecero, convinti di scendere dalle selve del

Gran Pajonal verso terre tiepide, scesero in realtà verso la morte. I palosangre scuotono appena le fronde, in alto, in un groviglio di foglie evanescenti e lucide. Mi informano che molto tempo fa c'è stato uno spietato conflitto tra gli ashaninka e gli amawaka del grande stregone Ino Moxo. Che Ino Moxo, erede sicuro del capo amawaka Ximu, rapi una delle trenta mogli di un curaca chiamato Inganiteri.

Gli ashaninka, i campa, combattono soltanto allo sco-perto, dice il trafficante di legname Carlos Maldonado. Non attaccano mai alle spalle, mai spuntano armati dall'ombra né tendono agguati di notte. Sono insuperabili nell'uso dell'arco costruito con dure liste di pona scura e stagionata. Durante le battaglie in campo aperto si prendono gioco dei nemici afferrando al volo le frecce o schivandole quando sfiorano i loro corpi con i bordi della cushma. E le donne, quelle inquietanti e piccole e silenziose femmine dagli occhi spaventati su un viso color rame, i fianchi lucidi da sembrare oliati, ondulanti sotto il gonnellino dipinto, quelle stesse donne che fanno l'amore con chi vogliono dai dieci, nove, dodici anni, una volta sposate di-

ventano disperatamente fedeli. La ashaninka sposata non guarda nessun altro all' infuori di suo marito. È possibile possederla soltanto con la forza e se accade, e accade quasi sempre per colpa di qualche guarnigione di soldati sbandati, l'ashaninka violentata si uccide.

Soltanto gli stregoni campa, i katziboréri, e a maggior diritto quelli che fumano, gli shirimpiàre, conoscono il veleno con cui quei guerrieri ungono la punta delle frecce e dei dardi scagliati con le lunghe cerbottane. Si tratta di una sostanza tossica, che in un tempo brevissimo uccide senza dolore, dice Don Andrés Rua. Non ha niente a che vedere con il curaro né con il veleno dei serpenti. Si sa che i fattucchieri si servono di un preparato di tohé, quel fiore color avorio a forma di campanula la cui essenza provoca un sonno profondo e dolce che congela il sangue.

Ingannato dall' amawaka Ino Moxo, l'ashaninka Inga-nìteri convocò i capi di tutto il gran Pajonal: su numerose piroghe, le guance dipinte con wito, con achiote, con karowiro e sangue, centinaia di guerrieri arrivarono alla foce dell' Unine, scesero insieme alle loro donne tra i filari di palosangre, lanciando alte grida, raggiunsero l' Ucayali urlando, cantando, ridendo sguaiatamente, penetrarono nel-l'Urubamba fino all' Inuya, giunsero al Mapuya, attraver-sarono il bosco fino al Mishawa e qui riuscirono a fare ciò che non erano riusciti a fare gli invasori bianchi: annientare gli amawaka. La corteccia del palosangre è verde cenere, più di dieci metri di tronco sottile, l'albero senza rami, scuote appena le fronde, in alto, in un groviglio di foglie evanescenti e lucide. Ma i palosangre dell' Unine, stranamente vedovi di corteccia, ostentano quell' insolenza rossa da cui traggono il nome. Dopo settimane e settimane di lotta, quando ormai dell'esercito amawaka non erano rimasti che trecento uomini, Ino Moxo costretto dal suo capo Ximu, restituì a Inganiteri la sua trentesima moglie. Raccontano che la sposa offesa, prima di tornare al Gran Pajonal, terra dei suoi avi, si diede la morte volontariamente trafiggendosi il ventre con un dardo di tohé. Questi palosangre dell' Unine, privi di corteccia ostentano agli oc-

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chi e all'aria quell'insolenza rossa dalla quale prendono il nome. Altri affermano che questa storia è falsa, che non sono stati gli ashaninka ma i caucheros bianchi a massacrare senza tregua gli indios con il falso pretesto di combattere il cannibalismo.

— Winchester contro frecce, pensi un po' ! Armi a ri-petizione contro aste di legno, per sottrarre agli indios le loro terre ricche di alberi di caucciù.

E sui campa mi dicono altre cose. Che sono nomadi da sempre, da prima che esistessero i bianchi, da quando un enorme otorongo nero precipitò dall'alto del Gran Pajonal, e li mise in fuga. Che ogni due anni si trasferiscono in una terra diversa, cambiano vita, bruciano tutto: i campi seminati, i sentieri aperti con il machete, le due capanne: la kaapa, destinata agli ospiti e costruita per prima, e il tantóotzi, dove vivono con la famiglia; e così restituiscono le cose chieste in prestito alla selva, ristabilendo la pace con il paesaggio e l'armonia con la natura. Poi scelgono un'altra zona del Gran Pajonal e ricominciano di nuovo: bruciano la foresta impenetrabile, preparano i nuovi campi e le nuove case. E non lo fanno per puro capriccio, dice Carlos Maldonado, non lo fanno per ignoranza, come pensiamo noi che apparteniamo alla civiltà. Solo recentemente, dice Don Andrés Rua, quegli studiosi che credo si chiamino ecologi, hanno scoperto ciò che gli ashaninka conoscono da sempre: che quello è il modo più adeguato e saggio per rendere fertile la terra di queste zone, perché la nostra terra è delicata, debole, e non sopporta di essere fecondata un anno dopo l' altro; ha bisogno di riposo, concime e poi di nuovo riposo. La cenere che produce il campa quando la abbandona, non è di morte ma di nuova vita. Ed è per questo che seppelliscono i morti in superficie, avvolti in un doppio strato di calce, perché fecondino e continuino a vivere in eterno. E mi dicono anche che né gli inka, né i conquistatori spagnoli, né i missionari, né gli studiosi, né gli eserciti di

oggi, sono riusciti a sottomettere i campa. Mi dicono che nel 1742, un loro capo, chiamato Juan Santos Atao Wallpa si ribellò contro l'impero spagnolo, proclamandosi Re di tutti gli indios del Perù. E che oggi i campa, dopo secoli dalla scomparsa di Santos Atao Wallpa, continuano a aspettarlo.

Ogni anno alla stagione delle piogge, i capi ashaninka si riuniscono in qualche luogo nascosto del Gran Pajonal, di preferenza vicino al Cerro de la Sal, dice Stefano Va-rese, in prossimità della città di Satipo, dissotterrano la spada lasciatagli da Juan Santos Atao Wallpa e lo aspettano senza mai dormire per giorni e notti. Quando finalmente lo vedono attraversare il cielo impugnando un lampo nella mano destra, rassegnati, i capi campa fanno giuramento di riunirsi di nuovo, per aspettarlo, l'anno dopo, alla stagione delle piogge. Perché si dice, afferma Carlos Maldonado, che al ritorno di Juan Santos Atao Wallpa, gli ashaninka si solleveranno di nuovo, sotto la sua guida, contro i conquistatori e li vinceranno per restituire la libertà e la terra a tutti gli indios del Regno del Perù.

Queste e molte altre storie, oltre a quelle sul rapimento e successivo suicidio della trentesima moglie di Inganiteri, e quella sul ritorno imminente di Santos Atao Wallpa, potei raccogliere nelle vicinanze di Atalaya, grazie agli amici di mio zio, il pittore Calvo de Araùjo, i quali avevano diviso con lui tutto, tutto il Gran Pajonal e che ora, messo da parte, per la necessità e per gli anni, il desiderio di avventura, ingrassavano mandrie sui pascoli aperti dai campa col fuoco e col machete, e che si estendono da una parte e dall'altra dell' Unine, al di là dei fiammeggianti boschi di palosangre.

— Si batterono per una donna ma non furono capaci di seguire i guerriglieri! Dice Carlos Maldonado.

Non avevamo tempo di risalire le acque dell' Unine ed entrare nel paese ashaninka. La nostra meta era dal lato opposto, tra i sopravvissuti della non meno favolosa stirpe amawaka.

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Camminammo per due chilometri con i nostri carichi fino al centro di Atalaya. Ci lavammo nell'unico bagno del Grand Hotel de Sousa, al buio, infastiditi da zanzare e insetti. All'alba lasciammo l'albergo con l'intenzione di recarci subito al porto, ma l'inesauribile ospitalità degli amici di mio cugino Cèsar Calvo ci fece arrivare barcollanti all'imbarcazione, gonfi di birra San Juan, sfiniti sotto il sole pomeridiano. Una pioggia furibonda ci accolse sulle tavole agonizzanti del molo sulla riva sinistra dell' Ucayali. Lì, sotto l'ombra di frondosi alberi di mango e palme cariche di aguaje, Cèsar ritrovò suo fratello Ivàn, scuro di pelle e taciturno, evidente eredità indigena che, come seppi più tardi, gli veniva da parte di madre e che affiorava nel suo sguardo come agguato scontroso: Ivàn Calvo portò nel nostro gruppo la ricca esperienza di un suo amico, Félix Insapillo, pescatore del posto, più scuro di pelle e più taciturno di lui.

Per fortuna, o forse per sfortuna, Félix Insapillo affittò per noi, quella stessa sera, una piroga con un motore fuoribordo: infido tronco vacillante che per poco non ci fece naufragare, appena imbarcati, di fronte al porto, sotto la spinta di un'onda che ci sbattè contro una petraia nascosta sotto le acque del fiume. Sprofondati nel fango, graffiati dai sassi, fummo costretti a trascinare a spalla la nostra imbarcazione. A lungo, Cèsar, Ivàn, Insapillo e io, resistemmo alla corrente: davanti a noi un animale lottava invano contro la forza dell' Ucayali che lo travolgeva. Sempre con la piroga sulle spalle continuammo a resistere fino a raggiungere il riparo di un isolotto vicino; lì ci gettammo a terra, fradici, esausti, sotto l'ultimo sole. Dopo un brevissimo riposo, sostituimmo l'elica del motore che quei sassi nascosti avevano ridotto in mille pezzi, e proseguimmo controcorrente verso l'Urubamba che risuonava lontano con le sue acque impetuose tra colossali isole. Non andammo molto avanti. La scarsa luna e i tronchi smisurati di tornillo-negro, nascosti dall'acqua, capaci di rovesciare imbarcazioni più solide della nostra, ci costrinsero ad accamparci in una piccola spiaggia sabbiosa, luccicante

come neve, nella confluenza dell' Ucayali con l'Urubamba. Piantammo i pali: uno più solido per ancorare la canoa, gli altri per montare le nostre tende e le nostre zanzariere trasparenti. Insapillo si offrì per il turno di guardia. Dor-mimmo, non dormimmo, così tutta la notte, e l'alba arrivò portandoci nuove preoccupazioni. Insapillo lesse nel cielo i segni di una pioggia imminente. Era il 27 giugno del 1977. Smontammo il nostro misero accampamento, avvolgemmo fucili e machete con tela incatramata e ci affrettammo a imbarcarci sulla canoa che ondeggiava sulla riva.

I giorni successivi avrebbero dato ragione a Carlos Maldonado: per arrivare fino a Ino Moxo, in terra amawaka, bisogna aggirare infide acque, nubi velenose che biancheggiano all'improvviso, evitare cadaveri di pesci gi-ganteschi e tronchi appuntiti, wacraponas, muwenas, ma-sarandubas e cedri abbattuti dalla collera dei fiumi incatenati all' ultima corrente. Bisogna sapere ascoltare Ivàn e Insapillo, nelle cui voci prendono corpo le fiabe notturne della selva, gente che appare e che scompare, animali delle storie occulte, ragazze gementi nel fiume, violate da un delfino rosso. E bisogna saper dormire sempre all'erta, gli occhi aperti e il fucile al fianco, dopo avere spellato, aver cotto e divorato una scimmia enorme, tenera e rosea proprio come noi, mentre a pochi metri si sente l'urlo dei coccodrilli lenti, nell'acqua fangosa, come tronchi galleggianti sfiorati da tronchi corrosi da quel muschio azzurro-verde-dorato, mentre il tùnchi passa fischiando per annunciare che qualcuno è morto o che morirà e nei campi di chicoza risuonano nella penombra i passi dei majaz, di centinaia e centinaia di majaz, quei grossi roditori scuri, screziati di bianco, di nero, senza colore.

La notte che cade risuona stranamente simile a un gigantesco albero carbonizzato. Ho imparato a isolare, dietro i rumori della boscaglia e del fiume, quell'immenso silenzio ferito, la notte. Ma adesso riesco a distinguere:

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qualcosa che non è il vento preme delicatamente, come se qualcuno strofinasse un foglio di cellophane contro la garza della zanzariera. Mi alzo preoccupato, spio nel buio, cerco ai miei piedi, tocco con sollievo il mio fucile. Insapillo, vicino a me, giace immobile. Mi irrigidisco, attento nell'oscurità a quello strofinio senza nome.

— Non ci far caso, sono solo vampiri — sento che dice Ivàn.

— Come? — si preoccupa mio cugino Cèsar. — Proprio così, questa è zona di vampiri, vampiri enormi.

Devi dormire al centro della zanzariera, se stai ai bordi sicuramente ti succhieranno il sangue...

Poi tace. Lo sento russare tutta la notte, insieme al respiro di pietra di Félix Insapillo steso accanto a me. E a quell'ostinato svolazzare che assedia le tende...

È di nuovo giorno. — Stiamo vicini — dice Félix Insapillo, dopo una notte

insonne, rassicurandoci nella luce nebbiosa che scopre a tratti le fronde dei grandi yakushapanas, le chiome arruffate dei canela-muwenas e altri alberi alteri, e i dirupi marcupi e ostinati, paesaggi spezzati, fianco di animale millenario, grovigli di radici moribonde sotto l'impero delle acque che si infrangono. Non prestammo troppa attenzione a Félix Insapillo che si sgolava per convincerci che quelle impronte, deboli tra gli arbusti, più accentuate sulla spiaggia, quei passi che inutilmente si perdevano nell'acqua, non erano di majaz, e tanto meno di anaz, quella specie di volpe della selva, né di ronsoco, roditore gigante, parente rinnegato dei maiali selvatici, ma impronte diaboli-che di chullachaki. Chullachaki, sottolineava Insapillo, Chullachaki! che in lingua quechua vuol dire un-solo-piede, piede unico. Secondo la nostra guida, il chullachaki, il demonio dei boschi, era stato tutta la notte in agguato, per coglierci di sorpresa. Forse la sua anima maledetta, l'anima sola, era entrata dentro di noi nel sonno, camminando con il suo passo equivoco, camuffato da essere umano, senza però riuscire a nascondere il suo piede destro che lascia impronte assurde, deformi come artiglio di tigre o

zoccolo di cervo feroce... Cèsar assentiva con il capo ai racconti agitati di Félix Insapillo. Io non mi curai di lui, assorto come ero, in attesa di Ivàn che si era allontanato verso il bosco alcune ore prima, quando era ancora buio, dopo avere caricato il fucile con una sola cartuccia, sicuro che gli sarebbe stata sufficiente per procurarci una lauta colazione.

Cèsar mi aveva già anticipato qualche informazione su Ivàn: camminava scalzo e in silenzio nei punti più insidiosi della foresta, su spini e liane secche, sapeva fiutare tra il fogliame i cinghiali; sapeva dire a che distanza e in che direzione si muovevano, coglieva sempre il bersaglio sia con la cerbottana che col fucile e l'arco; intuiva la preda e il pericolo con la stessa astuzia delle tigri giovani e, nonostante i suoi pochi anni, era già un esperto cacciatore, lo chiamavano Cacicco ed era sopravvissuto a molti rischi e a indicibili avventure.

Il pittore Calvo de Araùjo disprezzava la città, viveva in selve intricate, il più lontano possibile dalla civiltà. A quei tempi abitava in una modesta capanna di fronte al fiume Utuquinia, a due giornate da Pucallpa. Ricevette l'inaspettata visita di Cèsar.

— Hai tardato — gli disse sul molo già avvolto dalla notte, seduto dietro il fumo di una sigaretta lenta, lunga, fatta con tabacco selvatico.

— Ti aspettavo prima del tramonto. — Mi sono dovuto fermare per mangiare, — si scusò

Cèsar, perplesso perché non aveva detto a nessuno del suo viaggio.

— Ieri ti ho sognato, ho sognato che arrivavi al tramonto, non te l'ho detto? — sottolineò il pittore rivolgendosi alla sua compagna di quei mesi.

— Così è stato — confermò lei, piccola, la pelle scura e dura, anche se meno del suo sguardo sfuggente. La tua vecchiaia mi ha svegliata ieri notte, disse a Cèsar, mi ha svegliata dicendo: domani arriva Cèsar, prima di sera...

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Il pittore Calvo de Araùjo, a quel tempo, viveva con i suoi due figli minori: Angel e Ivàn. Cèsar si scontrò con l'insormontabile ostilità di entrambi. Qualche giorno dopo riuscì a capirli. Tinto dal sole dell' Utuquinia e scurito dal riverbero dei laghi, pescava seminudo sulla riva quando lo raggiunse un'ombra, Ivàn, il quale avvicinando il suo braccio scuro al corpo anche esso scuro di Cèsar, confrontò i colori e sorrise:

— Adesso sì che sei mio fratello! Poi, alzandosi di scatto, abitato da allegrie smisurate

lo invitò ad andare a caccia. Presero due lance, un vecchio fucile, mezza dozzina di cartucce, quindi con quelle armi e con i loro corpi gioiosi appesantirono una piroga corta e stretta. Ivàn seduto nella parte anteriore immergeva il remo nell'acqua e lo ritirava fuori gocciolante e silenzioso sopra l'imperturbabile fluire della corrente. Solcarono il gracile Utuquinia senza parlare, resi muti dalla visione dei boschi ombrosi che si intrecciavano sul sentiero di acqua bianca. Dopo qualche ora lasciarono la piroga e la trasportarono a spalla lungo una scalinata di pietre iridate da dove il fiume precipitava in cascate inoffensive. Superato quel tratto ritornarono a navigare l' Utuquinia, verso la boscaglia cieca. Dovunque silenzio. Ivàn tolse il remo dall'acqua e con lo sguardo fisso, inchiodato in un punto di quel tunnel boscoso che consentiva appena il passaggio di qualche raggio di sole, fiutò nella penombra, poi lentamente stese la mano destra verso Cèsar, senza girarsi. Cèsar se ne stava immobile sul fondo della canoa, con il fucile sulle cosce; cercava di indovinare che cosa avesse visto suo fratello, o meglio che cosa avesse fiutato tra quegli alberi fitti. Rassegnato, quasi allarmato gli porse il fucile. Ivàn, sempre attento ai rami alti della boscaglia in ombra, prese l'arma con lentezza e con lentezza la poggiò contro la spalla, poi sparò. Cèsar guardò, come cieco, nella direzione della mira. Nulla. Quasi contemporaneamente allo sparo, dal groviglio di rami e di liane, si staccò il corpo di una tigre, un otorongo nero di due metri che cadde nel fiume agitandosi. Ivàn avvicinò la piroga al-

l'enorme felino che galleggiava immobile, remando con la mano. Cèsar si sporse per afferrarlo. Ivàn glielo impedì: non è morto, disse esaminando con lo sguardo l'apparente quiete dell'animale, poi sfiorò con il remo la testa tinta dalla morte. La fiera, senza aprire gli occhi velati dal sangue che gli scendeva dalla fronte, ruotando gli artigli nell'aria, fece a pezzi il remo; Ivàn prese di nuovo il fucile; finge di esser morto, disse, proprio così, e sparò un'altra cartuccia contro l'otorongo. Ore di silenzio. Ormai in vista del precario approdo di Sahpshico (Diablito, così si chiamava la proprietà del pittore, in contrasto con le località confinanti tutte ribattezzate con commoventi nomi di beate e santi cattolici) Cèsar chiese a suo fratello che cosa sarebbe accaduto se non avesse fiutato la presenza della tigre.

— Ma non è possibile che io non fiuti una tigre!, esclamò offeso Ivàn, sorprendendosi per la domanda che Cèsar ripetè più volte e alla quale rispondeva sempre: ma non è possibile! Poi finì con l'accettare l'impossibile possibilità di una sua disattenzione e, volgendosi verso Cèsar disse, senza alterare la voce:

— Se non avessi sentito l'otorongo, stai pur certo, ci avrebbe ammazzati, ora non staremo qui a parlare.

— Non so se sai — mi dice Cèsar, che Ivàn è. figlioccio dello stregone degli stregoni, protetto del maestro Ino Moxo. Mio padre ha chiesto e ottenuto questo privilegio dal grande capo amawaka.

— Com' è possibile — protestai. — Non mi avevi as-sicurato che Ino Moxo non parla con nessuno, con nessun occidentale, da moltissimi anni?

— Certo, mi rassicurò lui, il fatto è che mio padre gli ha chiesto mentalmente dall' Utuquinìa, di essere padrino di Ivàn, e lui, sempre mentalmente, ha acconsentito. Da quel giorno Ivàn affronta il pericolo senza paura: Ino Moxo lo protegge...

Eppure, quella mattina aspettavo il ritorno di Ivàn più affamato che fiducioso, più impaziente che affamato.

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E sempre con maggior meraviglia. Cercavo di spiegarmi quello che, alcune settimane prima, mi era accaduto a Pu-callpa mentre aspettavamo che quel bimotore malandato si decidesse a funzionare e a portarci a Atalaya. Cercavo di fissare nella mia memoria quanto mi aveva detto Don Hil-debrando, Mago Maggiore della zona, a proposito di Ino Moxo e della sua vita...

il Vaso Sacro degli inka del Cusco impiegò mille anni per arrivare a Pucallpa

— Qui i colori sono fondamentali, dice Cèsar, porte indispensabili per l'intuizione, per la comprensione. Pren-diamo Pucallpa, per esempio, in quechua, puka, vuol dire rosso e allpa, terra, Pucallpa è terra rossa.

Gli credetti, non gli credetti. Yando Rìos, primogenito di Don Hildebrando, aveva contagiato Cèsar con la sua passione per la magia. Gli credetti. Tutti e due avevano frequentato, per diversi mesi, lo stregone di Pucallpa, più per curiosità che come seguaci. Non gli credetti. Fu così che Cèsar venne a sapere, e io dopo di lui, che tra gli stregoni della selva esiste una rigida gerarchia. Che il grado più alto viene conferito al Mago Maggiore di certe zone. Che la demarcazione di tali regioni dipende più dalle influenze stellari e dai dettami dell'aria che dall'appartenenza etnica e/o geografica. Che alcuni fattucchieri praticano malefizi, una sorta di magia che ha come origine e destino la sottomissione al Maligno; e sono nemici spietati di coloro che esercitano i diversi poteri della magia dell'affetto. Venni a sapere inoltre di sette che accolgono nei loro rituali pratiche profane ereditate da un tempo senza memoria (lo stesso giorno del nostro arrivo a Pucallpa i giornali diffusero la notizia del ritrovamento di una testa di una bambina, decapitata, le guance dipinte con wito e achiote, abbandonata dentro una cesta sulla strada Federico Ba-sadre) con invocazioni cerimoniali chiaramente impregnate di cattolicesimo e protestantesimo. Secondo Cèsar gli stre-

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goni dell'Amazzonia non appartengono né alla magia nera né a quella bianca, in certe occasioni ricorrono ai malefici per fare il bene; sarebbe allora il caso di parlare di una magia verde, propria dei fattucchieri della selva, una sorta di religioni medico-magiche, e che pertanto Don Hildebrando sarebbe il Grande Mago Verde della zona di Pucallpa.

Restammo nella terra rossa per quattro giorni, e per quattro notti presenziammo nella capanna di Don Hilde-brando alle sue sedute di meditazione e di richiamo. Per quattro notti uscimmo dall'Hotel Tariri e percorremmo invernali sentieri fangosi, attraversammo quel cancello tra-ballante di pali scontrosi, camminammo con difficoltà lungo un sentiero angusto e contorto, entrammo a casa sua, tra una moltitudine di malati e credenti che affollavano il suo orario di visite notturne.

— Lo spirito di un inka ti protegge — assicurò Don Hildebrando a Cèsar. — Appare sempre quando arrivi con Yando, lo vedo dietro di te avvolto in una luce splendente, coperto fino ai piedi da una cushma gialla, quel poncho chiuso e cucito ai lati, a strisce, con disegni color terra rossa...

E offrendo a Cèsar una piccola dose di ayawaskha in un mate ossidato: — Quando arrivi lui ti segue sempre; è lo spirito dell' inka Manco Kalli, appare dietro di te con un vaso di legno tra le mani, un vaso molto antico, inciso con gli stessi motivi detta cushma...

— So come è fatto quel vaso — si sentì dire Cèsar dopo l'ultimo sorso amaro di ayawaskha. — L'ho visto, è un Qero, il recipiente sacro che gli inka usavano nelle loro cerimonie. Bevendo un solo sorso da quel vaso e versando il liquido rimasto nei canali scavati nelle pietre dei loro templi, gli inka concludevano le cerimonie di adorazione al Sole, il Padre Inti e alla Luna, la Madre Killa...

— Lo hai visto anche tu? — mi domandò incredulo Don Hildebrando sedendosi sullo sgabello di legno, per

poi rialzarsi subito. Attraversò la stanza facendo scricchiolare il pavimento detta sua capanna, nei dintorni di Pucallpa, si chinò di fronte a un qualcosa che somigliava a un baule; sollevò il coperchio fissato con funi di chambira, estrasse un vecchio quaderno, una matita e li porse a Cèsar:

— Disegnami quel vaso, chiese con voce autoritaria e supplichevole al tempo stesso, e Cèsar disegnò, e gli occhi dello stregone brillarono nella penombra, e proprio così!, Manko Galli lo stringe contro il petto, disse, quando lo hai visto?, lo hai visto qui a casa mia o lo hai sognato?

— Non ho mai visto Manko Kalli, Cèsar lo deluse, ma il vaso sì, l'ho visto...

Dopo un breve silenzio, assalito dalle prime visioni provocate dal succo dell'ayawaskha, la liana del morto, ricordò:

— Alcuni anni fa mi stabilii nel Cusco. Un pomeriggio, mentre camminavo nella parte alta della cittadella inka di Pisaq, sopra la Valle Sacra, osservavo scorrere il fiume Urubamba, argentato, ancora giovane, prima che si perdesse nella selva. I quechua non lo conoscono come Urubamba, per loro è sempre il Wilkamayu, che significa fiume-dio, fiume sacro. Oltre la cordigliera, dove nasce, lo chiamano Willkanota e si racconta che molti anni fa, prima dell'arrivo dei conquistatori spagnoli, il Willkanota fosse un fiume imponente, impossibile da attraversare; camminava in piedi, sollevato sulle acque. Quando gli invasori assassinarono l'ultimo re quechua, Manko Inka, il fiume sacro diventò rosso, più rosso del sangue di un innocente, dicono; da quel giorno le sue acque si sono ammansite, divise, come il tempo senza tempo dei primi uomini, dei campa; a poco a poco le acque hanno ripreso il loro colore primitivo continuando però a scorrere in ginocchio, piene di tristezza...

Don Hildebrando guardò Cèsar sempre più avvilito, la testa di argilla protesa in avanti. Più che un'aspettativa, c'era nel suo silenzio una richiesta. Cèsar obbedì:

— Stavo lì quella sera e contemplavo il Wilkamayu,

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l'Urubamba, dall'alto di Pisaq, a mezza giornata dalla città di Cusco, camminavo sorpreso, costeggiando il cimitero vecchio, la città-dei-morti dei nostri antenati; poco prima del tramonto m'imbattei in un vecchio contadino, straccione, mi sorprese la sua barba brizzolata, stava scavando vicino alle grotte dove erano sepolti i suoi avi. Reggeva tra le mani quel qero appena scavato. Il vecchio mi sentì accennare un saluto nella sua lingua e sorrise commosso porgendomi il vaso cerimoniale e, offrendomelo senza un motivo, mormorò una parola che non ho dimenticato:

— Ayùmpari, mi disse. Sì: ayùmpari. Poco dopo tornai a Lima, portai con me il

Qero che oggi tengo ben custodito in casa.. E buttandosi indietro, come se volesse mettere in fuga una

visione strana: — Non so perché, ora che lei ha parlato di Manko Kalli e

del vaso di legno, ho avuto la certezza che non poteva trattarsi che di quello...

— E un vaso icarado — disse Don Hildebrando al-lontanando la barriera di bambù azzurri e arancioni che avevano inondato il centro della casa dalla saliva dell'aya-waskha. Icarar vuol dire ridare alle cose i poteri che non hanno avuto spontaneamente durante la vita. Icarar significa magnetizzare le cose con le forze che non hanno imparato, che non conoscono...

Le parole dello stregone si confusero nella mente di Cèsar. Dietro i bambù colorati si affacciarono due occhi pericolosi, sulfurei; la visione di un vecchio campa vestito da guerriero.

— Mi chiamavo Hohuaté! Gridò nel ricordo e nelle allucinazioni di Cèsar. Ora mi chiamo Andrés Avelino! Andrés Avelino Càceres y Ruiz, questo è il mio nome! La visione si dissolse di colpo, filtrò nella sua voce attraverso le fenditure del pavimento di tavole scricchiolanti.

— Mesi dopo portai a Pucallpa il vaso cerimoniale scolpito in un unico pezzo di legno scuro, mi raccontò

Cèsar. Gli credetti, non gli credetti. Quando però conobbi Don Hildebrando il Qero di Manko Kalli occupava il centro della sua casa. Per quattro notti ci riunimmo a meditare intorno a quel Qero, in silenzio, invocando "le forze che abitano l'aria", per metterle al servizio "dei nostri fratelli che soffrono", stando a quello che dice Don Hildebrando. Al centro della stanza principale spiccavano tre scalini triangolari di legno levigato, sovrapposti a mo' di altare; sull'ultima piattaforma, accanto a quel piccolo recipiente fatto con una zucca, si trovava il Vaso Sacro degli inka del Cusco. Una piccola pietra nera, rotonda, schiacciata e brillante tremava sul fondo del vaso che Don Hildebrando riempiva ogni sera con "Acqua della Serenità". La bevevamo prima di iniziare ogni seduta, poi sedevamo sul pavimento intorno ai triangoli, dopo esserci tolti qualunque oggetto di metallo, monete, fìbbie, gioie, per "non ostacolare la venuta degli spiriti dell'aria". Senza che nessuno ce lo chiedesse restavamo per tutta la seduta a occhi chiusi; ed era possibile sentire le forze che andavano possedendoci, le emanazioni che non erano emanazioni, che sembravano penetrare dentro di noi dal più profondo dell'aria della selva.

— Io so chi mi ha ucciso, gridò la visione dell'anziano campa Hohuaté. Io lo ascoltai con gli occhi, con chiarezza, guardando il suo grido, mi disse Cèsar durante il viaggio in aereo per Pucallpa. Gli credetti, non gli credetti. Ma non hanno ucciso Hohuaté, hanno ucciso l'altra mia persona, hanno ucciso Andrés Avelino Càceres y Ruiz...! Così gridò la visione prima di dissolversi tra le fessure del pavimento.

Alla fine di ogni riunione, di ritorno all'Hotel Tariri, commentavo con mio cugino Cèsar: era possibile sentire come la capanna si riempiva di forze e quelle forze ci co-municavano un'invincibile e serena ansia, indescrivibile on-nipotenza che ci penetrava attraverso i piedi nudi, attraverso le tempie, come sottili rigagnoli d'aria che ritrovavano il loro alveo nei nostri pori e ci gonfiavano il petto e l'esistenza, ed era possibile vedere lo stregone di fronte

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a noi e per vederlo non c'era neanche bisogno di aprire gli occhi

— Poi non vidi più i bambù colorati ma un fiume grigiastro e molti morti, mi dice Cèsar in aereo, folle di morti crivellati che scendevano galleggiando, e il fiume, trasformato in sangue, brillava come una lama rossa tra il verde contaminando il cielo del pomeriggio E poi vidi altre cose che non so descrivere, cose mai viste, mi dice Cèsar nell'aria, in volo verso Pucallpa. Gli credetti, non gli credetti. Fino a che conobbi Don Hildebrando. La seconda sera che lo andai a trovare, la tensione nella sua capanna era così forte, così intensa la condensazione di poteri che percepii, non so, che tutta la casa cominciò a tremare e a risuonare. Le fragili pareti di legno sussultavano sempre più forte, tutto vibrava come se fosse l'ultima volta, come se ci trovassimo nell'epicentro di un terremoto.

— So chi mi ha ucciso! gemette il campa Hohuaté. So chi ha scagliato un virote avvelenato contro il curaca Andrés Avelino Càceres y Ruiz!

Rimasi seduto, indifferente al cataclisma inenarrabile, attento soltanto agli ordini taciuti di Don Hildebrando, unito a lui nella sua serenità, abbandonato sulle tavole che stridevano, incurante delle enormi zanzare che mi pungevano la fronte, le orecchie, le mani, le caviglie nude, finché il terremoto si andò attenuando, attenuando sempre più; fino a che si confuse con il passo del vento e con i rumori della foresta e scomparve.

— Sono stati vinti, suonò la voce di Don Hildebrando nell'oscurità. Pericolosi spiriti hanno tentato di entrare ma sono stati sconfitti...

Quella notte venni a sapere che lo stregone aveva già curato quella pietra nera che dormiva sul fondo del Qero. L'aveva icarada invocando con potenti preghiere, con canti. Per sette giorni digiunò nella parte più nascosta dei boschi circostanti, fino a dotarla dei poteri dell'aria e della terra, perché la pietra comunicasse la sua forza, la sua serenità, all'acqua depositata nel vaso cerimoniale.

Gli stregoni dell'Amazzonia sanno curare qualunque oggetto. Per questo si addentrano nella selva, meditano per settimane nutrendosi con acqua sorgiva, alimentandosi soltanto con un pezzo di banana arrostita, a seconda della forza con cui intendono cargar l'oggetto in questione. Una collana di semi, per esempio, un braccialetto fatto di pelle di serpe, o con labbra di vagina di un delfino rosso, o un ornamento inutile o un ciuffo di capelli o un fazzoletto, possono essere curati da uno stregone e, secondo l'intensità e l'intenzione conferite, possono procurare vita, amore, denaro, giovinezza, oblio, vigore sessuale, malefici o morte. Lo stesso oggetto, una volta curato può resuscitare, guarire, fare ammalare o uccidere, sempre che si rispetti il tempo del digiuno e l'intenzione della forza conferita.

Don Hildebrando curava la pietruzza nera conferendole quiete e quella stessa quiete ci veniva trasmessa per mezzo dell'acqua contenuta nel vaso sacro. E dopo averla bevuta non facevamo a tempo a ritornare dalla meditazione a questa "realtà", che Don Hildebrando, già investito dagli spiriti benigni, riceveva una folla di pazienti. Lo assisteva una meticcia di quindici anni, dal volto dolce e triste. Orfani i fianchi e i piedi di ogni mobilità, per una poliomielite infantile, la ragazza fu curata dal mago di Pucallpa. La vidi che camminava normalmente, andava e veniva indaffarata per porgere a Don Hildebrando gli unguenti, le pozioni, i "vegetali di pietra o di legno", necessari per le diverse malattie. Al culmine della seduta, quando lo stregone si serviva di strani canti, lei gli faceva coro contribuendo con la sua voce stridula, alla guarigione dei malati.

Ira Ira Irakà Kura Kura Kurakà Nai Nai Nai Epirì Rirititù Yamaré Y amare Yamarerémo...

Il suo canto stridente rafforzava l'icaro di Don Hilde-brando, Il fatto è che ciascun Mago Verde, dice mio cu-

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gino Cèsar, ripete o improvvisa i suoi icaro, canzoni ma-giche intrasferibili secondo il tipo delle sedute. Esistono icaro di richiamo, di protezione, di apprendistato, di scambio di conoscenze, di guarigione con ayawaskha, di guarigione senza ayawaskha. Alcuni chiamano bubinzana l'icaro che presiede le sedute rituali o le riunioni di iniziazione. Altri come Don Hildebrando, quando si tratta di sedute curative, fanno sfoggio di un repertorio più complesso: canticchiano icaro specifici, generalmente irripetibili, uno per ogni malattia, addirittura uno per ogni malato. E questa pratica non è nuova, dice Ivàn, ormai arrivati ad Atalaya. Gli inka, molti secoli fa, ricorrevano alla musica per le cure mediche. Si dice che avessero melodie speciali per ogni caso, una musica per curare la tubercolosi, che loro chiamavano, credo, yanawayra, e che in quechua vuol dire vento nero, un'altra musica per un'altra malattia; avevano persino una melodia che si usava solo per fare l'amore, per restituire vigore sessuale ai vecchi.

Ma ci sono casi in cui non è necessario l'icaro. Io stesso ne fui testimone: la moglie di un ingegnere amico mio, proprietario della Birreria "San Juan" di Pucallpa era vittima di una incontenibile fobia. La sola vista di una biscia, di un qualunque rettile, la faceva svenire. Le bastava vedere un ofidio "magari imbalsamato o riprodotto", secondo quanto ella stessa affermava, per essere posseduta da una vertigine incontrollabile e per cadere "indietro, gambe all'aria". Neanche i più prestigiosi e infallibili psicologi di Lima e di Buenos Aires avevano saputo curarla. Mi trovavo in casa di Don Hildebrando quando la donna si rivolse a lui per un consiglio.

— Conosco il suo male, disse Don Hildebrando con una certezza più autoritaria che solenne:

— Non si deve preoccupare, ripetè senza allontanare lo sguardo dalla donna, so perché è venuta da me. La guarirò.

Le parole dello stregone calmarono subito la giovane donna.

— Esiste una pietra che si trova soltanto in certe

anse dei nostri fiumi e che serve a infondere la fiducia, la serenità d'animo di cui lei ha bisogno. E, guardandola fissamente, sottolineò:

— Preparerò quella pietra per lei. È una pietra che ho curato per molto tempo e che ora curerò in suo favore contro la malattia che la perseguita. Gliela darò domani.

In sole due sedute, Don Hildebrando liberò quella donna isterica dalla sua fobia. Cèsar pensò, secondo quanto mi disse, che lo stregone avesse approfittato della sua inesauribile forza di suggestione e del totale stato di abbandono della malata. Io ora non avrei il coraggio di dare quella stessa spiegazione. La verità è che la malata guarì dalle sue ossessioni e, quando andai a trovarla, alla vigilia del mio viaggio a Atalaya, si era completamente rimessa. Si limitava a bere, di tanto in tanto, da una brocca di vetro sul cui fondo brillava una pietruzza nera e piatta. L'Acqua della Serenità.

Alla fine della terza notte, dell'ultima forse, il Grande Mago Verde della Terra Rossa ricordò Ino Moxo:

— Quando lo vidi, non si chiamava ancora Ino Moxo. Aveva un altro nome. In lingua amawaka Ino Moxo vuol dire Pantera Nera. Io ebbi modo di frequentarlo prima che si trasformasse nella pantera nera degli Amawaka. Ricordo: aveva la pelle come il giorno, i capelli marroni e gli occhi da meticcio. Non glielo chiesi mai né lui me lo disse mai, ma io sapevo che suo padre era arrivato da Arequipa in cerca di fortuna e che gli amawaka lo avevano rapito per ordine del grande capo Ximu. Ximu, a quei tempi era lo shirimpiàre, il capo-stregone degli amawaka del Mishawa. Non seppi mai perché rapirono proprio lui, perché lo portarono nella selva, oltre l'Urubamba, verso il Mapuya, perché fin da piccolo fu cresciuto come successore di Ximu. Per anni infatti il gran maestro Ximu lo educò perché diventasse un capo. Quello che non so è perché scelsero, rapirono ed educarono proprio lui...

— Don Hildebrando stesso, tu lo hai visto a Pucallpa — dice Ivàn — conosce un icaro che conferisce vigore

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sessuale a una bevanda. Una volta gliela chiesi per un parente di più di settanta anni, dovreste vedere come lo guarda adesso sua moglie, una donna di appena venti anni...

Anche Don Hildebrando mi ha parlato dei poteri di Ino Moxo, della rapidità con cui il bambino rapito seppe fare tesoro degli insegnamenti di Ximu, come diventò insuperabile non soltanto nelle temibili arti benefiche della magia ma anche in quelle più temibili dell'amore e in quelle meno insidiose della guerra.

— Sapienza, forza e affetto — disse — Conoscenza del potere e potere della conoscenza. L'acqua è un segreto. I fiumi possono esistere senza acqua, ma non senza sponde. E queste sono le sponde di Ino Moxo: saggezza, forza e affetto. Senza di esse la vita di uno stregone degno degli amawaka non potrebbe scorrere.

Di nascosto da Don Hildebrando registrai tutte le con-versazioni di quelle quattro sere. Pensai, più per mia in-sicurezza che per sua timidezza, che non avrebbe mai ac-cettato di incidere la propria voce su un nastro magnetico. Con aria indifferente accendevo il registratore facendogli credere che era una radio o lo orientavo verso la panca in cui era solito sedersi. Terminata la conversazione tornavamo all' Hotel Tariri. In camera riascoltavo la bobina, insieme a Cèsar. Si sentiva tutto, i rumori della sera, gli scricchiolii del pavimento di legno, la mia voce, le domande di mio cugino, persino lo scatto dell'accendino di Yando. Si sentiva tutto. Ma non si sentivano le parole di Don Hildebrando. Neanche una parola, neanche per un attimo, in tutto il nastro. La prima sera pensammo che poteva dipendere dal microfono, o perché difettoso o perché da noi mal collocato, forse troppo lontano. La seconda sera pensammo che il volume era troppo basso. La terza sera non trovammo più scuse e la quarta preferimmo non porci più domande.

Ora, sommerso nella selva, assediato dai timori di Félix Insapillo sul chullachaki, mi ostinavo a non accettare come una verità in più, ciò che non si poteva spiegare. Cercavo di fissare nella mia memoria le cose che Don Hildebrando mi aveva fatto vivere in quelle quattro notti.

Scruto dietro di me tra la macchia fitta d'alberi. Ivàn non si vedeva.

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la nostra guida si perde

Scruto dietro di me tra la macchia fitta d'alberi. Nessun segno di Ivàn. Il suo ritardo dovrebbe preoccuparmi, lo so, ma non posso

farne a meno: dopo Don Hildebrando ritorna alla mia memoria Don Javier. Fu nel ristorante "La Baguette" di Pucallpa, a pochi metri dall'Hotel Tariri, che conobbi questo stregone gioioso, con 19 figli in quattro nuclei familiari legalmente riconosciuti. Don Javier, lei è troppo attaccato alla famiglia, sorrisi. Così dicono, rispose lusingato, e alcuni invidiosi affermano tra l'altro che ho qua-rant'anni e sessanta milioni di soles.1 Tu hai visto che è esattamente il contrario, amico Soriano, ho quaranta soles e sessanta milioni di anni. E sorrise ancora. Era di passaggio come sempre e come sempre passava da un bicchiere di birra San Juan a un bicchiere di acquavite di hiporùru, clavowashka o chuchuwasha.

— I campa che a migliaia hanno seguito Inganiteri si sono rifiutati di unirsi alla guerriglia. Il ribelle Luis De La Puente forse avrebbe dovuto dire che andava a combattere anche lui per una donna...

E cancellando il suo sorriso calmo: — Avrebbe dovuto dir loro che andava a riscattare una

donna, quella donna che alcuni chiamano ancora... che alcuni, credo, chiamano ancora libertà.

— E allora perché sono andati a combattere con San-

1 Moneta peruviana. [N.d.T.]

tos Atao Wallpa? Erano dei campa diversi, di un'altra epoca?

— I campa di oggi sono diversi e gli stessi. Luis De La Puente, per esempio: era bianco, era virakocha, ma nel suo cuore diventò ashaninka, nella sua anima rivisse Juan Santos Atao Wallpa, solo che Santos Atao Wallpa non venne al Pajonal, se ne andò. Forse è andata così...

— Don Javier è il mio padrino, si vantò Félix Insapillo mentre viaggiavamo verso il fiume Inuya. Mi protegge, disse.

Scendendo dall'aereo a Atalaya incontrammo una coppia di medici tedeschi che ritornavano a Pucallpa. Mentre saliva la scaletta al braccio di sua moglie, il giovane straniero con uno sguardo sconvolto ci raccontò, non sollecitato, che si era perduto nei dintorni del paese tra gli intrichi degli angusti sentieri percorsi dai campa e che aveva trascorso la notte in preda alla paura, ferito dalla pioggia e dall'oscurità, esposto alla curiosità interessata di serpi e vampiri. Era stato ritrovato il giorno dopo abbandonato sul tronco di un frondoso shiwaako, ricoperto di formiche, stravolto, tumefatto dal panico. Sua moglie tra i singhiozzi, lo sorreggeva, lo consolava, lo spingeva verso l'aereo.

— Questa selva è maledetta, ci disse il giorno dopo qualcuno che si era unito al gruppo del quale facevamo parte io, Ivàn, Insapillo e Cèsar. E rivolgendosi in tono scherzoso alla nostra nuova guida:

— Non è vero, Félix? La nostra selva è bella, ma maledetta, piena di imprevisti, di serpenti, di lucertole, di otorongo. Lei lo sa bene, vero?...

Venimmo così a sapere che alcuni anni prima Félix In-sapillo si era perduto in quella stessa zona. Aveva vagato per giorni e giorni senza bussola, senza armi, senza niente. Alla sua ricerca erano partite invano diverse spedizioni. L'avevano dato per morto quando riapparve, ridotto a una larva, lungo il sentiero che va dal cimitero al paese. Erano le due di notte. Approfittando della sua insonnia abituale, quello sera in cui ci accampammo dopo aver rischiato il naufragio, chiesi particolari a Félix Insapillo. Ma prima di

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trascrivere il racconto che mi fece, sento il bisogno di ag-giungere qualcosa su Don Javier.

Cinque chilometri sotto la foce dell' Unine, sulla stessa sponda in cui brillano i boschi di palosangre, si estende la proprietà di Andrés Rua, uno spagnolo molto cordiale. Don Andrés Rua: cinquantenne, robusto, aspetto giovanile, anche se segnato da qualche ruga soprattutto nelle mani il cui dorso è ricoperto di una peluria bianca, folti capelli anch'essi bianchi, baffi ingialliti dal tabacco, o, forse, ricordo di una adolescenza bionda, zigomi dal colore incerto che tende al rosso del crepuscolo. Dieci anni prima gli specialisti dell'Ospedale Oncologico di Lima l'avevano dato per spacciato. Un cancro alla gola l'aveva privato della voce, ma Don Andrés Rua si era rifiutato di farsi operare, "me ne andrò da questo mondo con tutto quello che ho portato", e ritornò nella selva, rassegnato a morire. Lì conobbe Don Javier. Avendo perso ormai ogni speranza di guarire dal cancro, lo consultò per dei disturbi di circolazione che gli procuravano forti dolori alle arti. Don Javier, suo ospite per qualche giorno, gli prescrisse un infuso di garabato-kasha, liana spinosa molto comune in quella zona. Bevendo quell'acqua tutti i giorni, Don Andrés Rua guarì dai suoi dolori articolari, e con grande sorpresa dei cancerologi che successivamente lo visitarono, il garabato-kasha aveva stroncato la morte che divorava la sua gola. Quando mi presentarono Don Andrés Rua, nel bar del Grand Hotel De Sousa di fronte a Plaza de Armas, a Atalaya, beveva tranquillamente birra gelata, fumava senza paura, rideva e parlava con voce appena velata.

E adesso ascoltiamo il racconto di Féliz Insapillo, il forte, il rossiccio e l'orgoglioso figlioccio di Don Javier.

"Quel giorno stavo per partire per Pucallpa. Avevo già prenotato il posto sull'aereo, che prendevo per la prima volta. Il mio padrino, Don Javier, voleva regalarmi

quell'esperienza e mi aveva invitato a Pucallpa, così, per affetto. Era presto, così per ammazzare il tempo, e per congedarmi da questa selva, dal momento che pensavo che me ne sarei andato per sempre, andai a fare una passeggiata. La notte prima aveva sognato Juan Gonzàles che mi diceva di non partire. Andai a passeggiare come mi vedi adesso, senza stivali né machete. Mi persi perché mi davo arie di gran conoscitore. Percorsi un sentiero largo per un lungo tratto, guardando le piante più belle, parlando con loro di addii. Quando il sole bruciava in mezzo al cielo, sopra di me, decisi di tornare indietro. Mi trovai di fronte a un labirinto di sentieri tutti uguali, a caso ne scelsi uno, augurandomi che fosse quello giusto, camminai e camminai. Non era quello. Allora ne scelsi un altro, poi un altro, e un altro ancora. Sempre peggio. In quel momento sentii il rumore del mio aereo che stava arrivando. Mi affrettai, ma invano. Mi stancai inutilmente. Sentivo il rumore dell'aereo che partiva. Continuai a camminare. Niente. Non so come, in un lampo, diventò sera. Allora mi dissi: Félix, ti sei perduto, adesso più che mai devi essere Insapillo, devi essere figlio di tuo padre e di tua madre, devi rimanere tranquillo, sai bene che persino gli animali più piccoli fiutano la paura. Se ti lasci dominare dalla paura sei un uomo morto. Ti inseguono le tigri, i serpenti a sonagli, persino le api. E mi sedetti sul bordo del sentiero respirando profondamente per calmarmi. A poco a poco mi tranquillizzai. Prima che fosse notte fonda, cercai un albero adatto in cui dormire, fuori dalla portata delle belve. Già sentivo avanzare, invisibili tra le foglie secche, i serpenti a sonagli. Scelsi un albero, un charichuelo giovane, abbastanza sottile. Mi arrampicai. Lì trascorsi la notte legato, con una corda che usavo come cintura, al ramo più alto. Non riuscii a dormire, alla prime luci scesi. Ripresi a camminare, questa volta però, per evitare di ripercorrere gli stessi sentieri, feci come fanno i campa, gli ashaninka; spezzavo ogni tanto i rami alla mia destra nella direzione in cui avanzavo. Così, ogni volta che mi perdevo, sapevo, grazie ai rami spezzati, quale cammino avevo percorso e

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quale no. Andai avanti così fino al tramonto. Cercai un altro albero. Siccome la notte arrivò improvvisamente, dovetti arrampicarmi a quello più vicino, era abbastanza grande e si trovava vicino a una tzangapilla. Hai mai visto una tzangapilla? È una pianta bellissima, che fa un solo fiore, un fiore enorme, arancione, profumatissimo. Un fiore caldo. La pelle dei petali della tzangapilla è calda, proprio così, quel fiore scotta. Più che fiore sembra un animale. Se si recide, si raffredda lentamente e a poco a poco perde il suo profumo; mentre perde calore perde l'aroma e viceversa. Una volta reciso, una volta strappato dal suo stelo, il fiore di tzangapilla non vive più di sette giorni. La stessa cosa successe a me. Una settimana dopo che mi ero perso nella selva, la mia anima cominciò a raffreddarsi lasciandomi senza forze e senza desideri. Dovevo affrettarmi. Non so come riuscii ad arrampicarmi sull'albero più vicino, proprio accanto alla tzangapilla. L'oscurità mi impedì di riconoscerlo, ma dalle rughe della sua corteccia credo che si trattasse di un tortuga-kaspi. Quel tronco maledetto era troppo grosso. Per fortuna era interamente avvolto da fitte liane alle quali mi afferrai per salire. Arrivai in cima a fatica, senza fiato, sudando e imprecando; fu così che persi la cintura, più nuova di quella che porto adesso... A pensarci bene era troppo alto per essere un tortuga-kaspi. Forse era un machimango, chissà. Infatti quando mi sistemai su uno dei rami più alti, morto di sonno, di fame, e al limite della resistenza, mi accolse un delicato profumo. Non riuscii a dormire neanche quella notte. Avvertii un tremendo prurito alle spalle, alle gambe, al collo e ai fianchi. Tale era la mia disperazione che stavo per precipitare, l'ombra delle foglie mi impediva di vedere, l'oscurità era totale, con la mano destra mi grattai freneticamente le spalle, mi odorai le dita, puzzavano di acido. Quell'albero era un nido di formiche, un nauseabondo nido di ishinshimi, quelle grandi formiche che compensano la loro mancanza di veleno con morsicature fetide e dolorose...! In quel momento avrei voluto essere una palla, avrei voluto che il tronco fosse scivoloso, per

scendere più rapidamente!... Tra le imprecazioni mi afferrai a una liana e cominciai a scivolare, ma non so come la liana si ruppe, mi rimase in mano, e precipitai a terra. Era notte fonda. Non riuscivo a vedere niente. Non potevo sapere che distanza c'era dal suolo, per questo caddi in piedi senza piegare le ginocchia, come un idiota, più teso di una lancia. Io che volevo essere una palla, pensa un po', precipitai come una lancia! Sentii un dolore terribile alla schiena che si piegò in due. Con la faccia incollata per terra sentivo i serpenti, sissss, sissss, a due passi da me, sicuramente strisciavano sull'erba bagnata dalla rugiada. Ed io che non mi potevo alzare!...

"Rimasi lì paralizzato per delle ore. Ancora oggi non so spiegarmi come non venni morso dai serpenti. Quando alla fine riuscii a vincere il dolore, mi rialzai lentamente. Non avevo più le forze per salire su un altro albero e così decisi di continuare a camminare. Camminai e camminai nell'oscurità, tastando con i piedi il terreno cercando la terra battuta per non allontanarmi dal sentiero, per non addentrarmi nel bosco, sfuggendo la morbidezza dell'erba che non mi avrebbe condotto da nessuna parte. Lungo il cammino mi riempii il viso di ragnatele. Stremato, mi addormentai senza volerlo, appoggiato contro il tronco di una melarosa che emanava un profumo molto intenso. Lì un vampiro mi morsicò un braccio. Mi svegliai per caso. Perché in queste zone i vampiri arrivano silenziosamente, non traditi né dalle ali né dal morso: prima ti anestetizzano con la loro saliva e non hanno bisogno di succhiarti il sangue, la stessa saliva fa da anticoagulante e il tuo sangue esce senza che tu te ne accorga. Mi svegliai per puro caso, perché per fortuna anche quella notte stavo sognan-do Juan Gonzàles. Sognavo di volare, la terra sotto era molto lontana, stavo per cadere, quando Juan Gonzàles spuntò da dietro il sole e mi disse: devi camminare, e io gli dissi, come, se sotto i miei piedi non c'è nessuna strada, e lui mi gridò: devi continuare a camminare!, e mi spinse

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con la mano destra, molto calda, e la sua mano era un fiore di tzangapilla. Sentendo il profumo della sua mano mi svegliai spaventato. E continuai a camminare stringendo la manica bagnata della camicia, calda di sangue. Più avanti scorsi una luce nell'oscurità, uno spazio nero pieno di luci, tanti piccoli occhi che mi fissavano immobili. Lucciole, ayanawi, occhi-di-morto, non potevano essere, perché non lampeggiavano. Pupille di tigre, così ammassate, neanche. Mi impaurii, ma subito controllai la mia paura. Se fiutano la mia paura mi uccidono. Allungai la mano verso le luci più vicine, non si mossero. Toccai, erano dei tronchi. Respirai profondamente, rassicurato. Era l'umido muschio che cresce sugli alberi morti, che di giorno neanche si vede e di notte brilla di luce intensa. Tranquillizzato ripresi a camminare, sempre tastando il terreno con i piedi nell'oscurità. Arrivai a un ruscello, bevvi come un pazzo e mi stesi sull'erba. Improvvisamente ricordai: se seguo la corrente del ruscello prima o poi troverò un fiume, mi dissi. E se trovo un fiume, sarò salvo. Qualcuno, forse un pescatore, potrà salvarmi. Entrai in acqua ridendo e camminai sulle pietre. Ero così stordito che, per sapere in che direzione scorreva il fiume, invece di servirmi di una foglia, strappai un pezzo di camicia e lo misi in acqua. Non riuscivo a vedere niente. Toccando il pezzo di stoffa che andava da una parte, guardando con le mie dita, riuscii a scoprire la direzione della corrente. Continuai a camminare, l'acqua mi copriva il petto, a volte mi sommergeva. Camminai e camminai finché potei udire, non lontano da me, il fragore dell' Ucayali lì di fronte. Stavo per accelerare il passo, quando mi accorsi che il ruscello si inter-rompeva. Il maledetto si fermava poche leghe prima di immettersi nel fiume, trasformandosi in un pantano gigan-tesco. Era impossibile passare. Mi ricordai che i pantani, tra l'altro, sono pieni di serpi. Mi ricordai che tutti i ruscelli, tutti i rigagnoli di quella zona, anche quelli più piccoli, anche quello in cui io mi trovavo, tutti, erano abitati da una serpe piccola e nera, dal veleno mortale che chiamano naka-naka. E da un'altra più grande, la yaku-

jergón, ancora più feroce. Cercando di nascondere il più possibile la mia paura, decisi di ritornare indietro. Ore e ore di lotta contro la corrente nel timore di essere ucciso dalle serpi. Raggiunsi una radura, uscii dall'acqua e mi buttai sull'erba privo di forze. Non ce la faccio più. Ma no. Mi confondo. Questo mi è successo qualche giorno dopo, nella settima notte. Che mi divorino pure, e mi dimenticai di me stesso.

"Fu allora che mi venne in mente mio padrino, Don Javier. Mi ricordai che una volta mi disse: figlio mio, quando ti trovi in difficoltà, chiamami, pensami intensamente, chiamami fiducioso, ed io ti aiuterò. Chiusi gli occhi e cominciai a chiamarlo. Rimasi così, steso sull'erba, per molto tempo, e continuavo a chiamarlo. Non sentii niente, nessun segnale. Aprii gli occhi. Niente. Alzai la testa. Allora vidi!

"Allora vidi, attraverso il tetto di rami che si intrecciavano più avanti, in alto, un'infinità di luci gialle simili a lampade a petrolio, a kerosene, sugli alberi altissimi. Forse è qualcuno del mio paese, mi rincuorai, devono aver appeso le lanterne in cima alla lupuna più alta perché io mi possa orientare. E mi affrettai in direzione della luce.

" Poco dopo, raggiunta un'altra radura in mezzo al bosco, potei vedere meglio: non erano lampade, era la luna che si rompeva, lassù in alto, dietro ai rami. Luna maledetta! gridai, perché non era la vera luna quella che io avevo visto, ma solo il suo riflesso nella mia anima, il riflesso delle lampade, ciò che aveva voluto vedere la mia speranza. Mi abbandonai sull'erba ormai senza speranza. Ma, improvvisamente capii che era stato Don Javier a farmi credere che erano delle lanterne, che erano segnali, lampade, perché potessi seguire quella direzione. E allora, spinto da una stupida illusione, continuai a camminare verso la luna. Eppure, non si trattava di una stupida illusione. Si trattava della luna del mio padrino che mi illuminava il sentiero, che me lo indicava. Non camminai a

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vuoto. Più avanti mi arrestò una risata, veniva dalla mia sinistra, chiarissima. Era la risata di Don Javier. Allora abbandonai il sentiero che portava verso la luna. Era luna piena e non era il suo tempo. Non saprò mai perché brillasse in quel cielo, né perché non l'avessi vista le notti precedenti né perché non la rividi le successive. Presi un piccolo sentiero a sinistra. Pensai, con stupore data l'ora, che il mio padrino se la stesse spassando con qualche ragazza. Sì, questo pensai, dimenticando però che non poteva stare da quelle parti perché mi stava aspettando a Pucallpa. E nonostante avessi trascorso sette giorni senza mangiare né dormire, sette giorni digiunando come uno stregone, nutrendomi soltanto di banane e bevendo acqua di ruscello, mi diressi deciso verso la risata, aprendomi il cammino tra i rami, allontanando liane e arbusti che non vedevo. La risata si faceva sempre più fragorosa e più nitida ogni volta che tendevo a scoraggiarmi Allora recupe-ravo la volontà, andavo alla sua ricerca con rinnovato impegno e la sentivo sempre più vicina, sempre più nitida.

"Fu cosi che ritornai sano e salvo quando tutti mi avevano dato ormai per morto".

Ivàn ritorna portandoci un cervo e un bambino

Questo è l'Urubamba, insaziabile e selvaggio, il rosso Willkamayu dorato degli Inka!

L' Inuya, steso a bocca in sotto come se attingesse al Fiume Sacro, fa finta di dormire sotto il sole. La nostra canoa lo disturba: cinque metri di legno che lo penetra, spezzando in due la corrente tiepida, spaventando wakamayu e aironi sulla superficie, anguille, tartarughe e pesci sul fondo. A prua, Cèsar scherza ogni volta che avvista un pericolo, tronchi insidiosi, secche improvvise, ipocrisia di massi rocciosi in agguato sotto l'acqua nei punti in cui l' Inuya si restringe. Dietro, al timone, Ivàn cerca la rotta più facile, governando la nostra imbarcazione scontrosa. Al centro, seduto tra i due fratelli, tra il rumore della selva e del motore, porgo l'orecchio per sentire le parole di Félix Insapillo:

— Fra tre notti arriveremo alla foce del Mapuya. Gli amawaka della zona sapranno già di noi, sicuramente ci avranno già visto. Qualcuno ci darà informazioni sul capo...

E volgendo lo sguardo verso la vegetazione alla nostra destra, come se non parlasse più con me:

— Ma se lui non ci vuole vedere, se non ci vuole ricevere, allora nessuno ci dirà niente.

— Ogni uomo, se è amawaka, sa, mi aveva detto Ivàn. Per questo ogni uomo è un capo. Loro lo sanno che stiamo andando a trovarli, e sanno anche perché. Fiutano le anime da lontano.

4.

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— È proprio così, insiste Félix Insapillo. E sempre attento ai massi precipitati, ai tronchi giganteschi trascinati dalla corrente, alle rive boscose sempre più alte man mano che avanziamo, senza guardarmi, mi consola:

— Credo che piacerai al capo, che gli piacerà la tua anima...

Per tre notti ancora dormimmo sulla riva dell' Inuya, protetti da zanzariere malridotte, sistemate su piccole alture e su lingue di terra profumata. Per quattro notti tagliammo la corrente impetuosa. Più di una volta, per superare le secche, dovemmo lasciare l'imbarcazione e tirarla sulla riva con delle corde sopra un tappeto di tronchi galleggianti. Tronchi immersi nella melma dai rami simili a lance insidiose! Tronchi dritti, minacciosi, inaspettati patiboli! Tronchi caduti, coperti dall'acqua come ponti sommersi! Chilometri di tronchi! Quasi tutto l' Inuya è un temibile cimitero di tronchi. E quando crediamo di aver superato il peggio, arrivano le rapide del fiume, i tratti pericolosi, gli ammassi di rocce, da una parte e dall'altra, che contrastano le acque provocandone la collera: infinite ondate spumeggianti, vortici silenziosi sotto una finta calma.

Nonostante tutto, navigammo e navigammo. Il corso del fiume sempre più oscuro e stretto improvvisamente si allarga avventurandosi in un convegno di acque controverse. È il Mapuya, dalle correnti insidiose, che penetra nell' Inuya come pendolo sfavillante. E l' Inuya risuona nella sera, si sottrae, risuona sempre più forte!

— Afferratevi!, ordina Ivàn. Bisogna saper entrare nel Mapuya! Insapillo, guida tu adesso! E si assicura con tutto il corpo rigido sulla tavola che gli fa da sedile. Cèsar cede il posto a Félix Insapillo a prua e il motore ne risente, la canoa si piega verso riva, sta per lasciare l' Inuya, dopo aver a lungo cercato tra le acque la porta del Mapuya che le voragini profonde ricoprono con una bava lenta e gialla. Finalmente entriamo nel Mapuya lasciandoci alle spalle

le acque agitate. Un ammasso di carcasse antichissime, molluschi pietrificati, chiocciole di mare di milioni di anni fa, rimbomba sotto l'imbarcazione. Il canto traforato del Mapuya: l'ultima frontiera che difende la terra degli amawaka!

Con stupore Félix Insapillo indica il porto con la mano. La nostra canoa si arena su una riva del Mapuya in una melma rossastra, e lì la lasciamo. Infangati fino alla coscia, perseguitati dalla voracità degli insetti, dalla mantablanca che ronza sui nostri capelli, sulla nostra impazienza, sulle nostre braccia nude, percorriamo un tratto di riva, facciamo un falò di foglie e rami secchi per quel poco di caffè che ci resta.

Con il fucile da caccia in spalla caricato con una sola cartuccia, Ivàn si inoltra nel bosco con eccessiva sicurezza. Noi ci stendiamo su quel po' d'erba che riusciamo a trovare. Quanto tempo sarà passato? Nel dormiveglia riuscivo a intravedere la sera che mi appariva come un'inerme preda di colori nel vento di sangue; improvvisamente sentii un fruscio dietro le spalle. Scrutai tra la macchia fitta d'alberi. Era Ivàn che ritornava facendosi strada tra canne, grovigli di foglie, liane spinose, per far passare il corpo di un cervo ancora molto giovane, senza corna, che trascinava per la testa spappolata. Si avvicinò ansimante e gettò il cerbiatto accanto a noi lanciandoci uno sguardo che non capii. Ritornò tra gli arbusti, si fece di nuovo largo tra le canne graffiandosi ancora, allontanò i rami e disse qualcosa con voce lontana. Qualcuno gli rispose dall'ombra. Passò un istante, passò un'eternità. Un piccolo indigeno uscì dalla macchia.

Ivàn lo portò verso di noi lanciandoci la stessa occhiata di prima. Adesso capimmo: ci chiedeva di non parlare. Turbati ci accingemmo a squartare il cerbiatto. Ivàn ce lo impedì, lo fece da solo e in fretta. Cucinammo in silenzio e in silenzio mangiammo. Stacco un pezzo di carne con le mani, guardo il bambino con la coda dell'occhio, non ha mai smesso di guardarci. Quando abbiamo finito

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di mangiare e non sappiamo più che fare, né che dire, né dove guardare, lui abbandona la sua posizione immobile e si avvicina al fuoco che si sta spegnendo, prende un pezzo di carne, lo porta alla bocca guardandosi intorno e mastica sorridendoci di tanto in tanto. Offro sigarette, fumiamo in silenzio.

Le guance del bambino, undici, nove, tredici anni?, le guance dipinte, non sappiamo se con i colori di guerra o di festa, rigate con il karawiro, solcate con l' achiote come cicatrici rosse e inquietanti, ci appaiono con grande chiarezza. Il bambino finisce di mangiare, si alza, smarrito ci rivolge un grande sorriso. La sua espressione è un invito, non c'è dubbio, un invito ribadito anche dai suoi gesti. E non abbiamo bisogno che Félix Insapillo e Ivàn Calvo traducano le sue parole veloci e stridule. Perché parla con tutto il corpo, ci sta dando il benvenuto con gli occhi, con gli alti zigomi tatuati. Lasciamo i nostri ultimi dubbi sulla spiaggia, sulla brace che Insapillo sparpaglia e che spegne, sull'imbarcazione arenata, vicino ai fucili che scarico in fretta e nascondo tra le zanzariere arrotolate.

Il bambino si confonde con la boscaglia, già lontano dalla riva e da noi, camminando senza rumore. Lo seguiamo in fretta, Cèsar e Insapillo si arrampicano davanti a noi aprendo il cammino con il machete. Io mi giro verso Ivàn che si attarda: i suoi occhi mi confermano che il bambino è un inviato dello Stregone degli Stregoni. Stento a crederlo, poi mi convinco: l'inaccessibile, il leggendario Ino Moxo, Pantera Nera degli amawaka, ha acconsentito a riceverci.

un albero morto ci impedisce di andare avanti

— Senti come cresce il fiume?, risuonò la voce di Ivàn davanti a noi.

Il sentiero scelto dal bambino amawaka sembrava inoltrarsi nel bosco, in realtà, a circa duecento metri da quella specie di portico di rami, il cammino ritornava parallelo alla riva del fiume, spiando le acque verdi nere del Mapuya attraverso le fessure della boscaglia. Dopo circa due ore di cammino, lungo quel sentiero che procedeva serpeggiando, pensai che sarebbe stato meglio percorrere quel tratto con la nostra stanca ma efficiente imbarcazione a motore, risparmiando ai nostri poveri corpi nuovi disagi. Ma presto dovetti essere grato al bambino per la sua scelta. Man mano che avanzavamo, il rumore del fiume si faceva sempre più fragoroso e le sue rive ci minacciavano trasformandosi in pareti sempre più alte di argilla scura, umida, brillante. Rimpiansi il timore provato quando per la prima volta sentii tuonare l'Urubamba. Il Fiume Sacro, il cui fondo di fango imbavaglia l'impeto delle acque, imponeva infatti una musica di rive più estese, libere e lan-guide. Il canto del Mapuya, fingendo di ridursi, in realtà si affilava su un letto di fossili, pietre di scandalo e di vortice, immemorabili frammenti rancorosi. I timidi precipizi di poco fa diventavano insolenti faraglioni e la corrente si trasformava in una vertigine rivestita di tronchi, di coccodrilli che si fingono tronchi, inerti e immobili nelle anse argillose o al sole sulla sabbia delle spiagge bianche. La

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nostra imbarcazione non avrebbe mai superato tanti ostacoli, le infinite trappole del Mapuya.

— Senti come cresce il fiume? Se avessimo proseguito in canoa, scommetto che sarebbe affondata. Senti?..,

Più attento alla melma e alle radici che mi rallentavano la marcia, non risposi a Ivàn che mi precedeva. Ho detto che io venivo per ultimo? Davanti a lui, scalzo, Félix Insapillo seguiva Cèsar che, per non perdere di vista l'inviato amawaka, camminava inciampando e con affanno. Ci investì un profumo di melerose: afferrammo a caso alcuni frutti senza fermarci. Poco oltre fummo costretti a procedere a tentoni, come ciechi, in quella breve notte che la selva crea quando di colpo si infittisce, senza pietà, nascondendo le scimmie notturne sotto il tetto spesso delle liane e di cime frondose, mescolando rumori umidi, profumi stagnanti, svolazzi e frutti invisibili, facendo del cammino un inquietante, indescrivibile tunnel che attraversammo strisciando in preda alla paura e allo stupore.

La voce di Ivàn mi guida nell'oscurità: — Le gole del Mapuya sono vigilate da serpenti gi-

ganteschi, enormi boa di quaranta, cinquanta metri, chiamati yakumama. In quechua yakumama significa la Madre delle Acque. Senti? Non c'è motivo perché un fiume povero d'acqua produca tanto rumore, questo rumore di correnti terribili e impetuose. Sono le yakumama a produrlo, questo dicono...

La voce di Insapillo, che io non credevo così vicina, lo interrompe nell'oscurità:

— Ho visto quei serpenti nei laghi, ma mai nei fiumi, e tanto meno a questa altezza del Mapuya. Nei laghi la yakumana partorisce dei vortici improvvisi, muyuna, quelle tempeste capaci di rovesciare imbarcazioni grandi come case. Le ho viste ingoiarsi dei pescatori come frutta.

— Non ti starai sbagliando?, lo provoca Ivàn scher-zosamente, forse non era una yakumama quella che hai visto, ma un kotomachàcuy, il serpente a due teste. Per-

che il kotomachàcuy vive solo nei laghi, sul fondo dei grandi laghi. Non lo sai?...

Insapillo stava per rispondere, ma non gli fu possibile, soltanto un borbottio graffiò l'ultima oscurità del tunnel. Superata la boscaglia, condannata per sempre alla notte, lì dove il sentiero ritornava allargandosi riconciliato finalmente con il cielo ardente, ci trovammo di fronte un nuovo ostacolo: uno smisurato shiwawako caduto, avvolto di muschio, di radici e di ragni plumbei coperti di muffa, si ergeva davanti a noi ostruendoci il cammino come una parete verdognola e melanconica. Solo qualche bayuca, quei bruchi che pungono come ortiche, verdi, bianchi, rosa, gialli, rossi, dalla peluria morbida e azzurrognola, si avventurava lungo lo shiwawako con una lentezza flemmatica, velenosa, imprudente. Le estremità dell'albero caduto si perdevano da una parte e dall'altra del sentiero sotto un intrico di arbusti spinosi e di felci: un groviglio ador-nato come un ricamo da orchidee sparse e tracce di un antico incendio avvenuto molto tempo prima. L' amawaka scalò l'albero morto in un lampo. Ivàn lo seguì, dopo di lui Insapillo, staccando la corteccia con le mani e con i piedi come uncini nella roccia. Noi, invece, ci attardammo arrampicandoci lentamente, uno sull'altro, spingendoci e trascinandoci fino alla cima di quel muro di legno in rovina, quindi ricademmo goffamente dall'altra parte e riprendemmo il sentiero ricoperto di liane cadute e illuse fo-glie secche che scricchiolavano bagnate. Non aveva piovuto, eppure l'immenso tronco era umido. Grosse gocce cadevano dal cielo squarciato da un sole di paura. Alzai gli occhi: le gocce non cadevano dal cielo. La pioggia antica, accumulata sulla cima degli alberi, ora compiva inutilmente il suo dovere scorrendo di tanto in tanto senza senso, scivolando invano come il pianto di un morto!

— Il primo uomo non fu uomo: fu donna, continua a raccontare Don Javier, inaspettatamente.

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Don Hildebrando legge nell'aria un libro di Stefano Varese

Da un pacchetto malridotto Don Javier estrasse la si-garetta meno sciupata e l'accese:

— Me l'ha detto Inganiteri l'ultima volta che mi ospitò a casa sua, una bella casa vicino alla sorgente dell'Uni-ne, la più grande che lui abbia avuto nel Gran Pajonal...

— Nel Gran Pajonal?, chiedo contento. Ci è vissuto anche un mio amico per diverso tempo...

— Lo so, mi interrompe Don Javier. — L'ha conosciuto? Conosce Stefano Varese? — No, non l'ho mai visto. — Ha appena pubblicato un libro. — Lo so, mi interrompe di nuovo Don Javier. Si tratta di

uno studio sui campa, gli usi e i costumi degli ashaninka. I suoi sguardi brillavano oltre il fiume e oltre le voci

dell'osteria di fronte all' Ucayali, a Pucallpa, verso la foresta vicina che la luna lavava o cancellava.

— Non ho mai visto quel libro, ma lo conosco, lo conosco bene.

Mi voltai verso la finestra dipinta di giallo, di bianco: la riva assumeva sfumature azzurre di paesaggio sommerso, senza stabilità di legni né respiri umani o di terra. Don Javier riportò lo sguardo verso il nostro tavolo, si accarezzò la barba rada, e si servì un terzo bicchiere di acquavite.

— I pensieri degli uomini buoni vivono nell'aria e abi-

tano nell'aria come noi nelle nostre case. Vivono già nell'aria solo per il fatto di essere stati trascritti su libri e anche se non saranno mai scritti. Il maestro Ino Moxo mi ha rivelato che le idee si incidono meglio nell'aria che sulla carta...

E, indicando il mio registratore: — E si conservano meglio che in questi apparecchi. Prima

ancora di nascere, tutto viene registrato su un nastro, un nastro che non emette suoni. È la magia che dà il suono alla vita degli uomini, è così. Si conservano, ti dicevo, molto meglio che in questi apparecchi e durano molto di più, un inizio eterno. Perché l'aria è di tutti, forse è l'unica cosa che ai giorni nostri appartiene a tutti. La voce della vita. E, senza saperlo, senza rendercene conto, le idee che abitano l'aria ci nutrono come anime, ci fanno respirare. Il maestro Ino Moxo mi ha insegnato a leggere nell'aria, a distinguere e a scegliere i pensieri che crescono nell'aria. Adesso potremo capirci, amico Soriano. Io non ho mai visto il libro del tuo amico Varese, eppure l'ho già letto molte volte. E poco importa se un giorno, supponiamo, tutti gli esemplari di quel libro dovessero bruciare, perché i pensieri, i dubbi, le certezze di chi lo ha scritto, come spiriti generosi, grandi e veri, vivono nell'aria, ci appartengono...

— Quello che ti ha detto Don Javier è vero, affermò Don Hildebrando con il capo chino, rannicchiato su quella panca che ostruiva l'entrata. Come tutte le case di quella zona, la casa di Don Hildebrando distava mezzo metro da terra, sostenuta da solide travi di wakapù che la proteggevano dai serpenti, dalle inondazioni scatenate, dalle piogge frequenti e dalle insensate piene dei fiumi. Bastava salire tre gradini e si era già in salvo. Alla sinistra della stanza in penombra, di fronte all'altare di legno levigato, era inevitabile inciampare contro la panca dove lo stregone aspettava. Per entrare bisognava evitare di toccarlo. Quando veniva sfiorato dai visitatori che spesso arrivavano da

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lontano, increduli e all'ultimo momento, lui non si scom-poneva. Se non fosse stato per i rammendi della sua camicia grigia e per i pantaloni di tela scolorita, seduto in quel modo, le corte gambe incrociate, il nervoso movimento delle dita dei lunghi piedi sporchi di terra, qualsiasi sprovveduto lo avrebbe scambiato per una statua asiatica di argilla o per una mummia di un inka da poco imbalsamato. Sembrava piuttosto l'ombra di nessuno, così silenziosamente immobile, quasi eterno accanto alla porta di quella povera capanna che aveva i rumori e i profumi dei boschi nella notte di Pucallpa.

— È vero, la casa dell'aria è la casa detta vita. Nessuno muore una volta entrato nell'aria. Le anime di tutti i tempi, le conoscenze e i sentimenti di tutti i tempi, persino quelli nati prima che apparisse il nostro progenitore, le anime di sempre, nobili e vili, alte e basse, stanno meglio nell'aria. Lì possono crescere e fermarsi ma non muoiono mai. Lì, intatto, c'è tutto quello che è stato scritto. Lì, nell'aria ci sono tutti i libri scritti. È vero quello che ti ha detto Don Javier.

Per un attimo il volto di Don Javier non si sottrae ai nostri occhi, si alza dolce e rassegnato anche se la sua parola è aspra e mi ricorda il Qero dell' inka Manko Kalli.

— Succede anche a me, a volte. Anch'io, per esempio, conosco quel libro di cui hai parlato con Don Javier. Non l'ho mai visto, né ne ho sentito parlare, ma lo conosco. Come una grande emanazione, come un alito di fiori misteriosi di tzangapilla, così è penetrato nel mio sangue il pensiero del tuo amico Stefano Varese. Non soltanto quello che dice. Anche quello che non è riuscito a dire, quello a cui non ha potuto ancora dare una forma nell'aria, il suo pensiero puro...

Don Hildebrando chiuse gli occhi con forza e si lasciò trascinare dalle sue parole. Parlava in modo strano come se recitasse un testo a memoria o come se leggesse. Arrivai a pensare che lo stregone ripetesse parola per parola ciò che qualcuno gli dettava chissà da dove. La sua voce non era la sua voce e il suo viso non era il suo viso, parlava

e sfolgorava con pallore di morto, qualcuno che non era lui ma che, sì, era lui allo stesso tempo, occupava il suo corpo che non riuscendo a contenerlo, lo faceva uscire dalla sua bocca di sonnambulo:

— L'ashaninka, l'uomo campa, è solo di passaggio sulla terra, e con la morte inizierà il nuovo cammino. Però ci sono diverse morti nella vita di un ashaninka, diversi stadi che gli permettono di accedere ai mondi misteriosi, agli spazi sacri. Il sogno del sonno, le visioni dell'aye-waskha, consentono all'uomo di entrare in questi mondi di un altro mondo. La stessa selva, le piccole paludi, una melarosa stretta da liane di garsbate-kasha, il sentiero di pietre che ricopre il fondo delle gole, uno shiwawako morto, una risata nel bosco, la superficie dei fiumi che si alza come zanzariera, migliaia di lampade che non sono lampade in cima a una lupuna che non è lupuna, di notte, e le rocce, le grotte della selva, le radure, sono altrettante porte che conducono a quei mondi, a questi mondi che non si toccano con le mani del corpo materiale. I virakocha, i bianchi, non conoscono quelle porte. Per quat-trocento anni i virakocha hanno fatto soltanto errori, hanno confuso tante cose, si sono sbagliati sul nostro conto. Non vedono, non hanno occhi per vedere, i virakocha. Ignorano la religiosità dell'ashaninka perché ignorano la sua memoria, quella passata e quella futura. Un esempio: il campa, l'ashaninka che aspetta il ritorno di Juan Santos Atao Wallpa, il capo che si ribellò ai conquistatori spagnoli intorno al 1742, lo aspetta religiosamente; sono diversi secoli che i campa lo aspettano religiosamente, ma il virakocha non capisce questa sua religiosità. Un altro esempio: un ashaninka scambia doni, regali, con un altro ashaninka e stabilisce un rapporto di commercio sacro senza tempo, diventando un ayùmpari — così viene chiamato chi stabilisce rapporti di commercio sacro; ma il virakocha non capisce questa religiosità.

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Ho delle galline a casa. Se me le chiedono le regalo. Non bisogna mai essere meschini.

Così dice una vecchia canzone ashaninka.

Riposa l'alba, va a dormire il mattino, non si separano le mani: sempre apriranno la finestra.

Così dice una canzone di Raul Vàzquez, il Cantore della Selva.

Perché il campa che non offre generosamente agli altri, come la sponda fa con il fiume, è allontanato dal suo gruppo. Non rispettare l'ospite, non omaggiarlo, non scambiare doni con lui, significa spezzare quel fluido che unisce gli uomini agli uomini. Perché chi riceve, riceve parte dell'essenza di chi dà, e sarebbe grave se non esistesse corrispondenza... Ayùmpari, con questa parola si definisce l'uomo con cui si è stabilito un rapporto di commercio sacro...

Don Hildebrando si interrompe. Lo cerco nella pe-nombra, non mi ero accorto che le candele si erano con-sumate, riesco appena a sentire il suo respiro affannato. Una tensione strana assedia di nuovo la casa, scuote le travi di capirona, le tavole del pavimento, le fragili pareti malri-dotte. Sarà il vento.

— Quel pomeriggio dall'alto detta cittadella inka di Pisaq stavo contemplando il Willkamayu, l'Urubamba, quando vidi un vecchio che scavava vicino alle grotte in cui sono sepolti i nostri antenati inka. Il vecchio reggeva tra le mani il Qero appena scoperto. Mi sentì mormorare un saluto nella sua lingua e mi sorrise commosso avvicinandomi il vaso cerimoniale e offrendomelo con una parola che non ho dimenticato. Ayumpary, mi disse, dice mio cugino Cèsar. Così mi disse: ayùmpary. Sarà il vento, mi suggestiono mentre i miei occhi si vanno abituando all'oscurità. La luna si sfilaccia tra i rami di yarina che formano il tetto della capanna: distinguo le stregone sulla panca, piedistallo di legno che sopporta miracolosamente il

suo corpo immobile, l'opaco silenzio del suo corpo scolpito su fili di tenua luce. Don Hildebrando si china, indietreggia, solleva la fronte, la sua testa gira come avvitandosi al collo, imperturbabile, lentamente, molto lentamente, e, altrettanto lentamente, man mano che lo stregone recupera la sua calma, la casa smette di tremare. Una voce che non è quella di Don Hildebrando apre ancora una volta la sua bocca:

— Il mondo, uscito dalla mano del dio Pachakamàite, è impregnato di divino. La natura non è naturale, è una creazione degli dei, è divina, e tutto ciò che vive nel mondo usufruisce della stessa condizione, delle forze, delle grandi anime che dirigono l'esistenza dall'aria. Anche le parole. Chi pronuncia parole mette in movimento delle potenze. Per questo l'ashaninka è costretto a vivere in armonia con le forze del mondo, di questi mondi. L'ashaninka si armonizza con esse per poter conservare in un solo corpo i suoi corpi, quello materiale e quello spirituale...

Noi, invece, ci attardiamo arrampicandoci uno sull'altro, spingendoci e trascinandoci in cima all'albero estinto che ci impedisce di andare avanti. Riusciamo finalmente a scalarlo, trionfanti e malridotti ci lasciamo quindi scivolare goffamente lungo la corteccia umida e ci ritroviamo dall'altro lato del tronco ammuffito, sullo stesso sentiero!... Così, malconci, continuiamo a camminare. Alzai gli occhi: le gocce non cadevano dal cielo squarciato da un sole di paura. La pioggia antica, accumulata nella cima degli alberi, ora traboccava scivolando invano come il pianto di un morto! Allora cominciammo a correre lungo il sentiero cercando di raggiungere l'inviato di Ino Moxo. Cammi-nammo per ore senza riuscire a trovarlo. Ci davamo già per persi quando l' amawaka comparve dietro di noi. Mi rivolse uno sguardo che mi sembrò di rimprovero. Solo adesso capisco che era uno sguardo di compassione. Infatti, in questa corsa che ci stordiva, avanzando lungo sen-

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tieri tortuosi, schivando intrichi di rami, evitando fetide pozzanghere, in realtà non stavamo avanzando. Stavamo fuggendo, fuggivamo da noi stessi, dalla prima paura, da quella inutile pioggia.

Don Hildebrando osservò il tetto della sua capanna che aveva smesso di tremare, abbassò il volto. Come sorpreso di vederci, indietreggiò.

— È cosi, mi disse di nuovo con la sua voce. Così come tu vedi un'isola da lontano, una di quelle isole che sembrano un bosco che galleggia e sai che è un'isola, e la conosci, e dentro di te sei convinto che è un bosco pieno di alberi e sai che sono alberi anche se per la distanza non li puoi distinguere, allo stesso modo io ho visto il libro del tuo amico Varese, l'ho conosciuto. Ho visto le sue idee come i boschi, anche se a volte non riesco a distinguere le parole una per una...

Don Hildebrando gira la testa, respira un'aria densa, immensa, tiepida, un alito di fiori misteriosi di tzangapilla, e si alza dalla panca macchiata:

— È così, chi pronuncia parole mette in movimento potenze, scatena altre forze, altre parole nell'aria, senza mai conoscerne la fine. Poteri infiniti. Le parole non sono soltanto parole. Così come il mondo, questa terra, la realtà che vediamo o sogniamo, è qualcosa di più, è molto di più di quello che riescono a vedere i nostri occhi, sia verso l'esterno che verso l'interno. Allo stesso modo vorrei che le parole che ti ho detto in questi quattro giorni siano percepite da te non soltanto come parole ma come un omaggio affettuoso a tuo cugino Cèsar. Glielo dovevo rendere, e oggi, attraverso di te, glielo ho potuto rendere. Quando mi regalò questo vaso sacro degli inka del Cusco, in realtà mi stava regalando molto di più. Da allora ero rimasto suo debitore, era diventato il mio ayùmpari. Ora siamo pari...

Si scusò perché ci doveva lasciare; ci disse che potevamo rimanere ancora per un po' a casa sua, ma di non andarlo a trovare né l'indomani notte né l'altro ancora, perché aveva bisogno di riposare, sicuramente il suo corpo

materiale avrebbe dormito diversi giorni, mentre il suo corpo spirituale diverse settimane. E se ne andò trascinando con lentezza i piedi, curvo, con le braccia abbandonate, come un convalescente.

L'ultima sera a casa di Don Hildebrando a Pucallpa, non fu per me molto felice. In piena meditazione, mentre eravamo tutti seduti intorno al suo altare di tre triangoli, ormai temprati dall'Acqua della Serenità, uno dei pazienti che aspettava la fine della seduta per essere ricevuto, un meticcio pallido e con la pancia gonfia, di soli quattro anni, cominciò a singhiozzare stretto al seno di sua madre. Senza aprire gli occhi, Don Hildebrando protese la mano destra verso il bambino e disegnò qualcosa nell'aria. Il piccolo si calmò. La capanna dello stregone, scossa da oscure tormente, stava per riacquistare la sua abituale pienezza, la sua contagiosa onnipotenza, quando il bambino con il suo pianto frantumò di nuovo la quiete. Per tre volte la mano di Don Hildebrando attraversò l'aria e per tre volte il bambino smise di piangere. Poi in un'alternanza di grida e di lamenti, si abbandonò a un dolore e una paura incontrollabili.

— Devi aspettare fuori, ordinò lo stregone con dolcezza, sempre con gli occhi chiusi, rivolgendosi alla madre del bambino che si lamentava. E senza che le sue labbra rivelassero alcun movimento, cominciò a intonare uno dei suoi icaro, una canzone magica di richiamo.

"Ibàré pawané Ibàré pawané Warmikaro yamarémo Yamarè Yamareremo"

La mia memoria si rallegrò pensando al primo icaro che gli avevo sentito sussurrare: una canzone magnetizzata per curare. "Ira Ira Irakà, Kura Kura Kurakà, Epirì Ririritù, Yamarè, Yamarerémo". A prescindere dalla cadenza sillabica dell'icaro che in bocca dello stregone sprofondava perdendosi in rugose risonanze, pensai di aver scoperto qualche chiave: lo spagnolizzai: "Kura Kura Kurakà" non era

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forse che un richiamo a qualche spirito per allontanare la malattia: "Cura, Cura, Cura qui". E "Epirì Ririritu Ya-maré Yamarerémo" poteva senz' altro significare: " Spirito chiamerò, chiameremo". Non so quali oscure forze mi spinsero in quel momento. Abbandonai il mio posto e mi avvicinai al bambino che singhiozzava disperatamente. Mi sentivo potente e debole, come abitato da diverse anime. Padrone e, allo stesso tempo, schiavo di tutte le potenze del reale, di un mistero senza limiti. "Ubbidendo non so a chi, non so a che cosa, accarezzai i capelli del bambino e sussurrai:

— Su, calmati, cerca di dormire adesso, su, calmati. E gli chiusi le palpebre senza toccarlo, sfiorando con un dito l'aria intorno al suo viso, e il bambino si addormentò di colpo, e io ritornai in punta di piedi al mio posto. Rimase immobile, tra le braccia di sua madre, fino a che terminammo la seduta.

Congedandomi da Don Hildebrando gli chiesi un in-contro per i mesi successivi, quando fossi ritornato da Atalaya, dopo aver parlato, così almeno speravo, con Ino Moxo. In preda a una incontrollata inquietudine, o come spaventato da un cattivo pensiero, Don Hildebrando si girò e mi rispose con un no secco. Ferito nel mio orgoglio, più che sconcertato, mi precipitai verso la porta. Lo stregone mi fermò con un gesto appena accennato:

— Nell'architettura dell'aria esiste un ordine, si ver-gognò, esiste una gerarchia che non si può alterare. L'aria non è abitata soltanto dagli spiriti benigni, ma anche da grandi anime che diffondono il male. E quando qualcuno interrompe questo ordine, gli spiriti cattivi, che sono molto potenti, ne approfittano per sistemarsi nelle crepe di questa architettura, precedono le anime pure e cadono come eserciti di fuoco sugli uomini indifesi. In questi casi, anche se nessuno li vede, io li posso vedere. E devo fare un grande sforzo per trattenerli, per impedir loro di venire. Devo affrontarli visto che sono il solo a sentirli. E dopo averli vinti, perché è mio dovere farlo, posso rimanere

per molti giorni completamente privo di forze, come un mucchio di macerie, come cushma vuota...

Solo allora gli occhi di Don Hildebrando smisero di sfuggirmi:

— Questa sera, e soltanto per una vanità irresponsabile, proterva, senza nessun diritto, qualcosa che ancora non capisco, qualcosa che ancora non so, ha violato la gerarchia degli spiriti che vivono nell'aria, ha sconvolto l'architettura che deve essere perfetta nella sua imperfezione, ha tagliato la curva delle sfere. Non so ancora bene. Ma ho sentito. Durante questa seduta ho dovuto riunire in me tutte le forze, ho dovuto far resistenza agli assalti delle anime contaminate. Da questa sera dovrò meditare di più, concentrarmi di più. Perché ho sentito scendere gli spiriti maligni, li ho sentiti aggirarsi lì fuori. E sono ancora lì. Per allontanarli veramente, per farli ritornare da dove sono venuti, devo concentrarmi molto. Devo cominciare dall'inizio, da prima dell'inizio, come se il tempo non fosse passato. Come se non fosse passato nessun tempo, mai, né sulla terra, né sugli uomini...

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— Storie che ho saputo per caso, per combinazione, mi assicura, che ho saputo quando ero ancora giovane nell'anima e sapevo perdermi fra le tribù e ascoltare, in silenzio, tutto quello che si dice, e, ancora più in silenzio, quello che non si dice...

7. veniamo a sapere che il primo essere umano fondò la stirpe dei campa e che, inoltre, non era un uomo

— Il primo uomo non fu un uomo, fu donna, mi dice Don Javier impigliandosi tra profonde risate.

Di statura normale, più grasso che robusto, Don Javier quando non parla ride, ride con tutto il corpo, ride con la camicia a fiori dai colori sfacciati, ride costretto dentro i pantaloni attillati verde bottiglia, seduto su una sedia di paglia al tavolo di questo bar polveroso che sa di canna, di tabacco, di orina, di birra, di profumi ordinari, di fronte al fiume Ucayali, qui nella periferia di Pucallpa.

Nessuno sa quanti anni nasconda la faccia di Don Javier, le sue mani olivastre e morbide, come se fossero inguantate con la pelle di un bambino. Nessuno sa quando cominciò a esercitare, chi fu o chi furono i suoi maestri. Ma la gente del posto lo riceve festosamente, lo importuna con domande sui propri mali che lui diagnostica e cura con serena allegria. La ragazza che cerca marito, il bambino preda della paura, gli amanti non riamati, il pescatore morsicato dalla serpe, l'anziano afflitto dalla tosse, tutti confidano nella saggezza degli occhi amorosi di Don Javier, poco più scuri della sua pelle e appena più chiari delle sue labbra sempre pronte a raccontare le storie raccolte dai vecchi stregoni dei paesi amazzonici. Dicono che soltanto a Don Javier concedono la loro fiducia, così difficile da concedere ad altri, che a ragione non la comprenderebbero.

Questo medico stregone, vagabondo e donnaiolo, manca della rassegnazione di Don Juan Tuesta, del superbo distacco di Don Hildebrando, dei chiari enigmi di Ino Moxo, e somiglia piuttosto a Juan Gonzàles quando afferma che "le malattie non si curano con le erbe ma con l'allegria".

— Non fu uomo, fu donna, mi dice adesso, me lo ha raccontato un mio amico campa, un curaca molto famoso di nome Inganiteri. Inganiteri, che in lingua ashaninka vuol dire "sta piovendo". Da più di dieci anni Inganiteri non piove più, ha deciso di morire, è ritornato alla terra. Ma prima è riuscito a dirmi come siamo nati noi esseri umani. Non è slalo come pensi tu, vedrai. Inganiteri mi ha detto che mille lune fa, quando la stessa luna non era che un pezzo di tronco morto, tutto era cenere. Non era nato neanche Dio, tutta la terra era cenere. E la luce, le stelle e l'aria, pensa la stessa aria, e i boschi, le cateratte, le rocce, i fiumi, i campi, la pioggia, i laghi piccoli e quelli che non hanno fine, e la salute e il tempo e gli animali che si trascinano e gli animali che volano e camminano, e le petraie, le spiagge, tutto ciò che ora esiste come è, secondo la sua natura, ciò che possiamo vedere, ciò che non vediamo, tutto era nulla. E anche il nulla era cenere. Il mare non esisteva: anche gli oceani erano spazi vuoti, di cenere. Cosi era il mondo quando un fulmine cadde su un albero di melarosa e la melarosa era cenere, ancora non era melarosa. E mi raccontò Inganiteri che in quell'istante, da quell'albero, da quella melarosa bruciata e divisa in due dal lampo, subito sbocciò un bellissimo animale. Il tronco della melarosa si aprì in due, come un fiore e dall'interno usci il primo essere vivente, un animale senza

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piume né squame né ricordi. E il primo shirimpiàre, il primo capo stregone che già in quell'epoca viveva privo di corpo, privo di tutto, dissolto nell'aria, il primo shirimpiàre si sorprese moltissimo e si disse: non è uccello, non è pesce, non è animale-animale, non so che cosa sìa, ma senza dubbio si tratta dell'opera migliore di Pachakamàite. Saprai che Pachakamàite è il padre Dio dei campa. Pachakamàite è Pawa, marito di Mamàntziki, figlio del sole più alto, il sole di mezzogiorno. Il primo shirimpiàre, allora, rimase a lungo a pensare, poi disse: sarà un essere umano. Così stabilì lo shirimpiàre numero uno dopo avere riflettuto a lungo decise di chiamare quell'animale Kaametza, che in lingua campa vuole dire La-molto-bella. Cos'i ebbe inizio la nostra stirpe, con Kaametza, una femmina. Appena spuntata dalla melarosa, Kaametza cominciò a cercare. Era convinta di camminare e di certo camminava nella selva, attraverso freddi boschi di cenere, ma in realtà non camminava: cercava, e non sapeva bene che cosa, non sapeva ancora esprimere che cosa. Così Kaametza trascorse anni e anni camminando - cercando, quando una sera...

Don Javier si guarda intorno cercando la bottiglia di acquavite di canna, riempie di nuovo il bicchiere che ha appena scolato e io, a mia volta, mi concedo altri due sorsi mentre lo stregone riprende a parlare:

— Ho sottolineato la parola sera proprio come Inganiteri ha fatto con me, solo per precisare, perché tu possa capire meglio ciò che ricordo, perché allora non esisteva nessuna sera, né alba, né notte, né mezzogiorno. Il tempo scorreva, è vero, ma era diverso da quello che conosciamo oggi. Anche il tempo era cenere senza confini, come un fiume a tre sponde. Fu molto tempo dopo che si placò e si divise, fece come molto più tardi avrebbe fatto l'Urubamba, il fiume sacro degli inka del Cusco. Allora non esisteva questo tempo che si stanca e si riposa come le persone. Allora non era cosi scandito come adesso. Soltanto pochi stregoni, katziboréri, o stregoni fumatori, shirimpiàre, riescono a farlo ritornare per non più di una notte, al massimo due notti. Lo fanno scendere dall'aria,

fanno cadere i pezzi perduti, orfani di quel tempo; li uniscono dopo notti e notti di concentrazione, di settimane e settimane di digiuno, di giorni in cui si nutrono di una semplice banana cotta alla brace e si dissetano con acqua di ruscello e, dopo avere ricordato, ripetuto o inventato le preghiere efficaci, le canzoni magiche, gli icaro giusti, le invocazioni più appropriate e potenti, così ritorna il tempo, come nube affettuosa di polline argentato, a occupare di nuovo La Casa del Richiamo. Il maestro Ino Moxo è appunto uno dei pochi shirimpiàre che posseggono il dono di convincere il tempo e di riportarlo al suo stato originale, per svolgere il suo ruolo primigenio. Devi sapere che prima, quando Pachakamàite non aveva ancora disposto la nascita di Kaametza, non era compito del tempo delimitare il ciclo del vivente. Non era suo compito scandire il passaggio da ciò che vive a ciò che muore e da ciò che muore a ciò che ritorna a vivere diversamente, eternamente. No. Il primo compito del tempo fu di fabbricare felicità, impedire i mali della vita, in queste vite e nelle successive. Se qualcosa o qualcuno era preda del male o ne veniva contagiato, il tempo faceva si che quel qualcosa o quel qualcuno smettesse di crescere. Non lo uccideva, perché nella natura di quel tempo non c'era spazio per la morte. Lo fermava, il che era anche peggio. E allo stesso tempo accelerava la grandezza di ciò che era grande, sviluppava gli spiriti dell'Alto. Dava a uno spirito giovane l'esperienza di mille anni. Non dimenticare che aveva tre orecchie, poteva andare e venire nello stesso tempo, e a volte stava fermo, immobile e i paesaggi si spostavano intorno a lui, erano loro che andavano e venivano verso il mare. Ed è per questo che il maestro Ino Moxo, quando si trova sotto la nube, dopo avere rimésso insieme i pezzi di quel tempo e dopo averlo fatto scendere, spinto da brezze argentate, alimenta la sua mente con quel polline antichissimo, moltiplica la quantità dei poteri che vivono e lavorano nella sua saggezza, colma la sua memoria con l'intelligenza di migliaia di vite, rafforza la potenza del suo sguardo...

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A quest'ora, nel bar, c'è soltanto un tavolo occupato da tre avventori chiassosi, eccitati non tanto dall' alcool ma dal rifiuto di quella ragazza troppo dipinta, con una grande scollatura, che ride sguaiatamente sui resti di questa notte di fronte al fiume Ucayali. Don Javier volge gli occhi pietosi verso di loro, appena una sdegnosa curiosità che esita tra i seni detta femmina, poi ritorna, con lo sguardo assente, alla finestra.

— Una sera, allora, Kaametza andò a specchiarsi, o a bere, o a lavarsi in un ruscello anche esso di cenere. Si piegò sulle acque tranquille del fiume che scorreva tra le tre sponde e dall'alto della foresta spuntò una pantera spaventosa, un otorongo nero che bramiva. All'inizio Kaametza restò immobile, non si spaventò neanche. Forse sapeva? Sapeva forse che cosa era la paura, che cosa era un otorongo infuriato? Nell'anima di Kaametza era sera e tramonto, una grande sera scura e innocente nella sua mente. Artigli, non sapeva che cosa fossero, non ne aveva idea. Netta sua mente non c'erano parole né il nome di nessuna cosa. Ma grazie a quel conoscere sconosciuto, senza coscienza, che ancora oggi possediamo, Kaametza capi ciò che doveva capire e sfuggì all'otorongo. L'otorongo la assali di nuovo, con le unghie affilate, taglienti, come punte di pietra calcinata. E Kaametza riuscì a schivarlo. L'otorongo nero indispettito si rivoltò di nuovo contro di lei e la assalì con i suoi artigli. E Kaametza scoprì dentro di sé una paura infinita, capì quanto vicina era la morte. E, senza neanche sapere che cosa stava facendo strappò un osso dal suo corpo. Qui, vicino atta vita, guarda, estrasse così una costola, come eseguendo un ordine; e non soffrì; non perse sangue, e non aveva nessun segno, nessuna ferita. E afferrando quell'osso come un pugnale appena affilato, colpì l'otorongo alla gola. A questo punto, lo ricordo bene, il mio amico Inganiteri che mi raccontava questa storia, chiuse gli occhi e tacque, immobile, ascoltando non so bene cosa, qualcosa che veniva dalla selva, dai corsi d'acqua che risuonavano lì accanto congiungendosi alle acque dell' Unine. Eravamo seduti all'ingresso della sua capanna,

di fianco alla Kaapa, quella piccola casa che mi aveva de-stinato, sulla scaletta fatta di tre grossi pali; guardavamo gli alberi che si muovevano di fronte a noi, oltre i campi di manioca che segnavano l'inizio delle sue terre. Il primo sole del pomeriggio cadeva di taglio sul cortile rotondo e spianato. Non era per la luce del cortile, non fu per questo che Inganiteri chiuse gli occhi, ma perché mi stava parlando della pantera nera, di quel grande otorongo. La faccia del curaca campa, invecchiò, turbata, dì colpo e si segnò di rughe sugli zigomi larghi. Il curaca tremava: sembrava che la sua anima ritornasse da lontano, da molto lontano e che le vene del suo collo stessero per scoppiare...

— E disse che Kaametza cadde in ginocchio dopo avere ucciso l'otorongo, con gratitudine si prostrò sulla riva di cenere, al bordo di quel fiume, sulla terza sponda e contemplò il coltello che l'aveva salvata, lo sollevò verso la bocca con le mani, sì avvicinò lentamente, mormorando non si sa bene cosa, come se lo baciasse...

— Scusi, Don Javier — osai, interrompendo con la mia voce la sua meditazione — scusi, ma c'è qualcosa che vorrei chiarire: quando il capo Inganiteri chiuse gli occhi...

— L'occhio — mi interruppe Don Javier, come era sua abitudine — Perché Inganiteri, non so se te lo ho già detto, aveva un solo occhio. L'altro lo aveva perso per una donna che il maestro Ino Moxo gli aveva rubato. Era rimasto orbo in seguito a un colpo di freccia mentre combatteva per ricevere quella donna...

Socchiuse gli occhi nei vapori del bar impregnato di fumo di tabacco forte e del profumo acido dei manghi, delle melerose, delle palme yarinas, che crescevano rigogliose, nell'oscurità, di fronte, sulle rive dell' Ucayali. La risata detta ragazza aveva disertato il tavolo in fondo al bar. Don Javier rivolse, condiscendente, la propria attenzione sui tre ubriachi defraudati.

— Certamente, lo avrà fatto per non parlare, mormorò. Certamente il mio amico Inganiteri avrà chiuso gli occhi per non raccontarmi più niente. Se ne stava cosi, senza vedere, senza parlare. Forse, nelle storie antiche, c'è

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sempre qualcosa di difficile, di pericoloso, di proibito da raccontare... Poi, senza dire niente, parlando come un cieco, Inganiteri mi disse che Kaametza accarezzò il suo osso, lo sollevò forse per baciarlo, forse per dirgli cose soavi, e sul coltello estratto dal suo corpo non c'era traccia né del suo sangue né di quello dell'otorongo che l'aveva ferita, e Kaametza lo ringraziò con l'alito, con l'affetto della sua bocca, ansimando, e l'osso prese fuoco, tremò come quei lampi che non fanno rumore, che fanno soltanto luce, li conosci? Quando piove e non è la stagione delle piogge si vedono fulmini così, e lei lo lasciò andare come se le bru-ciasse le mani, e mi disse Inganiteri che l'osso cominciò a roteare, riducendosi e crescendo, come chi soffoca e cerca l'aria, occupando una forma che esisteva già nell'aria, che lo aspettava da sempre come un destino nell'aria, e che andava somigliando sempre più a Kaametza, mentre si spegneva a poco a poco e ritornava a brillare trasformandosi nell'ombra di un albero di fuoco, in una melarosa di ombra, in una pietra di albero animato, in una antica orma su una grande roccia, sempre più simile negli occhi e nelle braccia e nei capelli a Kaametza come se il corpo di Kaametza avesse avuto da sempre, li, nell'aria, un modello che lo aspettava e poi retrocedendo e avanzando di nuovo e bril-lando - soffocandosi - cercando, cercando diversità nell'aria, differenziandosi dall'uguale di Kaametza e alla fine calmandosi e vittorioso — estenuandosi sulla spiaggia di cenere, nell'oscurità, uguale a Kaametza e al tempo stesso diverso.

Don Javier finisce l'acquavite con un solo sorso e esita un istante guardando il nulla, facendo crescere l'ansia dentro di me.

— Fu così che venne al mondo il maschio, fu così che venimmo al mondo. E il primo shirimpiàre che a quel tempo viveva senza vivere, senza corpo, viveva appena, lo shirimpiàre numero uno, che come testimone osservava tutto dall'aria, ne gioì e decise che l'uomo vivesse, decise che l'uomo accompagnasse la donna e che insieme procreassero e gli rese omaggio dando un nome anche a lui. Gli diede

un nome perché potesse continuare a esistere, pronunciandolo a voce alta dall'aria.

— Narowé, lo chiamò. E il primo maschio, udendo il nome, che il Dio Pa-

chakamàite aveva deciso, continuò a dormire. Continuò a dormire ma il sangue cominciò a scorrere per tutto il corpo e l'aria entrò nel sangue fecondando il suo cuore di luci generose, distribuendo forza e energia nei suoi muscoli e dotandolo di anima e di parola perché potesse aprire le porte dei mondi, anche di quelli invisibili agli occhi del corpo materiale e perché potesse ringraziare gli dei e gli uomini e imparare a combattere e a lavorare e a fare figli e a abbellire la terra.

— Narowé! Lo chiamò, che in lingua campa, di ashaninka vuole dire: io sono, o io sono colui che sono, che è la stessa cosa.

I tre avventori al tavolo, in fondo al bar, hanno rico-minciato a bere, a ridere sguaiatamente, a discutere senza curarsi di noi. Offro una sigaretta a Don Javier, con lentezza, per sottolineare il mìo gesto, esortandolo a proseguire il racconto. La sua mano destra disegna un rifiuto nell'aria palpabile che stagnava nel bar, ma le sue labbra si socchiudono, stanno per parlare, stanche si piegano agli angoli con nostalgia, accennano un sorriso, assenti. All'im-provviso credo di capire, sì credo proprio di capire. Ricordo ancora il suo sorriso che si allontana, l'ostinazione delle sue labbra sigillate. Comunque attraverso i fumi di una strana ebbrezza, continuo a sentire la sua voce. Mai, fino a quel momento l'effetto della droga era stato così forte; mi sentivo irrimediabilmente avvolto da un turbine di ronzii, di calore, di penombre, ebbi il sospetto che a raccontarmi la storia di Narowé e Kaametza non fosse Don Javier, ma l'aria, la voce di Inganiteri, ormai morto, che incombeva nell'aria e allora mi piegai sul tavolo, abbandonai la testa tra le braccia, e l'ultima immagine dì quella notte che la mia memoria potè fissare, fu la visione della mia stessa testa reclinata, priva di forze, accanto alle bottiglie vedove di acquavite come se, attraverso l'arco delle

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mie braccia incrociate, io ritornassi verso il momento ini-ziale, tempi in cui il tempo non era il passivo ordinatore dell'inevitabile, non era il costruttore di rovine, guida della morte, ma l'artefice della bellezza e della felicità.

Sprofondai in un sonno senza coscienza come nelle acque di un lago conosciuto e proibito. Il fremito di una rete mi avvolse, mi restituì trascinandomi alla spiaggia. Non era un lago: era un fiume. Vidi Kaametza, sulla terza sponda, nuda e luminosa sul sangue nero della tigre accoltellata, di fronte al sonno quieto di Narowé. Volli avvicinarmi a lui ma la rete mi catturò di nuovo, mi restituì alle acque, sempre più scure, più calde, più chiare. Stremato, senza fiato, cercai di liberarmi. La rete crebbe in tentacoli che secernevano una sostanza gommosa e biancastra, si attoreigliò in boa invincibili imprigionandomi, trascinandomi sul fondo delle acque del fiume di nuovo trasformato in lago. Tirai fuori la testa, gridai, nell'aria non si sentì nulla, la mia voce era vuota. Scoprii che anche il mio corpo era uno spazio aperto, soltanto il posto di un corpo. Alla fine, sprofondando con gli occhi coperti dall'acqua salata, riuscii a vedere Kaametza sulla riva, statua assorta di fronte al riposo di Narowé che si svegliava.

I boa, i tentacoli della rete cedettero, mentirono, in-sistettero. Non era una rete. Era una mano che mi scuoteva, due mani che mi afferravano alle spalle: il gestore del bar mi svegliava tra le scuse, non c'era più nessuno e stava per spuntare l'alba.

Mi alzo barcollante, pago le bottiglie di acquavite, esco nella mattina che penetra dall'altra sponda dell' Ucayali, la terza, dietro una doppia fila di bambù o di palosangre, non so bene. Non so come riuscii a percorrere tanta strada e a arrivare all'Hotel Tariri. Ricordo soltanto che nella hall, mentre fingevo dì guardare la teca, appesa alla parete, sulla quale erano allineate le chiavi delle stanze, fui accolto da un sorriso complice e invitante e da due braccia aperte: Don Javier.

di come si fece la luce sulla terra

Con la faccia sott' acqua, immerso in quel lago ridiventato fiume, riuscii a aprire gli occhi: vidi Kaametza sulla terza sponda, premurosa, accanto a Narowé che si svegliava.

La prima cosa che vide Narowé separandosi dal nulla fu Kaametza, fu tutto, il sole che lo guardava. Ma ciò accadde soltanto nella sua anima, dopo la sua prima sensazione, dopo la sua prima conoscenza, sotto il suo cuore. Perché fuori, intorno alla spiaggia di cenere dove si trovavano entrambi, sopra i boschi e il cielo di cenere, tutto era ombra. Già Pachakamàite, il Pawa, Padre Dio dei campa, aveva creato la luna e le stelle ma ancora non aveva concesso loro il compito di illuminare. Tutto aveva il colore della notte morta, pelle di notte chiusa. E il tempo, torrente senza letto né direzione, assoluto e eterno.

Eppure Narowé vide Kaametza, la potè distinguere bene, chiaramente, nitida, poi si sollevò, si mosse verso di lei e lei lo ricevette conoscendo tutto. Lo lasciò entrare, aprendosi. Proprio come il fiume Inuya penetra il fiume Urubamba, così Narowé penetrò tra i fragori con tutte le tempeste del suo corpo fuse dentro una fervida corrente, andando indietro, mentendo, ritornando - insistendo. Proprio come l' Inuya se l' Inuya avesse avuto la durezza di una canoa. E Kaametza fu cielo, divenne cielo perché il sole nato dal suo corpo, innalzato e reso ardente dal suo

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corpo tra due mezzogiorni, potesse ritornare e tramontare verso il crepuscolo, fondendo la sua luce bianca con il sangue del cielo. Abbracciati, assai più che compiacendosi l' un l'altro, Kaametza e Narowé fabbricarono la vita, saldarono l'esistenza con resina folgorante e sanguinante; tutto pulito, senza frontiere, la pienezza dei loro corpi come lingue che si rincorrevano in un solo miele profondo e salato.

Sul sangue dell'otorongo nero, rotolando in una stessa vertigine lenta, conobbero l'amore. Lì, su quel sangue ancora caldo, si amarono. Scoprirono i loro corpi e il fuoco e la tristezza dei corpi, e il vuoto, non la cenere di prima ma quell'altra cenere che offende dopo l'incendio, e il silenzio, e l'idea dell'inevitabile, della morte che abita in tutto ciò che vive. Tutto scoprirono.

O cosi, perlomeno, mi raccontò Inganiteri. E disse che Kaametza e Narowé raggiunsero insieme, nello stesso istante il piacere. E che quando raggiunsero l'orgasmo, proprio nell'attimo in cui tutti e due lo raggiunsero, nel mondo si inventò la luce.

— Dal primo piacere del primo amore nacque la luce, su tutta la terra fu luce — mi dice Don Javier.

Don Javier afferma di avere soltanto sessanta milioni di anni

Mi pregò di portargli con molta attenzione la sua cassa. Ho già raccontato che Don Javier, tra i suoi innumerevoli mestieri di mortale, era solito vantarsi soltanto di quello di musicista? Ho già raccontato che era anche percussionista, suonatore di cassa, come pochi ce ne sono? Quasi tutti i suonatori colpiscono quella specie di cubo sonoro, quel tamburo di cedro, ed esprimono con forza la cadenza della vertigine, di alveo delle danze che sonnecchia sotto la superficie dello strumento. Ma non Don Javier. Non sono le sue mani a produrre musica e ritmo quando suona, sembra piuttosto che le sue stesse dita siano la musica e il ritmo. Seguii Don Javier vacillando, fino alla sala da pranzo dell'Hotel Tariri dove, tra inconfondibili rappresentanti di commercio, artiste di varietà, militari travestiti da civili con l'abito della domenica e donne che si fanno offrire da bere e da fumare, resti della notte dietro nugoli di insetti, mangiammo carni rosolate con cipolla e banane fritte, ristorandoci con tazzoni, listati a lutto da un mate dolcissimo e amaro che di caffè aveva soltanto il nome.

— Kaametza e Narowé fecero la luce facendo l'amore, così iniziarono la stirpe ashaninka, la nostra prima umanità, il popolo campa.

Allontanò da sé la cassa, si alzò, estrasse da una tasca molti fogli piegati, li guardò uno a uno, con lentezza esa-

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sperante, eccola mi disse, mostrandomi la pagina strappata di un vecchio giornale:

— Questo articolo si riferisce all'impronta del piede di un essere umano, trovata su una roccia cristallina netta regione di Ascope. Hanno inviato un campione di quella roccia all'Università di California, per sapere a che epoca risale, per sapere in che epoca un uomo remoto calpestò la roccia prima che fosse roccia, quando era ancora morbida e l'orma potè imprimersi e conservarsi fino ai nostri giorni. Vedi, in questo ritaglio di giornale è stata pubblicata la risposta, ti dispiace leggerla ad alta voce?

"Il campione di roccia proveniente da Ascope, inviato dal Dott. Juan Luis Alva per la datazione, ha le caratteristiche di una graneodorita horneblendica probabilmente estratta dal Bartholito Longitudinale Andino. L'età assoluta di questo Bartholito è stata fissata dal professor D. Jack Evernden dell'Università di California, in sessanta milioni di anni..."

— Capisci, sottolineò Don Javier, sessanta milioni di anni fa esistevano già gli uomini e lasciavano le loro impronte sulla roccia che non era ancora roccia ma argilla, altro che terra da scoprire!

Feci finta di non sentire e continuai a leggere: — "Le ricerche del Dott. Cèsar Reynefarje, direttore

dell'Istituto di Biologia Andina, sui gruppi consanguinei, confermano la tesi che l'uomo ha avuto origine in America o per lo meno anche in America. In Perù esistono fossili di animali e di vegetali primitivi come gli amnoliti e le alghe, oltre a una gamma che include fossili di animali e vegetali superiori. Non c'è dunque motivo per porre in dubbio l'origine autoctona dell'uomo americano. Sono molti gli anelli perduti della catena da scoprire in Perù e in America, non uno solo. Le ricerche del Dott. Raynefarje, che ha dimostrato che nel sangue degli indigeni campa e tzipìbo della selva peruviana mancano gli antigeni A e B,

presenti nel sangue di tutte le restanti razze umane, raf-forzano la mia tesi".

— Lo vedi, amico Soriano! ripete sempre più eccitato Don Javier. Se i nostri progenitori erano campa, non scorre forse nelle loro vene il sangue più antico del mondo? Non fu Kaametza la nostra vera Eva e Narowé il vero Adamo? E non sarà che il Paradiso Terrestre americano è in realtà il Gran Pajonal?...

Poi mi pregò di continuare la lettura. L'articolo del Dott. Juan Luis Alva, pubblicato a pagina sette del Supplemento Domenicale a "El Comercio" di Lima del 20 giugno 1977 concludeva:

"Forse la gestazione dell'uomo sudamericano è avvenuta nella regione amazzonica e da lì si è estesa verso la sierra e poi verso la costa seguendo la direzione di tutti e due gli oceani..."

— Tieni conto, mi disse Don Javier, che non ci sono campo soltanto in Perù. Vivono anche in Venezuela, nelle Guyane, di fronte al Mar Caraibico. — È quasi finito, gli dico, mancano poche righe: "Giacché nei petroglifi della valle di Jequetepeque, forse i documenti antropologici più antichi che si trovano sulla costa nord del Perù, la scimmia emerge come elemento culturale di massima importanza".

— Figurati: scimmie amazzoniche in petroglifi trovati di fronte al mare!... E in piena selva, a dieci chilometri da Plaza de Armas di Tarapoto, un mio amico, l'archeologo Wilson Leon Bazàn, ha scoperto altri petroglifi dove non soltanto si possono scorgere le impronte di piante e animali preistorici, ma simboli grafici chiarissimi, simboli di una scrittura che ancora non siamo in grado di decifrare. Sono stato da poco a Tarapoto e ho visto quei petroglifi nella località di Polish, pietre distribuite per significare qualcosa, incise con profili di dinosauri, di serpenti, di uccelli giganteschi, e segni, molti segni dentro chi sa quale ordine, quale sistema segreto simile a quello delle Killka degli inka... Inoltre, tra i petroglifi di Polish hanno dissotterrato fossili umani. Ho visto un cranio millenario

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che sembrava essere di una grande scimmia, ma che era di un uomo. Ho visto petroglifi uguali a San Tosillo e a Shapaja-Cerro San Pablo e a ]ara, vicino a Moyobamba, e anche a Chazuta e a Achinamiza, con disegni uguali a quelli scoperti là, sulla costa, dove fu trovata quell'impronta umana sulla roccia, quell'impronta di milioni di anni fa .. .

Don Javier parve calmarsi contemplando la sua cassa; la colpì impercettibilmente con le dita e mi rivolse di nuovo la sua risata sonora:

— Lo vedrai con i tuoi occhi. Quando arriverai ad Atalaya vedrai testimonianze forse più antiche. Per arrivare dal maestro Ino Moxo dovrai attraversare l' Inuya, e poi il Mapuya e poi ancora il Mishawa. L'intero letto del Mapuya è pieno di animali marini pietrificati! Vedrai con i tuoi occhi, toccherai con le tue mani quei pesci di pietra! Chiocciole di milioni di anni, meduse gigantesche trasformate in roccia, messaggi immemorabili di quando questa selva non era selva ma fondo marino, di quando il mare passava su di noi e noi non esistevamo e il mare era cenere e tutto era oscurità e ancora non erano nati Kaametza e Narowé!

un uccello divora intere popolazioni

Più che l'approssimarsi della notte, ci trattenne la fame. Ci accampammo lì, poco dopo avere ritrovato il bambino amawaka, in uno spazio angusto tra le canne selvatiche, simili per grossezza e per forma alla canna da zucchero, ma molto più alte: raggiungevano anche i sette metri.

L'invitato di Ino Moxo parlamentò con Ivàn poi, senza curarsi del sentiero si addentrò nella macchia, perdendosi in uno scricchiolio di foglie secche per ritornare subito con una pukuna, lunga cerbottana, che forse aveva nascosto lì, per precauzione, quando ci era venuto incontro. La pukuna era certo più lunga di due metri. L'ama-waka la controllò in silenzio, meticolosamente, prima sfiorando con occhi e dita esitanti la superficie compatta e tubolare, poi spostando lo sguardo attraverso il foro e soffiando più volte. Infine esaminò le numerose frecce dritte e appuntite che teneva in un recipiente di bambù colorato. Ne aprì uno più corto, sottile, pieno di una sostanza spessa e nera, ci intinse la punta di tre frecce e poi lo richiuse. Ivàn lo aiutò a coprire con fiocchi di cotone ruvido e giallastro la parte non avvelenata delle frecce; portati a termine questi preparativi con una solennità da cerimonia e senza neanche rivolgerci lo sguardo, penetrarono tra gli alberi, oltre il campo di canna sempre più a sinistra del Mapuya, come ipnotizzati dal vociare inconfondibile delle scimmie.

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In attesa del ritorno dei nostri due cacciatori, obbedendo alle ultime istruzioni di Ivàn, tagliammo grossi rami e legni molto duri, i più resistenti e giovani dei dintorni, e canne, molte canne, tutte quelle che ci permisero le nostre braccia. Più tardi, in piena notte, capimmo perché il nostro rifugio doveva essere solido: le choshna e i tuta-cuchillo, enormi quadrumani, si divertirono a lasciar cadere su di noi, dall'alto degli alberi, frutti e rami pesanti e temibili e invisibili, gridarono e ci inseguirono fino all'alba. Se non fosse stato per quella specie di capanna nella quale tentammo di dormire, quel riparo di assi resistenti e di liane che Ivàn ci aveva ordinato di costruire, precauzione e preoccupazione che a me erano parse esagerate, saremmo morti schiacciati sotto i colpi insolenti di quelle scimmie-gufi.

Ivàn e l' amawaka ritornarono all'improvviso e vedendoci ansimanti, esangui, sfiniti nella radura erbosa, pieni di lividi tra machete e rami tagliati, non riuscirono a trattenere il riso. Quando si furono calmati, ci mostrarono, più con cattiveria che con orgoglio, il corpo agonizzante che ci avrebbe fatto da cena.

Più tardi Don Hildebrando ci parlò del veleno che gli amawaka usano quando vanno a caccia. Io stesso ne ho constatato l'efficacia: uccide in meno di un minuto e, a quanto sembra, senza provocare dolore. Soltanto lo stregone è autorizzato a prepararlo. La sostanza tossica, del tutto innocua per gli uomini bianchi, altra cosa della quale sono stato testimone, si estrae da una pianta che cresce sulle falde dei monti boscosi attraversati dal Mishawa. Il maestro Hildebrando non mi ha mai detto il nome di quel vegetale. Una volta però, potei vedere come ne sezionava la corteccia e la raschiava fino a farla diventare bianca candida; di nuovo scurita al contatto con l'aria, la sfilacciava dentro un recipiente pieno d'acqua bollente. A mano a mano che il liquido evaporava, Don Hildebrando andava aggiungendo acqua. Lo vidi ripetere l'operazione sette vol-

te. L'ultima volta estrasse i resti di corteccia e fece bollire il liquido fino a ridurlo a una viscosità marrone e lenta.

Era bastata una sola goccia di quel liquido viscoso messa a segno con la pukuna dell' amawaka, per uccidere quella scimmia robusta, questo makisapa che Ivàn spella im-perturbabile e che, così spellato, sembra uno di noi. Cio-nonostante contribuimmo tutti a squartarlo e a metterlo sul fuoco per poi mangiarcelo senza rimorsi.

Non c'è dubbio, il nostro rifugio doveva essere solido.

All'alba, nonostante le chosna e le altre scimmie notturne continuassero a colpire la nostra capanna, il bambino amawaka ordinò di riprendere la marcia. Ho già detto che la sua faccia era tatuata con achiote, quella pittura sacra che i nativi usano per proteggersi dai nemici visibili e invisibili? Gli uomini amawaka coprono le loro nudità unicamente con una cordicella stretta intorno alla vita. Con uno dei capi della corda fissano il pene rivolto verso l'alto sul ventre. Oltre alle guance si dipingono con achiote anche il petto, le braccia e le cosce. L'inviato di Ino Moxo sfoggiava invece una cushma impeccabile, lunga fino alle caviglie, indumento permesso solo agli stregoni. Quando una missione li trattiene nella selva per più giorni, gli amawaka, e come loro molte altre popolazioni dell'America, per non spaventare le anime e gli animali con odori umani, se sono nudi smettono di lavarsi; se invece pra-ticano il digiuno come fattucchieri indossano una cushma speciale, vecchia, mai lavata, che si confonde con l'odore e con i colori della foresta. Questo amawaka mi sconcertava con la sua impeccabile tunica gialla. Con l'aiuto di Félix Insapillo, e supponendo che ci saremmo addentrati sempre più nella selva verso i monti, molto lontano dal Mishawa, ottenni dal bambino una breve pausa per ritornare al fiume.

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Il fischio tagliente di un tiwacuru che serpeggiava tra i rami alti di una wimbra ci guidò sulla riva. In quel gomito del Mapuya, un uccello nero, non troppo grande, con il becco giallo come la base delle sue ali aperte, agitava un ventaglio di piume sull'acqua.

— È una wapapa, disse turbato Ivàn. Sta pescando. — Certo, aggiunse Félix Insapillo. Pesca sempre così.

Questo uccello ha tre aculei in ciascuna articolazione dell'ala. Con quegli aculei penetra la corteccia di un albero dalla linfa velenosa che si chiama katàwa...

— La wapapa bagna le sue ali con la linfa di katàwa, poi le immerge nell'acqua, disse Ivàn. Tra poco vedrai, verranno a galla i pesci.

— Verranno a galla storditi dal veleno...

La wapapa uscì dal fiume, camminò pigramente per qualche metro, si appoggiò su una sporgenza di terra sgre-tolata, fissò gli occhi su quel tratto di fiume ormai fatalmente torbido e se ne stette immobile, in agguato. Era una strana statua che aspettava, ricoperta di ansie tranquille, direi, del tutto indifferente alla nostra presenza. Apparvero le sue prime vittime; decine di inutili colpi di coda moribondi: l'incredibile pescatore si staccò lentamente dal bordo rosso, entrò nella sua trappola d'acqua, afferrò un pesce con il becco, poi sempre più lentamente ritornò sulla sponda, sistemò il pesce sull'erba rada, rientrò nell'acqua e ripetè l'operazione. La ripetè senza nessuna fretta, fino all'ultimo pesce. Soltanto allora, sempre assorta in quella calma che mi irritava, cominciò a divorarli con raffinata minuziosità. Non la scosse nemmeno il rumore dei nostri corpi che si tuffavano nell'acqua accanto a lei e continuò imperterrita a mangiare, mentre Insapillo, Ivàn, Cèsar e io estraevamo dal fondo del Mapuya le meduse remote, le grandi chiocciole di cui ci aveva parlato Don Javier, le rifulgenti ostriche grigie, gli ippocampi pietrificati.

— Da quando il mare era cenere e tutto era oscurità

e ancora non erano nati Kaametza e Narowé!, ripetè al tavolo della sala da pranzo dell'Hotel Tariri, ormai quasi deserto. Parlava con voce avvizzita, con parole opache, pronunciate come se stesse sotto terra, come se si trovasse dentro una pietra, investito di una improvvisa maestosità. — Lì, sul Mapuya ti sarà concesso di sapere come i figli hanno divorato i padri, come i virakocha hanno sterminato gli indio. In che modo perverso, con che freddezza continuano ad avvelenare il popolo più antico della terra! I nostri avi presenti e viventi!... Ti sarà concesso di conoscere la ragione vera e non già il pretesto che porta alla nostra selva la cosiddetta civiltà. Perché ciò che è progresso per il bianco, per l'indio è un tornare indietro. Per il bianco di ieri il caucciù era oro, per l'indio fu sterminio. Per il bianco di oggi il petrolio è la vita, per l'indio è la rovina, la peste, lo sradicamento. Vedrai chi sono stati e chi sono in realtà i barbari, chi i cannibali e chi i cristiani!... Ascoltami bene, Soriano: se tu ti ammali e hai bisogno di sangue io ti do il mio e ti salvo la vita. Ma se dono il mio sangue a un indio campa, o a uno tzipìbo, lo uccido. Perché il suo sangue è diverso. È diverso, capisci? Ciò che per noi è esistenza per loro è peggio della morte. E così accade con le altre cose create, così accade con le piante. L'aria, ad esempio; è vitale per gli uccelli ma asfissia i pesci, il colpo d'ala nera, il becco della morte.

Ammucchiammo i fossili lontano dalla riva per sot-trarli alle piene e agli acquazzoni, fiduciosi di ritrovarli al ritorno. Riprendemmo la strada verso Ino Moxo. Prima di addentrarmi nella foresta dove si erano già incamminati gli altri miei compagni mi fermai, volsi gli occhi al Mapuya generoso, scorsi qualcosa sulle sue acque, come un fulgore di sangue, come una luce inesorabile che tingeva le impavide correnti. La wapapa continuava a mangiare sulla riva, immune al veleno di Katàwa che aveva fulminato tante vite.

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— Ti sarà concesso di conoscere la verità, la faccia bugiarda della verità e la verità senza tempo. Vedrai le tre sponde. Lo splendore e l'ombra del sangue e del tempo che qualche volta è uno e tutti. Ciò che ieri era una certezza non dovrà esserlo domani. Lo stesso tempo antico che ci ha portato la morte ci ha concesso la vita futura. Ascoltami bene: l'aria sarà d'acqua e l'acqua sarà d'aria. Tutto, assolutamente tutto, è al rovescio. "Tutto è al rovescio, sempre. E l'acqua che è l'aria dei pesci, affogherà le ali del Maligno...

Don Javier mi parla con voce strana, come se un'altra persona lo abitasse da tempi remoti e oggi si facesse sentire attraverso la sua bocca chiusa. Potrebbe essere la voce di Inganiteri, ma no, come già mi è successo in terra amawaka, la notte in cui Ino Moxo mi offrì ayawaskha, nelle visioni sentivo di nuovo quella voce e l'ho riconosciuta, ho saputo chi in realtà, mi ha parlato quella mattina all'Hotel Tariri. Ho saputo chi mi sta parlando in questo momento dalle labbra mortalmente immobili e grigie di Don Javier.

È arrivato il momento di confidarti il resto della storia che mi ha raccontato il mio amico campa Inganiteri. E tu adesso, puoi ascoltarla... Ritorniamo a Kaametza, dove l'abbiamo lasciata. No, anzi cerchiamo il suo sposo, il primo uomo generato dal suo corpo. Ha bisogno più di ogni altro di speranza e di compagnia. E ti dirò perché. Saprai in quale momento e per quali motivi conobbe la disperazione colui che prima aveva conosciuto soltanto la felicità: Narowé...

Non sparai. Una calma infinita occupò la mia memoria e alleggerì il

mio corpo. Mi precipitai verso la foresta. A trecento metri mi imbattei in Ivàn che ritornava indietro. Mi investi spiegandomi qualcosa senza senso, non so bene cosa, con una voce che mi parve incerta, forse colpevole. Poi riprendendo a camminare sul sentiero davanti a me per raggiungere gli altri, mi disse:

_ Ho sentito lo sparo. L'ho sentito solo io. Per questo sono tornato indietro a cercarti.

Attraversai il sottobosco intricato dove già erano scom-parsi i miei compagni. Avanzai di qualche metro, dubitai, mi decisi, ritornai al Mapuya. La wapapa continuava a mangiare sulla riva. Mi avvicinai in silenzio, caricai il fucile e mirai alla testa.

Dubitai. Mi decisi.

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Don Javier ci parla del negro Babalù e di altri sepolti nel mare

Un giorno ti racconterò di un mio amico pescatore che avevo a Eten, un piccolo porto sulla costa settentrionale,

molto più a nord di Lima, mi dice Don Javier voltandosi verso la porta dove non c'è nessuno, tenui fasci di luce del mezzogiorno su ondate di polvere. Non mi sono accorto degli avventori che sono entrati e che ora, in fondo al bar,

chiacchierano confusamente, al riparo del caldo soffocante che dalla strada assedia l'hotel Tariri.

Pucallpa: migliaia di casupole di legno basse e fitte che offrono facciate di paglia, su ventate di insetti interrotte da strisce di polvere, nei dintorni. E decine di case a due piani: penosi miraggi di dimore di pessimo gusto dietro cui si consumano le amanti dei contrabbandieri, le spose e i figliastri di pionieri e caucheros equivoci, eredi di trafficanti di legname e di nessuno. E vari palazzi di cemento e di ferro, stupido alveare, che offendono il centro commerciale: negozi, bar, bazar, ferramenta, radioemit-tenti e ristoranti lungo viali di polvere calcinata. Musiche straniere, strepitose e insignificanti, salgono dalle taverne, dai cinematografi pidocchiosi, dagli uffici ad aria condizionata, in cui si stiracchiano grossi industriali, lividi fabbricanti di cocaina, alti ufficiali delle forze armate, appassiti burocrati statali, e competono con il tumulto delle motociclette e dei tassi pirata che scorazzano lungo le strade di terra battuta che la pioggia, invece di confortare, impasta di fango. Ma oggi non ha piovuto, dalle finestre del-

l'Hotel Tariri entrano i vapori insopportabili e giallastri del mezzogiorno. Don Javier cambia posto e va a sedersi sulla cassa di cedro melodioso, le sue dita ne accarezzano la superficie, si muovono lentamente, e lo strumento suona come se ricordasse, con velata tristezza.

— Un giorno ti racconterò del negro Babalù, così si chiamava, Babalù, il nome di non so quale divinità africana...

Le mani di Don Javier si allontanano dalla cassa che continua ad emettere suoni aspri, come se fosse sua de-bitrice.

— Un giorno ti racconterò come morì questo cantante, ballerino, percussionista e chitarrista per necessità e per sangue. Alcuni credono che sia morto di tubercolosi, io invece so che morì di musica, la morte lo raggiunse con i piedi della musica. Le quotidiane feste notturne, le baldorie patriottiche, familiari o immotivate, fecero sì che il suo corpo, un tempo immenso, diventasse una sola an-goscia, e un'unica, grande occhiaia, la sua indimenticabile faccia. Per fortuna, Amador Escajadillo, fuggendo da Lima, per quelle ingiustizie proprie della giustizia, venne a rifugiarsi a Porto Eten e si stabilì a meno di cento metri dalla casa del mio amico Babalù. A Porto Eten, Amador Escajadillo diventò in breve tempo cuoco, proprietario, fornitore, cassiere, guardiano, cameriere e, molte volte, unico cliente di "La Corvina Incinta", il migliore ristorante di allora. E come se non bastasse, un giorno, oltre ad autoeleggersi Notaio del luogo, Amador Escajadillo si nominò padre spirituale del mio amico Babalù. Meno male. Perché falsificando timbri, date, firme, il sedicente giure-consulto stilò un testamento che i creditori del defunto Babalù, anche i più agguerriti, riconobbero come irrefu-tabile. Nel documento si attesta che Babalù, tre anni prima di morire, beneficiò legalmente, o aveva beneficiato legalmente, la sua donna nominandola "unica erede uni-versale". I proprietari del panificio, della macelleria e delle tre bettole del paese, dovettero rassegnarsi a invecchiare senza riscuotere. La vedova del mio amico non volle

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saperne di vendere i beni per fare fronte ai debiti, e non soltanto ereditò ma si tenne tutte le proprietà. Tutte: una capanna con pareti di fango e canne, che il vento scuoteva senza pietà, una chitarra orfana di corde, tre reti piccole e una grande, malridotta, un'infinità di ami che, secondo Babalù, sapevano pescare da soli, un cagnolino spelacchiato che chiamava indifferentemente "Wàscar", "Almiran-te" o "Sangreazul", un libro di poesie di Nicolas Guillén, che tutti sapevamo a memoria, e l'ossessione delle sue mani e di tutta la sua vita: quella cassa sgangherata e rauca.

Ubriaco fradicio, tra sputi di sangue senza appello, Babalù aveva cercato di confortare sua moglie:

— Quando non mi sentirai più, allora soltanto mi ascolterai.

— Secondo il notaio Amador Escajadillo, la confusa affermazione del mio amico fu diversa, e più che una af-fermazione, un ordine:

— Ascoltami soltanto quando smetterai di sentirmi... Può darsi che sia stato così. Babalù, negli ultimi tempi,

quando alzava troppo il gomito, si abbandonava a escla-mazioni ancora più strane. Può darsi. Adesso si dicono tante cose. L'unica cosa che so per certa è la tristezza. Giorni insopportabili, lunghi come settimane, seguirono alla baldoria con cui si volle coprire il suo funerale. Una sofferenza infinita occupò l'esistenza di Carmela, ti ho detto che la vedova si chiamava Carmela?, inutilmente si stordiva lavorando oltre le proprie forze e per tutti, cucinando le anemiche razioni dei pescatori notturni, spazzando il ristorante del notaio Escajadillo, che si trovava a pochi metri dalla capanna di Babalù, te l'ho detto?, un po' più indietro e di fronte al mare. Carmela si logorava senza nessun obbligo, inutilmente, credeva così di ammazzare il tempo, rammendando le divise per la scuola, caricandosi del lavoro altrui, al mercato, nella piazza, nel porto, nelle ore peggiori, la domenica, quando la gente veniva da Chiclayo in cerca di pesce e di frutti di mare freschi e a buon mercato. Quando lei arrivava trascinando i piedi

lungo il molo, tutti abbassavano la voce, come se il suo passo producesse silenzio, solo pena e silenzio, come se per lei la mattina dei giorni di festa fosse notte di lutto, pieno inverno. Ma Carmela, niente, ostinata. Inutilmente scompariva dietro la scogliera, inutilmente ritornava con cesti pieni di granchi, inutilmente li distribuiva ai bambini cenciosi, inutilmente lavava e sporcava di nuovo e rilavava e sporcava e lavava e stirava, le tre camicie e i due paia di pantaloni del defunto Babalù. Non potè fare niente contro la tristezza. Mi ricordo che un giorno, una domenica sera, la vista della cassa, che un tempo era appartenuta al mio amico, la turbò profondamente.

— Eccolo, eccolo. Lo senti?... — gridò. La verità, la verità, è che mi parve di sentirlo. Prima udii i suoi passi che camminavano lontano, lontano

e vicino, i passi del mio amico nella cassa! Poi udii le sue mani, non più nella cassa, ma nel mare! Proprio così, amico Soriano. Il mare suonava in modo diverso, con una precisione e un ritmo che solo Babalù, solo lui, dal fondo del mare, poteva produrre suonando la sua cassa. Sto forse impazzendo, pensai, e per la prima volta notai il colore della cassa, e ricordai la pelle di Babalù che brillava scura, e quei graffi sulla superficie erano identici alle sue famose cicatrici, una sulla guancia destra che scendeva verso il collo, l'altra sull'avambraccio destro, "incidenti del mestiere" diceva lui vantandosi, con cui due attaccabrighe lo avevano decorato da giovane, in una stessa sera e in due diverse bettole del Callao, per motivi che variavano a seconda dell'uditorio. L'ultima volta che lo sentii parlare di questa storia, Babalù attribuì la causa delle risse non tanto alla difesa dell'onore di una sua compaesana che si dava da fare nel bordello di Ivonne, quanto a contrasti nel gioco dei dadi. Non può essere, mi pizzicai, e ricordai altre tre cicatrici più piccole, tre spicchi che for-mavano un triangolo sul suo petto, ma i colpi di Babalù, che venivano dal mare, si facevano sempre più chiari, in-confondibili. E le onde cominciarono a suonare proprio lì, nella sua casa, in quella capanna malridotta dove sia io

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che la vedova fummo colti dallo stesso stupore. Le onde cominciarono a rimbombare nitidamente dentro la sua cassa. Un flusso confuso di onde scaturiva dal legno logoro, reso prestigioso dalle sue mani miracolose.

Un giorno ti racconterò come Carmela si chinò verso la cassa sudicia, e la cassa si mise a suonare ancora più forte, come se al suo interno si agitassero allo stesso tempo migliaia d'onde, infiniti mari. Stia attenta, avrei voluto dirle, non entri in quella cassa, potrebbe affogare. Ma lei, che avrebbe pensato?, dimmi, che sono pazzo, non è vero? Per questo non dissi niente. Poi mi pentii, avrei dovuto dirglielo, tu stesso mi darai ragione. Tentai quindi di fermarla, ma non me ne diede il tempo. Non me ne diede il tempo? Forse gridai, ma lei non mi senti, non mi poteva sentire in mezzo a tutta quella baraonda, da una parte, il mare, tanti mari che si agitavano nella cassa, e dall'altra, Babalù, le mani di Babalù che suonavano vicino, sempre più vicino, crescendo sotto il mare.

Carmela si alzò dalla panca dalla quale aveva mal si-mulato di gradire la mia visita, si diresse stordita, tra i singhiozzi, rifiutando l'impossibile, verso la cassa con le braccia tese. Fuori di sé, asciugandosi le lacrime, fece sci-volare le dita sul legno, lo colpì con timore, poi con indif-ferenza, poi di nuovo con timore, chiamandolo, Babalù, poi con forza, Babalù. Mentre lo chiamava, Babalù, crollò a terra. È meglio lasciarla sola, mi dissi. Uscii nell' ombra-ombra della spiaggia. Il mare non suonava più, o meglio non suonava come la cassa di Babalù, adesso suonava appena, di nuovo come il mare. Gli voltai le spalle, attraversai la spiaggia in cerca di Amador Escajadillo per raccontargli tutto quello che era successo, sarò diventato pazzo?, stavo per raccontargli tutto, quando...

Lo vedemmo tutti e due. Un vento inspiegabilmente freddo, era febbraio, spinse la porta di lamiere inchiodate della casupola, sparse la sabbia e attirò come una calamità la donna verso la spiaggia. Stavamo per servirci la solita acquavite come eravamo soliti fare prima della chiusura del ristorante, quando qualcosa, un movimento, un grido?,

ci distrasse, brillò di fronte a noi, là, attraverso la finestra, spuntando dalla casa di Babalù, il rosso di una gonna sco-lorita, fiammifero lanciato verso il mare che fende il buio. La vedemmo e uscimmo e corremmo invano: la sposa senza lo sposo entrava camminando nel mare, avanzava senza fretta, le braccia protese, ripetendo lo stesso gesto che pochi attimi prima, fuori di sé, aveva fatto mentre si avvicinava alla cassa di suo marito, l'avevo vista, credo di averglielo detto, ma lei non mi ascoltò, non entri nella cassa!, ma come le potevo dire una tale assurdità?, ma dovevo dirglielo, non credi?, e invece di metterla in guardia mi impaurii, lei suonava la cassa in modo strano, la vedevo dalla porta, senza percuoterla, toccandola lentamente come se accarezzasse la testa di un bambino, ti ho detto che non aveva potuto avere figli?, fu così che la lasciai, vicino alla cassa, mentre la suonava come se ac-carezzasse un bambino sul punto di morire. È meglio lasciarla sola, mi dissi, ed uscii nell'ombra-ombra.

Lei entrò. Dovevi dirglielo, mi diceva con ansia, così mi sembrava, il notaio Amador Escajadillo, mentre correvamo. Inutilmente. La sposa senza sposo, quasi sommersa dalle onde, si dirigeva, immobile, verso gli isolotti, appena una piccola macchia rosa, di lana, una macchia arancione, azzurra, di lana, e sparì oltre le rocce ricoperte di molluschi e di alghe...

Don Javier abbandona la cassa e ritorna sulla seggiola di fronte a me, dischiude le labbra, si pente, osserva le proprie mani che si muovono incerte sul tavolo, come se volessero trattenerlo nell'aria polverosa e palpabile, finalmente parla:

— Su quella diga di Porto Eten, ogni ultima domenica di febbraio, nell'ora in cui la notte sta per finire, quando il mare ha smesso di discutere e si riconcilia con la scogliera irata, lì risuona nitida la cassa di Babalù. È lo stesso suono che io ho ascoltato quella volta, ma adesso si sentono chiaramente anche i rimproveri, le gioie, i lamenti di una donna che arde di desiderio.

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Poi Don Javier fa una pausa, si accarezza la barba rada e mi osserva distratto:

— Questa storia che i pescatori di Porto Eten com-mentano ancora e che forse un giorno mi deciderò a rac-contarti, è una delle tante storie che compongono la tua vita, che formano la nostra vita dall'aria. Anche se non lo sappiamo, anche se non riuscirò mai a raccontartela, anche la vita di Babalù, dall'aria, dalla memoria che non si può ricordare, dirige la tua vita. Per questo non ha nessuna importanza che tu la conosca o che la dimentichi. Un giorno te la racconterò tutta. E se tu vorrai, se tu sarai in grado, potrai rendertene conto da solo. Se vai a Porto Eten e vedi ballare qualcuno al ritmo di una cassa, te ne renderai conto. Perché ogni volta che, là, qualcuno balla con violenza e dolcezza, come ballano i negri, le onde riprendono a suonare dalla cassa; in un momento dato, il suonatore l'abbandona, come se le sue mani fossero morte, e il ballerino continua a ballare lo stesso seguendo il ritmo del mare, del mare che esce dalla cassa vuota e che sembra che qualcuno stia per sfondare, e se tu lo domandi in giro, ti diranno che è Babalù, Babalù che aveva chiesto di essere sepolto nel mare, e tu lo sentirai ritornare dalle spume della cassa, e andrai sulla spiaggia e là, nell'oscurità lo sentirai, Babalù che ritorna attraverso il ritmo di legno del mare...

Improvvisamente Don Javier alza la testa e cambiando tono di voce, con grande agitazione:

— Puoi rendertene conto subito! Poi si alza di nuovo e si siede sulla sua cassa: — Guarda, neanche io percuoto il legno, guarda come

lo tocco dolcemente, lo vedi...? E da dietro un amaro sorriso Don Javier fa uscire un

canto:

Landò, landò, stella nera e schiuma, landò, landò, schiuma nera e zucchero, landò, landò,

zucchero nero e candore, landò, landò, candore nero, landò. Abbi cura di te, landò, ricordati da dove vieni, non permettere mai, landò, che il tuo fuoco si plachi, non ardere invano, landò, ballando quanto conviene, ricorda sempre, landò, che hai solo catene, che non sei libero, landò, per quanto ti dimeni. Dammi la danza, landò, dammi i seni e il ventre, dammi fiducia, landò, fa che la mia sicurezza non vacilli, riusciremo a ballare, landò, i balli che ci spettano, all'aria libera, landò, anche se ti graffi la fronte, con le stelle, landò, in piedi contro la corrente. Dammi la mano, landò, che il mio machete non vacilli! Landò, landò, stella nera e schiuma, landò, landò, schiuma nera e zucchero landò, landò, zucchero nero e purifica, landò, landò, purifica, nera, e illumina landò, landò, illumina, nera, landò. Caramellami, Carmela, Carmela, Carmenlandò! Landò!...

E lasciandosi andare al ritmo, con il busto che ripete movimento: — Io non suono la cassa, la navigo! Le sue mani suonavano tra le ginocchia aperte, si al-

il

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zavano e si abbassavano, senza coincidere e senza con-traddirsi come se fossero il diritto e il rovescio di una stessa cosa, i due lati di un remo che sale e che scende:

— Io accarezzo il volto della morte! E chiudendo gli occhi, raccogliendo armonie, equili-

brate dissonanze che gli nascevano col movimento delle spalle, armonie che scendevano serpeggianti lungo le braccia tatuate di stranezze, di cicatrici, cadenze che fluivano chiaramente dalle dita rimate:

— Io abbraccio il mio amico Babalù! E improvvisamente calmo e con la faccia scura: — Non so più suonare come mi ha insegnato lui. Da

quando è morto, ho cominciato a suonare così, come hai appena visto, in modo diverso.

E sedendosi di nuovo di fronte a me: — Inoltre... E indicando il secchio di cedro scurito: — Questa è la cassa di Babalù.

Ivàn, nel suo distacco diffidente, proprio di chi vive proteggendo qualche ricordo, mi guardò suo malgrado, al-larmato direi, mentre avanzava lungo il sentiero che viene dal Mapuya. Più che da diverse persone sembrava abitato da diverse vite, come se le parti del suo corpo avessero volontà divergenti che lui, agli occhi degli altri, armonizzava in una sola esistenza. Perché obbedendo al suo sguardo, il suo viso si rassegnò a sfuggirmi. Poi le sue spalle si girarono verso il sentiero. Di malavoglia si girò anche il petto e infine, come gatti consenzienti, le gambe. E con le gambe i piedi, come una coppia che, senza far rumore, litiga e poi si riconcilia e litiga di nuovo, che calpestarono silenziosi gli arbusti e i rami fatti polvere. E mi disse:

— Ho sentito il tuo sparo. E sempre senza smettere di camminare:

— Per questo sono venuto a cercarti. Seguii Ivàn sudando, cadendo, graffiandomi, pieno di fango e di ferite, la schiena a pezzi e sanguinante, assalito

da nugoli di insetti ed era sempre il mio sangue ad attirarli e mai quello di Ivàn e Ivàn imperterrito continuava a camminare e vidi la luna in pieno mezzogiorno sapendo che non era la luna vera ma il suo riflesso sulla mia stanchezza era la risata dì Narowé il primo uomo che mi guidava dal fondo del fiume e mi dissi è un'allucinazione svegliati, mi dissi, svegliati mi disse Juan Gonzalez, devi camminare e io gli dissi come se non c'è la strada sotto i miei piedi, perché stavo in alto e guardavo la terra piccolissima e Juan Gonzalez insisteva devi continuare a camminare spingendomi con la sua mano tiepida e profumata come fiore di tzangapilla ed io mi svegliai e la mano di Juan Gonzalez sulla mia spalla non era un fiore ma un vampiro che mi stava succhiando in silenzio svegliati mi dissi e mi svegliai e più avanti vicino atta tzangapilla vidi l'apparenza di Ivàn e mi precipitai verso di lui abbandonai il mio corpo sul sentiero squallido diretto verso quel muro di bambù e di colonne di fumo e senza forze per pensare pensai di essere arrivato a un fiume grande mi sarei salvato ma il fiume mi dissi il fiume deve essere l'Urubamba il Willkamayu il Fiume Sacro degli Inka perché io possa risalirlo fino alla cima risalirlo quattrocento anni indietro fino a prima dell'arrivo dei conquistatori spagnoli virakocha e capii allora che Ivàn mi stava contagiando con la sua persona fatta di varie vite e potei distinguere le vite del mio corpo e mi resi conto che la stessa cosa succedeva anche con la mia memoria con le mie memorie proprio come aveva predetto Don Hildebrando a Pucallpa e capii che quel tratto di selva non era impietoso era un battesimo che mi veniva imposto per raggiungere Ivàn per diventare come lui non so come diventare tutt' uno con la selva una sola esistenza con il bosco e con gli animali e le pietre con tutti gli abitanti del bosco. E in quel momento non sentii più la stanchezza e le mie gambe si alleggerirono e scomparvero gli insetti e continuai a camminare ostinato ma con gioia, l'aria non scarseggiava più, le boscaglie erano diverse e il sole abbassava la voce fa-

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cendosi più tenue, più fioco di una luce, quando raggiun-gemmo gli altri della spedizione.

Steso per terra, la schiena appoggiata tra due rugose ali di una lupuna, l' amawaka mordeva un quieto sorriso. Alla sua destra, in mezzo alla radura imposta dalla lupuna frondosa, Cèsar osservava Féliz Insapillo che, in piedi, offrendo il viso al mio sguardo e a quello di Ivàn, stava parlando.

Ivàn, la camicia sporca di aculei, di sangue, di ragnatele d'alberi e frammenti di pioggia, si fermò davanti a loro e girò la testa per guardarmi. O meglio, per non guardarmi. Don Hildebrando sostenne che non era Ivàn che mi guardava ma la sua anima, gli occhi della sua anima che finalmente mi davano il benvenuto.

— Ma tu non mi ascolti, amico Soriano, sembri assente. — No, non è vero. — Sicuramente starai pensando alla storia del capo

Inganiteri, alla storia che mi ha raccontato Inganiteri... — No, non è vero, Don Javier, dico mentendo di nuovo, e

Don Javier mi scruta penetrante: — Sì, stai pensando ai campa, agli ashaninka di tanto

tempo fa... E così?... E con uno sguardo penetrante: — Sì, stai pensando a Juan Santos Atao Walpa, quando si

ribellò ai conquistatori spagnoli! Qualcuno che non era Don Javier ma che in realtà era Don

Javier, occupava il suo corpo seduto su una sedia nel bar dell'Hotel Tariri, quel corpo che non riuscendo a contenerlo lo faceva uscire dalla sua bocca di sonnambulo:

— Per gli ashaninka che conservano il fuoco della grande ribellione contro i virakocha, Juan Santos Atao Walpa non è mai morto, il suo corpo si è dissolto in fumo, si è dissolto tra le cime degli alberi dentro un cushma gialla dopo aver promesso che sarebbe ritornato...

Don Javier parlava in modo strano come se recitasse

un testo o come se leggesse. Arrivai a pensare che stava ripetendo parola per parola quello che qualcuno gli dettava chissà da dove.

— Sto guardando il sole dei miei antenati, questo pozzo murato dove ancora vigilano le loro voci eterne!

— Non capisco, Don Javier, gli volevo dire, ma i suoi occhi chiusi mi spaventarono e la sua voce che non era la sua voce continuò a dire: — Antenati dalla pelle verde che amavano con ferocia e combattevano con tenerezza e si mangiavano tra di loro come se niente fosse, indifesi si terrorizzavano sentendo le lontanissime orme degli animali! Tutto il tuo luminoso esercito di un tempo oggi offuscato! Resti della tua risata pietosa giacciono sotto gli zoccoli di un cavallo di ferro!... Oltre nevi minacciose, lontano da noi, uno strano paese fatto di sete e di niente precipita sul cielo come elemosina grigia, ma dalle tue spalle si alzano boschi e piove! E piove ancora sul tempo come su un tetto!... Il sole cade ancora, Juan Santos Atao Wallpa, dalla tua giovinezza!... Siamo vivi! Guarda! Siamo vivi!...

Félix Insapillo, in piedi di fronte alla lupuna, stava parlando con Cèsar. Bere ayawaska, gli diceva, la prima volta che ho bevuto ayawaska, ho visto il volto delle due persone a me più care, non posso rivelare i loro nomi, e che in quel momento stavano lontano, a Cusco. Ho visto solo i loro volti, nitidi, con quella risata che ti fa piangere. Enormi facce ridenti, grandi come il mio corpo, l'una accanto all'altra. E poi, sempre la prima volta, ho visto scomparire il mio padrino, Don Javier, che stava seduto di fronte a me, vedevo solo il suo posto vuoto e alle spalle un rogo di vasi antichi, di farmacia, azzurri, arancioni, smerigliati. Poi ho visto che io mi alzavo e che uscivo per vomitare, mentre un corpo che era il mio continuava ad occupare la mia seggiola, ed io uscivo e vomitavo fiori di tzangapilla che si assottigliavano, che si trasformavano in serpenti a due teste, kotomachàcuy che usci-

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vano dalla mia bocca e svanivano nella selva lasciando una scia triste, di tristezza, una bava viscosa e giallastra. E ho visto anche i miei organi interni, il cuore, lo stomaco, i polmoni, gli intestini, ne vedevo il funzionamento e poi la morte. Mi sono visto in una grande stanza. C'era una veglia funebre, ogni bara era occupata da un amico, gli occhi chiusi su uno stesso volto, sul mio volto. E improvvisamente mi sono trovato in mezzo a un lago gigantesco, su una piroga a un solo remo che io non sapevo usare, mi seguiva una fila di coccodrilli, e i coccodrilli avevano gli occhi più grandi del corpo, e il sole tramontava più avanti, e io non avevo nessun punto di riferimento. La prima volta che ho bevuto ayawaskha, ho sentito che parlavo con una voce amplificata, come la voce di Raul Vàsquez quando canta nel Coliseo Cerrado di Iquitos, ho sentito la mia voce fuori di me, lontano dalla mia gola. E mi sono visto tutto intero, steso sul pavimento. E poi ho rivisto il mio padrino, brillava sotto una cushma di lucciole e poi, man mano che parlava, diventava grigio, sì scuriva e sì spegneva. Se stai lottando contro un ostacolo, mi diceva, la fiamma ti debilita. Se c'è un fuoco vicino, la tua difesa si indebolisce. Per questo non bisogna fumare molto. Non bisogna accendere i fiammiferi durante l'ayawaska. E vedevo che sì riempiva di rughe e cantava come un vecchio. Visioni, venite! Così cantava, mentre lentamente si trasformava in una donna con una voce da bambino appena nato, che cantava come un adulto, un adulto appena nato nella voce dell'icaro. Ayùmpary, ayùmpary!, cantava. E poi ho visto il Maligno, l'ho visto tre volte in una stessa notte, era sempre vestito allo stesso modo, arrogante, spattine da ammiraglio, volto da cane ammalato, giubba neroazzurra con code da pinguino e pantaloni rossi e camicia ricamata, con fronzoli ai polsini, e con una incredibile barba, una barba di acciaio, come l'armatura dì un conquistatore spagnolo. E nello stesso tempo, lo vedevo con i capelli lunghi raccolti in una treccia, e il poncho corto, identico al disegno di Atawallpa sui libri di scuola. Sì, il Maligno, nella mia prima visione di ayawaskha, era

Atawallpa, quell' inka bastardo che aveva aiutato gli spagnoli virakocha contro suo fratello, il legittimo Inka Wàs-kar, e aveva una spada molto lunga, lunga e sguainata, e recideva teste come fiori, colli come gambi di tzangapilla, caldi. E gli occhi del Maligno, tutte le volte che l'ho visto nella mia visione, gli occhi del Maligno erano rossi e brillavano con un luccichio a forma di croce, come le vipere...

Don Javier, socchiudendo le palpebre in un gesto in-terminabile: Non è di questo che ti voglio parlare, ma di un vecchio negro, Alfonso Cartagena, ormai morto. Alzò gli occhi e la sua testa cominciò a disegnare dei cerchi nell'aria, girando come se si avvitasse al collo imperturbabile. E, come se fosse appena ritornato, questa volta con la sua voce, Don Javier:

— Ti mentirei se ti dicessi che ho conosciuto Don Alfonso Cartagena. Nessuno l'ha mai potuto conoscere. L'ho sempre visto da lontano. Da bambino andavo con mio nonno a trascorrere le vacanze a Las Salinas, vicino al paese di Chillca, a sud di Lima. Il vecchio Cartagena viveva oltre lo stabilimento, dietro la terza laguna di acque spesse e verdi, in una grotta immensa che si apre verso il mare. Nella parete in fondo alla grotta, il suo letto, un letto di pietra azzurrognola e porosa, sfiorava quasi il tetto. Ogni volta che il vecchio se ne andava zoppicando sulla spiaggia con l'amo di metallo e una vecchia scatola di cartone ad aspettare l'incerta fortuna di qualche pesce distratto, io e la mia banda di amici ci avventuravamo nella penombra muschiosa umida della grotta. Non riuscimmo mai a scalare il suo letto. Ai suoi piedi, circondato da tre candele spente, brillava un bicchiere d'acqua in bilico su tre monete di rame, vecchie, di quelle che oggi non esistono più. Non osammo mai alterare quella disposizione, pensavamo infatti che si trattasse di un altare malefico. L'unico medico del paese, uno stregone mulatto che si chiamava Baldomero, ci disse che sul vecchio Cartagena non si poteva sapere niente.

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— Gli alberi non sono né padri né figli — fu quanto riuscii a strappare a Baldomero. Nonostante tutto, per l'indiscrezione non so di chi, venimmo a sapere di una visita che il vecchio gli fece in gran segreto. All'ombra bagnata della capanna dello stregone, Alfonso Cartagena parlò a lungo e in tal modo delle proprie pene e della propria solitudine che Baldomero non potè fare a meno di trasferirgli dei poteri.

— Fabbrica una cassa di cedro, e poi ancora un'altra cassa di cedro, si dice che gli disse. E sicuramente fu così, perché il giorno successivo a quell'incontro si buttò in un lavoro quasi disperato. Con amore e con accanimento tagliò otto tavole di cedro, le levigò con affetto, e le lucido a tal punto da far invidia a uno specchio, con insospettata ostinazione vinse la diffidenza delle tavole maltrattate che alla fine accettarono di macerarsi in una tinozza, nel vino che lui stesso aveva portato da Chincha, terra famosa per le donne, i ballerini, gli stregoni e i vigneti. L'ultima domenica di quel marzo, a mezzanotte in punto, tirò fuori dalla tinozza rossonera quattro tavole, le sciacquò nel mare e le curò infondendo loro la forza della Yanachaska, che in lingua quechua significa la Stella Nera Dell'Alba, e in spagnolo viene svilita col nome di Venere. Affinchè la sua prima cassa fosse degna delle potenze dell'alba, seguendo i consigli del fattucchiere, il vecchio Alfonso Cartagena disegnò sulla sabbia il seguente icaro...

E su un tovagliolo del bar dell'albergo Don Javier disegnò con l'inchiostro nero:

L'ho visto con i miei occhi, mi disse. Le linee del disegno, una volta incise, anche se in modo invisibile, sulla superficie della cassa, sono poi state cancellate dalla risacca. Ma Venere, L'Astro Dell'Aurora, aveva già conferito attraverso l'icaro il proprio carattere allo strumento che si sarebbe trasformato in donna. Perché il primo discendente di Alfonso Cartagena fu una donna, si chiamava Rosaluz e fu cargada con la forza di Yanachaska, La Stella Nera dell'Alba. Il secondo, fu un uomo, si chiamava Be-njamìn e fu cargado con la scontrosità del mare. Quella stessa notte, ritornato nella grotta, il vecchio accese le tre candele che proteggevano il bicchiere in cui abitava l'Anima Sola. Baldomero mi disse che il nome-nome dell'Anima Sola è Elegguà, divinità che aveva accompagnato gli antenati schiavi quando venivano portati dall'Africa...

Don Javier si interrompe, prende fiato come se respirasse chissà quali amari ricordi:

— Sembra che poi non li portassero più gli schiavi. L'Europa proibì la schiavitù dei labbroni, così mi disse Baldomero, ma i suoi mercanti aumentarono il commercio degli uomini. Se una nave negriera era sorpresa da qualche pattuglia in alto mare, i trafficanti, per non essere multati, buttavano in acqua la gemente mercanzia di corpi e di catene. Baldomero mi raccontò che il fondo dell'Oceano è ricoperto dalle ossa e le catene di migliaia e migliaia di nostri antenati. E mi disse che, quando quel commercio non fu più un buon affare, i nostri impresari virakocha, con la furbizia che ancora li caratterizza, scoprirono un altro modo di far fruttare i loro investimenti, che non era certo un rimedio vero e proprio ma che li risollevò. Decisero di non importare più gli schiavi e di fabbricarli sul posto, evitando così il rischio di ulteriori multe o perdite. Facevano venire soltanto stalloni, animali da riproduzione, femmine e maschi forti ed efficienti. E l'America fu umiliata da un'infinità di fabbriche di schiavi. I nonni di Alfonso Cartagena sono nati nell'attuale Colombia, sulle rive del fiume Maddalena, partoriti in un riparo per le bestie, anzi peggio. È per questo che il vecchio Cartagena pe-

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scava solo dalla riva, e mai dalla barca, non entrava mai nell'oceano... Ma ti stavo dicendo che il vecchio accese le tre candele, con il rituale del fumo unì i suoi figli, li unì con il rituale del fumo sull'acqua racchiusa, contenente ossa e catene, in cui vive Elegguà. Mi venderà, mi venderà, così dice un canto di quell'epoca, mi venderà, che vita farò, e un'eco di ombre, di silenzi sommersi nel mare, gli fa da coro: la Vergine del Carmine ti salverà. E quella stessa notte Benjamìn e Rosaluz diventarono marito e moglie. Il padre li esortò a cercare di essere felici.

Sono nato sulle spiaggie del Magdalena, sotto l'ombra di un payandé. Mia madre era una schiava negra, e lo stesso marchio toccò anche a me, così dice la canzone: Quando sono solo verso sera alzo gli occhi e prego Dio, ma luì ascolta solo il padrone nonostante il cielo sia del mio stesso colore. E mentre stava spuntando il giorno il vecchio Cartagena se ne andò sulla spiaggia. Non si sa se entrò nel mare o se si dissolse lungo il percorso. Il fatto è che non lo vedemmo più. La sua grotta venne occupata da una giovane coppia. La schiavitù è stata proibita da molti anni, molti anni, la schiavitù è stata proibita ma noi continuiamo ad essere schiavi. Così dice la canzone. Oggi ci flagella il salario, mi venderà, i figli dei padroni ormai non hanno bisogno di navi.

Gli occhi di Don Javier si affilano nella luce del mez-zogiorno, scavano nell'aria, come sotto il mare, altre parole:

— Passarono giorni e giorni. E per ogni giorno diverse notti, perché eterne erano le notti in quella grotta in cui i fratelli si abbandonavano all'amore. Più di una volta l'imprudenza mi avvicinò alla grotta. Accovacciato dietro una roccia, senza vederli, li ascoltavo: ascoltavo i suoni che Rosaluz e Benjamìn emettevano dalla penombra dell'interno. Nella mia inesperienza di bambino cercavo di capire e mi spaventavo, immaginavo voci di agonizzanti,

lamenti di affogati, storie di accoltellamenti, di pirati, di atroci delitti e di antropofagi, lì dove non accadeva altro se non i fatti dell'amore, dove non si sentiva altro se non il silenzio febbricitante, felicemente colpito da eccessi in-nocenti, contaminato solo dalla musica dei corpi nudi e del mare. Finché un giorno Rosaluz si ritrovò ombra. E di Benjamìn non sapemmo più nulla. Il fattucchiere ci disse in seguito che il letto di pietra si era rotto e che dalla fenditura era sgorgato un piccolo corso d'acqua, tutti lo potemmo constatare, ma il resto della storia che ci volle propinare ci sembrò tutto inventato: che da quel corso d'acqua era sorta l'Anima Sola, Elegguà, e con armoniose fattezze di femmina aveva sedotto Benjamìn mentre Rosaluz dormiva e che il giovane era entrato nel ruscello infilandosi nella fenditura del letto di pietra, e si era perso tra delizie e correnti. Rosaluz lo chiamò per notti intere, prima triste, dolce, supplicante, poi con una collera senza limiti. Secondo lo stregone le tempeste che avevano sconvolto il paese durante l'estate, nascevano dalla furia della sposa-sorella indignata. La ragazza scomparve poco dopo. Baldomero ci mostrò i resti di un falò nella grotta, e ci volle far credere che Rosaluz si era data fuoco...

Don Javier si interrompe e respira profondamente; poi con lo sguardo lontano:

— La casa di mio nonno si ergeva di fronte alla prima laguna, la più grande e la più allegra di Las Salinas, a diversi chilometri dalla grotta, eppure, in quelle diurne notti della mia infanzia, riuscivo a sentire vicinissima l'ul-tima protesta di Rosaluz, le sue grida e i suoi lamenti, il quotidiano incubo del suo corpo tra le fiamme.

E distogliendo lo sguardo dalla porta, dall'aria d'oro brunito che si offuscava trasformando tutto in cenere, là sulla strada, dietro le finestre dell'Hotel Tariri:

— Ma tu non mi ascolti, sembri assente. Sicuramente stai ancora pensando a Inganiteri. Ti chiederai forse che cosa c'entra tutto questo con la storia di Kaametza e Narowé che tu vuoi sentire!...

— Non è vero, Don Javier, mentii ancora una volta.

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la migliore formula per ridurre teste

— Si sono dette e si continuano a dire un'infinità di menzogne a proposito degli tzipìbo, degli ashaninka, di tutte le nostre popolazioni. Che gli amawaka mangiano le persone. Che i machiguenga uccidono i figli gemelli. Che la moglie di uno shapra è contemporaneamente la moglie di tutti gli shapra. Che i cashibo fanno a pezzi i corpi dei prigionieri in feste orribili che durano intere settimane. Che gli stregoni aguaruna sono figli del male: si trasformano in serpenti o tigri per sterminare caucheros petrolieri, soldati. E altre calunnie si raccontano a proposito dei bora, dei kulina, dei piro, dei witoto. Che i Jìbaro, tra le altre atrocità, riducono teste umane senza alcun motivo, per puro divertimento, solo perché sono selvaggi, con una ferocia superiore a quella degli animali più feroci...

Félix Insapillo, mentre parla, si è ingigantito sotto l'ombra della lupuna:

— Quasi sempre chi si riempie la bocca con queste falsità, lo fa o perché gli conviene, o per ignoranza. Mentono per impotenza, per risentimento, perché le nostre popolazioni non si sono mai sottomesse ai virakocha, né alla loro religione né alle loro usanze di falsità, ambizione e saccheggio. Sono loro, discendenti degli stranieri, che non hanno saputo vivere per la vita, che hanno vissuto solo per l'oro più vile, servo della carne, proprio loro, eredi del furto, del traffico di schiavi, di fortune simili a case tristi, senza sentimento, costruite non sulla terra ma

sulle ossa di migliaia di esseri umani, sono loro e non i jìbaro i veri barbari...

Félix Insapillo entra ed esce a scatti dal fondo di un silenzio breve e con maggiore veemenza, sempre rivolto a Cèsar:

— Dimmi, non è forse vero che i virakocha hanno costruito da poco dei forni per bruciare la gente, hanno assassinato, a milioni, bambini, donne, uomini, vecchi, senza pietà, milioni, nei modi più atroci, sotto docce che gettano veleno invece d'acqua, non è vero? Non è vero che tutto ciò è successo di fronte alla falsa cecità, al consenso dei giudici, delle autorità, dei sacerdoti virakocha, complici, addirittura peggiori degli stessi assassini? Dimmi se sono loro i civilizzati, e i nostri jìbaro i barbari...

Il penultimo sole penetra sfilacciato, attraverso il gro-viglio di rami che intreccia la cima della lupuna e le fronde degli alberi che circondano la radura, accendendo di rosso, d'arancione, di riverberi impossibili, schizzi di oscura spatola, i volti di Ivàn e di Cèsar, la figura del bambino amawaka appoggiato tra le ali dell'albero gigantesco. Félix Insapillo alza gli occhi verso la luce e recupera la sua calma:

— Sono vissuto con i jìbaro, so come stanno le cose perché le ho viste. È vero che riducono teste, ma solo le teste dei nemici caduti in combattimenti corpo a corpo secondo le regole. Un guerriero jìbaro ha diritto a ridurre soltanto la testa di quel contendente che lui stesso ha ucciso combattendo, che ha saputo vincere senza inganni né imboscate, attaccandolo da pari a pari, previa dichiarazione di guerra e con armi identiche. E non tutti i nemici morti in questi scontri, ne ho visti diversi, non tutti si rendono degni di essere decapitati e ridotti. Vengono scelti i più coraggiosi, i più forti e agili e pieni di virtù, solo per questi il fattucchiere jìbaro dà l'autorizzazione; ne sono testimone, ho assistito a interi riti sulla riduzione di teste. Non è una questione di normale amministrazione. È una cerimonia religiosa, sacra, di grande rispetto, che comporta un certo pericolo per chi la compie...

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— Deriva da un culto magico, suggerisco con un tono interrogativo più che affermativo, ma Félix Insapillo mi ignora completamente.

— Per loro, ridurre una testa, il trofeo di guerra, è un gesto sacro, l'ultimo di un processo rituale che comincia molto prima del combattimento. I jìbaro rischiano la loro vita non soltanto nel momento in cui combattono, la rischiano due lune prima e una luna dopo lo scontro, la rischiano durante i preparativi, proteggendosi dai malefizi del curaca avversario, la rischiano per giorni in un combattimento leale, la rischiano catturando le teste sotto una pioggia di frecce, dardi avvelenati, magie infallibili, lance icaradas, e grida di guerra. E non solo rischiano la vita varie volte, ma ogni volta rischiano varie vite. Perché quando si scontrano due popolazioni della selva, più che i combattenti, che possono vedersi con gli occhi ed evitarsi o imporre il loro coraggio o la loro destrezza, più che i combattenti, lottano i loro stregoni e le anime complici degli stregoni, e lo fanno da lontano, dall'aria che sta lontano e vicino. Gli stregoni si avventano con tutti i loro poteri da due arie inconciliabili, sapendo — come sanno — che in ogni uomo morto morirà più di un uomo, l'ani-ma di quest'uomo sarà rubata dallo stregone avversario e il corpo di quell'anima non troverà più riposo, gli sarà negata la stessa morte, non potrà visitare nessuna delle esistenze passate o future, nessuna delle case delle morti che vivono nell'aria. Dall'esistenza di quest'uomo, abitato da tante esistenze diverse, dal suo mondo che è allo stesso tempo tutti i mondi invisibili che coabitano nel mondo visibile, saranno estirpati i ricordi migliori, le migliori facoltà, la possibilità di occupare un'altra vita, di proseguire e perpetuarsi in qualcosa, un albero solitario, un sasso, un uccello, il volo di un qualsiasi uccello. E gli sarà proibito anche qualunque ritorno, non esisterà più né in un bambino, né nel ventre di una donna, né nel desiderio del primo avere, del primo essere, del primo essere stato. Quest'uomo già vedovo di se stesso, privato della sua anima, non potrà essere neanche quello che dovrà essere...

Félix Insapillo fa una pausa ed io e Ivàn ne approfittiamo per sederci vicino al bambino amawaka, al riparo biancastro della lupuna. Mi sembra di intravedere un'altra faccia dietro i lineamenti di Insapillo, come se qualcuno che non è lui, ma che è lui, stesse scorrendo dalla sua bocca. Poi, la nostra prima guida, degradata a narratore, riprende la sua rigida posizione e con il solito stridio che emette la sua gola, continua a parlare incurante di noi come se Cèsar Calvo fosse l'unico presente:

— E nel momento in cui riducono le teste devono affrontare altri pericoli. Perché questo è il momento in cui lo stregone dei vinti attacca con maggiore forza, in cui fa il possibile per riprendersi le grandi anime che proteggono le piccole anime dei decapitati. Ogni guerriero jìbaro mette il suo trofeo con la bocca rivolta verso l'alto e si inginocchia per terra di fronte alla testa catturata e la preme con forza, verso il basso, con tutte e due le mani. Guerrieri e teste formano un semicerchio di silenzio, di ombre che lo stregone jìbaro attraversa con salti improvvisi masticando tabacco e soffiandone il succo nelle narici degli uomini. Uno dopo l'altro, con il succo del tabacco, e con icaro, li immunizza e li rende invulnerabili ai malefizi dello stregone avversario che nello stesso momento, con ogni probabilità, starà utilizzando tutti i suoi poteri per impedire che i jìbaro, mentre riducono le teste dei decapitati, ne sequestrino l'anima e le proprietà. Una volta ridotta la testa, separata per sempre dal corpo, lo spirito che vi risiedeva è condannato a rimanere per sempre separato dallo spirito che viveva nel corpo. La sua testa, infatti, non sarà sepolta nella stessa terra, perché se lo fosse, anche se lontano dal corpo, la terra potrebbe riunirli. Se lo stregone avversario riesce ad impedire la riduzione e le teste sono sepolte intatte, ognuna avanzerà inesorabilmente finché non avrà ritrovato il proprio corpo e ad esso si sarà riunita. Ma se lo stregone nemico fallisce e le teste vengono ridotte, i jìbaro si appropriano della parte migliore dell'anima di quei corpi che hanno lasciato

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sul campo di battaglia, e si impossessano anche della parte migliore dell'anima delle teste che hanno portato in trionfo.

E per la prima volta con lo sguardo rivolto su di me anche se con una espressione assente, Félix Insapillo con-tinua:

— La prima cosa che fanno per ridurle è separare la pelle, i capelli e la carne dal cranio. Ogni guerriero prende il suo trofeo e pratica un taglio dall'alto in basso, diritto, lungo la nuca, con un coltello di palosangre e di osso, di osso vecchio, di quelli che si sono già trasformati in pietra...

— E Kaametza scoprì dentro di sé una paura immensa, capì quanto vicina fosse la morte. E senza rendersene conto, inconsapevole del suo gesto, strappò un osso dal suo corpo e stringendolo come un pugnale appena affilato, colpì l'otorongo alla gola — mi dice Don Javier. A questo punto, lo ricordo bene, il mio amico Inganiteri interruppe il racconto e chiuse gli occhi e tacque, immobile, ascoltando non so bene cosa, qualcosa che veniva dalla selva, dai corsi d'acqua che risuonavano lì vicino unendosi alle acque dell' Unine.

— E praticano anche altri tagli molto precisi all'altezza del naso, degli occhi, della bocca, per aiutarli a uscire, e poi piano piano strappano la pelle, i muscoli, finché la testa non rimane completamente pulita. È brutta una persona così ridotta, senza faccia, di sole ossa, che sanguina. Gli lasciano dentro soltanto gli occhi e la lingua, perché, ti chiederai...

— Certamente Inganiteri chiuse l'occhio perché non voleva continuare il suo racconto. Lo teneva chiuso e taceva. Forse nelle storie antiche c'è sempre qualcosa di difficile, di pericoloso, di proibito da raccontare, mi dice Don Javier.

— Poi il jìbaro cuce il taglio sulla nuca e gli altri che si sono resi necessari, cuce le cavità degli occhi, le palpebre vuote, e le labbra, tutto tranne il collo. Gli occhi vengono cuciti molto stretti affinchè niente di quello che ha visto il morto possa fuggire verso l'aria e dall'aria ritornare alla natura. Affinchè tutto ciò che ha conservato nei suoi occhi durante la propria esistenza, possa essere trasferito e depositato in quelli del suo uccisore. Le labbra vengono cucite più volte, sigillate quasi, più per paura che per collera, per non far uscire neanche una parola, neanche un respiro. I jìbaro sanno che il fiato delle parole, che mette in movimento delle forze, dice Don Hildebrando, il fiato delle parole è l'unico a resistere di fronte a qualsiasi scongiuro, l'unico che riuscirà a liberare l'anima-della-testa e a ricongiungerla all'anima-del-corpo. Cucendo bene le labbra succederà il contrario: il silenzio della testa attrarrà l'anima del corpo lontano, l'unirà con l'altra anima che è stata tagliata, ma sarà un'unione in piccolo, nel senso che il corpo sarà ridotto come la testa, per suo volere, e così rimpicciolito si riunirà nell'anima. Solo allora lo stregone jìbaro avrà tutto sotto controllo, nessuna forza sarà sprigionata contro di lui dall'aria perché mancheranno le parole. L'unica apertura che lasciano è la bocca senza lingua, senza parola, del collo. Così, dopo aver trafitto brutalmente labbra e palpebre con spine di wikungu, immergono le teste in grandi pentoloni di argilla pieni d'acqua di fiume messa a scaldare sul fuoco. Le teste devono essere tolte nel preciso momento in cui l'acqua, bugiarda, fa credere di star bollendo ma non bolle ancora. Se qualcuno si distrae e l'acqua bolle veramente, la testa si rovina, cadono le ciglia e i capelli e le sopracciglia, e la carne si af-floscia, non serve più. L'ultima volta che l'ho visto fare, è andata a male solo una testa, le altre sono state tolte nel momento giusto. Mi ricordo che la testa andata a male era molto simile a una illustrazione dei libri di storia, quella dell' inka Wàskar, quel cranio in cui suo fratello, il traditore Atawallpa, aveva bevuto la chicha della vittoria credendo che fosse un Qero... I jìbaro, allora,

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attraverso l'apertura del collo introducono manate di sabbia rovente per ridare alla testa la forma perduta. Stirano e ristirano la faccia del trofeo con pietre piatte e molto calde, cambiano la sabbia diverse volte e a poco a poco, con le pietre più volte riscaldate, ricompongono il volto, riproducendo le stesse fattezze del morto come solo gli scultori sanno fare. Con il calore della sabbia e della pietra la carne suda, traspira grasso e acqua dai pori che si aprono, e la testa si rimpicciolisce, diventa più piccola di un pugno, piccola e grinzosa ma identica a quando è stata tagliata. Per modellare in piccolo la faccia del nemico il jìbaro passa ore e ore. Quando ha finito, l'opera non ha più nessuna importanza per lui, ormai gli ha tolto l'anima, l'ha espropriata dei suoi poteri, ormai l'anima-della-testa non potrà più unirsi all'anima-del-corpo. La testa senza anima e senza grandezza non ha più valore per il jìbaro... Questi sono i miei ricordi della prima seduta di ayawaskha offertami dal mio padrino. Questo è quello che ho visto. — Mio padre sapeva come si riducevano le teste, dice Ivàn Calvo. L'ha fatto più di una volta nelle selve del fiume Napo, tra i jìbaro dell'Ecuador, dove ha vissuto. È lì che ha imparato. Me ne ha parlato a lungo e nei minimi particolari. Le pentole di cui tu parli, Insapillo, sono pentole speciali, nessuno oltre allo stregone le può guardare e tanto meno toccare. Lo stregone ne ricopre l'interno con grandi foglie che solo lui conosce e che porta lui stesso, una dopo l'altra, nel luogo in cui si svolge la cerimonia, camminando praticamente tra ciechi. Prima di far ciò, lo stregone cura le pentole e con lunghi digiuni attribuisce loro dei poteri che poi sfuggono al suo controllo. La stessa cosa succede con l'acqua delle pentole, lo stregone la prepara con erbe e radici che non deve rivelare a nessuno. Inoltre, quello che hai detto sulla teste che una volta rimpicciolite non hanno più nessun valore, è vero e falso allo stesso tempo. Ogni jìbaro si vanta di tagliare lo scalpo e di conservarlo come il bottino più prezioso dal momento che gli altri misurano il coraggio dell'uomo dal numero di

scalpi che ostenta legati in vita durante le cerimonie reli-giose, le guerre o le feste...

Era scesa la sera e Félix Insapillo e Ivàn Calvo conti-nuavano a discutere: questa volta sulle abitudini alimentari dei grandi vampiri del Maranión. E non ci accorgemmo, loro perché parlavano, io perché ascoltavo, dell'assenza del piccolo amawaka, dell'inviato che adesso, con sollievo, vedo ritornare con la più allettante delle compagnie, tenuto conto della fame che mi tortura. Ritorna, infatti, trascinando un piccolo coccodrillo bianco e tenero, molto tenero, lungo poco meno di due metri, che scuoiamo e arrostiamo e assaporiamo increduli, si tratta infatti della carne più saporita che io abbia mai mangiato in vita mia. Poi, per nostra fortuna, per la prima volta da quando siamo partiti da Atalaya, possiamo fare a meno di dormire al riparo delle zanzariere. La notte sopraggiunge fresca, il vento terso mette in fuga insetti, timori, animali da preda e ci porta rumori profumati e piacevoli, linguaggi e svolazzi di ali di animali pacifici, musiche e passi, soltanto buoni ricordi.

Seduto sulla terra pulita, appoggiato a un tronco, respiro grandi certezze. Accendo un piccolo sigaro, l'ultimo, con l'ultimo fiammifero. La fiamma mi rivela e mi offre un paesaggio di una bellezza indescrivibile, bello con cattiveria, quella crudele innocenza con cui ci si concedono certi sogni, e persino certi amori, sapendo bene che sono irripetibili. Eppure guardo, atraverso la fiamma che sta per scottarmi le dita, guardo la selva, la notte della selva, come se fosse la prima, come se fosse l'unica notte della mia esistenza.

— Che ti succede?... Hai gli occhi velati, mi dice sor-ridendo, scrutandomi, Cèsar. Getto via il fiammifero e lo sento cadere nell'ombra, là, nel paesaggio che continua a stare qui, per noi, anche se non lo possiamo vedere. Riesco invece a vedere la voce di Cèsar che insiste rallegrando l'oscurità:

— Questo è il verbo giusto: velati. Sì: gli occhi velati, come se piangessero miele.

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fine della storia di Kaametza e Narowé che non ha fine

Un sole morente, svilito in quell'ora infima che indugia tra le ultime ombre del pomeriggio e le prime della sera, ci offre un chiarore senza luce delle finestre dell'Hotel Tariri.

— Non è vero, Don Javier, tornai a mentire. — Eppure, e tu lo sai bene, c'è una relazione tra i figli del

vecchio Cartagena e quelli del Dio Pachakamàite, e ancora di più tra Narowé e il mio amico Babalù. Deve esserci sicuramente. Non vedi che non esiste la casualità? Ogni cosa nasconde sempre un nesso con l'altra. Per poter scoprire il nesso occulto, le forze oscure, il filo invisibile delle cose, dei fatti e delle persone, bisogna meritarselo. Perché i conquistatori hanno squartato Tupac Amaru, il Sepente-Dio, e hanno sparso le parti del suo corpo lontane l' una dall'altra, verso i quattro angoli dell'universo che ignorava tutto, verso le quattro notti della casa del maestro Hildebrando? Mi capisci? Perché il corpo di Juan Santos Atao Wallpa, rifiutando la sepoltura, si è dissolto in fumo? Perché i quechua di oggi, nelle loro storie, parlano del dio Inkarri, del suo corpo di gigante fatto a pezzi, della sua testa sotterrata con tutta la capigliatura, nella sua grandezza naturale, alle falde del monte Wanakawre del Cusco, e delle sue membra separate che ogni anno avanzano nella terra e che un giorno si riuniranno con la sua testa di saggio? Dicono che quando accadrà ciò che deve accadere, il dio Inkarri, ricomposto, spunterà dal pas-

sato e riprenderà la sua antica lotta e restituirà la libertà e la terra a tutti gli indios del Regno del Perù. Ogni cosa ha un nesso con l'altra. E qui, nella selva, ancora di più. Questa terra è fatta di bellezze mai raccontate o raccontate così male che sarebbe stato meglio tacerle. Tu, per esempio, hai visto i disegni alle pareti dell'Hotel Tariri. Lo sai che sono copie di cushma e di mantelli dei nostri indio tzipìbo? Ma sono stati copiati male, da ignoranti. I disegni riportati su questi muri, rappresentano per chi li ha dipinti un puro fatto ornamentale, belle linee; ben altro è il loro significato per gli tzipìbo che hanno fatto gli originali. E anche per me, perché io ora so. Su ogni mantello gli tzipìbo con quelle stesse linee che sembrano capricci, hanno fatto un ritratto. Ogni disegno è il ritratto dell'anima di qualche parente, di un loro caro. Gli tzipìbo sono ritrattisti di anime, per questo nei loro poncho non troverai mai due disegni uguali, anche se a prima vista, agli occhi di un estraneo, possono sembrare tali. Guarda il disegno di questa parete, bello, no?, ai tuoi occhi certamente non è altro che un bel disegno. Io, invece, l'osservo sapendo ciò che è e ciò che è stato, sapendo che ogni linea che scende o che si ferma esprime una relazione, un vincolo irrevocabile con il comportamento e con i sentimenti, forze vitali o debolezze proprie dell'anima di ognuno. C'è un filo invisibile, dunque, che si può vedere, che si impara a vedere, ma non con gli occhi del corpo materiale. Io osservo i disegni di questa parete, ma in realtà non sto osservando una parete dipinta. Lì si riconosce nitidamente la faccia dell'anima di un uomo! Le fattezze della sua anima sono chiarissime!...

— Ritratti lineari, dissi come parlando a me stesso, sembrano mappe di città...

— Proprio così, esclamò. Proprio così, ritratti lineari! E non solo sembrano, sono mappe di città! Sì: le anime sono città in movimento! I disegni tzipìbo sono mappe, mappe di città boscose interrotte da fiumi impossibili e non da viali, labirinti di sentieri e non stradine ordinate, amori e dirupi e tristezze e pantani al posto di freddi giardini e ci-

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nematografi e strade alberate! Mappe di città, più che ritratti di anime! Case che si spostano, come i giorni della vita nella selva, come le case degli ashaninka che ogni anno si trasferiscono e bruciano le loro capanne e i loro campi resti-tuendo tutto alla macchia e ricominciano a vivere altrove, a costruire capanne, a seminare campi, e poi l'anno dopo bru-ciano di nuovo tutto e ripartono e rinascono. E non come le nostre città che appena nate conoscono già il loro futuro, in-catenate all'ossido dell'abitudine, sanno già come saranno i giorni e le case e le strade che li aspettano! Le nostre città civilizzate nascono morte, somigliano agli scheletri degli alberi giovani, uccisi dai vermi durante la crescita. Perché se l'obiettivo del cosiddetto progresso, delle cosiddette civiltà, è ottenere la felicità dell'uomo, senza dubbio è un obiettivo fallito. Gli ashaninka, i campa, invece, sono felici, vivono in armonia con la natura, con la natura del reale-reale e con la natura del reale-sognato, non contendono a nessuno lo spazio per vivere, e sono loro, dunque, e non noi, i civilizzati, i detentori del progresso, i vivi. Sono città vive, selve piene di porte inaspettate, aperte soltanto per chi le sa vedere, per chi le sa fare, varcare e meritare, nel sonno e nella veglia, porte invisibili tra la folta vegetazione e il pericolo costante, rischi che danno dignità, danni che fortificano!... E ci sono molte altre cose, molti altri rapporti che tu imparerai a poco a poco. Gli indio bora, un altro esempio, parlano con pifferi e tamburi. Un estraneo sente suonare i loro strumenti e percepisce solo dei suoni, ma per i bora la musica è linguaggio, le note musicali si intrecciano in parole precise, e per questo usano una segnografia decimale. Una segnografia de-cimal-musicale, pensa! Scrittura sonora e numerata, pen-sa!... Pensando a tutto questo, mi chiedo: non sarà che gli inka hanno raggiunto un sistema di scrittura così perfetto come, per esempio, la loro architettura, e poi hanno deciso di farlo scomparire per ritornare a quella forma di scrittura segreta e matematica suggerita dai quipu, l'unica che ora noi conosciamo anche se male? Quella dei quipu e quella dei pifferi e dei tamburi dei bora non è forse la

stessa segnografia decimale?... Quale rapporto ci sarà e che noi non siamo ancora in grado di conoscere, tra questi due popoli apparentemente così diversi e distanti nel tempo e nello spazio?... Che cosa vedrà, per fare un altro esempio, un campa o un tzipìbo, lì dove i tuoi occhi o i miei riescono solo a distinguere un nido di formiche ishinshimi, o un fiore di tzangapilla, o un mare di piccole luci nell'oscurità, lucciole, pupille di otorongo, così come il mio figlioccio Insapillo aveva notato migliaia di occhi morti dove altro non c'era per te, e per me, se non del muschio vecchio fosforescente sulla corteccia del palosangre morto, del shiwawako abbattuto che ci chiude il cammino come un muro! E perché gli indio piro da sempre conoscono il fiume Unine come " Zampillo Di Labbra Di Sangue " ? Credi che sia per i boschi di palosangre che costeggiano le rive dell' Unine quando confluisce nell' Ucayali? Non vedi niente altro?... Quale luna sepolta che risuona nel fondo del fiume vedranno quegli occhi lì dove i nostri distinguono solo un centinaio di lampade che si frantumano sulle cime frondose degli alberi! E quali voci lamentose e lontane sentiranno i loro orecchi lì dove tu senti, o io sento, una risata che scoppia salvatrice dal profondo della selva! Perché tutto quello che non è più, che è passato, conserva ancora una vita, si mantiene in una vita diversa immune agli amori e alle rovine del tempo. E quante esistenze contro il tempo vorrà essere una guida, un bambino amawaka, per esempio, quando dice che avrebbe voluto essere il corpo di una pallottola di fronte alla irrazionalità dei caucheros, e riuscì invece ad essere soltanto una lancia! Quando in cima all'albero sono stato pizzicato dalle formiche, mi sono sentito morire, dice Félix Insapillo, avrei voluto essere una palla per scendere più rapidamente!... Mi sono afferrato a una liana e sono scivolato tra le imprecazioni, non so come, la liana si è rotta, mi è rimasta in mano e sono precipitato per terra, in piena notte, non potevo sapere che distanza c'era dal suolo, e sono caduto in piedi, senza piegare le ginocchia, più teso di una lancia. Solo una lancia!, mi dice Don Javier, ci pensi? Non è assurdo suppor-

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re che gli inka, talmente eccezionali che noi oggi non ci possiamo neanche confrontare con loro, non abbiano saputo inventare una scrittura, neanche quella geroglifica?... Guarda qui, ho copiato un paragrafo del cronista spagnolo Antonio de La Calancha, scritto nel 1638:

In un luogo chiamato Cruz de Cailloma, gli indios arre-stano il cancro con un impasto fatto di piccole conchiglie e di un'erba speciale.

Ci pensi? Buona parte della loro scienza è arrivata a Ino Moxo di maestro in maestro e di secolo in secolo, in sedute di scambio di conoscenze, quei viaggi astrali di ayawaskha, sin dall'epoca degli inka, anzi, degli uru. Loro sapevano che una malattia è qualcosa di più di una malattia, come tutto ciò che esiste sulla superficie terrestre. È anche, soprattutto, una punizione. Non c'è malato senza motivo. Le malattie degli uomini non sono come noi, sempre pronti a perdonare le offese e mai a perdonare i favori. No, ogni male è una condanna, una punizione che riceve l'anima o il corpo di chi ha commesso qualche colpa con il corpo o con l'anima. Anche il maestro Ino Moxo ne è convinto. Lui afferma che tutto è meritato e per questo cura come facevano gli inka e gli uru. Ma forse non devo dirti altro. Quando lo vedrai, se riuscirai a vederlo, sarà lui a dirti che cosa puoi ascoltare, quali sono le cose che meritano di essere raccontate...

E continuando a girare la testa come se l'avvitasse a un altro collo, chiede, ridendo fragorosamente, due bicchieri di acquavite invecchiata in foglie di hiporùru e in un pungente candore di clavowashka:

— Noi non facciamo diagnosi soltanto sulla carne del corpo materiale, così, a freddo, come fanno i medici rico-nosciuti. Facciamo delle diagnosi complete e per questo ci appelliamo all'ayawaskha, perché sa. E una volta presa la decisione di curare, una volta avuto il permesso, l'ordine, facciamo di tutto perché anche la cura sia completa, non ci limitiamo a vegliare sulla parte materiale del malato, con la stessa attenzione vegliamo sul suo sangue segreto,

quel sangue senza tempo che scorre solo di notte, quando si svegliano i sogni...

E sorridendo di nuovo: — Perché devi sapere, mio caro Soriano, che il sogno è una cosa che, a me perlomeno, fa chiudere gli occhi... E con gli occhi e la voce di nuovo nell'ombra:

— Ed è per questo che ci consumiamo con lunghi digiuni e ci impegnarne tanto nel curare i vegetali, vegetali di pietra o di acqua, o di legno, caricandoli di forze adeguate, raccogliendo dall'aria gli icaro giusti, per con-ferire efficacia alle nostre cure...

— Il maestro Ino Moxo mi ha insegnato molte altre cose, mi dice Raul Vàzquez, il poeta della selva. Ero un bambino quando lo conobbi, eppure me lo ricordo come fosse ieri. Mi ha svelato delle canzoni magiche che alcuni chiamano icaro e altri bubinzana. E un'altra cosa ancora più preziosa: mi ha insegnato a raccogliere le musiche che vivono nell'aria, a ripeterle senza muovere le labbra, a cantarle in silenzio, "con la memoria del cuore", come lui stesso diceva...

— Conferendo alle nostre cure quei poteri che non possiedono naturalmente, accrescendoli con i canti e le forze che la materia-materie disconosce. Perché se non esiste malattia che non sia soltanto malattia, così le cure non possono essere soltanto cure. Non ti sembra?...

— Vedi quelle montagne?, dice Ivàn. Stiamo andando lì, dietro c'è il fiume Mishawa, il paese degli amawaka, sento che dice Félix Insapillo.

— Sulle rive del Mishawa vive Ino Moxo, dice Cèsar. — Fra due giorni, senz' altro prima di sera, parlerai con

la Pantera Nera, mi dice qualcuno, non so bene chi.

Quello stesso giorno Kaametza e Narowé ebbero quattro figli. Il giorno dopo ne concepirono altri due, il giorno dopo ancora di nuovo altri due, fino ad avere cinque

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coppie. Perché il dio Pachakamàite aveva disposto che fossero cinque femmine e cinque maschi, e che in poche ore fossero capaci di raggiungere la piena adolescenza. E aveva disposto che fosse Narowé a guidarli. E Narowé li istruì. E i giovani si congedarono lasciandosi alle spalle il Gran Pajonal e si dispersero per il mondo, verso i quattro angoli dell'universo che sapeva tutto. Pachakamàite aveva disposto che andassero per il mondo e che da loro nascessero le prime stirpi. Così una coppia fondò la stirpe tzipìba, un'altra la amawaka, e un'altra ancora la jìbara. La quarta coppia giunse fino al Lago Titikaka e lì fondò la stirpe degli uru...

Gli uru, i leggendari uru, che molto tempo dopo, avrebbero messo La Sorella sotto Il Fratello inviandoli sul monte Wanakawre affinchè lì, sulla vetta, l'incestuoso fallo d'oro penetrasse L'Ombelico Del Mondo e alle sue falde potesse spiegarsi (sacro sisma, salto del Dio Puma!) il contorno di pietra e di silenzio della città di Cusco.

E di lì, più scaltri che grinfie e zanne di velluto, partirono gli eserciti degli inka verso i quattro angoli dell'universo che ignorava tutto, del mondo che su una vertigine immobile, di cervo, pasceva la sua incosciente bellezza. Propositi di luce a doppio filo, se non ti gela il Sole ti brucia la Luna! Così la stirpe fondata dalla quarta coppia generò il popolo inka e gli inka, costringendo gli altri popoli ad essere liberi, fondarono il loro Impero. Allo stesso modo, insegnando a tradimento la lealtà, i conquistatori spagnoli costruirono cimiteri al posto di città. Costruirono e abitarono cimiteri. Con l'infallibile croce sguainata non fecero che decapitare, tanto da colpire il loro stesso collo. Tutti hanno fondato qualcosa, forse, predicando l'eterno hanno adorato l'effimero. Se hanno coltivato cre-denze, condor, avventure, lo hanno fatto più per paura della terra che per amore verso il cielo.

E gli uru sono riusciti a conoscere tutto. Ma non si sono accontentati. Uno dei cognati di Inganiteri, il più anziano tra i vecchi del Gran Pajonal, mi ha raccontato molte cose degli uru, racconti che gli sono arrivati da mol-

to lontano, dalla stessa bocca di Juan Santos Atao Wallpa. Sapevi che Juan Santos Atao Wallpa andò a vivere tra gli uru per convincerli a sollevarsi contro gli invasori? Loro invece si rifiutarono. Ah! Gli antichi uru, i grandi fondatori, si sarebbero ribellati sicuramente! Si sarebbero ribellati? Non gli disse però che anche lui andava a combattere per una donna, come aveva fatto Inganiteri. Ah, gli antichi uru! Sono riusciti ad addomesticare pietre gigantesche! Cantando, con gli icaro, riuscivano a spostarle da un universo all'altro! E tante altre cose facevano i primi uru: imprese azzurre, arancioni, generose, che indicavano cammini di pace e di benessere agli altri. Poi hanno plasmato altre vie, aride esistenze, argille che si disfacevano a contatto delle loro inutili dita. Non soddisfatti di sapere tutto, non hanno utilizzato tutte le loro conoscenze. Sono riusciti, in una sola vita, ad avere più corpi! E per ogni corpo, più ombre! Viaggiavano senza muoversi, senza partire, arrivavano prima, prima di se stessi, come gli animali dei sogni! Spedivano se stessi, come pacchi, ai tempi e ai mondi più lontani, ai mondi e ai tempi più diversi! E in questo modo, facendo sì che Questo fosse l'Altro lato, esistevano anche sulla nostra terra e nello stesso tempo nell'aria e respiravano nello stesso tempo come lune in fondo ai fiumi, con due teste sul fondo dei laghi!

Gli uru hanno catturato tutti i misteri, e con i misteri, tutte le conoscenze; ma non per rispettoso desiderio, non per possederle e diffonderle, ma per alimentarle a beneficio delle loro cattive azioni, nutrendole come docili greggi.

Di tale fatua saliva, senza saperlo, le peggiori lingue degli invasori hanno poi raccolto il peggio. Perché gli invasori, frondosa coppa di sangue su debole radice, hanno distrutto, sconvolto, stravolto tutto! Si sono accoppiati con uccelli rapaci, con bestie da soma, con i loro pesci ornamentali! Hanno saccheggiato e corrotto ogni cosa. Sono caduti verso il cielo con il becco aperto, e non come gli uru, per vanità di saggi, ma come gli invasori virakocha: per la loro ansia di rapaci ignoranti!...

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Gli uru, anche se in misura minore, sono stati per gli inka quello che gli inka sono stati per gli spagnoli: esempio dell'errore nel disordine, di ambizione immotivata. Ma sono stati anche il contrario: presagio di bufera, come il vento seminato, annuncio di dolci vendette, la vendemmia ancora oggi desiderata dagli ashaninka quando aspettano il ritorno di Juan Santos Atao Wallpa, la riunificazione del corpo del dio Inkarri, delle membra di Tupac Amaru con la sua testa di Serpente Risplendente. Il ritorno di Tupaq e di Amaru, del Serpente e di Ciò Che Risplende: il tempo dei Quattro Angoli, Tawantinsuyu, in un unico tempo reale...

Così è, così è stato. Gli uru hanno disobbedito alla Notte: l'hanno lasciata senza luce e senza enigmi. Gli invasori virakocha hanno disobbedito al Giorno: hanno rubato Mamàntziki, la nuora preferita e l'hanno restituita a Pachakamàite, come ombra senza corpo. Juan Gonzalez lo sa, me l'ha detto lui. Juan Gonzalez è uno dei pochi shirimpiàre che possiede la forza di far ritornare il tempo passato. Ha cucito i pezzi di quel tempo, li ha fatti scendere dall'aria e viaggiando in quel polline d'argento ha vissuto tra gli uru. Juan Gonzalez mi ha raccontato che gli uru avevano il sangue nero, in origine erano alti, il doppio di noi, e niente li feriva, nessuna morte li uccideva, per questo hanno confuso la superbia con la conoscenza.

Hanno commesso l'errore di credersi immortali, i nostri antenati uru.

E così si sono estinti, non perché combattessero ma perché smisero di procreare.

Lasciata la lupuna bianca dove ci eravamo riposati, fi-nalmente, dopo due giorni, avvistammo il paese di Ino Moxo. Il piccolo amawaka sporge il viso tra gli arbusti sfiorando con gli occhi, soltanto ora mi accorgo che sono color lacrima, i sottili aculei di un groviglio di garabatoka-sha, pungenti liane avvinte alla gioventù di una melarosa

che si alza come l'ultimo confine, come l'ultimo segnale che delimita l'ingresso al paese. Con un breve cenno della mano il ragazzo ci fa segno di avanzare, di passare sotto le liane, di entrare attraverso quella porta naturale e boscosa. M di sopra della testa del piccolo amawaka, dai capelli marroni?, verdeggia con sfumature grigie una muraglia di bambù e dietro si alzano colonne di fumo dalle case. Félix Insapillo sporge la testa quadrata, sfiora l'inaudita eleganza della cushma del bambino amawaka, solo adesso mi rendo conto che è come la cushma gialla del-l'inka Manko Kalli, descrittaci da Don Hildebrando, e che ha gli stessi disegni del vaso cerimoniale che avevamo visto nella sua casa di Pucallpa, gli stessi di quel Qero con cui Cèsar diventò un ayùmpari dello stregone... Dopo Félix Insapillo passa Ivàn, e poi Cèsar che si fa largo tra liane e foglie fresche, dopo Cèsar entra il mio corpo, i miei occhi impauriti sul volto dell' amawaka, ho già detto che aveva la pelle da meticcio?, e ci avviamo storditi verso il paese lasciando indietro, senza ringraziarlo, il bambino che ci aveva fatto da guida. Appena me ne accorgo ritorno indietro per scusarmi e salutarlo, come si dirà grazie in dialetto amawaka?, ma sotto la melarosa non c'è più nessuno.

— È facile riconoscere il chullachaki, servo del Maligno, creato per fare del male, ripete Don Juan Tuesta, lontano, in una vecchia notte ormai morente nell'isola Muyuy, è facile riconoscerlo persino quando cerca di mascherarsi con il corpo di qualche nostro amico (perché al posto del piede destro ha una zampa di tigre o di cervo). L'altro chullachaki, invece, è artificio per raggiungere la verità, è persona del bene e nessuno, proprio nessuno, può riconoscerlo, i suoi piedi sono perfetti, è perfetto in tutto, umanamente umano.

Non capisco il piccolo amawaka, pelle da meticcio, occhi strani, cushma sempre impeccabile e gialla, né la sua scomparsa. Preferisco non pensare, mi affretto sul sentiero squallido verso quella muraglia di bambù e di colonne di fumo.

— Nessuno può distinguere questo chullachaki, insiste

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Don Juan Tuesta nel mio ricordo. È apparenza di persona, ma di persona completa, perfetta. Soltanto gli occhi accorti capiscono che il suo corpo non è unico e che più persone, più vite vivono in esso. Come se ciascuna parte del suo corpo avesse un'esistenza autonoma, diverse esistenze che solo agli occhi degli altri il chullachaki armonizza in una sola. Sono chullachaki che ignorano il male, incapaci di odiare persone e cose. Finché esistono, esistono soltanto per amare, per contribuire al bene.

La mia memoria mi riporta al Mapuya: vedo Ivàn che mi raggiunge sul sentiero, dopo la mancata uccisione della wapapa carnivora, lo vedo avanzare davanti a me, indifferenti i piedi ai rami e alle pozzanghere che a me ostacolano il passo, ignorato da quei nugoli di insetti che invece torturano il mio corpo. Lo vedo avvicinarsi alla lupuna bianca dove Félix Insapillo stava chiacchierando con Cèsar, ma lo vedo sporco di foglie e di ragnatele, la camicia lacerata da spini, chiazzata di sangue, graffiata da aculei assetati.

— E fu fatta la luce, dunque, prosegue Don Javier con voce altrui. Dal piacere reciproco è nata la luce. E il sole, il Padre Inti, è nato insieme alla Luna, la Madre Killa, in una sola luce: Inkitilla, e insieme alle stelle. Perché allora il giorno e la notte erano un'unica cosa, non c'era differenza tra il giorno e la notte. E in mezzo Kaametza e Narowé felici. Finché accadde ciò che accadde. Narowé si svegliò e non trovò più Kaametza. Al suo risveglio non la trovò più. Si riaddormentò. Ma non la trovò neanche nel sonno. E si svegliò. E si riaddormentò. E continuò a dormire e a risvegliarsi finché la sua veglia fu il suo sonno, il suo unico sonno, Intikilla, deserti entrambi di fronte agli occhi del suo cuore. Sognò di svegliarsi all'ombra di quella melarosa e la melarosa non aveva più ombra per lui: Kaametza non c'era più. La melarosa sola, privata della stessa solitudine, ridiventò cenere. Come prima di nascere, ritornò ombra, polvere di ombra fredda, di fronte all'anima senza palpebre di Narowé. Lo stesso corpo ritornò coltello d'osso di ce-

nere. Narowé guardò il cielo. Anche il cielo ridiventò cenere. Guardò gli uccelli, i campi, i fiumi, le pietre, e la pietre e i fiumi e i campi e gli uccelli ridiventarono cenere. Ma questo accadeva soltanto nel suo sogno. Nella sua veglia accadeva di peggio: il mondo proseguiva senza Kaametza.

Al posto di Kaametza il mondo vide una lunga impronta, una bava viscosa e giallastra, che si perdeva tra la macchia. Era il kotomachàcuy, era l'impronta delle sue due teste che si apriva in sentieri tranquilli verso il fondo di tutti i laghi della terra!...

E Narowé si avventurò smarrito, perdendosi in una ra-gnatela di bugie, di assenze, di sentieri fangosi. Poco più avanti dovette procedere a tentoni, come cieco, in quella notte breve che la selva crea quando di colpo si infittisce, senza pietà, nascondendo le scimmie notturne sotto il tetto spesso di liane e di cime frondose. Superata la boscaglia, condannata per sempre alla notte, lì dove il sentiero fingeva di ritornare sentiero allargandosi, riconciliato finalmente con il cielo ardente, trovammo un nuovo ostacolo: uno smisurato shiwawako caduto ci chiudeva il cammino come un muro, Narowé lo scalò in un attimo fendendo la corteccia con le mani e con i piedi come chiodi che scavano gradini. Io, invece, mi arrampicai incerto sulla mia stessa ombra spingendola e trascinandola fino alla cima di quel muro di bambù e di colonne di fumo, quindi ricaddi goffamente dall'altra parte del tronco ammuffito, sullo stesso sentiero desolato. Così, malconci, continuammo a camminare. Grosse gocce cadevano dal cielo squarciato da un sole di paura. Sollevai lo sguardo: le gocce non cadevano dal cielo. La pioggia antica gonfiava gli occhi degli alberi scivolando invano come il pianto di un morto! Allora cominciai a correre lungo il sentiero tortuoso, inciampando tra i rami e saltando-pantani-fetidi-nella speranza-di-raggiungere Narowé. Camminai senza mai incontrarlo per quattro secoli. Quando ormai mi credevo solo, lo sposo senza sposa apparve dietro di me. Mi rivolse uno sguardo di rimprovero. Solo adesso capisco che era uno sguardo di compas-

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sione. Infatti, in questa corsa che mi stordiva, io, in realtà, non stavo avanzando. Non cercavo né lui, né nessun altro. Stavo fuggendo. Fuggendo dalla mia ombra, da me stesso, dalla prima paura, da quella inutile pioggia.

— Non ti avrà fatto male l'ayawaskha?, mi dice Don Javier, ma non è la sua voce che io sento, posso soltanto ascoltare la sua bocca, le labbra unite che si amano e si acquietano, incagliandosi come pesci d'argento.

Quando Narowé si svegliò senza Kaametza, il giorno si separò dalla notte. E Narowé conobbe la solitudine. Dopo la seconda solitudine conobbe la collera. E quando per la prima volta fu invaso dalla rabbia, fabbricò il primo arco e la prima freccia. E con un sol colpo abbattè la luna, la prima luna che ebbe il nostro mondo, perché tu devi sapere che quella che vediamo adesso è la quarta luna che accompagna la terra.

E comparendo dietro alle mie visioni, Don Javier, al-lontanando bambù azzurri, muti, arancioni:

— Solo per rabbia la abbattè, perché non c'era il koto-machàcuy e non c'era Kaametza. La luna allora era un tronco vuoto. Narowé la abbattè e cominciò a colpirla con un bastone. E la luna risuonò, rimbombò forte, lontano. Fu il primo manguaré della nostra selva. Hai mai sentito un man-guaré, quella specie di cassa, di tamburo di legno che i nativi percuotono per comunicare fra loro, per annunciare guerre o feste? La luna fu il primo manguaré a suonare su questa terra, sotto la furia di Narowé che reclamava la sua sposa e invocava vendette che perdurano. E il tempo passò invano. E fu così che il tempo si ammansi e si divise, come il Fiume Sacro, l'Urubamba, il Willkamayu degli inka del Cusco, padre dell' Ucayali e nonno del Rio delle Amazzoni che non ha parenti. Il tempo trascorse invano e nessuno rispose a Narowé. E Narowé conobbe il sapore delle lacrime. Conobbe il dolore, il dolore dell'abbandono, e da allora cominciò a piangere e a maledire, per sempre. Quando le due anime del suo volto si seccarono, ormai Narowé si trovava sul fondo di un fiume insondabile. E fu così, solo così, che nacque il Rio delle Amazzoni. Dalle palpe-

bre orfane del nostro primo padre sgorgò il Rio delle Amaz-zoni... Lo stesso Inganiteri me lo ha confermato. E mentre mi raccontava questa storia, non saprò mai perché, mi voltò le spalle negandomi alle sue lacrime. Oggi penso che non volle piangere soltanto perché io non piangessi. Come se i miei occhi fossero sul suo viso, pensa un po'. Ed era proprio vero, i miei occhi, in quel momento, erano sul suo viso!...

E alla fine Don Javier con voce che riconosco: — Anche adesso Narowé si trova in fondo al fiume, e

sfida le piene, gli straripamenti, perdona la luna, e suona. Perché la vera luna si trova ancora in fondo al fiume-mare, molto in fondo. E quest'altra che noi vediamo in cielo è solo un suo riflesso...

— E la quinta coppia?, lo sollecito. Se una coppia ha dato origine agli amawaka, e un'altra agli tzipìbo, e un'altra ancora agli uru, e la quarta ai jìbaro... manca una coppia... È forse quella che ha fondato la stirpe dei virakocha?... ,

Don Javier indugia, guarda il registratore, si schiarisce la voce, una, due volte, e finalmente:

— La quinta coppia si è perduta, non se ne sa nulla. E allontanandosi di nuovo, per sempre credo: — Inganiteri, per lo meno, mi ha detto che non ne sapeva

nulla.

— Ma non era Ivàn quello che tornò indietro per cer-carti, dice Don Hildebrando, la testa china per evitare i bambù dai mille colorì, visioni che riempiono la hall del-l'Hotel Tariri.

— Ciò che lui credeva fosse realtà, era il riflesso della realtà, interviene Don Javier.

— Era il riflesso di un'altra realtà, corregge dall'aria il defunto Inganiteri.

— La vera luna non sta nel cielo ma nel cuore, nella memoria del cuore, dice Juan Santos Atao Wallpa.

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— È più di un tronco vuoto, un manguaré, una cassa che io tocco dal fondo del tempo, conferma Narowé.

Avvistammo il fumo delle case del paese di Ino Moxo: la nostra guida amawaka si ferma accanto a una melarosa avvolta da un luccicante groviglio di garabatokasha e fa un rapido gesto con il braccio per invitarci a raggiungerlo. Ci avviamo storditi verso il paese, attraversiamo quel portico di rami lasciando indietro, senza ringraziarlo, il bambino che ci aveva fatto da guida. Le prime capanne splendono desolate sotto i tetti scuri, protette da un recinto naturale di bambù. Félix Insapillo avanti, Ivàn e Cèsar dietro, camminano verso il paese. Io fermo la mia ansia, mi giro inutilmente: il piccolo Ino Moxo è scomparso.

— È andato a cercarti, è per te che se ne è andato, dice dentro di me una voce che confondo con quella di Don Javier. E in realtà non è un bambino, non è l'infanzia chullachaki dello Stregone degli Stregoni, è il tempo senza tempo, e non è il tempo che costruisce rovine e conduce ogni vita alla morte, ma è la guida della morte che vive. Questo bambino è la guida della vita che non muore mai, l'eterno artefice della bellezza e della felicità...

E un po' più in là, davanti a me, la voce, continuando a camminare, aggiunge:

— Se ne è andato perché ha appena sentito il tuo sparo, ormai non ti potrà più ritrovare...

Mi affretto lungo lo squallido sentiero, raggiungo gli altri e insieme entriamo nel paese degli amawaka.

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III

Ino Moxo

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sconcertati per la sua perfetta pronuncia spagnola, per il pantalone di tela imperturbabile sotto la cushma indigena, per il suo passo di volpe svelto e sicuro, impensabile per i suoi novanti e passa anni. Adesso rallenta nel vedere la pace del sole adagiata sul fianco di un tronco devastato dal muschio che dissolve i suoi occhi color cannella oltre le colline avide di caobo, campi di banani e aironi e piroghe conficcate nei fianchi del fiume. Alla mia destra un rumore, mi giro: un coccodrillo nero si è scoperto tra gli alberi nell'acqua melmosa, si avvicina insidioso, nuotando, Ino Moxo si abbassa, lo respinge con la mano, l'enorme lucertola devia verso il tramonto, sparisce sotto i rami spogli del renaco che scopro solo adesso al centro del Mishawa come un piccolo bosco morto che interrompe la corrente con le radici moribonde. Lo stregone degli stregoni contempla il renaco, ancorato nel nulla, impotente di fronte al torrente, senza fiori e senza foglie, avvolto soltanto dalle sue radici, poi mi guarda con un'espressione triste e io gli rispondo:

— Potrebbe spiegarci come mai non essendo amawaka è riuscito a diventare il loro capo?

— La sua pelle non è quella di un indio puro, e lei parla meglio di un bianco...

— Sono amawaka, mi interrompe. Amawaka puro. Figlio di chori e non di virakocha, figlio di un uomo delle Ande e non di un bianco, è cosi, ma discendo anche dagli uru per parte di mia madre...

— Don Hildebrando ha detto che lei... — Sono uno yora legittimo, precisò. Yora, che voi

conoscete come amawaka. Ino Moxo, ecco chi sono. E at-traverso il morbido collo della sua cushma, quel poncho che intimorisce il sole e gli imprevedibili acquazzoni amazzonici, estrasse dalla tasca della sua camicia bianca una sigaretta malridotta, una shirikaipi di foglie di tabacco silvestre profumato. Il fatto è che prima non ero quello che sono ora, dice, prima avevo un altro nome e un'altra vita, — e accende la sigaretta e la fiamma incerta illumina il suo profilo, — prima non ero Ino Moxo e domani sicuramente

non lo sarò più, — confonde il suo volto nel fumo lacrimoso e profumato, — è una storia lunga, una storia che pochi conoscono per intero. Io ho scrutato altri regni. Ino Moxo fumava, come se ricordasse, là sul bordo dorato del Mishawa nella sera.

— Ti sarà concesso di sapere come i figli hanno divorato i padri, ripete Don Javier.

Nella parte alta del fiume Kashpajàli, un cielo crepuscolare manifesta il suo stupore. Cinquecento uomini armati, avidi, molti i bianchi pochi i meticci, scendono spaventati il fiume cercando di non fare rumore, centinaia di carabine in mano e nelle casse, e molte casse di proiettili, fino alla foce del fiume Sutilija che trabocca per il peso di tante barche, cinquecento mercenari raccolti chissà dove che separano le correnti fino a poco fa tranquille, remando in acque gonfie nelle quali le piante della riva immergono le radici, gente che vede questa selva per la prima volta. E come il cielo, anche le poche case degli indio mashko che abitano nella foce del Sutilja, si sorprendono, incredule. Ma già sanno che i virakocha, i bianchi, non conoscono pietà se sono meglio armati. E i mashko si riuniscono, parlano con rabbia perché dispongono solo di venti uomini, allora cercano di salire sulle loro piroghe per raggiungere il Manu dove saranno di più, potranno affrontare i virakocha, scacciarli dalle loro terre violate, dal momento che nel Manu esiste il nucleo più grande dei mashko, e ci sono trecento guerrieri invincibili. Invano. L'astuzia virakocha ha disposto sentinelle ai due lati del fiume e i venti guerrieri color rame senza armi non possono passare per chiedere rinforzi, le loro canoe galleggiano vuote in mezzo al fiume. Sotto il cielo rosso, l'acque rossa.

— "Combattemmo aspramente per mezz'ora", dice Za-carìas Valdez, uno dei cinquecento mercenari. "Alla fine in-fliggemmo molte perdite ai selvaggi che furono costretti a ritirarsi di fronte all'energico atteggiamento dei nostri com-battenti... Gli indio mashko risiedevano lungo il fiume Co-

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lorado ed erano sparsi sulle rive del Madre de Dios e del Manu, ma in seguito agli attacchi ricevuti dalla nostra gente, gente del grande cauchero Fitzcarrald, dovettero ritirarsi molto più all'interno rispetto al Colorado e alle loro prime terre comprese tra le sorgenti di quei fiumi che nella loro lingua si chiamano Piuquéne, Panàhua, Cumarjàni e Sutilija, che sono tutti affluenti del Manu. Devi sapere che questi selvaggi si distinguono per la loro statura, sono molto alti, e per le loro barbe fluenti... Fitzcarrald decise di assalirei e ordinò l'attacco nel grosso centro che si trovava poco sotto il Sutilija. Imbarcati i nostri soldati su numerose canoe, partimmo, e poco prima di arrivare al paese, ottocento uomini sbarcarono con l'obiettivo di circondarlo da terra e con l'ordine di dare un segnale convenuto al momento opportuno. Nel frattempo le imbarcazioni continuavano a solcare il fiume lentamente. Alle quattro del pomeriggio udimmo i guerrieri sparare simultaneamente, avevano dato inizio al combattimento. Quando raggiungemmo il luogo dell'azione il paese era già caduto nelle nostre mani. I mashko avevano perso molti guerrieri rimasti a difendere le case dopo aver fatto allontanare in tempo donne e bambini. Dopo lo scontro furono raccolti i cadaveri e poi bruciati... Per questa cerimonia funebre, gli indio piro che stavano con noi battezzarono il posto con il nome di Mashko Rupuna che vuol dire Indio Mashko Bruciato. Ma lo scontro non finì qui. Bisognava continuare ad attaccare i selvaggi. E allora i combattimenti si estesero e si acutizzarono e le perdite furono tali che i cadaveri galleggiavano numerosi nelle acque ormai imbevibili del fiume Manu. Riuscimmo a scacciare dal Manu quasi tutti i selvaggi, ma i pochi rimasti continuarono ad assalirei e a creare disturbo tra i nostri lavoratori, tanto che alla fine fummo costretti a interrompere la raccolta del caucciù e a trasferirci in luoghi più tranquilli..."

— È una storia lunga, molto lunga, dice Ino Moxo. Avevo tredici anni e allora il capo di tutti i capi era il vec-

chio Ximu, un vero saggio, potente e saggio, guida di dei e di anime...

Non abbiamo dormito quasi niente questa notte; stiamo con Ino Moxo da due giorni, e ora facciamo colazione con la carne di una grande scimmia, una specie chiamata maquisapa, conservata sotto sale e poi dissalata, lasciata intera in una cesta che pende da un lato di una porta, nella capanna dello stregone, e che, ci dicono, normalmente viene mangiata poco per volta, e così, strappandone un pezzo al giorno, prima una coscia, poi un fianco e quindi una spalla, ben spellati, ci nutriamo per i successivi quattro giorni.

Sempre sulla riva del Mishawa, Ino Moxo mi guarda; — Noi amawaka siamo pochi, molto pochi, lo hai visto.

Tra noi che viviamo quassù e gli altri, in altre zone più in basso, non superiamo le duecento famiglie. Lo sapevi che ai tempi di Ximu eravamo mille? I virakocha ci hanno quasi sterminato. Ci uccidevano solo perché volevano le nostre terre. E uccidevano anche gli abitanti di altre zone: jìbaro, yaminawa, aguaruna, tzipìbo, mashko. Perché i nostri territori erano ricchi di balata, di alberi di gomma, veri sentieri rigonfi di caucciù. E i virakocha raccoglievano quel caucciù perché ne avevano bisogno per il progresso della Patria, così dicevano. Così dicono anche oggi. Ci hanno derubato e ucciso in nome del progresso...

E girando il viso verso il renaco che brilla azzurro, aran-cione, fissando un labirinto di rami fitti di fronte alla corrente impetuosa, in mezzo al fiume:

— È una storia lunga e amara. Se ti raccontassi tutto, sicuramente non mi crederesti. È una storia che fa parte della mia storia, che mi ha portato qui, che mi ha fatto nascere come amawaka, yora, come capo yora. Perché mio padre è venuto da Arequipa, dove anch'io sono nato. Dove sono nato la penultima volta...

— Allora è nato a Arequipa? — La penultima volta. — Non capisco. E lui senza sentirmi:

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— Mio padre venne qui perché voleva diventare cauchero e mia madre, pur non volendo, lo segui. Ed io? Io volevo e non volevo, ero molto piccolo, anche se allora già sapevo, fiutavo le cose, credo, come se già prevedessi i destini. Mi ricordo che arrivai preoccupato e contento. Allora gli amawaka subivano molte ingiustizie, paesi interi venivano distrutti per mano dei virakocha. Per questo mi fece venire il vecchio Ximu. Guidando, disponendo e ordinando dall'aria, mi portò qui, io lo seppi dopo. Ma è lunga questa storia...

Un giovane amawaka irrompe tra gli alberi, alla mia destra, con una pukuna nera; si consulta con Ino Moxo, Ino Moxo fa un gesto, l' amawaka parla con Ivàn che si alza, vado a cercare Cèsar, dice, per portare da mangiare, Insapillo va con lui, mi lasciano solo con la Pantera Nera i cui occhi si allontanano, parlano con il renaco che sembra piegarsi e che subito si raddrizza sotto il sole di acque lunghe.

— Prendendo ayawaskha si diventa come uno specchio, mi distrae Ino Moxo, senza riuscirci. Si diventa come uno specchio esposto a tutti gli spiriti, ai maligni e ai portatori di verità, che abitano l'aria. È per questo che ci sono gli icaro, icaro che proteggono e icaro che curano, canzoni che chiamano una determinata anima perché scenda e blocchi altre anime. Il maestro Ximu mi ha fatto venire con uno di questi icaro, con l'icaro di richiamo. Mi ha fatto venire come se io fossi uno spirito protettivo. E prima di inviare nell'aria il suo icaro, Ximu ha dovuto digiunare. Perché per l'ayawaskha, come per ogni vegetale che sa, sono necessari quattro requisiti: niente sale, niente zucchero, niente grasso, niente sesso; e questo per tutto il tempo necessario per prepararla, per prenderla e sentirne gli effetti. Ximu digiunò per potermi chiamare, poi prese ayawaskha e alla fine mi icarò. E io arrivai. Non potevo far altro che obbedire. Perché si tratta di una scienza di secoli, che è costata molti digiuni mortali, molti tentativi falliti, molte morti, sin dall'epoca dei nostri antenati uru, prima degli inka...

Sotto il cielo rosso, l'acqua rossa. Tutti i mercenari di Cumarìa, di Cuenga, dell' Unine, solcano l'Urubamba. Centinaia di canoe traboccanti di viveri, di casse di carabine winchester calibro 44, rispondono alla dichiarazione di guerra di Fitzcarrald.

— Winchester contro frecce, pensi un po', esclama lo spagnolo Don Andrés Rua, allevatore di bestiame, ad Ata-laya, armi a ripetizione contro lance di legno!...

— "Non ci mancava niente, avevamo persino liquori raffinati come il cognac e lo champagne", dice il cauchero Zacarìas Valdez.

I mercenari si affrettano, approdano sul fiume Camisea, sbarcano. Meticci e indios piro, al loro servizio, scaricano sulla riva le merci francesi, carne in scatola e vini. I pionieri del caucciù, del progresso, mangiano, ridono, brindano alla guerra, winchester contro frecce, che sanno già vinta in partenza. Poi risalgono sulle loro canoe, si lasciano indietro lo scalo, e diretti verso il Manu, raggiungono stanchi il loro quartiere generale atta foce del fiume Kashpajàli. Giusto il tempo. Infatti, il rappresentante del loro capo, un tal Maldonado, li informa che per colpa dei barbari indios, uccisi a miniata, i cauchero di quella zona avevano esaurito prima del tempo la dotazione di munizioni.

— "E poiché, continua Zacarìas Valdez, i selvaggi si accanivano ad attaccare le postazioni dei cauchero, decidemmo di assalire i loro villaggi inviando a tale scopo centinaia di uomini armati di tutto punto ai fiumi Sutilija, Cumarjàni, Panàhua e Piuquéne, sorprendendo i selvaggi nel sonno. I nostri uomini, come segno inequivocabile della loro azione, portarono con sé due piccoli indios prigionieri e pezzi d'oro che avevano trovato nella zona. Ritornata la calma, dopo essere rimasti alcuni giorni nel quartier generale, venne organizzata una nuova spedizione. Prima di muoversi Fitzcarrald convocò tutti i caucheros e disse loro:

— Chi non vuole più ritornare nella sua terra, si pre-senti!

"Dette centinaia di uomini che si trovavano li, i primi a fare un passo avanti furono Alfredo Cockburn e Pedro

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Sarria, di Lima, Erasmo Zorilla di Ica, Carmen Lopez, di Moyobamba, e io, Zacarìas Valdez, originario di Huanta, oltre a trenta piro scelti per la loro abilità di guerrieri.

"Le armi che utilizzammo erano carabine winchester, unico codice per imporre la legge del più forte, che col passare del tempo divenne la legge del cauchero.

"Navigando nel Madre de Dios, scoprimmo sulla riva destra un affluente che poi chiamammo Colorado. La cosa andò cosi: ci eravamo ancorati poco sopra un villaggio dì mashko, che, come ho già detto, erano indio feroci e robusti con i quali non potevamo rischiare di combattere corpo a corpo. Fecero per attaccarci, ma furono bloccati dagli spari improvvisi di trenta carabine. Poiché non conoscevano le armi da fuoco, spaventati dai colpi e dalle numerose perdite, si allontanarono e ci attaccarono con le frecce. Lo scontro durò circa due ore e vìncemmo grazie alle nostre armi. I guerrieri piro, abili tiratori da noi istruiti, fedeli alla nostra causa, portarono a termine il combattimento inseguendo quei selvaggi fino alla loro case, dove non trovarono che morti e feriti, tra cui un ragazzo così ferocemente audace che quando gli offrimmo il cibo tentò di morderci.

"Lì Fitzcarrald piantò la bandiera peruviana e battezzò il fiume che avevamo appena scoperto, Rio Colorado. Fiume rosso proprio perché le sue acque torbide erano tinte di rosso..."

cantano senza emettere suoni, con note a cui il nostro udito non è abituato, suoni inafferrabili, diversamente organizzati... E risuonano anche le piante, i vegetali di pietra o di legno. Tutto risuona, anche le pietre...

E ancora di più risuonano i passi degli animali che siamo stati prima di diventare uomini, i passi delle pietre e dei vegetali e delle cose che ogni essere umano è stato. E anche ciò che abbiamo sentito prima, tutto questo risuona nella notte della selva. Dentro ognuno di noi, nei ricordi di ciò che abbiamo ascoltato durante la nostra vita, balli e pifferi e promesse e menzogne e paure e confessioni e grida di guerra e gemiti d'amore. Lamenti di agonizzanti che abbiamo emesso o semplicemente ascoltato. Storie vissute, storie future. Perché tutto ciò che ascolteremo risuona con anticipo in mezzo alla notte della selva, nella selva che risuona in mezzo alla notte. La memoria è qualcosa di più, è molto di più, lo sai? La memoria veritiera ricorda anche le cose che stanno per accadere. E persino quello che non accadrà mai, anche questo ricorda. Pensa un po'. Chi mai potrà riuscire a sentire tutto, me lo sai dire? Chi potrà mai riuscire a sentire tutto nello stesso momento e crederci?...

— È una storia lunga, te l'ho già detto, insiste Ino Moxo. Se ti raccontassi tutto non mi crederesti. Perché non si può mai credere tutto. Mai si può ascoltare tutto... Un esempio: la selva. Se ti metti ad ascoltare tutto ciò che risuona nella selva, che cosa senti?... Non solo il suono degli animali di terra, d'acqua e d'aria, senza contare che non è più possibile udire il canto dei pesci che prima rallegravano le acque del Pangoa, del Tambo, dell' Ucayali, esseri musicali che presentendo l'arrivo del grande otorongo nero sono fuggiti in tempo e si sono messi in salvo, anche se ora non sanno più cantare, o se cantano ancora, sicuramente

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Ino Moxo è nato a tredici anni

Il giovane amawaka è ritornato indietro con gli altri, senza selvaggina, la cerbottana sconfitta sulla spalla destra. Credo che in quel momento fossimo tutti intenti ad ascoltare. Al mio fianco Cèsar fuma per allontanare gli insetti e guarda

la riva di fronte, il suo riflesso di profili disuguali, alberi infranti che si affacciano sull'acqua tagliente, ravviv-vati dal fulgore del Mishawa. A pochi metri dal fiume, più in

alto, Insapillo e Ivàn, accoccolati su di una sporgenza di terra asciutta, cesellano una quiete porosa, un silenzio di piazza senza statue. Per un attimo, una vertigine, credetti di sentire tutto.

— Vorrei solo sentire qualcosa di lei, maestro Ino Moxo, le cose che per lei sono importanti della sua vita...

— È quasi notte, risuonò lo stregone, e di tutte le cose che vivono alla soglia della notte, tu vuoi udire soltanto la pantera nera?

— Se lei crede... — Ma, in questo momento non so ancora. Ma leggo

qualcosa nel tuo interesse, sto leggendo qualcosa di molto dolce. Parlerò a questo pezzo della tua anima, a quest'altra persona che sei tu.

Allora si, allontanando l'arrivo della notte, nascondendo con essa i momenti passati che stanno per accadere, ho sentito. Lo stregone mi osservava di profilo, con lutto sod-disfatto, con un sorriso pago che non riusciva a prendere il volo. Intuii che gli stavo obbedendo. Una famiglia di pappagalli gridò dietro di noi, non li sentii: io ero il loro

grido. Io ero lo scricchiolio delle foglie assediate da venti nell'oscurità, io ero i venti, io ero l'oscurità. Non più la rinuncia del renaco di fronte alla corrente impetuosa, ma la corrente stessa, il fiume che scorre precipitoso, e la voce di Ino Moxo di fronte al fiume:

— Non te ne andrai come sei venuto, amico. Io parlerò. Parlerò di Ino Moxo, la Pantera Nera, ti dirò alcune cose che vuoi sapere.

Il grido dei pappagalli si dissolse in un lungo e invisibile svolazzo d'ali. Si era fermato il vento? Sembrava piuttosto che la selva avesse smesso di camminare sotto il vento, come se la terra tutta, piegata dall'oscuro soffio, fosse un fiume di uccelli e enigmi e grovigli di rami e pericoli affettuosi. Un fiume eternamente immobile e al tempo stesso in fuga, pensai, come se ritornasse dal futuro, dal tempo senza tempo di cui hanno parlato Don Hildebrando e Don Javier.

— Questo fiume, dice Ino Moxo, è lastricato di fossili oceanici, come il Mapuya. Tutti i fiumi, qui, sono come strade, rotte di un mare che ormai non esiste e che neanche in futuro esisterà...

"Con grande gioia per noi, i mashko che avevamo appena sconfitto in modo esemplare, non avevano canoe per inseguirci", continua il mercenario Zacarìas Valdez. "Avevano soltanto dei tronchi aperti col fuoco che non gli servivano molto. Non erano ancora arrivati da loro gli strumenti moderni di lavoro. Utilizzavano soltanto delle asce di pietra dalla forma primitiva... Dopo un giorno di navigazione arrivammo a un paese diverso da quello dei selvaggi, tanto che pensammo di essere arrivati nella terra di confine dei brasiliani. Ci trovavamo a cinquecento metri di distanza dal porto; gli abitanti issarono una bandiera in risposta al nostro bicolore peruviano a poppa dell'imbarcazione. Fitzcarrald, osservando con il cannocchiale, scoprì che era una bandiera boliviana ed esclamò emozionato:

— Stiamo navigando il fiume Madre de Dios!

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I boliviani ci colmarono di attenzioni onorandoci con un sontuoso banchetto in cui scorrevano vini generosi come il lacrima cristi, il moscatello, il malaga, bordeaux e champagne offerti dal nostro capo Fitzcarrald. Non posso fare a meno di dire che i nostri anfitrioni furono molto sorpresi della grande quantità di alcolici che avevamo con noi. Una quantità che superava la loro immaginazione. Magnificamente ricevuti, venimmo festeggiati per più giorni, durante i quali fummo trattati con tutti gli onori tanto da richiamare alla nostra memoria i momenti felici trascorsi nelle nostre terre della Costa e della Sierra. Ma visto che non potevamo rimanere li per sempre, nostro malgrado, dovemmo pensare al ritorno. Il signor Jesùs Roca, socio della ditta boliviana Suàrez-Roca, potente società per lo sfruttamento del caucciù, ci rifornì di ottime imbarcazioni per la traversata. Partimmo protetti da venticinque guerrieri piro che andavano a piedi lungo la selva per ispezionare la zona e difenderci da possibili attacchi. In quei lunghi tratti in cui il fiume scorre in linea retta eravamo costretti a farli passare a guado perché assalissero alle spalle senza difficoltà i selvaggi che, appostati atta fine di quelle gole, aspettavano, tranquilli, sulla riva le nostre imbarcazioni. In tal modo i combattimenti si risolvevano a nostro favore e senza perdite umane.

"Non volendosi concedere tregue, Fitzcarrald programmò una seconda spedizione fino al paese del Carmen. Il suo obiettivo era quello di ripulire il fiume Madre de Dios dai selvaggi mashko e huarayo. E pertanto si vide costretto a sostenere nuovi scontri lungo il viaggio, ma dal momento che i suoi uomini erano abituati, a combattere ed erano molto agguerriti, il trionfo coronava i suoi sforzi e così riuscì a scacciare definitivamente i selvaggi dalle rive del Madre de Dios, costringendo gli huarayo a ritirarsi sull' Inambari e i mashko sul fiume Colorado".

— Avete combattuto qualche volta contro gli amawaka?

— "Naturalmente", si inorgoglisce Zacarìas Valdez, "abbiamo combattuto varie volte contro quegli antropofagi. Ricordo, in particolare, una volta in cui, alle otto circa del mattino, gli amawaka cominciarono ad attaccarci con le frecce da tutte e due le rive, in un punto in cui il fiume si stringeva. I nostri risposero con il fuoco. Le nostre imbarcazioni seguivano la corrente del fiume e in poco tempo ci allontanammo dalla zona dello scontro. Alle quattro del pomeriggio ci fu lo scontro più cruento durante il quale fu ferito un uomo..."

— Un solo uomo? — "Sì, uno solo". — E non morì nessun amawaka? — "Ah!... Ne avremo uccisi non meno di duecento.

Quando li vedemmo ormai sconfitti, attraccammo e li in-seguimmo nella selva. Ma stranamente non trovammo nessuno, nessuno dei vivi, voglio dire, come se se li fosse mangiati la terra, come se fossero diventati invisibili. Riuscimmo ancora a tenere la situazione sotto controllo grazie alle nostre armi da fuoco. Ma i selvaggi riapparvero come per incanto quando risalimmo sulle canoe e smisero di attaccarci solo quando rimasero senza frecce. Allora si misero a gridare chiedendoci di aspettare fino al giorno successivo per riprendere il combattimento, perché dovevano ritornare alle loro case per rifornirsi di frecce. Gli amawaka erano combattivi come i campa, o forse di più. In loro si rifletteva lo spirito guerriero ereditato dai loro antenati inka..."

Dopo aver preso l'ayawaskha il maestro Ximu cantò un icaro per chiamarmi. Lui sapeva più di quello che sapeva, indovinava anche quello che non sarebbe accaduto, quello che si poteva evitare, continua Ino Moxo contemplando il fiume Mishawa che precipita davanti a noi, che si perde in una grande curva, che si abbandona in cerca del fiume Sacro degli Inka, il Willkamayu che è nato un'altra volta, come Ino Moxo, ed oggi vive e scorre come Urubamba,

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che è il suo nome più antico, il nome uru. Terra di acqua rossa sotto il cielo rosso. Pampa rossa, pampa d'acqua, pampa degli uru: Urupampa. Il maestro Ximu mi ha fatto venire perché sapeva che noi amawaka saremmo stati tutti sterminati. Era l'epoca del caucciù, un fiume di morti, di saccheggi, di bambine violentate, si sentivano solo gli spari, e noi avevamo appena delle frecce, dei dardi di pukuna, spari e paura, mi ricordo, e confusione. Il capo Ximu, grande saggio, sapeva che soltanto con le armi dei bianchi saremmo stati capaci di rispondere alla loro ferocia, soltanto con le armi da fuoco avremmo potuto fermare i virakocha, difendere le nostre terre, soltanto con i winchester avremmo potuto difenderci dagli avidi caucheros. Perché le nostre frecce opponevano resistenza invano, invano i nostri guerrieri soffiavano cerbottane, i dardi non raggiungevano il bersaglio, stendevano gli archi per nulla, lottavano soltanto per morire, petto e fronte esposti alle pallottole degli imboscati. Ximu sapeva tutto questo...

E accendemmo un altro shirikaipi: chi, quindi, avrebbe venduto armi ai nativi? Era proibito, allora come oggi, per quanto caucciù o per quanto oro gli indios potessero pro-mettere. Carabine e pallottole erano vendute soltanto agli indios traditori, e ad essi si insegnava a sparare contro le loro genti. Ricordo uno di loro, in campa si chiamava Hohuaté, ma in virakocha si chiamava Andrés Avelino Cà-ceres y Ruiz, un traditore. E ne ricordo un altro, vive ancora, un piro che in spagnolo si chiama Morales Bermùdez, nella loro lingua non so come si chiama l'altro traditore. E ricordo anche i loro padroni, l'insaziabile Fermìn Fitzcarrald e suo fratello Delfìn. Saprai già come è morto Delfin Fitzcarrald, come è stato giustiziato, si diceva che fosse un idiota, io credo che fosse solo buono ma per stanchezza non per natura, per fatica, come le serpi che non hanno più i denti...

Ximu, quindi, decise che noi amawaka dovevamo avere un capo meticcio, qualcuno che potesse procurare loro carabine, retrocariche, fucili, munizioni, per assicurarsi la sopravvivenza. Il capo Ximu consultò gli spiriti, chiamò

l'anima dell'acqua, del vento, tutte le anime della selva, e più lontano ancora. Si consultò. Bevve il succo sacro della liana-del-morto, oni xuma è il suo nome, voi la chiamate ayawaskha, e alla fine, ricorrendo a meditazioni, diete, digiuni e componendo icaros, elesse il suo successore: un ragazzino mezzo bianco, appena tredicenne, figlio di madre uru e padre virakocha, più meticcio che virakocha, cauchero di Arequipa. Così il grande maestro Ximu scelse me, su incarico delle anime che sono le varie ombre del dio Pachakamàite, anche se ora Pachakamàite è privo di corpo. Facendo ricorso ai suoi poteri e all'oni xuma, scelse me. Mi rapirono, me lo ricordo bene. Solo più tardi venni a sapere che Ximu in persona aveva guidato i rapitori formato da sette persone. Ma allora non lo vidi. Ximu diresse l'operazione da lontano, dalla selva, praticando digiuni, preoccupandosi che tutto andasse bene. Quel giorno mio padre mi aveva mandato con una sua domestica, una ragazzina campa, nella capanna vicino, accanto alla casa grande. Era una capanna che serviva per gli ospiti, secondo le abitudini degli abitanti del territorio vicino all' Unine, che erano diverse dalle nostre. Era il giorno in cui nacque mia sorella e mio padre stava assistendo al parto. Io stavo giocando, tiravo sassolini e semi contro un tiwakuru che cantava su una wimbra, tra i fiori alti, quando mio padre apparve ridendo tra le piante. Mi voleva fare una sorpresa. L'avevo appena visto in casa, vestito diversamente, che faceva l'ostetrico; Ma eccolo lì, davanti a me, che ride. Non sapevo che pensare, perché era mio padre, inoltre era completamente nudo, portava una cordicella di tamshi legata alla vita, la faccia e il petto dipinti di rosso. Mi prese per mano senza parlare. Ebbi un attimo di incertezza. Ma la faccia era quella di mio padre, forse solo un po' più scura, e il corpo e la voce, andiamo!, mi disse, erano quelli di mio padre. La ragazzina campa che si occupava di me, non fece nessun gesto, non disse niente, rimase nella capanna guardando da un'altra parte, come se non ci fosse nessuno, come se non avesse visto niente. Così è andata. Mi portò via un chullachaki vestito con il corpo di mio padre mentre

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mio padre, in quel momento, stava assistendo felice alla nascita di mia sorella. Camminai per ore insieme a quest'altro mio padre, l' amawaka, finché non raggiungemmo altri sei amawaka nella selva. Sicuramente camminammo a lungo, sia da soli che con gli altri, perché arrivammo qui il giorno successivo alla partenza. Fui accolto, mi ricordo, da una vecchietta, si chiamava Rosa Urquìa, mi tolse i vestiti, mi fece fare un bagno, mi cantò strane canzoni, mi fece indossare una cushma gialla. Con lei rimasi rinchiuso nella sua capanna per sette giorni senza vedere nessun altro. Mi nutri con banane cotte sulla brace, mi dimostrò affetto mettendo in fuga ciò che rimaneva della mia paura, mi fece dormire tranquillo in compagnia di un giocattolo che si ricava dal gambo del tohé. Dormivo di giorno e di notte; di giorno, sognavo delle cose molto belle con gli occhi aperti, di notte, con gli occhi chiusi, lo sguardo rivolto verso l'interno. Dopo una settimana conobbi Ximu.

Insapillo e Ivàn mantenevano sempre la stessa posizione, Cèsar si alzò, si avvicinò a Ino Moxo, rivedo i suoi occhi smisurati sotto l'ultima luce, il movimento della sua bocca socchiusa, più scura dell'aria, come se parlasse dalle braccia del renaco che combatte in mezzo al Mishawa. Sempre sette, dice mio cugino Cèsar, sette gli uomini che l'hanno rapito, sette i giorni trascorsi prima che si presentasse il capo Ximu. E dando vita a un fiammifero, guarda il suo orologio: ora sono le sette di sera, e oggi è il sette luglio...

Il maestro Ino Moxo senza ascoltarlo: — Quel giorno smisi di essere quello che ero, il figlio di

mio padre e di mia madre, e cominciai a essere amawaka, yora, figlio di Ximu, discepolo di Ximu, erede di Ximu...

vita, tradimento e morte del curaca Hohuaté

C'era un curaca campa, dice il cauchero Zacarìas Val-dez, un curaca amico nostro, che si chiamava Hohuaté. Fu Hohuaté ad accompagnare il Colonnello Portillo nelle sue esplorazioni su disposizione di La Puente, insieme ad altri della sua tribù ashaninka. Il Colonnello Portillo, illustre capo del nostro esercito diventato poi prefetto di Loreto, una volta giunto sul fiume Ucayali, grato per i servizi del curaca, gli regalò alcune armi da fuoco, tra cui una pistola.

"Durante la traversata, all'altezza della confluenza del-l'Ene con il Perené, a una festa dei campa del fiume Tambo, scoppiò una rissa dovuta all'eccesso di masato. Hohuaté ferì a un occhio con un colpo di pistola il curaca dei campa, poi se ne andò riprendendo il viaggio con tutti i suoi compagni. Questo incidente dette origine a una irriconcilia-bile inimicizia tra i due campa.

"Ti dirò qualche altra cosa sulla vita di Hohuaté. Quando il generale Andrés Avelino Càceres y Ruiz andò a Aya-cucho, sua terra natale, attraversò l' Apurimac e si fermò da Don Manuel La Puente, che lo conosceva bene perché era stato Sergente Maggiore all'epoca in cui il generale era stato Presidente della Repubblica, e perché prima avevano lavorato insieme nette campagne di La Brena durante la guerra contro il Cile. Il generale Càceres chiese a La Puente di regalargli il curaca Hohuaté per battezzarlo; la richiesta fu accolta. Hohuaté fu portato a Ayacucho e battezzato nella Cattedrale, dal Vescovo. Il generale Càceres e il Senatore

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Ruiz fecero da padrini. E Hohuaté prese il nome cristiano di Andrés Avelino Càceres y Ruiz. Riempito di regali dai suoi padrini, il campa nostro amico ritornò all' Apurimac.

"Come ti dicevo, La Puente ordinò che questo capo mi accompagnasse durante il viaggio dal momento che conosceva il fiume molto bene. Come prima cosa ci consigliò di non navigare senza armi perché gli huncunina, selvaggi che abitavano sulle rive del Tambo, ci aspettavano per attaccarci. Seguendo i consigli di questa magnifica guida, tornai a Huanta e comprai una certa quantità di armi che i commercianti ci avevano messo da parte, carabine, winchester, remington, ecc., e una discreta quantità di munizioni.

"Di ritorno all' Apurimac detti l'ordine di preparare sei grandi canoe rafforzate ai lati con dei tronchi di legno gal-leggianti, ben fissati, che permettono una grande stabilità e impediscono l'affondamento. Terminati i preparativi con-tinuammo il viaggio con più di cento uomini. Tre insenature prima di arrivare atta confluenza dell'Ene con il Perené, il capo Andrés Avelino Càceres y Ruiz mi consigliò di fermarci, di pernottare sulla spiaggia e ripartire all'alba. Secondo lui, infatti, quello sarebbe stato il momento più opportuno per attraversare la foce del Perené, evadendo la vigilanza del curaca che lui, Hohuaté, aveva ferito quando era ancora Hohuaté, e che sicuramente lo stava aspettando per vendicarsi.

"E così attraccammo sulla spiaggia e ci accampammo. Fu uno spettacolo vedere Andrés Avelino Càceres y Ruiz mentre si toglieva gli stivali e il vestito da uomo civilizzato, indossava la cushma e si dipingeva il viso con l'achiote, per prepararsi, ridiventato Hohuaté, a sostenere un eventuale scontro. Ordinai di prendere delle canne adatte, poi le feci tagliare a strisce e intrecciare a forma di stuoia per costruire dei pamacari, uno per ogni canoa, come avevamo già fatto durante l'esplorazione del Madre de Dios. Mi sembrò molto naturale che Hohuaté, dopo aver fatto dei meticolosi controlli, dichiarasse che non c'era nessun pericolo. Ripartimmo alle tre del mattino mantenendoci al

centro del fiume, e, nel silenzio assoluto, alle quattro e mezzo attraversammo la foce del Perené senza che i selvaggi se ne rendessero conto. Alle sei, dopo aver percorso un buon tratto di fiume, avvistammo due campa che stavano pescando e che ci chiesero chi eravamo. Nessuno di noi rispose, me compreso. Ma il curaca Andrés Avelino Càceres gridò:

— Hohuaté! "Sentendo quel nome i due campa corsero a prendere le

armi e ritornati al porto salirono sulle loro imbarcazioni remando in fretta per andare ad avvertire della nostra presenza i loro compagni che non dovevano essere lontani. Le nostre imbarcazioni, per effetto del rinforzo che avevamo fatto, si muovevano più lentamente di quelle dei selvaggi, per cui gli fu facile superarci. Erano circa le otto quando, in una gola, ci attaccarono da tutte e due le sponde. Nonostante due uomini rimanessero feriti i pamacari ci difendevano bene dal momento che le frecce non riuscivano a attraversare la spessa maglia di canne che oltretutto era stata rafforzata all'interno con ponchos e coperte. I nostri rispondevano con colpi di carabina sparati a caso perché non si distingueva nessun bersaglio, dal momento che i selvaggi, avendo già provato le armi da fuoco, si nascondevano tra gli alberi fitti. Andrés Avelino Càceres y Ruiz scherniva i suoi avversare ballando sulla poppa detta canoa, schivando le frecce, e invitandoli a uscire allo scoperto per vederli. Gli attaccanti rispondevano pregandoci di non sparare perché non potendo vedere le pallottole non le potevano schivare come invece faceva Hohuaté con le frecce, e ci dicevano che sarebbero usciti allo scoperto per combattere chiunque, ma da pari a pari, faccia a faccia, freccia contro freccia...

"Riuscimmo così a tenere la situazione sotto controllo ancora una volta grazie atte nostre armi, ma i selvaggi smisero di attaccarci solo quando si esaurì la loro scorta di frecce. Ci gridarono di aspettare, mentre andavano a fare rifornimento. Noi continuammo a navigare e ci accampammo su una spiaggia verso le sei del pomeriggio. Vigilam-

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mo per tutta la notte. E la notte passò senza novità, così credevamo, essendo ormai lontani dalla zona nemica. In realtà, la notte trascorse sema novità soltanto per noi pe-ruviani. Gli indios che ci accompagnavano, selvaggi detta tribù di Hohuaté, ci svegliarono presto con le loro grida: il curaca Andrés Avelino Càceres y Ruiz era morto, colpito al petto con un dardo avvelenato, cosa che ci fu difficile credere perché gli avevamo permesso di dormire nella nostra imbarcazione, protetto dai nostri soldati che non si erano mai mossi dal loro posto di guardia.

— Inganiteri, l'ha colpito Inganiteri con un virote!, gridava il più vecchio detta tribù di Hohuaté. Chiesi chi era Inganiteri, pensando di vendicarmi su di lui, pensando che fosse uno dei campa che ci accompagnavano. Il luogotenente di Hohuaté mi informò che Inganiteri era un grande stregone, uno shirimpiàre, precisamente quel capo campa che era rimasto ferito dallo sparo di Hohuaté e aveva perso un occhio, tempo fa, in quella festa..."

il capo Ximu ordina, i fiumi obbediscono

Il grande maestro Ximu, che vidi da piccolo, poco dopo che ero stato rapito, mi fece assistere ai suoi riti perché imparassi. Il primo fu un rito di vendetta. Faceva lunghe meditazioni per invocare gli spiriti e praticava digiuni nella foresta. Le diete erano spietate con il suo corpo, ingeriva oni xuma tutti i giorni, ayawaskha mescolata con foglie di tohé, per alimentare le visioni, visioni sfumate d'argento, d'oro, ma reali, naturali, e foglie di coca per la divinazione. Quitàitre, Quitàitre!, diceva lo stregone. Tranquillo, tranquillo!, così diceva. E beveva wankawisacha per mondare l'anima, per poter separare l'anima dal corpo e mandarla lontano, nel tempo, la beveva mescolata all'oni xuma e prendeva anche chirisanango, e in alcuni casi uchusanan-go. A soli tredici anni, io imparai a vedere le sue stesse visioni. Lui me le comunicava perché potessi imparare. L'ultima volta che assistetti alle sue visioni di richiamo, le sue visioni di vendetta contro i virakocha, rimasi come irrigidito, precipitando in una spirale tenebrosa. Anche se non sudavo la mia pressione era bassissima e il capo Ximu dovette infilarmi la testa nel fiume Mishawa per farmi reagire. Le visioni non si interruppero, stavo meglio fisicamente, ma non nell'anima. Questa fu la prima volta che Ximu mi sdoppiò. E la mia anima vedeva. La mia anima si separò dal corpo e mi portava dall'aria, ricordo, la visione di una imbarcazione che affondava. La mia anima si innalzava, volava su un grande fiume, dalle acque marroni quasi dorate, che sembrava immobile. Non è fermo,

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mi disse la mia anima, sta solo fingendo, mi disse volando con me da una riva all'altra, sta tornando nel tempo, mi disse, sta ritornando indietro. E potei distinguere che quella corrente impetuosa apparentemente quieta era l'Urubamba, il Fiume Sacro degli Inka. La mia anima mi portava per le spalle come se fossi una preda, il mio corpo appeso agli artigli della mia anima, e mi fece vedere quell'imbarcazione che affondava. La barca affondava e si salvavano tutti i passeggeri tranne due, tutti si buttavano dalla barca che andava contro uno spaventoso vortice, una muyuna, e il timoniere era un bambino della mia età, proprio come me, e diceva mi chiamo Aroldo Càrdenas, me ne ricordo molto bene, ricordo la sua voce, il timoniere guidava l'imbarcazione verso il gorgo, alzava gli occhi su di me, verso la mia anima, e gridava.

— Il campa Severo Quinchókeri, mi dice Ruth Càrdenas, la moglie di Don Javier, qui a Iquitos, il campa Severo Quinchókeri ci disse che grazie all'ayawaskha aveva potuto vedere come lo stregone Julio Valles aveva rubato mio fratello Aroldo con l'inganno, assumendo le fattezze e la voce di mia madre.

— Io sono Aroldo Càrdenas!, gridava il macchinista guidando la nave verso quel vortice.

— Un chullachaki non è più una persona, continua Ruth Càrdenas, un chullachaki, Aroldo per esempio, è un'apparenza di persona, è come nessuno, un recipiente vuoto che gli stregoni riempiono a loro piacere dandogli le fattezze dei corpi che vogliono, dei corpi con i quali vogliono trarre in inganno. Dentro quel nulla che è il chullachaki, e che comunque ha grandi poteri, mettono le persone che ci vogliono far credere, non so se mi capisci...

— Io sono Aroldo Càrdenas!, gridava. E anche lui si buttava in acqua. Si buttava poco prima che la barca fosse ingoiata dal vortice e insieme agli altri raggiungeva la riva, io lo vedevo, poi ritornava in acqua e camminava lentamente sul fondo del fiume. E man mano che si allontanava dai sopravvissuti il suo corpo andava cambiando, diventava vecchio, sempre più vecchio e curvo. Si salvarono tut-

ti, tranne due che se ne stavano a chiacchierare e a ridere in una cabina, senza rendersi conto di nulla, senza che nessuno li avvisasse, tutti e due completamente ubriachi. Questo ho visto nella mia visione.

"Il giorno dopo, era il 9 luglio — commenta con amarezza Zacarìas Valdez in un opuscolo pubblicato nel 1944, intitolato 'Il Vero Fitzcarrald di fronte alla Storia ' — Fitzcarrald parti a bordo dell' 'Adolfito'. Dopo varie ore di navigazione, raggiunse le rapide del Mapalja, nel fiume Urubamba. L'imbarcazione, che aveva la chiglia molto bassa, procedeva lungo la riva, a tutta velocità. Fu così che in prossimità di un gomito del fiume, invece di aprirsi a prua per seguire la corrente, continuò a navigare accostata alla riva e fu investita di fianco dall'impeto del fiume che le fece deviare la rotta. Il timoniere, un vecchietto che si chiamava Perla, manovrò in modo da raddrizzare l'imbarcazione, ma il timone sotto lo sforzo eccessivo si ruppe. Gli uomini dell'equipaggio rendendosi conto che il timoniere aveva perso il controllo della lancia, si tuffarono in acqua e si salvarono tutti ad eccezione di Fitzcarrald e del magnate del caucciù, il boliviano Vaca-Diez, che si trovavano nella cabina, ignari di quanto stava succedendo fuori, festeggiando il patto di unione delle loro società per sfruttare l'intera Amazzonia.

"L'imbarcazione, in balia della corrente e abbandonata anche dal timoniere, che non ebbe il tempo di avvisare i due magnati e si buttò in acqua senza neanche spegnere il motore, si infilò a tutta velocità nel vortice capovolgendosi e affondando.

"Dopo la tragedia, contando i sopravvissuti, ci accor-gemmo che mancava il vecchio Perla; sicuramente era morto anche lui. Dopo due giorni, i nostri rematori piro, rimasti lì per cercare i cadaveri, trovarono il corpo di Fitzcarrald incastrato tra i pali di una gora. I cadaveri del cauchero boliviano Vaca-Diez e del timoniere Perla non furono mai trovati. La tragedia fu più grande di quanto tu possa im-

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maginare, perché nella cabina dell' 'Adolfito' i due caucheros più grandi del Perù e della Bolivia stavano festeggiando la loro alleanza per sfruttare meglio il caucciù e per portare il progresso nell'Amazzonia e nella Patria...

"Il corpo ài Fermìn Fitzcarrald fu sotterrato alla foce dell' Inuya, quel maledetto affluente dell'Urubamba. I sel-vaggi approfittarono di questa occasione per assalire i cau-cheros. Gli indios amawaka assassinarono persino Delfìn Fitzcarrald, fratello dell'indimenticabile cauchero, nel fiume Purus. E i piro, nostri antichi alleati, non furono da meno; uccisero nel Curiyane, affluente del fiume Las Pie-dras, Carlos Shonfe, Leopoldo Collazos e tutti i loro dipendenti, lasciando in vita soltanto le donne e i bambini.

"Il fatto è che a quei tempi i selvaggi usavano armi da fuoco. Qualcuno gli aveva già insegnato a sparare..."

5. Ino Moxo dice che le parole nascono, crescono e si riproducono, ma non in spagnolo

— La verità non è la verità ma la nostra verità, esclama con voce dura e tenebrosa il maestro Ino Moxo. È la verità dell'oni xuma, la verità del chullachaki, la maledizione di Ximu! Per la prima volta lo vedo alterarsi, respira con forza rivolto verso il Mishawa che scorre di fronte alla sera, poi con voce più pacata:

— Ximu mi ha insegnato tutte le nostre verità... E ormai arreso all'oscurità: — Sarebbe falso se ti dicessi che mi sono adattato con

facilità alla vita degli amawaka, sarebbe falso se ti dicessi semplicemente che mi sono adattato. In realtà è come se fossi sempre vissuto qui, svegliandomi presto con loro, andando a caccia, pescando di notte, celebrando feste, combattendo, amando, abbattendo alberi per costruire canoe, raccogliendo legna, accompagnando le donne a catturare tartarughe e a raccogliere uova di cupiso sotto la sabbia, imparando a remare senza rumore di gocce, e a preparare frecce e veleno per frecce, a lucidare cerbottane e archi grandi e a soffiare dardi senza che l'aria se ne accorga. E, soprattutto, stando sempre vicino al maestro Ximu, accompagnandolo ovunque, presenziando ai suoi digiuni, alle sue invocazioni, ai richiami, agli scambi di conoscenza, scandendo uno a uno i suoi icaro, come se io fossi un'altra sua bocca, senza mai smettere di ascoltarlo. Mi ha insegnato

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le cose che si possono sapere, che si devono sapere, a be-neficio di tutti gli esseri viventi; uomini, cose, animali, tutti. Il mio apprendistato con il maestro Ximu è durato fino a quindici anni, poi, da lontano, sono venuti altri capi a insegnarmi le loro pratiche. Fu l'anno in cui morì il grande maestro. Da poco mi aveva nominato suo primogenito. Quando sentì che la morte era vicina, indossò per entrare nella morte, la cushma gialla dei riti, si congedò da me senza salutare gli altri e si perse nel bosco. Il suo corpo si dissolse nel fumo...

Siamo arrivati al paese di Ino Moxo da quattro giorni, è quasi mezzogiorno, neri coccodrilli riposano sotto il sole, di fronte e accanto a noi, sulle spiagge luccicanti di ciottoli, le due rive del Mishawa, che in questo momento sta per sopraffare il renaco trascinando i suoi resti tra le acque impetuose verso il grande e sacro Urubamba.

— Ti confiderò solo alcune cose, dice piano Ino Moxo, seguendo con lo sguardo il renaco che scompare e riappare sballottato dalla corrente, si afferra all'acqua e si perde nel vortice. Il maestro Ximu mi ha restituito alla mia vera stirpe e alla sua saggezza, mi ha informato che il miracolo sta negli occhi, nelle mani che toccano e accertano, e non in ciò che si vede e che si tocca...

Le infanzie del rapito ebbero inizio con una lunga festa, cerimonia animata da bevande e nostalgie feroci, nel corso della quale venni ribattezzato. Stese le braccia e dall'alto della macchia piovve la sua nuova vita, Ino Moxo, ripetevano i rami colpiti dalla pioggia, Ino Moxo, come talismano fatto di radici e di oscurità: Pantera Nera.

Imparando a conoscere le piante, gli animali tiepidi, gli animali assenti, le cose e le pietre e le anime, diventando abile nel fare la guerra e nel dare consigli, degno di farsi ascoltare dalle ombre, e dai corpi delle ombre, così pensò Ximu, il giovane prigioniero avrebbe raggiunto le più alte profondità. Mascherato con la sua antica identità, con i vestiti e i gesti di un meticcio, avrebbe ingannato gli ingannatori, avrebbe ottenuto carabine e munizioni dai commercianti bianchi. Poi ritornando alla sua vera vita,

avrebbe insegnato come si usano quelle cerbottane di ferro che lanciano dardi tonanti. Così dispose Ximu e così fece, e addestrò il rapito in una notte che non dimentica. Nudo e chiaro tra i nudi corpi color rame, circondato dai capi della tribù, ricevette il suo destino alla fine di una seduta rituale di ayawaskha.

— Visioni, venite!, esclamò Ximu, dosando le immagini dell'allucinogeno nella mente del giovane e impadro-nendosi, con quelle due parole, della sua emozione, delle sue anime e della sua vita. E il giovane sentì che tra le sue esistenze e quelle del vecchio Ximu non esistevano più barriere. Il minimo gesto del vecchio acquistava ai suoi occhi carezze di comando, ogni suo pensiero era guardato e ascoltato attentamente. Comunicando attraverso lampi e ombre, tra visioni lente e colori, Ximu cominciò a trasmettergli la sua pazienza e la sua forza. Gli disse quali ordini doveva accettare dalle anime che vivono nell'aria, quali indicazioni chiedere e ascoltare dall'ayawaskha, quali programmi e quali azioni, e gli donò la capacità di esercitare quegli ordini e di trasmetterli, di sanare corpi e anime, di modellare la propria vita con mani servizievoli. Come prima cosa il giovane dovette imparare a riconoscere nei minimi particolari la boscaglia confusa, capire la selva, le piante, una per una, distinguerne le funzioni, i nomi e le madri. Perché ogni vegetale ha una madre propria e una sua qualità specifica. E così per gli animali, persino quelli più inutili, tutti, persino quelli che non esistono. Cominciò dagli uccelli durante la sua prima seduta di ayawaskha. — Ricordi com' è la panguana?, lo incalzò Ximu. Voglio che ne fai apparire una, adesso, per me. E il giovane chiuse gli occhi e li riaprì.

— E lì c'era la panguana!, mi dice Ino Moxo. La panguana era lì, vicino al capo Ximu e vicino a me. La vedevo benissimo, senza coda, con le sue piume verdi maculate di marrone. I colori dell'uccello erano un solo colore con le reminiscenze della luce, con la penombra che si muoveva dietro le torce, sulle foglie secche sparse per terra. Potevo

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vedere ogni cosa nei minimi particolari. Non mi è più ca-pitato di vedere con altrettanta chiarezza.

— La panguana comincia a muoversi, lo avvisò Ximu. E la panguana si agitò, cominciò a girare nel campo della

visione del giovane. Ximu con un ordine fece venire dall'aria una panguana maschio, e la coppia di pernici entrò in una danza amorosa volteggiando e beccandosi con dolcezza. Apparve un'ombra tra le due pernici, qualcosa che poggiandosi per terra diventava nido con cinque uova azzurre.

— È il maschio che cova, dice Ximu. — E vidi come si schiudevano le uova!, esclama Ino

Moxo, e da ogni uovo nascevano due panguana, perfette e già adulte!...

— Non fu uomo fu donna, dice Don Javier alla mia memoria. Perché il dio Pachakamàite aveva disposto che Kaametza e Narowé avessero cinque...

Ino Moxo lo interrompe: — In seguito mi furono sufficienti le visioni di Ximu per

imparare a conoscere i diversi tipi di panguana. Conobbi i trompetero e le wapapa, e molti altri uccelli, tutti gli uccelli. Il capo Ximu ne imitava il canto ed essi apparivano, entravano nel campo delle mie visioni, animali diurni, animali notturni, che poi cantavano da soli e le loro voci entravano nella mia vita, formavano quell'altra parte del mio repertorio e per sempre... Lingue molto belle, che ancora oggi ricordo. Il capo Ximu mise il mio cuore, la mia bocca, il mio corpo spirituale, il mio corpo materiale, in quegli anni, nella voce di quegli anni. Mi insegnò tutte le lingue, quelle degli uccelli, persino quelle dei vegetali e quelle più complicate delle pietre. Mi insegnò a controllare il potere dei vegetali e delle pietre, le qualità malefiche e benefiche delle erbe. E soprattutto mi insegnò ad ascoltarle, mi insegnò a saperle ascoltare, guidò il mio udito verso i loro poteri, ciò che sanno e ciò che ignorano, attraverso l'ayawaskha. Adesso, se trovo una radice, un fiore, una liana, che il maestro Ximu non ha potuto mostrarmi nelle visioni, sono in grado di ascoltare quella radice, quel-

l'arbusto, quel fiore, quella liana, e così stabilisco qual è la sua anima, quale solitudine o presenza la governa, come è nata, a che cosa serve, che tipo di dolori cancella, con quali mali si gonfia. E so già con quali digiuni, con quali icaro, posso aumentare o ridurre le forze di quel vegetale. Con quali canzoni posso alimentarlo, con quali trasmissioni di pensiero trasformarlo. E mi accade lo stesso con le persone, perché il maestro Ximu mi ha trasmesso le sue conoscenze anche sulle persone. E mi ha insegnato persino a distinguere i giorni delle piante. Perché certi giorni la pianta è femmina e serve per una determinata cosa, e altri giorni è maschio, e serve esattamente per il contrario...

— Se arrivo a un fiume grande sono salvo, disse il renaco assente nella mia visione. Dopo. Adesso sento il luogo in cui i rami del renaco hanno lottato contro la corrente, mi sento al loro posto mio malgrado:

— Ayawaskha, in dialetto amawaka, cosa mi ha detto che...?

— La tua domanda non è corretta, mi interrompe Ino Moxo con un sorriso ironico e pietoso. In lingua yora, non in dialetto, in lingua, le frasi a volte possono allontanarsi per sempre e riunirsi, intrecciarsi e per sempre separarsi, molto più lontano dell'infinito...

E girando il volto nostalgico, perdendosi nell' assenza del renaco in mezzo al Mishawa:

— Sarà per il carattere di queste selve, di tutto questo mondo ancora in formazione, fiumi che all'improvviso al-terano il loro corso, acque che diminuiscono e crescono in pochi attimi. Te ne sarai accorto: se ancori la tua canoa senza tirarla in secco, il giorno dopo la troverai sospesa in aria, se la troverai, e il fiume, acqua trasformata in pietra, ti guarderà dal basso. Altre volte può succedere il contrario: la tua piroga se ne andrà ancorata alle correnti che crescono improvvise e inaspettate. Questo è un mondo ancora in formazione, alla ricerca ostinata di un suo posto, dove adattare ciò che appartiene ad altri mondi. Alberi giganteschi che cadono con i precipizi, spuntano sulle isole che oggi, come il renaco, dormono qui vicino, e domani si

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svegliano lontano, e in pochi attimi si ripopolano di piante, di persone, di animali. Per vedere e capire e nominare un mondo così, abbiamo bisogno di parole adatte. Flussi e flussi di parole, boschi di parole che oggi sono qui e domani si svegliano lontano, e, in quel momento, nella stessa bocca, si popolano di altri segni, di nuove risonanze. In spagnolo forse ti sarà difficile capirlo. Lo spagnolo è come un fiume quieto: quando dice qualcosa, dice solo ciò che questo qualcosa dice. L' amawaka no. Nella lingua amawaka le parole contengono sempre altre parole...

E con una voce che soltanto ora riconosco, la voce già udita nell'Hotel Tariri di Pucallpa che Ino Moxo emetteva attraverso la bocca chiusa di Don Javier, mi dice:

— Le nostre parole sono come pozzi, pozzi in cui en-trano le acque più diverse: pioggia fitta, tenue pioggia d'altri tempi, oceani che sono stati e che saranno di cenere, vortici di fiumi e di esseri umani e anche di lacrime. Le nostre parole sono come persone, sono più che persone, non si limitano a esprimere un unico significato, né assomigliano a quei vasi che si annoiano con la stessa acqua al punto che dimenticati dalle loro persone, dalle loro parole, si rompono o si rovesciano esaurendosi quasi a morire. No. Nei nostri vasi entrano fiumi interi, e se per caso si rompono, se per caso l'involucro delle parole si frantuma, l'acqua rimane vivida, intatta, corre via e si rinnova senza sosta. Le parole sono esseri vivi che vanno per proprio conto, animali che non si ripetono, che non si rassegnano a una stessa pelle, a una stessa temperatura, agli stessi passi. E si uniscono come le panguana e procreano...

— Dalle parole tigre e ballo può nascere orchidea, o forse veleno-di-tohé. Da notte resa gravida da un tibe, una specie di gabbiano dei nostri fiumi, nasce la parola lampo che è gemella della parola che in amawaka significa sìlen-zio-dopo-la-pioggia. Perché in amawaka non c'è un solo silenzio, silenzioso, che non dice nulla, come nella tua lin-gua, ci sono molti diversi silenzi, come nella selva, come nel nostro mondo visibile, e come nei mondi che non si vedono con gli occhi del corpo materiale...

— Quindi, le parole procreano... — La tua domanda non è corretta, non tanto per im-

pertinenza o ignoranza, quanto per pregiudizio virakocha. Comunque non voglio lasciarla senza risposta. In lingua amawaka l'ayawaskha è oni xuma, scrivilo. Ma oni xuma non significa soltanto ayawaskha. Vedrai. Secondo come viene detta e perché viene detta, secondo l'ora e il luogo in cui viene detta, la parola oni xuma può significare ciò che significa o il suo contrario. Se io pronuncio così, oni xuma, con la voce sottile, luccicante, come scandendo fuochi e non lettere, nell'oscurità, oni xuma significa filo-dipietra-liscia. E detta in un altro modo significa tristezza-che-non-esce. E significa punta-della-prima-freccia. E significa ferita. E allo stesso tempo bocca-dell'anima. E contemporaneamente è sempre ayawaskha.

— Ayawaskha, che per noi non è un piacere fugace, felicità o avventura senza seme, come per i virakocha. L'ayawaskha è una porta, non per fuggire ma per entrare nell'eterno, per entrare in altri mondi, per vivere in questa natura e allo stesso tempo nelle altre, per rincorrere i confini irrangiungibili della notte che non ha distanza.

È per questo che la luce dell'oni xuma è nera. Non spiega. Non rivela. Invece di svelare i misteri, li rispetta, li fa diventare sempre più misteriosi, più fertili e prodighi. L'oni xuma irriga la terra sconosciuta: questo è il suo modo di illuminare.

— E quando lo invochiamo solleciti, con fame e con rispetto, con una cadenza d'acqua leggera, d'acqua che passa tra l'abbraccio di due pietre rotonde, oni xuma, oni xuma è lato-di-un-coltello-di-pietra, con cui tagliamo le dita al Maligno, con cui separiamo il corpo dalle sue anime... Se un'anima è ammalata, o in pericolo, la separiamo dalla sua materia dura, evitiamo il contagio, proteggendo il corpo tra pareti di anime. L'ayawaskha ci insegna a riconoscere il male e a capirne l'origine, ci dice con quali erbe, con quali icaro dobbiamo spaventarlo. E se è malato un corpo, ci comportiamo allo stesso modo: lo separiamo dall'anima per evitare che la faccia marcire, isolando le parti

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malate con quelle radici che noi sappiamo adatte a mantenere separati il corpo spirituale e l'anima materiale, finché la carne risusciti nel cuore stesso della sua salvezza. Finché la sua metà d'aria, la sua metà d'ombra non riprendono a crescere nel corpo come un renaco, innocente, che non conosce soltanto ciò che conosce la carne e non gli importa essere felice o eterno dal momento che entrambi questi stati non sono nulla e tuttavia sono per tutti. Gli è indifferente essere per se stesso in eterno o per colui che, in modo effimero, ne gode... E questo che non è niente, è tutto. Ci sono dei doni, dei poteri, dei dettami. Non c'è nessun miracolo, nel senso che il tuo pensiero dà ora alla parola miracolo. Non c'è nessun miracolo nella cura, né nell'invocazione, né prima né dopo l'oni xuma. Ci sono radici e succhi di radici, ci sono cortecce adatte per una cosa o per l'altra, vari tipi di pioggia da bere, e anche certe pietre. L'ayawaskha sa in quale modo e in quali casi utilizzarle, quando e come tagliarle e prepararle, e l'ayawaskha ci trasmette queste conoscenze, se lo reputa opportuno, se l'anima o il corpo lo meritano. Per farti un esempio: se tu vivi solo per la tua vita, hai già scelto di morire. E come niente riuscirà a guarirti; anche se apparentemente sembra che tu sia nato e che continui a vivere, morirai, sei già morto. Ma se rimani nel tuo posto, se la tua anima rimane nel suo posto e così il tuo corpo, senza strappare a niente e a nessuno il proprio spazio vitale, allora non ci sarà male che possa difendersi. L'oni xuma mi consiglia, mi ordina il vegetale e il pensiero giusto, la medicina esatta che pulirà la terra e l'aria dai corpi. Per questo è necessario l'oni xuma: perché il malato non avanzi, non retroceda e al tempo stesso non si fermi. Affinchè il sangue segreto del malato continui a scorrere. Ti parlo del sangue che alimenta il sogno, senza confini, come una volta scorrevano le esistenze degli ashaninka, dei campa, il tempo degli uomini nel sogno, il tempo degli uomini nel tempo perfetto. Questo è tutto e niente; te l'ho già detto. Quando si sa chiamare l'ayawaskha, tutto ciò che è impossibile diventa facile. Non c'è errore. Non ci sono miracoli. C'è ciò

che ci meritiamo di conoscere e ciò che ci meritiamo di ignorare. Questo è ciò che gli uru ignorano nella loro sa-pienza. Tutto è meritato. Ogni dolore, ogni malattia, viene al mondo con la sua cura. Il fatto è che ci sono dei corpi che meritano essere tutt'uno con le loro anime, così puliti che non si vedono neanche le giunture, e ce ne sono altri che meritano lo squilibrio costante, sempre orfani di qualcosa, vedovi, celibi di qualcosa, chiusi in se stessi come una tana in un'altra tana. Come ciechi privati degli occhi. Incapaci di dare qualcosa al mondo, senza mai imparare che le anime si alimentano di offerte, le anime si alimentano offrendosi, e che più sono quanto più si danno, e più si danno, più posseggono. Colui che dà solo ciò che possiede, non dà. Dà soltanto chi dà se stesso, la sua vita nella terra di questa vita. Sì, amico Soriano, le anime si nutrono nutrendo. E la cenere diventa acqua quando un assetato la bacia. Ma c'è chi ignora tutto ciò perché ignora gli altri; questi corpi non sono corpi, occupano un vuoto in questo mondo, nelle infinite esistenze del mondo, e per questo manca loro sempre tutto, qualcosa dell'aria, qual-cosa della terra, l'anima e la carne, inservibili, in dissonanza. L'oni xuma li sa separare. Per questo è filo di pietra liscia, è ferita e coltello e punta della prima freccia dell'ultima costola, è ago che cuce o che lacera. Sa dividere i corpi dalle anime e li sa ricongiungere. Sa chi è degno e chi non è degno di questa vita, o di altre vite, o di nessuna. Io obbedisco appena. Senza la luce nera dell'oni xuma non sono neanche in grado di ignorare, né di sbagliare, riconosco il contrario, che è ben diverso, l'ayawaskha mi trasforma nel suo strumento più sfortunato a causa della sua potenza. Molte sono le cose che non conosco, che non riesco a vedere, ma non importa, l'ayawaskha sa. Tutto è meritato. L'ayawaskha fa e disfa, io obbedisco. Se non mi dà nessun ordine, io obbedisco lo stesso. E se mi ordina di posporre la morte, allora sì, allora trasformo qualsiasi male in ricordo!...

— Bene, credo di aver detto molto di più di quanto volesse sapere. Vede? Le parole mettono in movimento al-

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tre parole, mettono in libertà delle potenze, liberano altre forze. Se la persona che ascolta le mie parole sa solo udire le mie parole, è un peccato, ma poco importa: sono già presenti nell'aria le forze che percorrono e trasformano il mondo. Non vede? Glielo ho già detto. Tutto è meritato.

— Vuol dire che l'ayawaskha apre la porta per far entrare il bene?

— Tutto è merito, Soriano. E si volta posando lo sguardo per terra, sotto una melarosa che fino a ieri non avevo visto. Guarda queste formiche, si chiamano cita-ràcuy. Sapevi che predicono il futuro? Io, nel silenzio, penso, sta scherzando. Guardale come corrono per proteg-gersi dalla pioggia, dice Ino Moxo, corrono frettolose, guardale, cercano rifugio come impazzite, ingrate, lasciando dietro il tempo che le ha guidate. La citaruy sa che tra alcune ore, cinque o sette ore, pioverà. Considerando il tempo della loro vita, ciò che per queste formiche è qualche ora corrisponde almeno a dieci o quindici anni della nostra. Quale uomo è in grado di predire con tanta precisione che tra quindici anni, a un'ora determinata, si metterà a piovere? Molti animali che vivono qui lo sanno. Persino certi fiori, con un certo anticipo, si chiudono, si nascondono, molto prima che piova. E molte altre cose sono in grado di presagire. Ho saputo, me l'ha detto l'aria, che molti anni fa tutti gli esseri umani sapevano con anticipo quello che sarebbe successo, li ho visti nel tempo senza tempo. Guardavano il futuro come se fosse il passato. Con il tempo, forse, o con la loro notte, hanno perduto questi poteri. Oggi, è rimasto soltanto qualcuno, in genere i bambini o gli shirimpiàre o gli stregoni. Appena nati abbiamo tutti questi doni, questi poteri, ma man mano che cresciamo, andiamo indietro, chissà perché, e li perdiamo. La parola per esempio. Adesso sto parlando per te. Altrimenti, sicuramente, parlerei in modo diverso, non svilupperei i concetti come fai tu. Ma sono costretto a usare il tuo modo di parlare, devo sottomettere le mie parole alle tue, adeguare i miei pensieri e tacerne altri che non c'entrano, che si ribellano a questa chiusura che voi chiamate

coerenza. Se avessimo tempo, tempo di meritare, forse potrei insegnarti a utilizzare i miei occhi, a parlare con la mia bocca, forse capiresti. Ora devo semplificare tutto. Il problema è il tempo.

E il maestro Ino Moxo, come allontanando la sua bocca, e non la sua voce, dal mio interesse che va aumentando, dal suo corpo seduto sul tronco di fronte al Mapuya, pronunciando sempre più debolmente e lentamente le sue parole:

— Tra poco devo andare via. Il problema è il tempo. E per quanto tu mi voglia aspettare non mi potrai aspettare. Il mio tempo non è il tuo, ma quello del capo Ximu. Questa notte ho sognato il capo Ximu, l'ho rivisto, si è dissolto in fumo, il tempo del suo corpo, in un grande fumo giallo...

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lo schiaffo che incendiò il petrolio

So chi quella mattina prese a schiaffi Severo Quinchókeri. Fu un caposquadra chiamato Eulalio Vargas, furioso perché un barattolo di zucchero era sparito dal suo zaino. Accadde vicino al Sepawa, nella parte alta, nel campo petrolifero dei

francesi. E capitò di peggio: il caposquadra affrontò l'ashaninka Severo Quinchókeri davanti a due piro, due

uomini della tribù più ostile agli ashaninka. Proprio Severo Quinchókeri che, oltre ad essere ashaninka, era marito della nipote preferita del vecchio capo Ximu! L'offeso non reagì né con gesti né con parole, ma il suo severo silenzio segnò, fin da quel momento, la condanna del caposquadra. I piro che avevano assistito all'offesa disposero l'esercito in assetto di guerra. I petrolieri furono avvertiti, ma preferirono ignorare il pericolo e continuarono a lavorare normalmente come se niente fosse.

Il giorno dopo, all'alba, scesero gli uomini di Ino Moxo che assalirono ballando il campo virakocha. Soffiavano nelle cerbottane e suonavano flauti che si chiamano 'songa-rinchi'. Un volto con un solo occhio, inconfondibile, sommò la sua abilità alla rabbia magica della Pantera Nera: gli uomini dell'ashaninka Inganiteri, dimenticando le discordie di tempi remoti, insieme agli amawaka di Ximu e di Ino Moxo incendiarono tutto. Le cisterne di petrolio bruciarono per ore, più rosse e più nere e più alte di una esplosione del cielo. Furono uccisi il caposquadra Eulalio Vargas, l'ingegnere Mauricio Bemos e un altro ingegnere, un greco chiamato Sotiris. Nel tardo pomeriggio, apparvero

le prime uniformi e i fucili del Commissariato di Atalaya. Il campo era deserto, deserte le case degli amawaka li intorno. Sulla terra, da poco smossa, si intravedevano soltanto i resti di corpi semidivorati.

Per non dover combattere contro i soldati, quella non era una questione che riguardasse gli uomini in uniforme, gli amawaka decisero di installarsi più lontano, nell'isola che alcuni chiamano Chumichinìa, nell' Ucayali, tra il paese di Bolognesi e quello di Chicoza, dove sfocia il Puntijau. I petrolieri sopravvissuti non sono voluti ritornare. Non sappiamo perché. Gli amawaka si trovano ancora in questa nuova località, guidati da un campa, l'ashaninka Severo Quinchókeri, e come sempre e come prima vivono in pace.

E questo accadde poco tempo fa, verso la metà del 1976, mi dice Ino Moxo entrando nell'abitato dell'isola Muyuy, attraversando Plaza Rumania cancellata dalla notte o per la notte.

6.

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il maestro Ino Moxo si congeda

— C'è una memoria del cuore?, mi rispose Ino Moxo il giorno seguente. Forse. E sarà da lì che, piegato dalle luci di ayawaskha, mi è apparsa la faccia del capo Ximu, fattezze che confondo con quelle dell' inka Manco Kalli mentre

regge quel vaso di legno. E poi il corpo intero di Ximu, base alata di tronco di lupuna i suoi piedi, sottile e rigido

sotto la cushma che, come luna, crea ombre sulla sua testa di foglie larghe. La sua chioma modellata da jìbaro incapaci, la sua testa ingrandita, conficcata in un palo, mi osserva, e mi osserva il suo corpo di lupuna gialla.

— Devo andare via, dice Ximu, rattristandosi e rattri-standomi, uscendo lentamente dal campo delle mie visioni. E non è il capo Ximu. È il capo Ino Moxo. Mi sforzo per ascoltarlo, riesco appena a sentire il suo corpo, l'icaro vuoto della sua pelle. In un tunnel di paka dalle spine benefiche, osservo le sue parole che volteggiano verso di me, picchiettate di nero, farfalle. Devo andare via, ripete Ino Ximu, ripete Ximu Moxo avvicinandosi a me, il suo volto cade dalla lupuna con filacce di nubi sui capelli scuri che risplendono, castani. Cerco di farmi animo, sono cosciente, mi dico. Nulla. Sono passati anni. Ho visto l'imbarcazione inghiottita da quel vortice di ronzii e penombre, grazie. Ayawaskha e tohé, grazie, grazie mille. Ho visto Kaametza sulla riva che veglia sul sonno di Narowé, grazie. Ho visto Narowé che si svegliava sulla spiaggia di quel lago che era di nuovo un fiume. Ho visto la panguana maschio che covava cinque lune azzurre, forse arancioni, nella supplica

nera di quell'alba, mano del Rio delle Amazzoni, grazie, kotomachàcuy dalle cinque teste che si diramano verso la capanna di Don Juan Tuesta, nell'isola Muyuy, grazie.

E dalle cinque lune, rompendo il guscio fatto di piume di ali squamose, ho visto uscire i figli dei miei figli e andare verso i quattro angoli dell'universo per fondare le stirpi. Ho visto quando tutto il mondo era cenere, il mare, l'amore, l'aria, le promesse, la luna, la giovinezza vecchia delle cose. E ho visto come cadeva il fulmine sulla melarosa. È Kaametza, ho visto che diceva il dio Pachakamàite. È il primo uomo, vedo che dice Don Javier nella hall dell'Hotel Tariri, entrando nel fiume, impigliandosi in profonde risate. Vedo i disegni sui muri dell'albergo e non vedo disegni, vedo volti di anime, di mappe di città, di città che sono anime in movimento, distinguo facce nitide, conosciute, volti di anime boscose! Vedo case che cambiano di posto, città vive, selve inaspettate che si aprono nell'aria, invisibili tra il fitto degli alberi e il pericolo costante. Una donna negra mi dice qualcosa con la bocca immobile, mi avvicino e scopro una cassa musicale ai suoi piedi. Vedo che la cassa suona senza che nessuna mano la tocchi e le sue note sono parole, voci che sfuggono dalla pelle del traditore: una lingua perduta scorre dal tamburo degli indios bora. E vedo che conosco quelle parole, sono vento dei quechua, si disegnano contro la ragnatela che di colpo risplende cancellando la donna bianca, intagliate sulla corteccia del renaco sanguinante, le parole, e il renaco è la pelle di quel tamburo e dalla sua pelle sgorgano le parole, goccia a goccia, dalla terra verso il cielo, pioggia dorata che crepita nell'aria ed entra nella mia nostalgia:

Apu miski yàwar Qespichiway yàwar Auqay kunamanta

Entrano a una a una: apu, onnipotente, miski, dolce, yàwar, sangue. Onnipotente sangue dolce. A una a una: quespichìway, uniscimi al cristallo, fammi ritornare cri-

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stallo, libero, puro. Auqay, nemico, Kunamanta, tutti gli uomini.

Onnipotente sangue dolce: uniscimi al cristallo, fammi ritornare puro liberami da tutti gli uomini che sono miei nemici.

E le parole piovendo versano oro sulle mie orecchie. E la mia testa diventa trasparente, grazie, si trasforma in un vaso di argilla scintillante, pieno di acqua piovana. E nel vaso della mia testa vedo galleggiare un'altra testa, rigida barba di acciaio simile all'armatura di un conquistatore, e dietro la barba spuntano labbra dure e dorate come becchi di wapapa. Mi affretto, la estraggo prima che l'acqua bolla, la lascio riposare sulla sabbia, fermo quel semicerchio di guerrieri, di silenzi, di ombre, intenti a ridurre i loro trofei. Io modello il mio con la cenere calda, con la polvere delle ossa dei miei avi, lo plasmo con fattezze che non ho mai visto e che conosco: è l' inka Hohuaté, è il traditore Morales Bermudes, la testa rinata del traditore, è il piro ata-walpa che bevve dal cranio di suo fratello Wàscar. E l'acqua del mio vaso si fa rossa, luna di Pisaq, Sole di Pawcar-tampu, grazie, colma la mia testa dello sperma del sole, sanguina con sangue cristallino, e dietro spunta Don Javier, plana come un condor, Cristo felice, gli artigli della sua anima pieni di cicatrici, e il condor mi strappa alla terra e mi porta nell'aria. Mi vedo sempre più lontano e allo stesso tempo mi vedo qui nella casa di Ino Moxo, insieme a Ivàn e a Félix Insapillo, con gli occhi chiusi, madido di sudore sul pavimento di pona rovinata. Improvvisamente Insapillo e Ivàn si cancellano, e al loro posto appare un paesaggio mai visto prima, mi vedo camminare tra le rocce, grandi massi scolpiti con profili di scimmie, dinosauri, segni che non capisco, io sono un'impronta di piede umano sulla pietra, ho sessanta milioni di anni! Nella capanna dello stregone, Ivàn si alza, si avvicina a Ino Moxo, la sua voce attraversa la stanza come un serpente di fumo:

— Forse Cèsar non doveva prendere il tohé mescolato con...

E il serpente ha le ali, e fugge e si dissolve in fumo, nel bosco, mi sento più tranquillo, tutto è armonia, mentre guardo con gli occhi, so che quello che vedo non è esatta-mente quello che vedo, so che osservo altre cose. Un bambino amawaka sale i gradini della capanna e sorride. È la guida Ino Moxo, è il piccolo che ci ha portato qui, mi alzo per andare verso di lui, voglio abbracciarlo, la visione ancora una volta retrocede verso il bosco. È Ino Moxo bambino, è l'infanzia vecchia del maestro, l'infanzia della Pantera Nera che di nuovo si allontana e si dissolve sotto la melarosa tra le liane di garabatokasha. Mi giro verso il fumo, oltre lo shirikaipi del vecchio stregone e vedo il fiume Mishawa che scorre nella sua capanna, le acque ver-dinere risuonano sul pavimento di legno, fuggono con fragore attraverso la porta, scendono i gradini di legno, diventati pietra, e precipitano in una docile cascata. Le assi del pavimento si ripiegano per assumere una nuova forma, sono meduse di pietra, sono strani fossili di pesci e di chiocciole giganti, mi abbasso, ne sollevo uno, lo poso alla mia destra, accanto alla wapapa che divora popoli, culture, civiltà vere, uomini di carne e ossa, piccoli come frutti dell'aguaje. La wapapa lacera le loro spalle, beve dalle loro teste ridotte, senza occhi, nel suo becco scorre il Colorado, la vita dei mashko sta scorrendo ancora. Vedo mio cugino Cèsar Calvo che si alza, solleva la wapapa carnivora, le strappa la testa, grazie, con le mie mani. Vedo che dal collo spezzato della wapapa scorre il fiume Mapuya, sotto un sole antico, avanza in direzione dell'Urubamba, sale sulle montagne, grazie, si stringe nella Valle Sacra degli Inka tra cime innevate. E mi addormento con gli occhi lontani e fe-lici, grazie. Mentre dormo, continuo a vedere altre visioni. E so che sono sveglio, e che sto sognando un sogno molto più reale.

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José Maria Arguedas bacia la bocca dì una cerbottana

E non riuscii a vedere più niente altro. Mi svegliai. Se-duto su un tronco di espintana, alla mia destra Don Javier brillava come lettera di morto. Nella mia visione, di fronte a lui cantava Narowé, ma la sua voce era quella di Don Hildebrando a Pucallpa, la bocca di una chitarra bianca che ripeteva i versi di Raul Vàsquez in alto nell'aria, dietro un intreccio di arcobaleni:

E tu mi lasci solo come il cielo addormentato,

come quando la pioggia scrive l'oblio, come le canoe che non vedranno il fiume.

D'ora in avanti non canterai più!, ordinò Don Hilde-brando a Narowé. D'ora in avanti tu sarai il canto!... Il cantore della selva si tramutò in selva. Lo vidi con i miei occhi dirigersi verso il Rio delle Amazzoni, scomparire nell'acqua e ritornare con la luna tra le braccia. E la luna suonava come tutte le musiche del mondo, come tutte le musiche dell'uomo sul mondo. Manguaré, manguaré!, diceva Narowé con le labbra chiuse, cantando in un fiume di ritorno, risalendo l'Urubamba, il Wilcamayo, risalendo la corrente, nel tempo, trasportando i boschi come sacchi di pietre, peccati di colori, rocce grandi di grandi fortezze, che Narowé muoveva con canti silenziosi, che spingeva solo

con gli icaros, con canti e con pensieri, innalzando una im-possibile barriera alle navi dei virakocha, un muro di anime, un invincibile muro di bambù contro la voce del mare...

— Non sono bambù, mi dice Don Juan Tuesta seduto sull'espintana, alla mia destra. Ossa di tannila, peni di achùni, ecco che cosa sono, dice dalla mia sinistra Don Hildebrando. Non c'è uccello più ricercato della povera tannila né essere più invidiato dell'innocente achùni. L'achùni è l'unico essere del mondo che, suo malgrado, vive sempre in piedi: un palo enorme di osso è il suo fallo. E la tannila vive condannata nell'aria: se scende in terra, o perde le due gambe o perde l'esistenza. Non c'è migliore filtro d'amore delle ossa di tannila, sorride Don Juan Tuesta. Don Hildebrando conferma: gli stregoni ingannano la tannila, la attirano cantando come aironi, e la tannila scende e ritorna in cielo camminando su due assenze, su due fili di sangue, come gli amori che scatenano. Gli shirimpiàre curano le loro ossa tagliate, le trattano con icaros, fanno digiuni, le conservano sottoterra. Trascorso il tempo necessario, quel polline argentato detta nube alla cui ombra dimenticano, ormai ossa pulite, pure, le estraggono, le dissotterrano come due sottili cerbottane. E se un uomo rifiutato, usando l'osso di tannila come se fosse un cannocchiale riesce a veder la femmina sdegnosa e nuda, dopo tre giorni non dovrà più inseguirla. Sarà lei a farlo.

— Pukuna dell'amore, ecco che cosa è l'osso di tannila, attraverso la quale si lanciano sguardi infallibili, mi dice Don Hildebrando.

— In realtà, sottolinea Don Juan Tuesta, gli stregoni lo usano come bocchino della loro tradizionale pipa per icaros. Tutti gli stregoni, quando fumano per fare magie mor-dicchiano l'osso di tannila, cerbottana d'osso che funziona al rovescio: invece di essere soffiata viene aspirata.

E Don Hildebrando: — Perché i veri shirimpiàre non fumano quando stanno

fumando: attraverso il tabacco inspirano anime; forze che la tannila ha saputo estrarre dal cielo quando camminava, in un altro tempo, quando calpestava soltanto sen-

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tieri trasparenti e non mete sepolte, non pupille né bocche impietose, piene di fumo...

Non potei più sentirli. Mi svegliai. Con gli occhi coperti chissà da quali sogni, guardai: José Marta Arguedas, avvolto in una cushma gialla e fiammante, ritornava camminando sul fiume, dal molo Dos de Mayo, di fronte all'isola che si annuvolava. La morte lo osservava attraverso l'occhio di una pukuna di tannila.

— Che cosa posso fare!, supplicò la voce rugosa e gri-giastra del Rio delle Amazzoni. Dimmi che cosa devo fare, José Maria Arguedas, perché tu non ci abbandoni, perché tu non offra la fronte rassegnata al dardo scagliato dal nemico!...

E José Marta Arguedas, poco più in là, davanti a me rispose, senza smettere di camminare nel fiume:

— Ritorna all'Urubamba, cosi gli disse, riportami in-dietro con te! Percorri quattro secoli! Retrocedi, Rio dette Amazzoni, quattro secoli lungo il Fiume Sacro. Impedisci lo sbarco dei barbari, dei virakocha, dei conquistatori!

D'ora in avanti non vedrai più nulla! Lo interruppe la voce di Don Juan Tuesta. D'ora in avanti, tu sarai la visione, José Maria Arguedas!

Narowé, il primo uomo, obbedendo, indossò il poncho rosso detta sua cushma gialla, yàwar festa!, gridando, ray-mi-yàwar, cantando, e si diresse verso le ali di quel toro che ardeva, verso le corna di quel condor. José Maria Arguedas avanzò sulla riva, camminò di nuovo sull'acqua, fino atta bocca detta pukuna nera.

E il suo corpo si dissolse in fumo. Io lo vidi nella mia visione.

il maestro Ino Moxo sparisce dissolvendosi in fumo

— Non imparerai mai che non si tratta soltanto di imparare, mi rimprovera Ino Moxo. Se fossi un albero, se io fossi un albero e volessi camminare come un essere umano... — Non potrebbe, naturalmente...

— Lo vedi? si spazientisce. Certo che potrei camminare, si, proprio così, camminerei! E folgorandomi con i suoi occhi castani: ma camminerei come un albero, non come un essere umano!... La stessa cosa succede a voi virakocha: alcuni vorrebbero parlare ma non hanno la bocca. Io potrei dirti molte cose, non ne sentiresti nessuna. E se ne senti qualcuna sarà sempre a modo tuo. La sentirai come un albero, non come yora, non come amawaka. Il problema più difficile non è volere. È il tempo. Con il tempo forse tu potrai sentire e camminare. E con il tempo io ti sentirò, percorrerò la tua strada senza abbandonare la mia. Con il tempo tutto ritornerà a essere di tutti. Potremmo esistere nella nostra vita e, contemporaneamente nella vita di tutte le persone che un tempo sono state cose, e nella vita delle cose che dovranno essere persone. Proprio tutte le esistenze, persino le non-vite che vive un chullachaki, le vite inventate da Don Javier, da me. L'apparenza di vita, per esempio, del mio figlioccio Ivàn Calvo, così simile alla sua vita vera, che se tu lo incontri nel bosco, mentre ritorna, per esempio, dal Mapuya, non avrai il minimo dubbio che

9.

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si tratta di lui. Con il tempo la stessa vita simulata da Ivàn Calvo guiderà la tua vita... Mi capisci?...

Perché i virakocha, nel loro sapere, accettano solo le realtà che fanno la persona, quelle intime e non quelle uni-versali e infinite, non so come spiegartelo. I virakocha ri-conoscono che il nostro fiume non è unico, ce ne sono altri, dicono. Come se ci fossero soltanto fiumi, come se tutti i fiumi fossero d'acqua e tutti avessero un letto che finisce nel mare. Non concepiscono che un fiume possa avere una, o tre o cinque rive. Non concepiscono un fiume di acque quiete, di acque che retrocedono. È impossibile che un fiume possa scorrere senza acqua, dicono, che avanzi senza muoversi fra due paesaggi, che siano i paesaggi che tornano dal mare. Non vedono i mondi che fanno questo mondo, quelli che, per esempio, ci apre l'oni xuma. Alcuni virakocha, quelli che lo sono di meno, accettano come vere soltanto alcune nostre conoscenze, quelle relative alle piante. Ma non si accorgono che le piante non sono che la parte visibile della cura. I virakocha ricorrono alle nostre erbe, ma le usano male. I vegetali non hanno nessun valore se non sono assunti come un tutto, in una totalità di conoscenze che ci sono state trasmesse, in quella infinita architettura di realtà sacre, ognuna delle quali ha una sua porta precisa. Ignorano che queste porte sono una sola, una porta unica, e che la chiave è varia. E che questa chiave non si ripete mai ed è sempre l'oni xuma. Per loro è una sostanza tossica, l' ayawashka è droga, dicono, allucinogeno, e la provano come se fosse un gioco. Così hanno sempre fatto con tutto, da incoscienti, sciupando ogni cosa. Con il tempo do-vranno accettare la nostra verità. Accetteranno non soltanto l'ultima foglia della cima dell'albero, ma lo stesso albero, le sue radici, la terra che le ha create, così fino all'infinito, quel tempo che si ripete e si ripete sempre, come fosse la prima volta nel pensiero, nel pensiero degli uomini quando pensano l'esistenza... Sia quando la vita degli uomini tornerà ad occupare un vuoto giallo, un riflesso nell'aria di cenere, sia quando vivrà un altro tempo, un'altra esistenza, un rumore, una chiocciola di pietra senza memo-

ria. ... Perché le cose non sono soltanto reali o soltanto il-lusorie, certe o vere. Ci sono un'infinità di categorie inter-medie da cui prendono vita le cose, molte categorie di realtà, in un unico tempo e in più tempi. E tu dovrai vederlo. Anche se oggi ti è difficile accettare, per esempio, che noi amawaka non siamo sopravvissuti soltanto grazie ai winchesters e ai proiettili. Ci è stato concesso di diventare invisibili. Ximu con icaros speciali, rendeva invisibili i suoi uomini affinchè i nemici, i caucheros, non li vedessero. Diventavano nulla. Anche io, quando avevo tredici anni, sono stato icarado. E così sono sopravvissuto. I caucheros, passavano accanto a me senza vedermi, cercandomi nel bosco con le loro carabine. E niente. Non c'era nessuno al mio posto. Io ridevo di loro, in silenzio, ridevo dei proiettili che mi inseguivano nell'aria. Ancora oggi ricordo la crudeltà di Fitzcarrald e dei suoi mercenari. E al solo pensiero che quegli sterminatori di popoli erano degli uomini, ancora oggi, in alcuni momenti, mi viene voglia di prendere la nazionalità delle serpi, o dei palosangre, o della pietra del fiume, di qualsiasi altra cosa...

Due amawaka passano davanti a noi; trasportano delle misere casse che contengono le nostre misere provviste. E Ino Moxo osservandoli:

— Quei due, per esempio, i miei primi adepti, sono stati scelti per punire il fratello minore di Fitzcarrald. Ximu li icarò, li magnetizzò, dotandoli di poteri precisi, adeguati. Un giorno stabilito, a un'ora stabilita, i due si spogliarono e entrarono nel Mishawa. Entrarono nel fiume come si entra in una zanzariera, e tranquilli si misero a camminare sul fondo di pietre. Riapparvero nel fiume Purus. Lì giustiziarono Delfìn Fitzcarrald, rientrarono nel fiume, e camminando tranquilli, senza bagnarsi, tornarono indietro...

Continuo a vedere, sempre addormentato, altre visioni. Qualcuno, forse Insapillo, versa del succo di canna sulle mie pupille, vedo di nuovo. Sto di nuovo qui, senza esser-mene mai andato, nella capanna dello stregone degli stregoni, su una riva del Mishawa. È giorno.

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Questa luna che adesso ci illumina dalla acque del Rio dette Amazzoni, è la quarta luna che accompagna la terra, disse mio cugino Cèsar ripetendo le parole di Don Javier, le stesse che Don Javier aveva udito da Inganiteri. E dice che la luna precedente non fu un tronco vuoto, ma un otorongo, una tigre di cenere. Quella luna nera, quella tigre luminosa e rotonda, fu condannata dal dio Pachakamàite, non perché meritevole di castigo o di ricompensa, a precipitare, a perdere il suo cielo, a cadere nella vita degli uomini. Le boscaglie del Gran Pangoa furono il luogo scelto da Pachakamàite perché la luna cadesse come artiglio di peccato sul fianco della terra dell'uomo.

— Saprai che il fiume Pangoa sbocca nel Perené, dice Inganiteri a Don Javier. Saprai che il Perené e l' Ene formano il fiume Tambo, e quest'ultimo con l'Urubamba partorisce l' Ucayali che insieme al Maranon, oltre i boschi di palosangre, forma i due occhi di Narowé che hanno originato il Rio delle Amazzoni. A sette chilometri dalla confluenza del Pangoa col Perené esisteva una località chiamata Porto Ocopa, convento francescano, scuola creata per insegnare ai bambini le sconvenienze detta civiltà occidentale.

— Poiché i sacerdoti non disponevano di una popolazione scolastica sufficiente, mi disse Don Javier, si videro obbligati a costringere i piro e gli altri popoli nemici degli ashaninka a fare incursioni dentro i confini del Gran Pajonal, a fare imboscate ai campa, non per ucciderli, anche se poi li uccidevano, ma per rapire la progenie. I figli di Dio di Puerto Ocopa hanno riempito le aule con i bambini sequestrati e con gli orfani. Sono tutti morti, professori e vittime, occidentali e ashaninka, sono tutti morti il giorno fissato dal pàwa Pachakamàite per la caduta dell'otorongo sull'universo...

Il maestro Ino Moxo se ne è andato, sento che dice Ivàn quando mi sveglio. Se ne è appena andato verso il bosco, da solo, vestito con la cushma gialla... E, senza guardarmi, affidando i suoi occhi a un ricordo, fingendo di

guardare la porta della capanna che ormai si apre nel sole: — Il maestro Ino Moxo mi ha detto di non svegliarti fino a che non se ne fosse andato, e mi ha pregato di salutarti.

— Una settimana prima del giorno stabilito, tutti gli animali del Pangoa e del Tambo avevano cercato di avvi-sarci. Lì ho visti con gli occhi del padre mio più antico, mi dice il curaca Inganiteri. Infatti sette giorni prima tutti i pesci sembravano impazziti. Come tempeste di paura erano fuggiti dalle acque del Tambo e del Pangoa con la fretta del moribondo, come se abbandonassero due incendi torrenziali e si lanciassero controcorrente contendendosi l'aria delle misere ondate, verso i rigagnoli, i corsi d'acqua poveri, verso il fragile rifugio trasparente ricoperto di pietre di quei piccoli e aridi ruscelli che si esaurivano. Morirono a migliaia nel tentativo di avvisarci, morirono invano.

— Saprai che ai due lati del Pangoa, prima di Puerto Ocopa, c'erano due colline gigantesche, mi dice Don Javier. Su quelle due colline cadde il grande otorongo. Le unì con gli artigli chiudendo il passo alle acque impetuose. I francescani che erano lontani e che sopravvissero per negligenza, affermarono che non fu un otorongo, ma un terremoto, un cataclisma, che non fu la luna ma un castigo di Dio.

— Ma loro, che ne sanno, dice Inganiteri. . — È stata quella tigre nera a mettere in fuga i campa. Con

gli artigli colossali ha unito i due monti e, dopo quel-l'abbraccio, le acque del Pangoa hanno superato quelle di tutti gli oceani, il furore di quei mari repressi è caduto come una sola onda senza distanza né tempo, come una sola onda di pietre, paura e fango verso il letto vuoto del Pangoa, verso il deserto Perené, verso l'inutile Tambo e ha attraversato la pelle dell' Ucayali, lo ha trasformato in un pugnale di morti e di fango col quale ha offeso l'impossibile: il Rio delle Amazzoni.

Ed è successo da poco, nella terza luna del 1947, mi dice una faccia che ricordo ma che non ho mai visto.

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Ancora stordito dalle visioni della droga, ormai sfinito, mi lascio condurre da Félix Insapillo. Attraversammo la periferia marrone del paese amawaka, ricordo bambini dalle pance gonfie, muti, quei due nativi che custodivano le nostre casse di viveri, vuote, con affetto, e un cagnolino spelacchiato che chiamavamo indifferentemente Wàskar, Ai-mirante, e Sangreazul, e che ci accompagnò saltando, strusciandosi alle mie gambe deboli fino all'insonne parete di bambù. Ricordo il profumo di melarosa mentre camminavo appoggiandomi al braccio di Insapillo, e quel groviglio di garabatokasha dietro il quale era svanita l'infanzia chullachaki dello stregone Ino Moxo.

Quando riacquistai le forze eravamo già di ritorno nel Mapuya, raccoglievamo i fossili di milioni di anni fa, i ricordi del mare che un tempo era stata questa selva, le grandi chiocciole pietrificate, le meduse remote. Pensai alla wapapa, mi parve di sentire lontano, molto lontano, l'eco dello sparo con cui non la avevo uccisa. E riprendemmo a camminare nell'afa di quel sentiero tortuoso, fino alla stessa riva fangosa dell' Unuya. Sempre più stanchi, spingemmo fuori del bosco la nostra piroga, e la restituimmo alle acque fragorose dell' Inuya.

— Dicono che è accaduto da poco, ma loro che ne sanno, dice il curaca Inganiteri. Dagli avi dei miei avi so che è accaduto molti secoli fa, in quel tempo che alcuni virakocha si ostinano a chiamare Diluvio Universale.

— Non c'è stato nessun diluvio, afferma Don Juan Tuesta, è stata la tigre di legno che Narowé suona ancora dal fondo del fiume.

— Perché il nostro tempo non può contenere il tempo del tempo, mi dice Don Javier. L'origine del disastro fu la morte. La morte di Ino Moxo. Allora io ero un bambino e perciò potei vederlo. Per giorni e giorni, vidi di fronte a Iquitos, dove prima brillava la pelle del Rio delle Amazzoni, vidi una crosta di fango che trascinava cadaveri mostruosi, grandi pesci con fauci di wangàna, serpenti gi-

ganteschi a tre ali, di pietra, serpenti boa a due teste, esseri che non ho mai visto né vedrò mai, specie di tartarughe, strani uccelli, wapapa con squame, e cavalli e bambini incanutiti e rocce galleggianti, ruderi, case piene di donne strane, ragazze senza seni, senza capelli né termine, e tronchi, molti tronchi, tutti i tronchi della selva passavano fluttuando sul Rio delle Amazzoni e lucertole con corna di toro e certi pesci innocenti, dorati che cantavano meglio della migliore musica del mondo, lente bocche aperte che raccontavano tutto alla memoria, ma non dicevano nulla sulla terra...

Navigammo per tre giorni; sostavamo di notte, nelle spiagge di pietra o di sabbia, su sporgenze di terra profumata, sotto le zanzariere bucate. Era ormai buio quando, dopo avere girato intorno a quell'isola interamente ricoperta di campi di chicoza, scorgemmo il misero approdo, le lanterne delle prime case, il profilo ingannevole della città di Atalaya.

Perché devi sapere che in tempi molto antichi, su queste stesse acque dell' Ucayali si riversò un'infinità di pesci gialli che cantavano. Quando Ino Moxo tacque, tutti tacquero. Come se dietro la vita dello stregone amawaka, grazie, in un canto di rispetto, grazie mille, se ne fossero andate le labbra delle cose e le parole d'oro...

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via crucis dell'otorongo nero

Due file di lampade a petrolio ci permisero di scorgere l'approdo e di ancorarci alla banchina di pali conficcati nel fiume Ucayali. Sbarcammo al buio, ci inerpicammo sulla salita scivolosa, percorremmo con difficoltà la strada prin-

cipale di Atalaya e, non so come, raggiungemmo Plaza de Armas.

Oltre l'oscurità, le luci del Grand Hotel de Souza men-dicavano sotto la pioggia. Rifiutando il riparo precario delle stanze, sfiniti ci lasciammo cadere di fronte a un tavolo del bar dell'albergo e ordinammo sigarette e birra. Un giovane sacerdote, un gesuita credo, se ne stava seduto al tavolo più vicino alla porta, quasi in procinto di andarsene per sempre, né un bicchiere sul tavolo né una sigaretta tra le dita. Io lo fermai in tempo, e senza offrirgli nulla, lo invitai a sedersi con noi. Spalancò gli occhi, un sorriso nobile, quasi biondo, incorniciato dalla barba, si alzò, la sua statura era un'offesa, un'invidia anche per un atleta, e accettò non so se con piacere, se con curiosità o per perdonarci. Più tardi avremmo saputo che in realtà non era un sacerdote e che oltre ad essere un bambino, un ricordo di un saggio, di una bibbia ingenua e maliziosa senza crimini né santi masochisti, né incesti, né castighi, era uno di noi, tutti noi o forse il contrario; né troppo allegro né troppo triste, tanto che, senza volerlo, ci costrinse non solo a tacere ma a ascoltarlo.

— A quei tempi, vivevo ai margini della selva, disse, in una zona che confina con i monti, verso Cajamarca.

Quando i miei piedi non mi consentivano di viaggiare, colpa delle distanze, la gente mi prestava un mulo. Quel giorno, stavo andando a Polish, una piccola località circondata da rocce, così mi hanno detto, scolpite a forma di animali rari e vecchissimi. Ho detto che me lo hanno detto, io non le ho viste. Quel giorno non mi fu possibile entrare a Polish. Mentre stavo per arrivare mi fermò un'ombra, una voce, una mano afferrata alle briglie del mulo.

— Padre, Lei è Padre Pedro?, mi domandò l'ombra. Sono io risposi, senza riuscire a vederla. Mi perdoni Padre Pedro! esclamò la voce inginocchiandosi nell'oscurità. Non dissi nulla, sembrava che piangesse, ma lei, la mano, ri-spose:

— Ieri sera, mi hanno incaricato di ucciderla, costrin-gendomi a prestare giuramento...

— Ma cosa dici figliolo?, ero sconcertato, dice Padre Pedro.

— Mi perdoni, Padre, mi dia la sua benedizione... — Ti hanno incaricato di uccidermi? — Padre, mi perdoni... — Chi vuole uccidermi e perché?... — Mi dia la sua benedizione! Fui costretto a benedirlo, racconta, perché la smettesse di

supplicare, dovetti benedirlo e perdonarlo. Solo allora l'ombra si calmò, quella mano mi baciò la mano, quella voce mi ringraziò e mi perdonò:

— Meno male Padre, perché se non mi avesse perdo-nato, se non mi avesse benedetto, io avrei dovuto ucciderla qui stesso...

E mi obbligò con preghiere, dice Padre Pedro, mi ob-bligò con suppliche, a non entrare nel paese. Qualcosa brillò nella mano di quell'uomo, nella penombra, non so ancora se era un machete. Mi chinai per vedere meglio. Solo allora lo riconobbi. Insapillo, gli dissi, che cosa ti succede!...

E Félix Insapillo, seduto alla mia destra, qui nel Bar del Grand Hotel de Sousa, ad Atalaya, sfuggendo lo sguardo severo del sacerdote:

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— Allora non potevo dirglielo, non è colpa mia, glielo dico oggi.

E sollevando il volto, ma non gli occhi, verso la figura di Padre Pedro, nella penombra del bar, Félix Insapillo, dopo un breve silenzio continuò:

— La sera prima che lei arrivasse, tutti gli abitanti di Polish, io ero uno di loro e pertanto costretto ad obbedire, si erano riuniti nel cimitero, tra le tombe e le vecchie pietre per empalar il paese contro di lei...

— Ah, sì!... — Sì, confessa Insapillo. Si erano riuniti di fronte a

quelle tombe vecchie di cento anni, per chiedere ai nostri morti di liberare le proprie anime. E le anime di tutti i tempi, le anime di tutti quelli che sono morti, sono uscite e hanno circondato il paese. E come una parete di pali, di bambù, si sono disposte intorno all'abitato, contro di lei. Abbiamo fatto un muro di anime per impedirle per sempre di entrare a Polish...

— Non c'è stato nessun diluvio, insiste Don Javier, è stato un otorongo nero... Saprai che l'otorongo nero non è mai nero. È nero e aggressivo soltanto in certe occasioni e da lontano. Di fronte a un uomo leale e coraggioso, l'otorongo diventa timido, si impaurisce e fugge. Ma a quel tempo Ino Moxo era già morto, saprai che l'otorongo nero da vicino è diverso: il colore grigio macchia la sua pelle in varie parti, con piccole chiazze delicate, più chiare vicino alla bocca e sotto i suoi baffi duri. So perché certe volte è così e altre no... L'otorongo nero, appena nasce, viene abbandonato da sua madre. È l'unico essere della selva costretto a procurarsi da mangiare sin da piccolissimo, a un'età in cui ancora non si sanno distinguere i cibi buoni da quelli velenosi. Ed è ancora più triste se si pensa che sempre, sotto una muyuna, sotto un vortice, alligna un serpente d'acqua, una yakumama. Dove c'è un vortice, una mayuna, c'è sempre una yakumama che lo alimenta, un grande boa che allatta il vortice anche se ha mille anni, an-

che se non muore mai! Povero otorongo nero! Che penserà sapendo, coma sa, che persino le muyunas più lontane, in quei fiumi in cui non passa né passerà mai nessuno, persino quei vortici che non hanno né una fragile piroga da capo-volgere, né un tronco galleggiante per giocare, che cosa penserà la tigre sapendo che tutti, persino quei vortici e quelle muyunas che non hanno niente, persino loro hanno una madre!...

E il sacerdote, il suo sguardo pieno di nostalgia, che era meno di un pianto e più di un pianto, con voce di condannato a morte, da colpevole senza colpa, accusato di un delitto commesso non da lui ma con le sue mani da qualcun altro, in un'altra vita, in un altro tempo... parlando senza suono, alzandosi di nuovo, stanco, sollevando le mani dal tavolo come se ardessero:

— Ogni volta che volevo visitare quel paese succedeva qualcosa, o mi ammalavo all'improvviso il giorno prima di partire, brividi e febbre che scomparivano appena ritornavo in parrocchia... Ora capisco, ho provato cento volte ad andare a Polish e non ci sono mai riuscito...

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Juan Gonzàles cammina per sette giorni sul fondo del fiume Ucayali

Ormai riavutomi dai venti che avevano messo a repen-taglio la nostra vita durante il volo di ritorno a Pucallpa, uscii, più volte e sempre invano, dalla mia stanza dell'Hotel Tariri

per parlare con Don Hildebrando. Il suo rifiuto mi spinse ad accettare un invito da Ivàn a casa di Juan Gonzalez, nella periferia. È un mago di allegrie, di risate, mi dice

Ivàn Calvo. Juan Gonzalez afferma che risentimenti e collera servono solamente ad accorciare la vita. Soltanto l'allegria può allungare l'esistenza. Secondo lui, senza l'allegria erbe e icaros non servono a niente, dice Ivàn Calvo. Juan Gonzalez guarisce i mali perché li irrora con sorrisi, mi dice ancora Ivàn Calvo quando un'ombra spazientita appare sulla porta della capanna.

— Si accomodi, dice Juan Gonzalez, accennando un abbraccio da adolescente, il sorriso imberbe, i capelli lisci inutilmente bianchi, il volto anonimo. Niente che metta in evidenza la sua fama di medico stregone, né solennità, né simpatia, la sua, più che una voce, sembra un rasoio che viene affilato:

— Arrivate appena in tempo, stavamo per cominciare. Nella capanna, sparsi tutti intorno, sul pavimento di legno,

intravedemmo corpi, lamenti rannicchiati, indumenti rancorosi, ammassati nell'oscurità. Lo stregone ci fa prendere posto, senza nessuna formalità, serve ayawaskha in una tazza che a mala pena riusciamo a vedere. Prima che l'oni xuma si abitui alla mia mente, o io mi abitui alla

sua, una voce, dalle marcate inflessioni campa, si rivolge confusa a Juan Gonzalez.

— Sono diventato ajuàsi, dice. Qualche maleficio mi ha trasformato in un essere inutile, incapace, inetto. Vado a caccia, nel bosco, e ritorno sempre con il carniere vuoto...

E sempre più confusa e stridula la voce color di sup-plica:

— Mi aiuti shirimpiàre, da mesi vivo senza volontà, senza fortuna, praticamente non vivo...

Juan Gonzalez si avvicina alla voce, non capiamo se gli dà da masticare del tabacco, e la voce cominciò a vomitare, lamentosa, tremante. Non so se subito o se dopo qualche ora, l'ayawaskha comincia a sconvolgermi l'anima come se fosse giorno, vedo tutto perfettamente: Juan Gonzalez in preda alle convulsioni si muove in modo inconsueto, gonfia il volto, si contorce, diventa un altro, le braccia colpite dall'aria luccicante e affilata, so che è notte ma lui è un altro, splende come luna rossa, come sole Pisaq, sole di Pawkaztampu, poi, all'improvviso assumendo le sembianze di sacerdote del Sole, di Sommo Sacerdote degli inka che dà ordini azzurri, arancioni:

— Severo Quinchókeri!, grida per placare quella voce. Tutti gli animali sono tuoi, Severo Quinchókeri!

Ivàn ci aveva assicurato che Juan Gonzalez, prima dell'oni xuma, quando era Juan Gonzalez, non conosceva né il nome, né i problemi della voce. Eppure, ora, con l'ayawaskha, dimostra di sapere ogni cosa e urla con forza: — Tua è la selva, tuoi i monti! E con un tono più basso, tra l'icaro e il grido incontrollato:

— Io ti consegno tutti gli animali! Tutti gli animali ti appartengono, Severo Quinchókeri! Tu sei il padrone, io te li restituisco, tu sei il figlio migliore di Narowé e Kaametza! Io sono l'Anima Sola, io sono l' Elegguà, io sono il genero del dio Pachakamàite, io sono dio e ti consegno ciò che è sempre stato tuo, tutti i boschi, tutto ciò che appartiene ai boschi, anche le persone.

Poi, non so bene, le mie visioni si prendono gioco del-

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la mia memoria, Juan Gonzalez si stringe tra le sue braccia, dritto pilastro bianco al centro della sua capanna, chiude gli occhi e si solleva in aria a mezzo metro dal suolo, esce volando verso la strada 'Federico Basadre', credo, poi ritorna con le corna di un cervo tra le mani, ma non è un cervo, non sono corna, è lui che ritorna gridando, la sua voce tiepida di giubilo e di sangue:

— Quinchókeri non è stato abbandonato dalla fortuna, mi dice. È stato invaso dal manchari. Saprai che il manchari è una paura diversa, più complessa della paura che tutti noi conosciamo e che persino gli animali sono capaci di fiutare. Il manchari entra come anima nel corpo e la persona di quel corpo diventa inutile. Da quella persona il manchari spaventa tutto ciò che vive, non soltanto gli animali come accade a Severo Quinchókeri, spaventa anche la volontà, l'amore delle cose, delle altre persone, la ragione sconosciuta che dà origine ad alcune esistenze. Il manchari spaventa tutto, tutto. Si infila come corpo dentro l'anima...

Quando, il giorno dopo, cominciavo a liberarmi delle visioni della droga, in casa eravamo rimasti soltanto Ivàn, Insapillo, Juan Gonzalez e io. Ivàn ricordava allo stregone, lo sento ancora sotto le brume colorate, di quella volta in cui la polizia arrestò Juan Gonzalez per la denuncia di un medico del posto, solo perché Juan non si faceva pagare per le sue cure.

— Mi volevano provocare, dice Juan Gonzalez, ma non glielo permisi. Vediamo, fattucchiere, disse ironico il commissario, vediamo se sei capace di fuggire dal carcere, non sei forse un mago?...

— Lo tennero dentro solamente quella notte, dice Ivàn. La mattina dopo nella cella non c'era più nessuno.

— E io, invece, ero nella cella, sorride Juan Gonzalez, ma le guardie non potevano vedermi. Sono stato io a im-pedirglielo. Cantai tutta la notte le mie canzoni magiche, masticai tabacco forte per rendere invisibile il mio corpo materiale agli occhi delle guardie. Fu facile. I secondini tolsero i lucchetti e io uscii tranquillo, camminando ac-

canto a loro, molto calmo, come se non avessi corpo, come se non mi trovassi in quel luogo.

— Quella stessa mattina il Commissario ricevette un telegramma da Iquitos, dice Ivàn Calvo, un telegramma spedito due giorni prima, con il quale Juan Gonzalez an-nunciava il suo arrivo a Pucallpa per quella sera, da Iquitos, a diversi giorni di navigazione, sulla nave 'Mariana'!...

— Io stesso spedii quel telegramma, ride Juan Gon-zalez. E arrivai quella sera, all'ora del tramonto, con il 'Mariana', proprio così. Sul molo c'era il Commissario ad aspettarmi, prosegue Juan Gonzalez, chiediglielo se vuoi, dice Ivàn, c'era il Commissario ad aspettarmi, prosegue Juan Gonzalez, mi aspettava irritato, con alcuni poliziotti. Mi arrestarono di nuovo, ma solo per poco, parlarono con il motorista del 'Mariana' e poi mi rilasciarono, si spaven-tarono, il motorista confermò che ero salito a bordo a Iquitos nel porto di Belén, la settimana prima...

Staccandomi dalle ultime visioni dell'ayawaskha, osai dire:

— Non capisco bene, forse non ho capito bene, non ho sentito con chiarezza. Lei era stato arrestato, e mentre stava in prigione si è imbarcato a cento chilometri di distanza, una settimana prima a Iquitos, ed è arrivato a Pucallpa soltanto qualche ora dopo essere stato arrestato?...

— Durante quella notte, nella cella del Commissariato, non mi ero limitato a cantare soltanto canzoni magiche, dichiara Juan Gonzalez con molta naturalezza. Mi ero anche concentrato perché tornasse il tempo senza tempo. Subito dopo la mezzanotte, riuscii a farlo ritornare. Scesi verso il tempo più antico e mi mescolai con esso, bevvi il polline prima che facesse giorno e aumentai il mio potere di guardare. Il potere della mia vista. Dentro quel tempo che non conduce alla morte ma che produce allegria, mi fu facile viaggiare all' indietro, fino a Iquitos.

— Ritorna all'Urubamba!, esclamò José Maria Arguedas camminando di nuovo sul fiume. Riportami con te indietro sulle acque, percorri quattro secoli, retrocedi quat-

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tro secoli lungo il Fiume Sacro degli Inka! Rio delle Amaz-zoni, fiume-mare, impedisci lo sbarco dei barbari!...

Fu facile, insiste Juan Gonzalez. Se uno è icarado, e per di più in quel tempo senza tempo, l'acqua è come il tessuto di una grande zanzariera. Io uscii dal carcere e camminai fino al fiume, sollevai il tessuto dell' Ucayali, entrai; me ne andai camminando senza pericolo, ben protetto dalla tela dell'acqua e ricomparvi nel porto di Belén, a Iquitos. Perché nessuno mi vedesse, mi nascosi, uscii car-poni sulla riva e aspettai al sole per fare asciugare la mia camicia leggermente bagnata, poi mi diressi all'ufficio telegrafico e mandai quel messaggio al collerico Commissario...

E con una voce che riconosco, Juan Gonzàles: — Non possiamo essere prigionieri di nessun carcere, e

nessun virakocha può farci del male né trasformarci in male! Nelle nostre vene scorre sangue nero, il nostro tempo è un altro tempo, discendiamo dagli uru e agli uru ritorniamo!...

Stavo per diventare più ostinato, più diffidente, non ricordo ora con precisione, sento un rumore di foglie che scricchiolano, e vedo passi che si avvicinano, poi, final-mente, distinguo un indio magro, al collo una collana di minuscole pietre rosa e verdi, azzurre e arancioni, la cushma stretta da una fascia da cui pendono una decina di ossa affilate, le braccia appesantite da bracciali fino all'attaccatura delle spalle; l'indio compare ansimante sulla porta, la schiena piegata da un sacco che mi sembra ghiaccio. Guardo meglio, vedo un corpo che per metà è di indio e per metà di cervo senza corna, troppo giovane, la fronte lacerata dai pallini, e mi sorprende il winchester nelle sue mani.

— Severo Quinchókeri!, si rallegra Juan Gonzalez. — Sono venuto immediatamente, shirimpiàre, dice la

voce di ieri sera. — E così sarà sempre, fratello, lo conforta lo stregone.

Sarà sempre così, ti ho già detto che tutti gli abitanti della selva saranno tuoi, sono sempre stati tuoi, è così. Tuo è il bosco, te l'ho restituito, tue sono le esistenze del

bosco, lo vedi! Vai nella selva, adesso, ci devi andare tutti i giorni, non lo dimenticare. Ricorda che i tuoi fratelli, i nostri fratelli ora stanno molto male e se qualcuno non interviene è già un danno gravissimo.

— Non so come ringraziare, shirimpiàre, disse la voce lasciando il mezzocervo in un angolo della stanza. Juan Gonzàles lo interruppe:

— Se c'è qualcuno da ringraziarti, Severo Quinchókeri, non ringraziare me, ringrazia te stesso perché sei degno delle anime grandi che non sbagliano mai! Sono loro che hanno espulso dal tuo corpo quell'anima di paura! Sono loro che hanno espulso dalla tua anima il corpo del manchari

E abbassando la voce, rivolto verso di me:

— Saprai che gli ashaninka non uccidono mai un cervo, e tanto meno osano mangiarlo. Per gli ashaninka, per i campa come Severo Quinchókeri, il cervo è abitato dall'anima di un parente lontano, grande nemico. I mitayero, i cacciatori campa, da molto tempo temono il cervo più della tigre, più dell'otorongo. Lo temono più del virakocha, più dell'uomo bianco!... Te ne rendi conto?

Di ritorno all'Hotel Tariri, ormai in partenza per Iquitos, mentre facevo una doccia frettolosa, scoprii sul petto disposte a triangolo tre cicatrici che non avevo prima. Aprii e chiusi gli occhi più volte, guardai, uscii dalla doccia sempre più fredda, osservai le cicatrici, le toccai, le osservai di nuovo, non so ancora cosa pensare.

Le parole di Ivàn Calvo arrivano dalla mia stanza, da una fessura della porta del bagno:

— È stato Juan Gonzàles a segnarti, perché il suo altare ti accompagni sempre, lì sul petto, perché ti protegga, così mi ha detto di dirti Don Hildebrando...

E le sue parole mi fanno ricordare, ritorno al Mishawa insieme agli altri, all'inizio del viaggio verso Ino Moxo, scruto le alte macchie, vedo Ivàn che arriva trascinando un cervo, portatore di un'anima remota, lo taglia e ci nutre con quel chullachaki chissà di quali tempi. Qualcosa che è figlio e padre di altri tempi spinge con le mie mani

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la porta sconnessa del bagno, entra nella camera da letto, si ferma davanti a Ivàn Calvo. Ma Ivàn Calvo, quel suo distacco diffidente, tipico di chi vive proteggendo un sogno, ci ignora e continua a parlare alla sua voce:

— Il maestro Ino Moxo, questa notte, ti ha tolto, credo con un pugnale di palosangre, o forse d'osso, una costola trasformata in pietra. Ti ha praticato tre piccoli tagli sul petto, a forma di scudo, affinchè nessuno, neanche tu, possa farti del male. Per proteggerti perfino da te stesso, così mi ha detto di dirti...

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dove si vedrà che le maschere stanno sempre sotto il viso

Lo squallido corridoio che comincia nella strada, sul marciapiede sinistro del Jirón Huallaga di Iquitos, penetra nella calma di una stanza senza pareti, delimitata da un divano di stuoia, una amaca appesa e quattro seggiole color cannella, con un pavimento di mattonelle scolorite, un tempo azzurre, che si estende intorno a un pezzo di terra fiorito. Oltre il breve giardino profumato di menta e di rugiada ci sono, da un lato, delle scale che portano alla camera da letto, al secondo piano, dall'altro, tenuto socchiuso da paratie marroni, l' inescrutabile laboratorio dove il medico stregone Manuel Cordóva veglia tritando petali, combinando radici tagliate durante il digiuno, spremendo segreti agrodolci. In quella stanza, alla quale si può accedere solo all'alba o al tramonto, questo "semplice vegetariano", così si autodefinisce Manuel Cordóva, ricercato da un'infinità di pazienti, si reca tutte le sere e fino all'alba, affila gli artigli del suo nome lontano, ammaestrato dalla pazienza dei maghi della selva e si scaglia contro le malattie dall'alto della sua fronte da saggio.

— A quest'ora è bello parlare, dice masticando il bocchino d'osso della sua pipa rugosa, profumando e affumicando il tiepido tempo che se ne va, sono già le sei del pomeriggio. Poi arrivano i pazienti e li deve aiutare. Mi fa male qui, non posso dormire, si lamentano. Ho il diabete, mi scricchiolano le ossa, mi è venuto il cancro. Cancro? Fanno tutto da soli, si ammalano e si fanno la diagnosi.

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3.

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A volte sono i medici che sbagliano. Molti gli dicono: non c'è niente da fare, lei ha un cancro. Allora vengono da me e con l'aiuto di quello che ho imparato nella selva io li guarisco. Credimi. Spesso il cancro è solo un'infiammazione, una grande infiammazione dei tessuti. In questi casi si può curare.

Ho conosciuto Don Manuel Cordóva poco tempo fa, neanche un mese, mentre passeggiavo vicino a casa sua, nella Plaza 28 de Julio. Appena mi vide cambiò espressione:

— Lei ha mal d'orecchi, vero?, mi disse. Lei soffre di una malattia che alcuni chiamano sinusite. Ne soffre da diversi anni e nessuno la cura, è così?...

E mentre i suoi passi risuonano sul selciato della Plaza 28 de Julio, stranamente agile nei movimenti con i suoi piedi di quasi cento anni, mi dice:

— Se lei vuole io la posso guarire. Prima di tutto devo pulirla internamente, come nuovo, affinchè tutto lo sporco che, senza saperlo, si deposita nel corpo, nelle strutture interne, non interferisca nella cura. Poi le darò qualcosa da prendere per bocca, mi raccomando segua le mie indicazioni, ne prenda un cucchiaio la mattina a digiuno e un altro prima di coricarsi. E non faccia entrare le gocce nel naso: basta annusarle: l'anima del liquido sarà sufficiente.

Le ultime radiografie fatte al setto nasale stupirono il mio medico di Lima: non c'è traccia di sinusite cronica. Inoltre, quei disturbi articolari che mi avevano tormentato per tanti anni, dopo una pomata datami da Don Manuel Cordóva, sono scomparsi, forse in seguito a qualche visione di ayawaskha. Ho saputo che mio zio Carlos Arana è guarito dal diabete grazie a certe infusioni di radici preparate da Don Manuel Cordóva. E che il Cantore della Selva, Raul Vàsquez, ha imparato da lui a cantare senza labbra, con la memoria del cuore, catturando musiche che vivono nell'aria.

— No, tu non hai nessuna ulcera allo stomaco, taglia

corto Don Manuel Cordóva, sorridendo, di fronte alle preoccupazioni di Cèsar.

— Ma a Parigi i medici... — Ma loro che ne sanno, hai solo una gastrite. E Cèsar che si rifiuta di rinunciare al suo dolore: — Da due giorni ho un'altra emorragia. E Don Manuel Cordóva, senza scomporsi: — È gastrite, niente altro che gastrite, ti guarirò. Solo quando Cèsar, una volta a Lima, vide che in effetti

l'antica ulcera si stava cicatrizzando, io gli potei confidare: — Don Manuel me l'aveva detto che tu soffrivi di

ulcera, ma mi aveva pregato di non dirti niente. L'origine del male risiedeva nel tuo corpo spirituale, nelle tensioni della tua anima e per guarire bisognava che tu non lo sapessi.

Puliti, quindi, tutti nuovi, dentro. Ma oggi, Ivàn Calvo. Félix Insapillo ed io, non siamo

venuti per parlare di malati o di magia, ma per chiedere a Don Manuel Cordóva di offrirci dell'ayawaskha mescolata, se possibile, con tohé, e di assisterei durante le visioni perché le due droghe insieme hanno bisogno di un maestro che sappia controllarne e guidarne l'effetto in chi le prende. Don Manuel Cordóva accetta, ma ci avverte che l'ayawaskha che ci farà prendere questa sera è quella nera, la più forte, e che se per caso abbiamo mangiato qualcosa, sarebbe meglio rinviare la seduta perché il tohé non sopporta nessun cibo, niente, più dei suoi succhi, sa sviluppare al massimo la vista e i poteri dell'oni xuma. Non mangiano da ieri sera, lo rassicuriamo, siamo pronti.

Conobbi Don Manuel Cordóva nel 1960, quando lavorava come raccoglitore di esemplari botanici per la Astoria Co., mi aveva detto il dottor Oscar Rìos. Manuel Cordóva aveva occupato quel posto fino al 1968. Il suo stipendio, a quell'epoca, superava del doppio quello di un medico ospedaliere. So che Don Manuel Cordóva era ar-

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rivato a Iquitos nel 1917 e che lì aveva cominciato a sfruttare le sue conoscenze sulle proprietà curative delle piante. Un problema giudiziario con un medico del posto lo portò in Brasile. Lì, nel Laboratorio di San Sebastian, aveva lavorato come raccoglitore di erbe; era ritornato in Perù nel 1947, poco dopo il terremoto del Gran Pangoa, e quello stesso anno fu assunto dall' Astoria Co. Oggi è un pensionato e la pensione con cui la compagnia americana gli restituisce i suoi antichi servigi, gli permette di vivere comodamente, senza bisogno di farsi pagare dai pazienti.

Qual era precisamente la sua attività nella Astoria Co.?, gli chiesi quel pomeriggio, nella Plaza 28 de Julio.

— Molte, la più importante era raccogliere erbe perché fossero identificate e trattate negli Stati Uniti.

— Quante specie è riuscito a raccogliere? — Soltanto dall'Alto Tapiche ne ho portate trecento,

ognuna con un esemplare; di ogni specie, oltre l'esemplare, avevo una fotografia e una scheda dettagliata. Di ognuna portavo foglie, fiori, frutti e una bottiglietta di estratto, pronta per l'uso. In tutto gliene avrò date circa duemila...

— Anche l'ayawaskha? — Soltanto la fibra, la liana, non il preparato, né le altre

erbe con cui si deve mescolare. Questo non lo posso dire a nessuno... So che loro sono riusciti ad estrarre il principio attivo della fibra, che chiamano harmina, ma iniettata produce un altro effetto.

— E lei quando ha preso per la prima volta l'ayawaskha? Don Manuel Cordóva aspira il fumo della sigaretta

profondamente, si siede sul divano di stuoia, il suo sguardo lo porta verso la piccola serra che asfissia in un lato della stanza accanto alla porta del suo laboratorio. Ritorna lentamente:

— Ero un bambino, avevo tredici anni... — Se ne ricorda bene? — Come fosse ieri. — È stato piacevole?

— Molto. — Me lo potrebbe raccontare? — Prima di tutto ho sentito un mormorio molto vicino

che sembrava sospeso nell'aria e che poi si sollevava verso la cima di una espintana. I miei occhi cercarono di seguirne l'ascesa e mentre il mio sguardo vagava tra le foglie scoprii una cosa bellissima che non avrei saputo immaginare neanche in sogno. Gli occhi brillavano con un luccichio verde e dorato. Il canto vicino di un urkutùtu e un cinguettio irregolare di un sietecantos, scesero improvvisamente, io potevo vedere i loro canti, lo ricordo bene. Il tempo sembrava sospeso, come nube di polline argentato, esisteva solo il momento che io stavo vivendo, ed era senza limiti, era infinito. Potevo separare ogni nota scura dell'urkutùtu, e le note del sietecantos, e gustarle una per una.

Allontanandosi di nuovo con gli occhi verso la serra, dentro di sé, Don Manuel Cordóva:

— Quando chiusi gli occhi mi apparvero degli arabeschi, decorazioni complicate di luci iridescenti e di ombre che andavano acquistando una tonalità verde-azzurra assecondando il disegno e la struttura. Sembravano cose animate, mobili, su un fondo di figure geometriche, pianeti appuntiti, grandi rocce incise con profili di animali antichi, una varietà inesauribile di forme. A tratti, fugacemente, mi sembrava di intravedere qualcosa di conosciuto, ragnatele, ali di farfalle gialle e nere. Di notte mi sorprese una corrente d'aria che veniva dall'interno del bosco, e spostò il campo delle mie visioni. Potevo vedere l'aria fresca, era a tratti un rumore, un tessuto di piume che potevo toccare. Tutti i miei sensi erano un solo senso, comunicavano tra loro, potevo ascoltare con le dita, toccare con gli occhi, palpare con la voce quelle visioni. Il maestro che mi guidava nel viaggio di ayawaskha, cantava a voce bassa, in amawaka, inventava un icaro di iniziazione, perché gli icaro possono anche servire a far sì che si compia l'effetto irreparabile dell'oni xuma... Don

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Manuel Cordóva ritorna nella stanza, e riprende a mordere nervosamente la sua pipa grigiastra:

— Tutte le cose che ora io so sui vegetali le ho imparate da quel maestro. Alcune le ho messe a disposizione dei laboratori che lavoravano con l' Astoria Co., ed essi in seguito le hanno utilizzate per fare dei prodotti medicinali che vendono in flaconi, con tanto di etichetta, nelle farmacie. So, per esempio, che hanno prodotto un anticoncezionale che gli avevo rivelato, e una medicina per diabetici, anche se sembra che l'effetto di questi medicinali sia temporaneo, non ha l'efficacia di quando lo preparo io, che non altero la purezza e la proprietà del vegetale. Questo è il segreto che ci trasmette l'ayawaskha... Alle nostre medicine, probabilmente, più che poteri conferiamo amore. Perché persino i morti hanno bisogno di affetto, e i malati ne hanno un bisogno maggiore: i malati aspettano sulla soglia, magrissimi come pelle molto fragile, come quella squama trasparente che separa il giorno dalla notte... Noi svegliamo le madri dei vegetali. Ogni vegetale ha una madre, come le muyuna, come i vortici sono allattati da serpenti giganteschi, cosi, ogni vegetale ha una madre. Le svegliamo perché aumentino con il loro affetto il potere della cura. E se la madre di un vegetale è cattiva, allora, di notte, piano piano, perché non si svegli, lo tagliamo... Ti dirò di più: la ayuma, per esempio, che è un albero simile al castagno, ha l'anima cattiva, sua madre è un uomo perverso e senza testa, per questo l' ayuna si usa per le vendette, solo per fare del male. Anche la madre della lupuna bianca è un uomo, ma buono, un signore di una certa età che se lo si sa chiamare risponde sempre con dolcezza, con insegnamenti che aiutano a guarire. La madre della lupuna rossa, invece, è un uomo molto cattivo: se ti afferra nella sua zona ti gonfia la pancia, muori con gli intestini strozzati. La madre della katàwa è la peggiore: fa marcire il corpo, ci brucia dall'interno, e se avveleni un lago con la sua resina, subito i suoi abitanti vengono a galla con gli occhi arsi, e non soltanto i pesci, anche i coccodrilli, i boa, le anguille, si are-

nano sulla riva, ciechi, senza riuscire neanche a vedere che sono morti. La madre del chuchuwasha bianco è una femmina; quella del chuchuwasha rosso è un maschio, un giovane molto coraggioso, un vero maschio. Quando prendi il chuchuwasha bianco ti appare la madre e ti parla, perché mi hai preso, dice, ti parla nel sonno, ti accompagna per tutta la notte. Però fai attenzione a non fare quello che io ti dico, così dice la madre. E se prendi il chuchuwasha rosso ti appare il maschio e ti chiede la stessa cosa, perché mi hai preso?, e tu non puoi mentire anche se vorresti, e allora lui ti dice di aver fiducia, di fidarti di lui, e ti ordina una dieta molto stretta, niente peperoncino rosso, niente fumo, né donne, né burro, per un determinato periodo. E se fai come dice lui, andrà tutto per il meglio, sia se l'hai preso per curarti, per riacquistare la salute, sia per la felicità o per l'amore... Ogni cosa ha il suo perché, la propria madre, la ragione della sua funzione, del suo uso nel guarire o nell' arrecare danno.

E dimenticando la sua pipa sul tavolo, alla destra del divano di stuoia, rivolto a Ivàn, Don Manuel Cordóva:

— L'unica cosa che mi preoccupa e mi rattrista è non aver potuto trovare nessuno a cui trasmettere tutto quello che ho imparato nella selva. I miei figli si sono specializzati in altri campi. I miei nipoti ancora peggio: non c'è nessuno attratto, come me, dai vegetali. Sicuramente non lascerò nessun discepolo. Anche se penso di vivere ancora per molto... E scoppiando a ridere:

— Ho solo 95 anni... Poi abbassa la voce e gli occhi, estrae un fiammifero e ci

pulisce il fondo otturato della pipa: — Quella volta, la prima delle visioni di cui ti ho parlato,

alza gli occhi verso di me, ho avuto altre visioni altrettanto nitide, dice Don Manuel Cordóva. In particolare una, chiarissima, dice. Il maestro che mi guidava durante la seduta, a un certo punto, gridò:

— Visioni, venite!

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E nel campo delle mie visioni, io avevo tredici anni, irruppe una panguana femmina. Il maestro mi ordinò di far apparire anche una panguana maschio. Io mi misi a pensare, a desiderare con tutte le mie forze. Aprii gli occhi. E la panguana maschio stava di fronte a noi, proprio lì, in quella radura della selva circondata da torce!... E la coppia di panguana si mise a ballare una danza di accoppiamento. Qespchiway!, gridò come un uomo, un amawaka, in lingua quechua ma con voce di amawaka, così gridò la panguana. Qespichiway, formata in realtà da due parole: qespi, che è cristallo, e chiway, che è unione di uccelli che vogliono procreare. Qespickiway, quindi, per dire: uniscimi al cristallo, fammi ritornare puro, facci avere dei figli trasparenti, liberi, come nati dal cristallo. Così disse la panguana maschio alla sua femmina nella mia visione. La sua voce era grande e gialla. In mezzo alle due pernici apparve un nido bianco, di cotone grezzo, del tipo che si usa per i dardi delle cerbottane, e nel nido brillavano cinque uova azzurre. Non riuscivo più a controllare le mie visioni, e in esse appariva ora la panguana maschio che si sedeva sulle uova come se le volesse covare. È sempre il maschio che le cova, mi disse il maestro, e la panguana si alzò dal nido. E le uova azzurre si ruppero, come il cielo, e spuntarono cinque coppie di panguana, due per ogni uovo azzurro, uscirono fuori già adulti, come i loro genitori. E senza che io potessi controllare la loro comparsa, divise in coppia, le panguana appena nate si dispersero ai quattro angoli del campo delle mie visioni. Aprii più volte gli occhi, dice Don Manuel Cordóva, ma non vidi la panguana madre. Li chiusi: lo stesso. C'era solo il maschio, lì, nel centro, e si piegava verso terra, sempre più piccolo, sembrava ritrasformarsi in uovo, diventava azzurro, sempre più azzurro, poi le sue ali si staccarono, le vidi staccarsi dal corpo e andarsene sole, volando, dissolvendosi in fumo, e allora il maschio, abbandonato, piangendo come un uomo, conficcò il becco nella terra...

e mi ordinò di raccontare dall'altra mia persona...

È ayawaskha nera, la più forte, afferma Don Manuel Córdoba versando l'oni xuma mischiato con tohé in un piccolo mate ingiallito e ossidato. Lascia il suo divano, spegne la luce, torna a sedersi. L'effetto non tarda; Don Manuel ci conforta, attraversando la penombra, con sguardi tranquilli, offrendoci fiducia... Uno dopo l'altro la beviamo dal mate ossidato. Non so quali parole mi sento pronunciare poco dopo, ormai sotto l'effetto dell'allucinogeno: un alito inatteso confonde le mie parole, ha invaso la stanza più come un colore che come un odore, alito incolore di terra defunta, di boschi imprigionati con la liana dell'anima, un vento freddo e quieto, specchio verso la foresta che ha assediato la notte all'improvviso. Riesce a vedere la mia voce che esce dallo specchio rigonfio di alberi e scende lentamente, in un fumo di colori, e si av-volge al tronco di un machimango fino all'erba folgorante che invade il pavimento della stanza aperto. Chiudo gli occhi, vedo: siamo a casa di Don Manuel Córdoba, tutto è armonia nel Jirón Huallaga di Iquitos, tutto è armonia; lo stregone fuma contemplandomi dal divano di stuoia e Félix Insapillo, seduto a terra, alla mia destra, tutto è armonia, e più in là, Ivàn, le palpebre abbassate, e la statua di legno scolpita nella penombra fresca. Mi sento ripetere qualcosa, non so bene. Apro gli occhi, quella voce è mia, la sto guardando, quella voce scivola, striscia lentamente verso mio cugino Cèsar. Ma Cèsar non c'è. Sol-

2.

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tanto allora scopro che non c'è stato mai nessuno al posto di mio cugino Cèsar. Come inebetito, guardo e riguardo le mie mani, il volto, mi guardo con le mani. Don Manuel Córdoba mi osserva con pietosa soddisfazione. Cominci a sentire l'effetto dell'oni xuma, non è vero?, sorride. Questa è la più forte. Saprai che esistono due tipi di ayawaskha. Le sue parole si allontanano dalla mia vita, riesco a vederle mentre sibilano nell'aria:

— Ci sono due tipi di liana, esternamente uguali, dello stesso colore e dello stesso spessore ma, se tagli il gambo di traverso, vedrai che una è fatta di tre fibre rotonde e l'altra di cinque. Quindi, non è che quella nera sia più grossa, contiene più fibre e per questo il suo effetto è più forte...

E si alza dal tronco di espintana, tutto è armonia, in questa selva che non è più uno specchio e occupa la stanza come se fosse vera, tutto è armonia assoluta, i profumi del bosco, i suoni del bosco. Don Manuel Córdoba attraversa la radura. Lo vedo senza stupore introdurre la mano destra dentro la cushma, attraverso il collo della cushma, ed estrarre una boccetta di acqua fiorita; svita il tappo e il tappo vola via brillando; poi mi si avvicina e mi asperge il petto con la musica che scorre dal piccolo recipiente. Con l'altra mano, Don Manuel Córdoba mi regge la fronte sudata, sto bene, sento che dice mio cugino Cèsar dentro di me, qui tutto è armonia, che io mi sento bene ripete... Lo stregone mi bagna la testa con alcool canforato, poi bagna la nuca e il petto di mio fratello Ivàn, tutto è armonia, si dirige verso Félix Insapillo allontanando bambù colorati, ossa di tannila, peni di achùni, un empalado di anime, e alla fine anche lui si strofina la testa, e attraverso il collo della cushma, sparge gocce di musica profumata. Uno splendore di torce disegna-cancella-paralizza il suo volto, i suoi volti, quei tre profili che all'improvviso si coprono di foglie, sopra i capelli, come lune, corone di lupuna gialle e rosse e io li vedo lontani, molto lontani che si cancellano mentre io mi cancello.

Una bruma di passi, voci, rumori mattutini, clacson di automobili, raggiungo la stanza attraverso gli addii del tohé e della notte, attraverso l'ostinazione dell'oni xuma. Che effetto ti ha fatto questa volta, chiede Don Manuel Córdoba a Félix Insapillo, e lui: buono, e Don Manuel: che visioni hai avuto?, e Félix: c'è stato un momento in cui mi sono visto fuori della carne, e ho pensato: se a quello lì seduto, che poi sono io, lo colpissero con una frusta, né lui né io sentiremmo dolore. Volli fumare, non potei, presi la scatola di fiammiferi e mi misi a ridere dentro di me, sènza che la mia bocca ridesse, perché la scatola di fiammiferi era il cranio di un cervo. Come posso accendere una sigaretta con il cranio di un cervo, dissi, e lo dissi sapendo che si trattava di una scatola di fiammiferi. E la chioma di quel piccolo albero, che sta lì vicino al paravento, lo stesso: era una canoa che si era arrampicata sui rami. Ma era allo stesso tempo la chioma del-l'alberello. Poco dopo mi persi in un enorme macchinario di colori lenti, tra ingranaggi tremendi, di ferro, silenziosi quando giravano, immobili, con viti rosa pallido, grandi, dai colori soavi, e pulegge, una macchina spaventosa e io lì dentro, in mezzo a quei mostri che giravano ricoperti di punte gialle, viola e il mio corpo trafitto, senza che io sentissi il minimo dolore, senza che mi uscisse una sola goccia di sangue...

— E il mio figlioccio Ivàn Calvo, dice Don Manuel Córdoba. Che visioni ha avuto? La sua voce la riconosco, mi viene restituita uguale sotto l'effetto della droga, una stanchezza che non mi appartiene prostra il mio corpo sul sedile.

— Ciò che ho visto non si può raccontare, dice Ivàn agitato.

Don Manuel Córdoba lo guarda con tenerezza, poi con la stessa espressione di affetto volge lo sguardo verso di me:

— E il giovane, il non tanto giovane Cèsar Calvo? Ciò che hai visto si può raccontare o anche tu hai visto ciò che ha visto tuo fratello Ivàn?

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E io, immenso nelle mie visioni, ancora dentro la notte che sta per finire:

— Ho fatto un sogno molto strano, come se ubriaco avessi visto un film. All'inizio ho visto qui, nella stanza, un bosco davanti a uno specchio che si velava di bontà, che alzava un velo di bontà verso la faccia, verso il respiro di un bambino addormentato. Ho chiuso gli occhi, li ho riaperti e nulla si era alterato in questa mia visione; tutto era normale, naturale nel sogno. Sognai che io ero e non ero io allo stesso tempo e che io e quell'altro che io ero, viaggiavamo da Lima e da Pucallpa ad Atalaya, e ad Atalaya affittavamo una barca con motore fuoribordo, e solcavamo il fiume Ucayali fino all'Urubamba, e dall'Urubamba fino alla bocca dell' Inuya, nel mio sogno, navigavamo contro corrente, per molti giorni fino al fiume Mapuya e lì raccoglievamo fossili marini, chiocciole di pietra, meduse di milioni di anni e c'era una wapapa che mangiava la gente, paesi interi galleggianti come pesci nell'acqua avvelenata, nella mia visione...

Don Manuel Córdoba finge di occuparsi della sua pipa, sta per accenderla, ma preferisce concentrarsi sul fiammifero che rimuove i resti del tabacco. E poi?, dice, con una voce che avevo già previsto. Decido di tacere, mi accascio sulla sedia, non mi obbedisco. Vidi colori, solamente colori, per molto tempo. Ma subito ritornò il sogno, lo stesso sogno ritornò dove ci aveva lasciati. Continuammo a viaggiare, un bambino amawaka ci guidava. Ci lasciammo il Mapuya alle spalle e entrammo nel bosco, io tornai indietro, puntai contro la wapapa il mio fucile, non so bene che cosa mi scoraggiò. Continuai a sognare con grande chiarezza, sognai che non ero Cèsar Calvo ma Cèsar Soriano, un mio cugino che vive a Cajamarca: era dentro di me senza che io smettessi di essere io e insieme camminavamo inciampando tra quei boschi, ostinati, dietro a Ivàn. Davanti a tutti camminava il bambino inviato da lei, Don Manuel, perché ci guidasse. Perché sognai che stavamo camminando e soffrendo e sforzandoci solo per arrivare fino a lei. E sognai che lei era il capo degli ama-

waka, si chiamava Ino Moxo, mi sembra, sì, mi ricordo chiaramente, si chiamava Ino Moxo, ma non era Ino Moxo, era Don Manuel Córdoba, era lei, con la pelle chiara, gli stessi occhi, la voce e i gesti, tutto... Alla fine, dopo avere attraversato a piedi colline boscose, arrivammo al fiume Mishawa e lei ci ricevette. Ino Moxo ci ricevette, ecco che cosa ho sognato. Per quattro giorni parlammo seduti sulla riva del Mishawa. Poi, all'improvviso, dopo una seduta di ayawaskha e tohé identica a quella di questa notte, a casa sua, Ivàn mi disse che Ino Moxo si era messo la sua cushma gialla ed era entrato nel bosco e il suo corpo si era dissolto in fumo... Ricordo che dopo l'ayawaskha che lei mi aveva dato nella sua capanna di Mishawa, sognai esattamente lo stesso sogno che ho sognato nella sua casa di Iquitos, qui a Jirón Huallaga, come un sogno dentro un altro sogno: vidi che ero ad Atalaya con Ivàn e con Félix Insapillo e con me stesso, Cèsar Calvo, e che navigavamo lungo l' Ucayali, l'Urubamba e l' Inuya... Come visione che nasceva sul morire, che non sarebbe mai terminata, come un viaggio finito col suo inizio che vedeva se stesso guardarsi nella mia visione... E ho ancora in testa, come se lo avessi appena vissuto, quel viaggio che il suo oni xuma mi ha fatto sognare...

E Don Manuel Córdoba, sorridente, mentre posava la pipa sul tavolino:

— Gli ashaninka dicono che sognare è parlare con l'aria, che durante il sogno ci si sveglia alla vita di altri tempi, a una delle vite del tempo di questa vita. Le cose che si vedono dall'oni xuma sono reali, più che reali, non avere dubbi. Tu stanotte hai viaggiato veramente, anche se non è il modo più abituale di manifestarsi della verità. E parlando fra sé, dentro di sé:

— Una delle molte maschere di questa stessa verità. E cambiando espressione, con voce inconfondibile: — L'intero viaggio del tuo sogno, per me è certo, per la

mia vita, e per te dovrebbe essere lo stesso, un viaggio vero dal principio alla fine...

E soppesando la mia incredulità:

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Lì, sulla riva del Mishawa, nel tuo sogno, c'era un enorme renaco in mezzo all'acqua?...

E senza mezzi termini, volgendo gli occhi verso Félix Insapillo e verso mio fratello Ivàn:

— Loro non saranno più come sono stati fino a ieri, prima dell'oni xuma e del tohé. In modo impercettibile, ma concreto, anche loro si sono alimentati delle tue visioni, a loro modo, hanno viaggiato con te... Anche se ancora non lo sanno nel pensiero del cuore, oltre le memorie, neppure loro sono più gli stessi...

E affilando gli artigli del suo nome amawaka, cadendo su di me dall'alto della sua fronte di saggio:

— Io lo so, tu non sei venuto da Lima soltanto per farti curare il corpo materiale. Questa notte, non sei venuto soltanto per prendere oni xuma con tohé. Lo so. Per questo ho disposto ciò che hai visto nel tuo sogno. Ho disposto, una per una, tutte le tue visioni. Anche per questo non le ho trasmesse a te ma al tuo doppio, a uno dei corpi della tua ombra. Forse un giorno, se sarai in grado di meritarlo, potrò confidarti, saprai perché non ho agito direttamente su di te, perché ti ho fatto viaggiare con un tuo parente, vicino a lui, al suo fianco come un estraneo, perché ti ho fatto viaggiare con il tuo altro io nelle tue visioni...

E lasciando il divano di stuoie, congedandosi da noi, la mattina era soffocante e i pazienti cominciavano a chiedere di lui, una fila di facce livide e ansiose, Don Manuel Córdoba ordinò che io, non Cèsar Calvo, ma l'altro mio Cèsar, raccontassi a beneficio della gente i meandri del viaggio che credevo di avere sognato. Quel viaggio che sessant' anni fa, o tra sessanta milioni di anni, nel tempo senza tempo, mi fece conoscere Ino Moxo, Pantera Nera degli Amawaka.

— Vai a riposare adesso, ordinò affaticato Don Manuel Córdoba, come un convalescente, mentre ci accompagnava alla porta, lentamente. Non alterare mai la realtà del sogno, non separare la magia dalla storia né la veglia dal mito. Ricorda che i fiumi possono esistere senza acqua,

mai senza sponde. Credimi: la realtà non è nulla se non si verifica nei sogni.

Il tremito di una rete mi avvolse, non era un sogno, era un lago e vidi Kaametza sulla terza sponda, sul sangue nero dell'otorongo accoltellato, feci per avvicinarmi a lei ma la rete mi restituì alle acque sempre più scure e più calde e più chiare, qespichìway! qespichìway! gridai e non era un lago, era un fiume; qespichìway! invocai Kaametza, fammi diventare come il cristallo, procrea con me figli trasparenti e liberi! Così mi udì gridare in quechua il sogno ma non mi sentì, Kaametza se ne stava assorta sulla riva e Narowé si svegliava, i tentacoli della rete mollarono-la presa-mentirono-insistettero, poi mi afferrarono di nuovo. E non era una rete, era una mano che mi scuoteva, due mani che mi afferravano alle spalle, Roosevelt Guzmàn mi svegliava chiedendomi scusa, dicendo che tutti erano usciti turbati dal mio incubo e che stava per calare la sera.

Ho dormito tutto il giorno, qui, in questa casa di Jirón Aguirre di Iquitos, di fronte alla Plaza 28 de Julio, nella stessa stanza che più di vent'anni fa mi ospitò studente durante le vacanze. Il vento non è passato. Ora sto di fronte alle stesse persiane che il pittore Calvo de Araùjo, mio padre, aveva saputo trasferire con dita di tabacco e acquaragia e pennelli, raccogliendo giubili e colori e giubili e collere per consegnare tutto al cavalietto dove un'altra finestra lo aspettava. Il vento non è passato? So bene che Don Daniel Guzmàn Cepeda non è in casa, che questa non è più la sua casa né la mia, che se ne è andato con mio padre, calpestando teneri rami, che i loro corpi si sono dissolti in fumo. Se soltanto riuscissi a ricomporre il sogno, dico tacendo-vedendo, ma un acquazzone improvviso mi sveglia completamente, entrano grosse gocce dalla finestra, mi alzo e la chiudo invano, i miei occhi non si allontanano dalla pioggia. Perché il vento è passato, salici, sì, è passato, manghi, melerose, devastando generosi nespoli, indimenticabili alberi eterni, complici della mia

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vita. E non c'è nessuno né in piazza né a casa, chiedo a Roosevelt che dica che non c'è nessuno, se qualcuno mi cerca digli che non ci sono, digli che anche io, che neppure io, che me ne sono andato quattrocento anni fa. Allora infilo un foglio bianco, uno nero, ancora uno bianco, nella malandata macchina da scrivere: e scrivo

LE TRE METÀ DI INO MOXO e altri maghi verdi

DI: CÈSAR SORIANO

— Così succede quando qualcuno dice la verità, ri-suona Don Manuel Córdoba nella mia memoria. Se una sola esistenza la sente e ne tiene conto, non c'è neanche bisogno di dirla: dicendo altre cose stai già dicendo la verità anche se né tu né la verità lo volete...

Il primo uomo non fu uomo, mi dice Don Javier, im-pigliandosi in risate profonde. Il primo uomo fu donna...

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Abuta - Questo albero alto e grosso, sconosciuto quasi ovunque, cresce preferibilmente nelle selve pianeggianti. Le sue radici di un rosso scuro, sfilacciate e bollite, conferiscono forza a una bevanda che elimina lo zucchero dal sangue.

Acarawasù - Pesce refrattario ai grandi fiumi; vive esclusivamente in rigagnoli e laghi. Pesa fino a tre chili e raramente è lungo più di cinquanta centimetri. Nelle città è pregiata la sua pelle, nei villaggi la sua carne saporita. Ciò che è certo è che per una ragione o per l'altra, minacciato dalla fame e dagli acquari, l' acarawasu vive, o meglio non vive, corre il rischio di estinguersi.

Achiote - Bixa Orellana. Seme rosso che macinato, viene impiegato, in farina e in pasta, a scopi culinari, rituali o semplicemente decorativi. Nelle cucine più esigenti e moderne l' achiote è ormai diventato indispensabile come condimento; ma gli indigeni continuano a non riconoscergli altra virtù se non quella di una efficace pittura magica: il suo colore mette in fuga le fiere, gli uomini malvagi, le anime avverse, l' achiote ci rende invulnerabili a qualunque minaccia dei nemici visibili e invisibili.

Achùni - Quadrupede inquieto, di media grandezza. Soltanto da vicino e dopo avere visto la sua coda irsuta, le sue orecchie languide, si può affermare che l'achùni è achùni e non volpe. Nonostante la diffusa indifferenza di questo animale per le galline, la voracità dei cacciatori continua a confonderlo con la volpe.

Afaninga - Questa serpe è solita vivere al riparo, quasi nell'anonimato, dei pascoli. A differenza delle altre, l'afaninga si finge selvatica, ma non attacca. Persino quando è attaccata non morde: si limita a proteggersi ruotando la coda, nascondendosi dietro un mulinello di sferzate innocenti.

Aguajal - Si dice delle terre pantanose e soggette a inondazioni dove abbonda una palma conosciuta, come del resto i suoi frutti, col nome di aguaje. A questo proposito esistono due versioni opposte ma entrambe accreditate: una afferma che

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gli aguajales devono il loro appellativo alla palma che cresce in quelle zone paludose, l'altra afferma che gli aguajes sono così chiamati perché crescono unicamente in terreni coperti dalle acque.

Aguaje - Palma gigantesca che preferisce le terre soggette a inondazioni o le prossimità delle lagune e dei fiumi. Aguaje è anche il nome del frutto di questa palma, specie di pigna molto piccola e rossiccia; dietro una buccia dura che si stacca con i denti, l' aguaje nasconde un piccolo strato di una polpa altamente nutritiva e gustosa.

Aguaje-machàcuy - Serpente acquatico, pacifico, il cui nome si deve al colore e alla composizione della pelle, imitata dai frutti dell'aguaje fino a confondersi con essa. Machàcuy è la spagnolizzazione della parola macha'aqway che in quechua indica gli ofidi e le bisce. Sarà necessario ricordare che un'altra parola quechua, Amaru, che significa serpente, o meglio grande serpente, o anaconda, boa, era ed è usata soltanto per designare il Serpente-Dio, una delle divinità minori degli Inka?

Ajuàsi - Più che dell'uomo ozioso si dice di quello inutile, quello la cui anima, abitata da inevitabili pigrizie, lo porta verso un triste destino di insuccessi. Ajuàsi non è necessariamente chi si nega a agire ma chi sbaglia ogni volta che agisce.

Allpaka - Auchenìa Pacos, docile, meno robusta e meno alta di un asino, pregiata non tanto per la carne quando per il pelame, fonte inesauribile di lana morbida come la seta. L'allpaka è uno dei quattro camelidi che vivono nelle cordigliere sud-americane. Il guanaco, la vigogna e il lama appartengono alla stessa famiglia.

Alqotuna - Allqo: cane. Runa: uomo. Molti indigeni delle nostre sierre e selve chiamano allqoruna l'uomo bianco, il virakocha, per la verità insultante che esprime questa parola: nonuomo, cioè inumano, sfruttatore, bastardo, ladro, falso; questo e non altro significa, a seconda di quando e di come si usa, la parola allqoruna.

Ama sua, ama llula, ama qella - In lingua quechua: non essere ladro, non essere bugiardo, non essere pigro. Gli Inka impiegavano questa frase al posto del nostro misero "buon giorno". La persona alla quale era rivolto questo saluto rispondeva Ch'eynallataq q'ampas, cioè: "Auguro la stessa cosa a te."

Amawaka - Amiwaka. Così designamo, dal tempo della conquista spagnola, la terra yora e gli indigeni che la abitano. Il principale insediamento yora, o amawaka, dove si affermò la sapienza di Ino Moxo si trova ancora oggi in prossimità del fiume Mishawa, delimitato dalle correnti tumultuose dell'I-

nuya e del Mapuya che alimentano il Fiume Sacro degli Inka, l'imponente Urubamba.

Andiroba - Albero particolarmente duro, che trova nel wakapù l'unico rivale nella costruzione delle case.

Anima - Spirito. Anima. Apparizione. Fantasma. E forza, quell'essenza che abita e dà vita, dà respiro, anima uomini e animali, vegetali e cose. Detto dagli stregoni amazzonici, "Grandi Anime" può riferirsi tanto agli spiriti superiori che in passato hanno occupato un corpo materiale, quanto alle potenti divinità che allo stesso tempo danno impulso e minacciano il creato ricreandolo nella sua esistenza quotidiana. Anima è anche ciò che si stacca dal moribondo, che continua a vivere per lui quando muore, che poi percorre i luoghi e gli affetti del defunto cercando eternamente la sua fine. E perciò nella selva, e non solamente nella superstizione dei villaggi, ogni volta che succede qualcosa di inspiegabile, un rumore, un'improvvisa bufera, un movimento o un silenzio imprevisti, qualcuno invariabilmente penserà tra sé e sé: "è l'anima del tale, la sua anima che lo insegue."

Anona - Anón. Uno dei frutti tropicali più nutrienti e saporiti. La sua dura buccia, di un verde scolorito, racchiude una polpa forse troppo bianca e dolce.

Anashùa - Pesce che compensa ampiamente la sua lunghezza, appena 40 centimetri, e il suo peso precario, mai più di 2 chili, con una carne trasparente, dal sapore indescrivibile, come indescrivibili sono i colori della pelle che lo avvolge.

Anaz - Alla sua statura di cagnolino da salotto aggiunge la vivacità di una volpe decaduta. Solo pochi aborigeni lo considerano commestibile, in generale lo trovano divertente e lo inseguono in mancanza di altri svaghi.

Anuje - Nonostante sia uno dei roditori più piccoli della selva peruviana, la sua corporatura supera quella di due conigli comuni. La ruvidità del suo pelame inganna: anche per sapore e tenerezza della carne l'anuje supera due conigli.

Apasharàma - Albero dalla corteccia dura e rugosa, indispensabile per la concia del cuoio pregiato.

Apashira - Camaleonte piccolo e viscido. La sua carne lucidissima e vischiosa è considerata un lusso da alcuni indigeni. La apashira unisce alla velocità vertiginosa dei suoi movimenti, una capacità miracolosa di mimetizzarsi in qualsiasi ambiente. Ecco perché la sua cattura costituisce il trionfo e il vanto non tanto dei cacciatori più esperti, quanto di quelli più fortunati. Nel linguaggio popolare apashira indica il sesso femminile.

Aqllawasi - Gli Inka chiamavano così, "Casa-de-las-Escogidas", la residenza delle vergini addette al culto di Inti, il padre Sole.

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Arambasa - Ape nera, feroce. La gente la teme e le dà la caccia allo stesso tempo: il miele di arambasa, lievemente acido, di un colore dorato, non troppo denso, è ricercato più di ogni altro per le sue proprietà tonificanti.

Aripasa - Albero incerto nella grandezza e nello spessore delle foglie. Produce frutti grigi, rotondi, schiacciati, non commestibili.

Ashaninka - Così si chiamano e chiamano le loro terre gli indigeni del Gran Pajonal e delle zone circostanti, più di centomila chilometri quadrati, Noi li conosciamo come campa. Nella loro lingua, Ashaninka significa uomo; per loro, tutti gli altri sono chori (gente della cordigliera, quechua o meticci) o virakocha (usurpatori, bianchi, invasori). In questo altopiano della selva che si perde a vista d'occhio, conosciuto come il Gran Pajonal e che è anche la loro patria, gli ashaninka non permettono né posti di polizia, né scuole di tipo occidentale, né chiese, né caserme. Tuttavia sono assai ospitali, anche se solo con chi si presenta loro in pace. Con tutti gli altri sono spietati. Guerrieri indomabili, in passato hanno fermato i conquistatori inka e quelli spagnoli e oggi vigilano contro i nuovi barbari.

Ashipa - Tubercolo farinoso, di un dolce incerto, forse l'unico tu-bercolo che può essere mangiato crudo, come se fosse un frutto.

Ayanawi - Nawi, in quechua, è occhio. Aya è anima, defunto, spi-rito-di-quelli-che-sono-morti. Ayanawi, può significare dunque Occhio-del-morto, Occhio-delle-anime, ed è il nome quechua della lucciola.

Ayaymàman - Uccello dal nome onomatopeico. Il suo canto la-mentoso, inconsolabile, si ode soltanto di notte. Nessuno è mai riuscito a vedere un ayaymàman. Ed è per questo che gli abitanti della selva continuano a credere a una leggenda che parla di due bambini, un maschio e una femmina, che i genitori, certi che la fame li avrebbe portati a morte sicura, preferirono condurre, con l'inganno, nel fitto del bosco per poi abbandonarli. I piccoli per sopravvivere, dovettero trasformarsi in uccelli. Da allora singhiozzano, ayay màman!, invocando la madre, il padre o un qualunque essere umano che sia disposto ad andarli a vedere. A stento gli uomini riescono a intravedere il loro canto tra le foglie dell'oscurità. Da secoli i bambini-uccello continuano a cantare-singhiozzando fino all'alba. L'indiscussa e innocente verità della nostra tradizione popolare afferma che se un essere umano riuscisse a vederli, gli ayaymàman riprenderebbero la loro forma e la loro anima di un tempo.

Ayawaskha - Liana del morto. Fune-dell'anima. Nome quechua di una liana dalle proprietà allucinogene. Humboldt la ribattezzò come Banisteria Caapi. Moderni scienziati sono riusciti a isolare il suo principio attivo, un alcaloide che hanno chiamato harmina e lo hanno usato per esperimenti destinati a fallire perché si ignora con quali altri vegetali gli stregoni dell'Amazzonia mescolino l'ayawaskha per conferirgli poteri curativi e di divinazione su cui si fonda la fama di infallibilità di questa liana.

Ayùmpari - Ashaninka che accetta o stabilisce uno scambio di regali con altri membri del suo gruppo. Gli ashaninka attribuiscono a questa usanza ancestrale valore di istituzione sacra. Non si tratta di dare per ricevere. Si tratta di respirare. La vita è nell'aria, è di tutti non di uno solo. Se, regalandoti qualcosa, frecce, pugni di sale, pasta di achiote, merito e ottengo di essere tuo ayùmpari, non ti sto dando la vita, ma la sto restituendo a me stesso. Gli oggetti, i doni, i regali, tutti gli oggetti creati come l'aria dal nostro Padre — Dio Pachakamàite, diventano miei quando smettono di esserlo. Tutto è di tutti. È cosi. Ma solo tra gli ashaninka. Infatti, nessun bianco, nessun meticcio, e neanche gli appartenenti ad altre regioni amazzoniche sono accettati come ayùmpari dagli ashaninka. Perché lo scambio di oggetti, che è un'istituzione sacra, non solamente lega per la vita i due ayùmpari ma unisce e rafforza l'intero gruppo.

Awiwa - Verme multicolore, commestibile, di solito raggiunge i dieci centimetri di lunghezza.

Balata - Lattice dell'albero detto balata. I lavoratori e/o gli estrattori di questo parente del caucciù si chiamano perciò bala-teros. Il pittore Calvo de Araùjo, li ha descritti, più con candore che con colori, in una sua canzone che esprime pienamente il sentimento popolare:

Tu mi hai voluto bene, ingannatrice, ingannatrice quando avevo molti soldi, molti soldi Come Shiringuero, come balatero, ho lavorato e quei soldi, ti ho regalato, ti ho regalato...

Barbasco - Pianta impregnata di una sostanza nociva chiamata rotenona. I pescatori, che usano anche il lattice del barbasco, preferiscono il veleno che estraggono dalle sue radici: majan il vegetale (scheggiano cioè, colpendola, la pianta per far affiorare la rotenona), poi spargono quel lattice sull'acqua e subito raccolgono i pesci che agonizzanti galleggiano in superficie.

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Bayuca - Nome di diverse specie di bruchi velenosi, interamente ricoperti da una peluria colorata e irritante.

Bora - Nativo dell'Amazzonia, appartenente al territorio dallo stesso nome.

Bocholócho - Più slanciato e inquieto di una colomba, ma non più grande, questo uccello chiama solo se stesso: bocholooooo-choooo, bocholooooochoooo, con un canto monotono e melodioso, monotono, molto monotono.

Bubinzana - Canto magico detto anche Icaro. Invocazione. Preghiera in musica che gli stregoni canticchiano, mentre fumano, durante alcune cerimonie.

Bufeo - Bujéo — Delfino di fiume — Pesce mammifero della gran-dezza di un uomo. Alcune indigene mestruate o incinte evitano di navigare su imbarcazioni fragili: sanno che i bujéo si eccitano sentendo il loro odore e investono le imbarcazioni per rovesciarle. Non sono infrequenti i casi di donne morte affogate non in seguito a naufragio ma a causa dei bufeos che le hanno trascinate in acqua per possederle. Si racconta inoltre di pescatori che hanno catturato femmine di bujéo: affermano che nessuna donna le eguaglia in abilità e ardore. La femmina del bujéo rosso è la più ambita: gli stregoni tagliano la sua vagina, la dotano di poteri digiunando, icarandola e con essa fabbricano l'unica pusanga infallibile per le pene d'amore. È cosa risaputa che i bufeos maschi riescono, se lo vogliono, a trasformarsi in persone: travestiti da uomini escono dai fiumi, soprattutto durante le feste, e protetti dagli schiamazzi, dalla confusione, dai balli, corteggiano le ragazze e poi le rapiscono. I bufeos assumono, senza nessuna difficoltà, qualunque apparenza, meglio degli stessi chullachaqui. Ma insieme ai poteri di questi possiedono anche i loro difetti: i bufeos sono condannati a portare sempre il cappello. E come il chullachaki umano è tradito dall'impronta di tigre o di cervo che lascia inesorabilmente il suo piede destro, così il chullachaki di bujéo è costretto a respirare attraverso quel foro, sempre visibile, che ha sulla testa. Per smascherarlo e spaventarlo basta togliergli il cappello.

Cahuàra - Kawàra. Pesce la cui smisurata dimensione contrasta con la bontà della carne.

Caimito - Se alla forma tondeggiante con quella sporgenza simile a un capezzolo e alla pelle luminosa e tesa, si unisce la squisitezza biancastra e gommosa della polpa, il caimito più che un frutto sembra il seno di una ragazza. La storia più diffusa sul caimito parla di un taglialegna che aveva punito i deliri della moglie amputandole i seni e li aveva sotterrati

sulla riva del fiume, lontano dal suo campo, proprio dove più tardi sarebbe nato spontaneamente un albero dai rami tristi e destinati a produrre folgoranti e innumerevoli frutti. A tale macabra origine il caimito deve i suoi tessuti eccitanti, l'anima della sua carne, quella dolcezza che spinge alla smoderatezza. Campa - v. ashaninka. Camucàmu - Arbusto semiacquatico. I suoi frutti acidi, più acidi che

dolci, ereditano, insieme al nome, pari discrezione nella misura. Camùnguy - Gallinaceo dal nome onomatopeico. La smodatezza del

suo portamento e il colore delle piume lo rendono simile al tacchino selvatico. Peccato che la sua carne sia del tutto impermeabile al sapore.

Canela-muwena - Canela-mohena. Albero dal legno color cannella, particolarmente profumato e duro.

Canero - Pesce incredibilmente vorace, forte, viscido. Permanenti viscosità ricoprono i 20 centimetri, mai superati, del suo corpo. Privo di denti, si alimenta per suzione. Il canero più è piccolo e più è temuto, e a ragione: la sua avidità sempre incontenibile, diventa mortale quando il canero penetra attraverso l'ano o la vagina dei poveri esseri umani. Capirona - Con il suo legno impenetrabile e fibroso si è conquistato la fama di produttore di miglior legname e del carbone più resistente. Carachama - Karachama. Pesce antidiluviano, vive sul fondo dei laghi e si nutre di fango. Le sue squame numerose e grosse lo proteggono meglio di un'armatura. Può sopravvivere anche molti giorni fuori dell'acqua. La sua carne non viene mai imbandita sulle tavole dei signori; i chama, che hanno come unica attività la pesca, si sentono oltremodo orgogliosi quando riescono a catturare una karachama e ancora maggiore è la loro gioia se riescono a farlo senza l'aiuto di ami, frecce o reti: si tuffano senza sosta e, quando ormai li danno per an-negati, tornano in superficie con la preda ambita: i giovani la tengono tra le mani, quelli più esperti tra i denti. Cargar - Questo verbo completa e definisce, nel linguaggio degli stregoni, l'azione del curare. Uno stregone può cargar con malefici qualunque cosa che, prima, era stata destinata a fini benefici. E viceversa. O anche né l' una né l'altra cosa: un fazzoletto innocente, per esempio, può essere cargado per portare il bene e il male, la felicità o la morte. Per i non adepti cargar può essere confuso con curare, e curare con stregare, con fare fatture, anche se tali parole non riescono ad esprimere interamente la pienezza del suo significato.

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Catahua -Katàwa. Albero gigantesco, interamente ricoperto di spine. Cresce nei terreni bassi. La linfa è velenosissima, utilizzata sia dagli uomini, sia dagli animali. Alcuni aborigeni ungono le punte delle frecce e dei dardi con sangue di Katàwa. Con sangue di Katàwa gli uccelli carnivori (la famosa wapapa, per esempio) ungono le loro ali, poi si immergono nelle acque stagnanti, depositano il veleno, aspettano. E non aspettano a lungo: quasi immediatamente divorano i pesci che la linfa di katàwa deposita sulle rive.

Cetico - La sua forma spigata e la dovizia dei suoi rami a ventaglio gli hanno procurato, da parte di alcuni erboristi distratti, il nome di arbusto. Il suo cuore, sughero più che legno, ricco di cellulosa, è lusso ambito dai fabbricanti di carta. I nostri indigeni, spinti all'arte della pesca non per vivere i piaceri ma per uccidere la fame, declassano il cetico per costruirsi zattere di emergenza.

Citaràcuy - Enorme formica la cui morsicatura non è velenosa né dolorosa. Con lo stesso nome è conosciuta una danza che secondo gli usi del posto viene accompagnata con tamburi, pifferi e battiti di mani: durante il ballo le coppie imitano, con pizzichi e gesti allusivi, l'andatura controproducente delle formiche e la loro aggressività senza senso, fatale per quanto è evasiva, mortale per quanto è amorosa.

Coca - Arbusto dalle cui foglie si estrae il cloridrato di cocaina. Gli abitanti delle Ande masticano la coca: formano con le sue foglie una palla che masticano a lungo e a cui aggiungono calce, sostanza che scatena le proprietà vitalizzanti che caratterizzano questo vegetale. I quechua la utilizzano da sempre per divinare. Se la coca ha un sapore dolce, annuncia fortuna: si deve intraprendere ciò che si è pensato. Se invece è amara, è un segno nefasto, e si deve rimandare quanto si è programmato. Gli stregoni amazzonici aggiungono foglie di coca al-Vayawaskha solo in determinate occasioni: anche loro confidano nella coca per fare luce sul futuro.

Cocha - Kocha. Parola quechua. A seconda dell'uso può significare Lago, Laguna, Gora, Acque Tranquille, Pozzanghera, Oceano.

Cocona - La sua mediocrità di dimensioni non si addice alle foglie larghe né al sapore dolciastro, delicato, agro, verdegiallo dei suoi frutti.

Comején - Formica dannosissima. Attacca ogni tipo di legno e al-l'improvviso secerne una sostanza scura e porosa che si indurisce in breve tempo. Con questa secrezione nata dalle rovine, il comején costruisce la sua casa.

Coto-machacuy - Koto-machàcuy. Animale mitologico. Serpente gi-gante, possiede due teste e vive sul fondo dei grandi laghi.

Cumacéba - Albero dal legno duro, di nessun pregio. Cumala - Albero dal legno poco resistente, di nessun pregio. Cupiso - Cupisu. Piccola tartaruga, allungata, anfibia. Le sue uova, che

hanno il suo stesso nome, sono più saporite della sua carne. Curar - Nel linguaggio degli stregoni questo verbo cambia di si-

gnificato e di ruolo. Curare un qualsiasi oggetto significa dotarlo di poteri, di forze, di significati ignorati da questo oggetto, che non possiede né per natura né per nascita.

Curuince - Formica grande, compensa la mancanza di veleno con imbattibili tenaglie: con essa recide le spaventose foglie dalle quali (oltre le oscurità e le umidità il cui fermento è tempo del sottosuolo) spunta il putridume dei funghi di cui la curuince si nutre.

Cushma - Tunica tessuta e decorata con diversi colori; specie di poncho lungo, con maniche, cucito dalle ascelle fino ai piedi, È usata indistintamente dalle donne e dagli uomini.

Chacchar - Masticare foglie di coca. Chamairo - Cenere vegetale che può sostituire la calce quando si

mastica la coca. Chambira - Palma dal frutto commestibile anche se di un dolce

discutibile. Il suo tronco non è compatto, ma in alto, in cima, nella parte più affilata, dispiega un'inesauribile frescura di ombre di rami, di foglie larghe, dure e fibrose. Pur essendo particolarmente adatta a ricoprire i tetti delle case, le foglie di chambira vengono utilizzate esclusivamente per fare funi: assottigliate, intrecciate con abilità, arrotolate e di nuovo intrecciate, non hanno mai tradito la loro fama di indistruttibili. Stranamente si chiama chambira anche un pesce dalle spine pericolose e dai denti repellenti, e nonostante ciò commestibile.

Charichuelo - Albero dalla chioma impertinente, elevata, fitta di alti rami e di foglie. Produce pochi frutti aciduli dal sapore acre ma abbastanza tollerabile.

Chicoza - Specie di graminacea, erba da pascolo molto alta. Come foraggio questa pianta è giustamente definita miracolosa.

Chicozal - Luogo generalmente sabbioso, ricco di chicoza. Chimicùa - Albero dai rami inutili e fragili che si staccano con un soffio: produce frutti tenaci e rossi, cosi attaccati al ramo, così difficili da strappare, così incapaci a vivere separati, che pochi cacciatori possono vantarsi, senza mentire, di averli assaggiati. Chinchilejo - Libellula. Conosciuta, stupidamente, anche come

chu-pajeringa. Soprannome scontato per bambini e per giovani squallidi e allampanati.

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Chirisanango - Sanango saporito. Tonico che gli stregoni preparano mescolando le proprietà e i succhi di diversi vegetali.

Chonta - Cuore di palma. Germoglio commestibile di diverse palme: wasài, shebón, cinami, pijoayo, hunguràwi. Polpa di una palma chiamata pona. Legno duro usato per fare le punte di quasi tutte le frecce e i dardi.

Chori - Si dice, in ashaninka, dell'uomo delle Ande, del quechua o meticcio delle nostre montagne.

Chosna - Scimmia notturna. Nonostante la sua corporatura robusta, nessuno la considera violenta o aggressiva. Le sue grida, in piena notte, e i suoi salti che spesso provocano la caduta di rami pesanti, forse ci ingannano e ci infondono paura. Ma è noto che non è questa l'intenzione della chosna.

Chuchuwasha - Albero le cui radici spezzettate e macerate in ac-quavite di canna conferiscono potere e forza a una pozione cu-rativa, afrodisiaca, tonica, chiamata anch'essa chuchuwasha o chuchuwasi: la prima espressione quechua potrebbe significare: "petto indietro" o "petto che si gira" e la seconda: chuchawasi, sarebbe "casa del petto".

Chullachaki - Dal quechua Ch'ullan Chaki che significa un-solo-piede, piede unico. Essere mitologico. Demonio. Spirito. Secondo quanto è stato dimostrato, ogni chullachaki, anche se è capace di assumere l'apparenza più inverosimile, non riesce mai a mascherare uno dei suoi piedi: di solito il destro si rifiuta di assumere aspetto umano e assume quello di una zampa di tigre o di uno zoccolo di cervo. Così il chullachaki, più che tradito, è denunciato e si denuncia, senza volerlo, da solo, con una parte del suo corpo. A ciò si deve con certezza il modo discutibile e insolente con cui in Brasile chiamano il nostro chullachaki: Curupira.

Chullakaqla - Chullacajla. Mandibola diseguale. Pesce interamente orfano di squame, fornito di smisurati e velenosi sproni.

Chushpi - Zanzara insignificante, la cui puntura oltre a provocare un dolore atroce, causa infezione.

Chusupe - Chushùpi. Grosso serpente, dalla pelle scura, quasi ossea, velenosissimo. Una sua particolare abitudine lo rende tre volte più pericoloso: tra tutti i membri della sua grande famiglia, la chusupe è l'unica che insegue la vittima anche dopo averla morsicata e se può continua a morderla senza pietà. Forse è l'unico animale, dopo l'uomo, la cui ferocia non conosce limiti. Perciò, desta meraviglia sapere che il majaz, per molti l'abitante più saporito della selva, viva al riparo della temibile chusupe, nel suo nido. I mitayeros e coloro che abitano lungo i fiumi affermano di avere trovato in qualche parte del corpo del majaz una cartilagine che riproduce perfettamente la forma di un dente di chusupe.

Demento-Chàllua - Pesce non commestibile, piccolo, semivolatile, decorativo. Il suo nome, pesce-pazzo, gli viene dalla irrefrenabile agitazione dentro e fuori dell'acqua.

Doncella - Pesce molto grande. La sua pelle, senza squame, è avvolta da una spirale di frange nere. Esistono doncellas che pesano anche 30 chili e la loro ottima carne è senza spine.

Dorade - Chiamato anche Zùngaro. La testa di questo pesce supera, senza sforzo, la metà del corpo privo di squame e di spine e che abitualmente raggiunge i 50 chili.

Ejercer - Usare con competenza tutte le conoscenze e tutti i poteri acquisiti attraverso la magia. Ejercer è prerogativa degli stregoni autorizzati, cioè di quelli che officiano dopo anni laboriosi di solitario apprendistato e di sperimentazione.

El Anima Sola - v. Elegguà. Elegguà - L'Anima Sola. Divinità africana che, nel fervore senza anni

di alcuni dei suoi fedeli americani, suole essere identificata erroneamente con Ekué, che è La Morte. Si tratterebbe dunque di un'Anima Sola sempre accompagnata, più considerata che riverita per la sua indiscutibile bontà, infatti non sono solo gli adepti di Ekué a considerare il morire un sollievo, una benedizione che li libera dalle umiliazioni e dalle pene di questa vita. I nostri antenati negri, quando gli schiavisti proibirono le loro religioni costringendoli al cattolicesimo, conferirono ai loro dei le identità dei santi cristiani per poterli continuare ad adorare come propri, fosse anche senza nominarli, sotto vesti altrui, nel segreto della memoria lontana. Perché scelsero proprio un Cristo per mascherare Ekué e perché Ekué per mascherare Elegguà? Avranno avuto le loro ragioni. Una cosa è certa: attribuirono i caratteri della morte niente meno che al resuscitato e immortale Gesù di Nazareth.

Empalar - Alzare un muro di anime intorno a qualcuno o qualcosa, circondandolo con spiriti al posto di pali, con volontà al posto di recinzioni, perché nessuno possa arrecargli danno.

Emponado - Pavimento fabbricato con strisce di una palma leggera e dura chiamata Pona, insostituibile, per virtù e tradizione, nelle case lacustri o costruite su terreni soggetti a inondazioni.

Espintana - Albero dritto, dalla corteccia compatta, utilizzata nella costruzione delle case. Si sa che la madre, lo spirito che guida l'espintana, è due persone, una vecchia, l'altra giovane, che chiacchierano e chiacchierano al tramonto.

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Fasàcuy - Nonostante viva prevalentemente in laghi e lagune, e spesso soltanto nei corsi d'acqua tranquilli, il fasàcuy non è facile da pescare: la dentatura ben si accorda alla sua voracità e le squame che le rivestono come una corazza sono sempre coperte da vertiginose mucosità grigie. I suoi quattro chili, distribuiti in 60 centimetri, sono privi di grasso e di spine.

Firirìn - Specie di pernice più piccola di volume e più tenera di carne. Flautero - Questo uccellino trova conferma nel suo nome: alle sue

dimensioni minime oppone vittorioso l'estrema e nostalgica dolcezza dei suoi canti.

Gamitana - Catturare questo pesce di 30 chili, lungo un metro e incredibilmente largo, è una festa per un intero paese. I mitayeros non permettono che si peschino due gamitana in uno stesso giorno, poiché il sapore di una sola basta a saziare le esigenze dei magri abitanti delle rive dei fiumi.

Garabato-kasha - Pianta rampicante dal gambo consistente e asciutto, interrotto, a tratti, da nodi ossidati sui quali spunta una spina a spirale. Gli usi del garabato-kasha sono tanti quanti sono i modi con cui i fattuchieri preparano la radice, impastano la corteccia o guidano la linfa, l'arrampicarsi contorto, la saggezza delle sue spine.

Haraweq - In quechua designa tanto il poeta come il musicista e il cantore. L'equivalente spagnolo potrebbe essere, con riserva, menestrello.

Harmina - Alcaloide che si estrae dall' ayawashka. Hiporùru - Chiamato anche para-para. Arbusto dalle foglie lucenti,

ostinate: se si accartocciano riprendono sempre la loro forma originale, come se fossero fatte di gomma. Macerate in acquavite producono un tonico la cui potenza, oltre ad eliminare le impurità del sangue e la debolezza di cuore, oltre a curare il diabete, possiede una virtù inestimabile: restituisce il vigore sessuale ai vecchi e agli impotenti.

Huacapù - Wakapù. Albero dal cuore durissimo, ostinato, diffi-cilissimo da segare. Usato nelle costruzioni di case o di grandi edifici, il legno di wakapù non ha nulla da invidiare al-l'acciaio. Non serve però né per riscaldare né per cucinare: il suo legno duro impedisce la fiamma e rende cattivo il cibo: anche le sue schegge, insensibili come stalattiti, si spengono senza ardere.

Huacapurana - Wakapuràna. Albero di legno fibroso, una volta secco, dimostra una perentoria vocazione di legna da ardere.

Huacra-pona - Wacrapona. Palma dal tronco panciuto, alterato, come se fosse pregno.

Huairanga -Wayranqa. Wayra in quechua: vento. Questa vespa non si posa mai sul suolo, vive sempre nell'aria. Il suo pungiglione emette un veleno che si spande immediatamente sotto la pelle. Il dolore che provoca, anche se effimero, è veramente inenarrabile e inoltre inganna: il dolore passa in fretta, è vero, ma solo per essere sostituito da febbri alte e continue e atroci nausee.

Hualo - Wàlo. Rospo dalla carne compiacente; emette grida spa-smodiche, impudiche e rauche. Di solito, pesa circa un chilo.

Huancahui - Wankàwi. Uccello rapace, grande e robusto, dal nome onomatopeico. Canta soltanto quando avverte l'approssimarsi dell'uomo, come se lo volesse annunziare, come se lo volesse denunziare, per avvisare tutti gli abitanti del bosco del grande pericolo.

Huangana - Wanqana. Una delle due famiglie di cinghiali che abitano la nostra selva. A differenza del pacifico e vegetariano sajino, maiale selvatico che a mala pena sopporta l'esistenza in coppia, la carnivora Huangana vive in branchi rumorosi, furiosi, tumultuosi, centinaia e centinaia di denti insaziabili che depredano i boschi.

Huapapa - Wapapa. Uccello carnivoro, palmipede, di colore scuro. Con i tre aculei, che spuntano sulle articolazioni delle sue ali, squarcia la corteccia di un albero nocivo chiamato Katàwa, intinge le sue piume in quella linfa, vola, cerca un'ansa del ruscello, si tuffa e si risciacqua con attenzione, spargendo il veleno nell'acqua e aspetta. Impassibile, appostata sulla riva, aspetta che i pesci avvelenati vengano a galla, allora li raccoglie a uno a uno e li divora senza fretta, un pezzo di questo, un pezzo di quello, continuando a ucciderne molti di più di quanti la sua gola ne possa contenere. E lo fa con lentezza, neutrale, rassegnata, come se compisse quella premeditata, inutile, sanguinosa cerimonia per obbligo, non per fame di vita ma per morte di sazietà. La wapapa, concentrata in questa operazione, indifferente a tutti e a tutto, sarebbe una preda più facile di un qualunque pesce defunto se così volesse un cacciatore altrettanto cieco come lei. La wapapa dà in questo modo la repellente impressione di un cadavere immeritata-mente resuscitato, sonnambulo, ridotto a compiere i dettami di una perversione senza memoria.

Huicungu - Wikunqu. Palma protetta da spine colossali, fortissime e nere. Queste fanno sì che i frutti del wikunqu siano pregiati, più che per la loro delicatezza, per la difficoltà a raccoglierli.

Huito - Wito. Frutto medicinale ricco di iodio e saccarina, miracoloso per qualunque malattia delle vie respiratorie. Dal

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wito ancora acerbo, conosciuto con il nome di jagua, si estrae una tintura scura, indelebile, che le donne usano per la pulizia del viso e gli uomini contro le punture degli insetti. Hungurahui - Ungurawi. Palma che dà frutti gialli, pastosi, piena di fastidiosissimi semetti neri. Dal frutto di questa palma, chiamato anche esso hunguràhui, si ricava un olio prezioso: usato come unguento per massaggiare le teste calve fa ricrescere i capelli.

Icarado - Qualsiasi essere o oggetto a cui lo stregone abbia concesso proprietà magnetiche e protezione, o abbia attribuito poteri particolari ricorrendo a digiuni, scongiuri e canzoni magiche chiamate icaros o anche bubinzanas.

Icaro - Canzone magica. Vedi: Bubinzana. Inkarri - Essere mitologico. Fu catturato dai suoi nemici con l'astuzia e

squartato nella Plaza de Armas di Cusco. I suoi resti furono sepolti in luoghi diversi per impedirne il ricongiun: gimento e l'inevitabile resurrezione. I quechua di oggi sostengono che il cadavere disperso di Inkarrì avanza inesorabilmente sotto terra verso il Cusco, dove fu sepolta la sua testa, e che un giorno le divine spoglie si riuniranno ad essa, e allora Inkarrì risorgerà intatto e "gli indios del Regno del Perù", sotto la sua guida, si ribelleranno di nuovo, scacceranno gli invasori e recupereranno la libertà e i territori del loro perduto impero.

Isango - Animale microscopico, vive nei luoghi erbosi, si infila sotto la pelle umana, e vi si annida procurando un bruciore insopportabile. Gli indigeni lo combattono con impiastri di vari vegetali, gli altri aspettano che trascorra l'inesauribile estate: il freddo è il nemico naturale dell'isango.

Ishinshimi - Formica imponente. Fa il nido in cima agli alberi e ai grandi arbusti. La sua morsicatura non gonfia né intossica, ma gli uomini la sfuggono, non perché spaventati dalla sua predilezione a mordere gli esseri umani nei genitali, quanto dal fetore con cui impregna tutto ciò che tocca.

Isula - Formica dal veleno letale. Può misurare anche cinque centimetri. Oltre a ferire con potenti tenaglie, il suo pungiglione posteriore inocula una sostanza tossica che procura febbri e dolori che durano diversi giorni. Quattro isulas sono sufficienti per uccidere un uomo.

Itahùba - Albero dal legno sottile e compatto. Itininga - Palma dal tronco sottile, non molto alta, dall'aspetto fragile.

Con lo stesso nome si designa anche una liana sfilacciata e malaticcia, di cui si ignora la funzione e l'utilità, forse

perché itininga ha un legame con la voce quechua Tilingo che rimanda a ciò che è squallido, inutile, malaticcio. Ivenki - Nome ashaninka di un'erba ricca di indiscutibili proprietà magico - curative. Gli indigeni di altri paesi la chiamano piri-piri.

Jagua - Frutto dell'albero chiamato Huito. Ha due nomi diversi e due diversi usi, a seconda dell'età: jagua, quando è ancora acerbo e la sua polpa produce un liquido nero, amaro e indelebile; huito, come l'albero che lo produce, quando è ormai maturo e viene considerato adatto per essere mangiato oppure per essere usato, dai soli fattucchieri, come medicinale.

Jergón - Serpe notoriamente velenosa e feroce. Jìbaro - Abitante della regione dallo stesso nome. I guerrieri jìbaro

tagliano e riducono le teste dei nemici, quelli più abili e coraggiosi, sconfitti in combattimenti leali, regolarmente annunciati, che si svolgono corpo a corpo e con armi pari. Non tutti ritornano in paese con il sanguinante trofeo tra le mani. Coloro che ritornano con il trofeo sono subito convocati dallo stregone, che gli insegna ad appropriarsi dell'anima e delle virtù dei decapitati con un rito che si conclude con la riduzione delle teste avversarie alle dimensioni di una mano chiusa. Ogni privilegiato taglia allora lo scalpo della sua preda e lo aggiunge agli altri che porta con vanto legati alla vita. Per essere rimasti fedeli a questo rituale dei loro antenati, i jìbaro si sono conquistati una ingiusta fama: i nostri civilizzati li temono senza motivo (non si conosce nessun bianco la cui testa abbia meritato, in qualche momento, l'attenzione di un jìbaro) e li hanno soprannominati, irresponsabilmente, "Cacciatori di Teste".

Kaapa - Ogni capo ashaninka, e cioè ogni padre di famiglia, costruisce due case: prima, la kaapa per gli ospiti, poi, il tantóotzi per i figli e le mogli.

Kamalonga - Arbusto indispensabile in alcune pozioni in cui l'in-grediente primario è l'ayawaskha. Gli stregoni attribuiscono alle foglie di kamalonga e, anche se in misura minore, alle sue radici, qualità di predizione paragonabili a quelle della coca.

Karawiro - Carahuiro. Tintura formata con estratti di diverse radici e semi. Molti indigeni la usano per tingersi le braccia, il petto e le guance. Gli tzipìbo, inoltre, la usano per disegnare e/o tingere le loro vesti.

Katàwa - v. Catahua.

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Katziboréri - Generico di stregone, vegetariano, mago, fattucchiere, guaritore, ecc. Il termine di katziboréri comprende quello più preciso di shirimpiàre. Semplificando, katziboréri alluderebbe al medico generico e shirimpiàre allo specialista nel "fumare il tabacco", allo "stregone fumatore" che conosce gli enigmi del fumo e sa diri gerii contro malattie e mali specifici.

Killa - Luna. Madre Luna. La sua condizione di sposa del Dio Sole ha fatto sì che gli inka la riverissero quasi fosse una loro divinità.

Killka - Segno intagliato sulla pietra. Probabile scrittura geroglifica che gli inka hanno inciso sulle rocce dei loro tempi o su quelle ad essi vicine. Le killka sono ancora prive di significato per i solerti occidentali.

Kocha - v. Cocha. Kosho - Recipiente dalla forma di una piccola piroga che si ricava

scavando il tronco di un albero. Nel kosho gli ashaninka lasciano fermentare la chicha di mandioca chiamata masato.

Koto-machàcuy - v. Cotomachàcuy.

Locrero - Uccello di media grandezza, dalle piume azzurrognole, più nere che azzurre, come il colore del mare di notte, un azzurro cupo.

Lupuna - Non esiste in tutta l'Amazzonia un albero altrettanto alto. Per sostenere tanta immensità la lupuna piega la base del suo tronco in una serie di ali gigantesche. Ne esistono di due tipi, una di un colore bianco pallido, l'altra di un rosso timido, che pur essendo guidate da due madri diverse, possedute da anime opposte, si possono confondere sia per la forma che per l'altezza. Dice Ino Moxo: "La madre della lupuna bianca è un uomo buono che, se Io si sa invocare, risponde sempre con dolcezza, con insegnamenti che aiutano a guarire. La madre della lupuna rossa è invece un uomo molto pericoloso, se ti afferra nella sua zona ti gonfia il ventre e tu muori con gli intestini fatti a pezzi".

Machàcuy - Dal quechua mach'aqway: serpente, ofidio in generale. Machiguenga - Abitante di quella zona della selva che ha lo stesso

nome. Machimango - Albero molto alto e solido, riconoscibile sia per la

sua maestosità che per il profumo intenso, eccessivo, dei suoi rami quando fioriscono.

Maestro - Grande Stregone o Mago Supremo al quale, sia per i suoi poteri che per l'efficacia dimostrata della sua sapienza.

o per motivi che qui sono misteriosi, gli è riconosciuto il pri-vilegio di trasmettere nei discepoli le intuizioni e conoscenze che gli furono concesse in uso e in custodia.

Majaz - Roditore semianfibio, enorme, dal pelame scuro chiazzato di bianco. I fortunati cacciatori che hanno assaggiato la carne di majaz non hanno dubbi nell' affermare che è una carne squisita, persino più buona di quella umana.

Makàna - Pesce fluviale ricoperto di grosse squame ossidate, al-lungato e solido come spada antica. I guerrieri inka chiamavano makàna una delle loro armi preferite, la porrà, bastone contundente sulla cui punta conficcavano una pesante stella di pietra o di metallo. Oggi, nella Amazzonia, alcuni aborigeni chiamano makàna una specie di spada di legno durissimo. Non ha niente a che vedere con il significato dispregiativo e sciocco che a questa parola si attribuisce in alcuni paesi dell'America Latina.

Makisapa - Enorme scimmia nera dalle estremità sproporzionate, ognuna di quattro dita. Con la sua coda infinita e pelosa il makisapa si arrampica agile sugli alberi più alti. Maki, in quechua, significa mano, sapa significa immenso, grande, spro-porzionato.

Maligno - Spirito del Male. La peggiore e la più temuta anima del male. Né diavolo né demonio, ma Il Diavolo, Il Demonio.

Mamàntziki - Sposa di Pachakamàite, il Padre-Dio degli ashaninka, Figlio del Sole, artefice e guida di ciò che esiste e di ciò che non esiste.

Manakaràcuy*- Gallinaceo piccolo e feroce, generalmente nero. Al suo minuscolo aspetto il manakaràcuy contrappone una irascibilità senza limiti, un'impietosa, incontrollata e permanente disposizione combattiva sulla quale base la sua fama di invincibile.

Manitóa - Pesce che misura un metro e pesa venti chili. Si mi-metizza e si sposta da un punto all'altro con una velocità vertiginosa. Denunziato anche nelle acque più torbide dalla sua bocca smisurata, luccicante, color arancione, è spesso vittima degli ami che non gli danno tregua. Non certo per la sua carne perché, pur se priva di spine e di squame, è ben lontana dall'essere appetitosa.

Manguaré - Strumento a percussione fatto con un tronco secco e vuoto. Gli indigeni gli danno vita e suono colpendo la corteccia con un bastone avvolto con stracci imbevuti di pece. Il manguaré è suonato in modi diversi, secondo codici ritmici di cui sono unici depositari lo stregone capo e i suoi adepti. In genere si suona per inviare messaggi e annunciare pericoli, alcune volte per convocare alla guerra, altre per in-

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vocare le divinità o le Grandi Anime, oppure per scuotere gli spiriti degli antenati che stanno per addormentarsi, per cedere, per privarci della loro protezione, altre ancora, e questi sono i casi più frequenti, per invitare a giochi e feste. Si sa che la luna, molto tempo fa, era un pezzo di lupuna bianca, un tronco vuoto, di cenere. Pachakamàite non le aveva ancora insegnato a illuminare. Gli ashaninka dicono che Narowé, il primo uomo, indignato perché il kotomachàcuy gli aveva rubato la donna, lanciò una freccia contro il cielo che trapassò la luna. E la luna girò su se stessa, cadde risuonando, si fermò ai piedi di Narowé. Proprio in quel momento esplodeva un lampo: Narowé lo afferrò. E con quel lampo in mano colpì ripetutamente la luna. E il tronco della luna, manguaré!, risuonò. Manguaré, manguaré! risuonò lontano, nei luoghi più sperduti, quel pezzo di luna bianca, il primo manguaré che si udisse sulla terra.

Manshako - Manshàku. Airone grande come un uomo grande. Indossa piume larghe, terse, di un grigio argentato.

Mantablanca - Questo insetto, piccolo come l'impronta di un qualsiasi altro insetto, si nutre di sangue, più specificatamente di sangue umano e in particolare di quello che scorre sotto i capelli. Se a tale inconsueta passione alimentare aggiungiamo il minuscolo, invisibile, volume del suo corpo, che non ha eguali, riconfermeremo senza esitazione la ma-teblanca nella categoria di tormento impossibile.

Mantona - Serpe decorativa. I suoi dieci metri impauriscono solo chi non la conosce, infatti non aggredisce mai l'uomo né è provvista di veleno alcuno.

Maparàte - Pesce di fiume. Non ha spine, non ha squame, non pesa neanche un chilo e non misura più di un metro, non ha una carne particolarmente buona né particolarmente cattiva, non ha nessuna qualità né importanza. In realtà non dovrebbe neanche comparire su questo glossario.

Marakàna - Pappagallo di corporatura media, dalle piume di un verde azzurro, niente altro.

Mariquina - Anitra selvatica, innocua, non molto grande. Piume rosso-nere ricoprono la sua carne insipida ma tenera.

Mariquita - Fiore multicolore, avvolto da profumi pungenti e dolci. Dischiude la corolla soltanto quando è sicuro di non essere visto, nelle notti più scure.

Masato - Bibita alcolica fatta con la mandioca, tubero grande e tubolare, scuro di corteccia, bianco di polpa, molto apprezzato. Le indigene sfilacciano la mandioca con i denti, la masticano e la sputano in un recipiente di legno che chiamano kosho. Questa acquavite di mandioca, fermentata dalla saliva

e dal tempo, è senz' altro l'alcolico preferito dagli aborigeni. Alcuni vi aggiungono polvere di ossa degli antenati.

Mashko - Abitante della zona amazzonica che porta lo stesso nome. Mitayero - Cacciatore e/o pescatore. Mitayo - Prodotto della caccia o della pesca. Mokambo - Makambo. Albero dalle foglie larghe e dai frutti ovali e

grandi come una testa d'uomo. Frutto dello stesso albero: l'interno è pieno di semi che messi sul fuoco, abbrustoliti senza nessun condimento, diventano profumati e gustosi.

Montete - Uccello corridore dal nome onomatopeico. Canta senza muovere il becco, dall'interno, forse canta solo per sé, il suo petto si gonfia di musica rauca, più che canti emette vibrazioni, risonanze che vincono il corpo e attraversano le piume e riescono a diffondersi ovunque nell'aria, tanto da poter essere sentito anche a grandi distanze. Il montete, chiamato in altre zone trompetero, sia che il suo manto sia di piume nere che marroni, ha sempre in mezzo alla fronte una riposante macchia gialla. Le sue lunghe, solide zampe, chiazzate di verdi repentini, come il becco, impongono a questo uccello l'aspetto di un airone di media grandezza. Una volta, in prossimità del fiume Utuquinia, rubai due uova di montete e li nascosi nel nido di una gallina distratta. E così, ben presto, potei constatare che il miglior amico dell'uomo è il trompetero e non il cane. I due rapiti vigilavano la casa notte e giorno, badavano ai bambini e giocavano con loro, fungevano da sentinella nei cortili, con la stessa premura ci prevenivano da qualsiasi pericolo: volpi, tigri, temporali; capivano tutto ed agivano con una intelligenza e una abilità sorprendenti. Solo su una cosa non vollero sentir ragione: accecati da un amore smisurato per i pulcini, se ne impossessavano con una gelosia settaria che li spingeva a colpire impietosi quelle madri che osavano avvicinarglisi. I nostri uccelli, mal assimilando i destini e le sentenze degli uomini, ne furono contagiati: i rapiti del passato divennero i rapitori del presente. Nati sotto le ali di un'altra specie animale, i trompeteros si convinsero di essere delle galline. Questa classica e irrevocabile confusione di identità, li perseguitò fino alla vecchiaia. "E questo, che non è niente, è tutto", dice Ino Moxo. Così i trompeteros, per niente, recuperarono tutto. Recuperarono le loro persone soltanto per accomiatarsi da esse. Recuperarono la voce per tacere per sempre. Presentendo di essere ormai prossimi a ciò che li allontanava dalla vita, e dal momento che non avevano potuto vivere come avrebbero dovuto, decisero di morire come dovevano: costringendo i figli adottati con la forza a ri-

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monete orfani, se ne andarono ansimando, di notte, ma ben presto si dovettero fermare. Si accorsero, per la prima volta, che avevano sempre vissuto all'interno di un recinto. E per la prima, unica, ultima volta, si misero a volare: si addentrarono luccicanti nel bosco, cantando con il becco chiuso in modo misterioso. Ne sono sicuro. Perché nel sonno udii, in lontananza, proveniente dalla profondità della selva, o forse da più lontano ancora, un canto soffocato che risuonava nell'aria, rifletteva altri canti nella mia anima e si cancellava. E questo è successo ieri sera. E oggi il mondo è spuntato deserto.

Motelo - Tartaruga di terra che i mitayeros suddividono in due categorie. Il matelo comune non supera mai gli ottanta centimetri ed è il più ricercato: la sua carne è più o meno tenera e cambia di sapore a seconda della parte del corpo in cui si trova. L'altro matelo, soprannominato Gigante, è alto un metro e largo due: l'irriducibile durezza della sua carne fa si che sia disprezzato anche dagli affamati.

Muwena - Muena. Mohena. Albero dal legno particolarmente duro. Muyuna - Vortice. Corrente impetuosa circolare che si forma so-

prattutto nelle anse dei fiumi.

Naka-Naka - Rettile sottile, nero, mortifero, piccolo. Vive nei fiumi bucolici, negli insospettabili ruscelli.

Nejilla - Specie di palma decaduta, schiacciata, spinosa, dai frutti agrodolci. Cresce soltanto sulle terre pianeggianti, inermi, esposte ai capricci delle piogge più impercettibili. Sempre sul bordo di fiumi o lagune, la nejilla, povero albero schiacciato dal cielo, crede di crescere a fior d'acqua. Ma le acque che si abbassano la allontanano dal sogno e il sogno dalla realtà: la nejilla distesa è il riflesso di qualcosa che la nejilla ormai non è più.

Ojé - Albero gigantesco, abbonda nelle zone pianeggianti. Il latte della sua linfa, efficace come tonico e ricostituente, debella le parassitosi più ostinate.

Oni Xuma - In lingua yora (o amawaka) indica l'ayawaskha. Otorongo - Dal quechua uturunqu: puma, tigre, pantera, giaguaro. In

genere la pelle di questo felino tende al giallo-verde chiazzato di grigio. Più intenso è il suo colore nero, più rispetto infonde: solo alcuni esseri umani lo eguagliano in ferocia. Questo animale, pertanto, è l'unico a vivere e morire in solitudine.

Pachakamàite - Il Padre-Dio, il Pawa del popolo ashaninka. Figlio del Sole più alto, il sole di mezzogiorno. Sposo di Mamàntziki. Creatore e guida di tutto ciò che passa e che rimane sulla superficie terrestre.

Paiche - Pesce mammifero. Il suo corpo nero, tubolare, imponente, supera i tre metri di lunghezza e pesa circa duecento chili. Le sue labbra sono fatte di osso. La sua lingua, anch'essa ossea, lunga trenta centimetri e seghettata, viene usata in genere come una raspa per pulire oggetti di legno. Il paiche, dalla carne simile a quella del merluzzo ma molto più buona e ricca di proteine, è il pesce più apprezzato dei fiumi amazzonici.

Palometa - Pesce dalle squame argentate e piccole e dalla carne incomparabile. Per questo e per la sua forma, rotonda, schiacciata e bianchissima, la palometa, che sfortunatamente pesa soltanto un chilo, risale, probabilmente, a una antica specie di sogliole di fiume. Tale termine è usato anche per designare l'organo genitale femminile.

Palosangre - Albero dal legno impenetrabile e rosso. Pamacari - Tetto ricurvo, piccolo, come la metà superiore di un tunnel

costruito con foglie di palma intrecciate in modo tale da raggiungere la solidità di una corazza, collocato sul ponte delle imbarcazioni protegge i viaggiatori dalle furie del sole e delle piogge e da altri agguati. Saggio è il pamacari: ricopre soltanto le case provvisorie.

Panguana - Per la bontà della carne, la qualità del canto e l'astuzia per non farsi catturare, la panguana supera tutte le altre pernici della selva sudamericana.

Papàsi - Coleottero. Nasce dai resti mortali di un verme commestibile chiamato suri. Il suri, a sua volta, nasce dalle uova che il papàsi deposita sulla corteccia dell'aguaje.

Para-para - v. Hiporùru. Parinàri - Albero frondoso. I suoi frutti allungati e rossi, più dolci che

piccanti, sono conosciuti come supai-oqote, in quechua: culo-del-diavolo.

Pashako - Albero abbastanza alto, abbastanza grosso, abbastanza inutile. La sua cima di foglie rade non fa ombra. Il suo legno fragile e umido non serve neanche come legna da ardere. Il pashako si salva, a malapena, per la corteccia, da essa si spreme un succo che serve per conciare il cuoio.

Paté - Mate. Recipiente fabbricato con il frutto di una pianta chiamata indistintamente tutùmo, zucca, o wingu.

Paujil - Tacchino selvatico dalle piume scure che contrastano con il rosso fuoco del becco.

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Pàwkar - Pàucar. Uccello dalle piume vistose, nere e gialle. Il pàwkar imita alla perfezione i canti e i fischi di tutti gli uccelli della selva.

Peje-torre - Pesce dalla pelle gialla picchiettata di nero. Quando si riempie d'aria galleggia come una boa sulla superficie dei grandi fiumi. Il corpo di chi mangia il peje-torre si ricopre immediatamente di ostinate macchie scure. Gli uccelli che mangiano il peje-torre si riconoscono perché le loro piume perdono irrimediabilmente il colore.

Piri-piri - Erba tubolare e allungata, cresce ai bordi dei pantani e dei laghi. Gli usi del piri-piri nelle arti magiche sono infiniti. Gli ashaninka lo chiamano ivànki, l'erba magica per eccellenza, e lo classificano tra i pochi vegetali che non hanno bisogno di essere combinati con altri, né essere magnetizzati o cargados per ottenere la loro efficacia. In realtà piri-piri è il nome generico di una vastissima famiglia di tuberi diversi tra di loro: l'uso che ne fanno i fattucchieri dipende dalla loro forma. Il piri-piri che ha la forma di un pene è usato contro la sterilità o l'impotenza. Anche se i contorni di ogni tubero dipendono più dallo sguardo dello stregone che dal tubero stesso.

Piro - Appartenente alla comunità dallo stesso nome. Fedele alleato dei caucheros contro i suoi fratelli di altre regioni amazzoniche. Per questo gli abitanti della selva chiamano, ancora oggi, il codardo, il traditore, l'omosessuale, con il nome di piro.

Pisonay - Albero dal tronco smisurato. Le fronde della sua chioma gigantesca, all'epoca della fioritura, esplodono in piccolissimi fiori rossi. Soltanto le valli andine sono allietate dalla sua presenza; nell'Amazzonia, infatti, o ai margini della selva, cresce molto raramente.

Piurì - Gallinaceo grande come un tacchino. A parte il candore del petto e il rosso del becco, tutto il resto del corpo è nero, persino l'aureola di piccole piume luccicanti che si increspa sulla fronte. Il piurì è l'uccello più pregiato della selva: la sua carne deliziosa e succosa è, come il suo orgoglio, la sua tragedia.

Pona - Palma nera e dura. Da sempre la pona, e giustamente, viene usata per pavimentare le case costruite su terreni pantanosi, tanto che "emponar" una cosa significa di fatto pavimentarla.

Pucaquiro - Pukakiru. In quechua: dente rosso. Albero dal cuore rossastro e inflessibile. Formica enorme e temuta: le sue rosse e potenti mandibole sono più dolorose che velenose.

Pukuna - Pucuna. Cerbottana. Punguyo - Punquyo. Albero di medie proporzioni, frondoso. Cresce

isolato, solo, al centro di uno spazio senza vita. È impossibile sopravvivere sotto la sua ombra: le sue foglie fitte espellono un veleno letale.

Pusanga - (Stregoneria), Pozione o amuleto che è stato cargado per assoggettare e attrarre sessualmente.

Q'engo - Zigzag. Labirinto. Si designa con questo nome il Tempio del Dio-Puma, roccia sulle montagne che circondano la città di Cusco, perché in cima a questa montagna rocciosa gli inka avevano scavato un canale stretto e tortuoso. In cerimonie ormai perdute, versando in esso acquavite di granoturco e, a volte, sangue di vigogna, i nostri antenati riuscivano a predire il futuro.

Q'ero - Vaso cerimoniale, intagliato su un legno in genere scuro. Comunità contadina del Cusco che vive nella parte più alta della città di Pawkartampu, in mezzo alla selva che circonda quelle zone montuose. Gli appartenenti a questa comunità hanno rifiutato ogni "apporto della civiltà" imposta dai conquistatori spagnoli. Protetti dalle frontiere delle loro abitudini e dei loro territori, i Q'ero vestono ancora oggi come gli inka, parlano come gli inka e vivono come gli inka. L'era dei viracocha non è mai penetrata nei loro territori. Più di quattrocento anni sono stati sconfitti dalla tenacia che ancora oggi li contraddistingue.

Qespichiway - Qespi, in quechua significa cristallo, trasparente, puro e pertanto libero. Chiway è l'unione di due uccelli che si accoppiano solo per procreare. Qespichiway;, pronunciato in tono invocativo, di richiesta, significherebbe "testualmente": Uniscimi con il cristallo cosi come gli uccelli che vogliono procreare. Oppure: Unisciti a me, sposiamoci con il cristallo, sposiamoci con ciò che è puro, facciamo figli trasparenti, liberi. Il poeta di Cusco, Angel Avendano, per il quale il quechua si esprime più con paesaggi che con concetti — come del resto afferma anche José Maria Arguedas — non sbaglia né esagera quando traduce (o riduce) Qespichiway con Liberami!

Quichagarza - Kicha: escremento molle, diarrea. La kichagarza è una garza slanciata, piccola e grigia che deve il suo nome alla frequenza e mollezza delle sue feci.

Qillu-avispa - Vespa gialla. Quinilla - Sotto l'aspetto di albero indeciso, incerto nella larghezza e

nell'altezza, la modesta quinilla nasconde, oltre alla

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solidità del legno e alla dolcezza dei frutti, un potere curativo che viene usato per diversi tipi di malattie e di cui sono ricchi i petali, le foglie, la radice, la corteccia e la linfa. Eppure il comune mortale tema la quinilla. Soltanto i grandi stregoni, la gente autorizzata, non hanno paura ad usarla: l'anima, la madre, che guida la vita di questa pianta è una giovane donna dai lunghi capelli che canta tra le pietre delle cascate, il suo canto è benefico, le sue labbra mortali. I nativi affermano che la quinilla "è un vegetale che va ascoltato e non toccato".

Qoylluriti - Qoyllur: stella. Riti: neve. Nome quechua di una montagna ammantata da ghiacci eterni.

Raymiyàwar - Raymi: festa, celebrazione. Yàwar: sangue. Festa di Sangue.

Renaco - Albero smisurato i cui rami si riproducono attoreigliandosi all'infinito. In continua crescita, si estende sulla superficie della terra raggiungendo le dimensioni di un grande bosco. Si sa che la linfa del renaco è uno dei coagulanti più potenti.

Renaquilla - Pianta parassita, di dimensioni ridotte, l'intrico dei suoi rami lo fa somigliare al renaco più insidioso: con i suoi rami infatti, la renaquilla si avvinghia all'albero che la sostiene e poi lo strangola.

Ronsoco - Il roditore più grande che esista sulla terra: cento-venti centimetri di diametro e più di cento chili di peso. Un crine scuro e spesso ricopre il suo corpo. I cacciatori riescono a cacciarlo solo sulla terra. Le membrane che si allargano tra le sua dita fanno si che questo animale, se riesce a rifugiarsi nell'acqua, sia veramente irraggiungibile.

Runasimi - Simi: lingua. Runa: uomo. La Lingua dell'Uomo. Gli inka chiamavano runasini la lingua che i conquistatori spagnoli, non sappiamo ancora perché, chiamavano quechua.

Sachavaca - Vacca selvatica. Tapiro. Daino. Ruminante molto robusto ed estremamente timido, assolutamente inoffensivo.

Sachamàma - Specie di boa. Anaconda gigantesca che qualcuno confonde, non si sa perché, con la yakumama. In comune hanno la forza e la lunghezza, sono grosse come un albero grosso. Ma la yakumama vive solo nell'acqua mentre la sachamàma vive soltanto sulla terra. Quest'ultima, inoltre, ai lati della testa possiede due sporgenze come se fossero delle orecchie.

Sajino - Cinghiale dalle setole bianche intorno al collo e grigie nel resto del corpo. Questo maiale selvatico, a differenza dell' huangana, il suo parente più vicino, non si muove in gruppo ma in coppia, scappa invece di attaccare ed è irrimediabilmente pauroso e vegetariano.

Saltón - Pesce gigantesca priva di squame, denti e spine. Nonostante i due metri che ospitano i suoi cento chili, il saltón fuoriesce dall'acqua spiccando salti di cinque metri, come se volasse.

Sapote - Albero altissimo. Frutto dello stesso albero: la sua polpa tenera e dolce biancheggia inaspettatamente in un involucro rugoso dal colore verde-ombra.

Saqsawma - Testa Grigia. Testa venata, di pietra. Nome della fortezza di Cusco, che i conquistatori spagnoli chiamavano erroneamente Sacsayhuaman (usato correttamente, e cioè Saqsaywaman, il termine vuol dire: Testa di Falco). Cusco, allora, era sacra non solo perché capitale degli Inka, dei Figli del Dio Padre Sole, ma perché aveva la stessa forma di un puma, un otorongo, una delle divinità dell'Impero Inka. Cusco era Qosqo, Ombelico del Mondo, e allo stesso tempo era Dio-Puma, Dio-Uturunqu, Otorongo-di-Pietra. Il cuore della Città Sacra era il Wakaypata, l'attuale Plaza de Armas, e la strada Pumakurku (colonna-vertebrale-del-puma) portava, e porta, alla Fortezza di Saqsawma, Testa Grigia, Testa Venata della Città-Dio-Puma. E la coda di quella tigre di pietra divina era fatta d'acqua, la coda del puma era di schiuma: il fiume Watanay.

Shànsho - Gallinaceo piccolo dal nome onomatopeico. E tanto rozzo nel canto quanto raffinato nella carne.

Shapàja - Palma smisurata sia in larghezza che in altezza, nelle foglie e nei rami. Produce in quantità copiosa e disordinata delle mandorle apprezzabili non tanto per la polpa poco gustosa e scarsa di proteine, quanto per l'olio dal quale si ricava un potente combustibile molto infiammabile. La shapàja serve a ricoprire, meglio di qualsiasi altra pianta, i tetti delle case. Le sue larghe foglie, intrecciate con fibre fitte e resistenti, sono invulnerabili ai raggi insistenti del sole e alle insidie dei temporali.

Shapra - Nativo del territorio dallo stesso nome. Una diffusa calunnia occidentale afferma che gli shapra sono più che poligami, che le loro donne appartengono indistintamente a tutti i maschi della comunità.

Shapshico - Diavolo. Spirito. Apparizione. Demonio. Shebón - Palma molto alta. I suoi frutti dalla polpa gustosa e dalla buccia spessa piegano gli enormi ma fragili rami. Forse

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per questo le foglie dello shebón si usano per costruire i pamacari, per ricoprire le imbarcazioni e non le case.

Shibé - Bevanda preparata con farina di mandioca sciolta in acqua non sempre zuccherata.

Shirimpiàre - v. Shirikaipi. Shiringa - Caucciù. Balata. Shirikaipi - Sigaretta preparata con foglie intere o sfilacciate di tabacco

silvestre. Così come i fattucchieri "generici" dell'Amazzonia sono denominati katziboréri, gli "specialisti" nel fumo dello shirikaipi, quelli che invocano il tabacco fumato per i loro riti, sono conosciuti come shirimpiàre.

Shiripira - Apparentemente facile da catturare per il suo peso e le sue dimensioni (due chili che non superano i sessanta centimetri), questo abitante dei grandi fiumi, sebbene aggiunga alle sue carni piacevoli una totale assenza di squame e di spine, ha sul dorso tre creste d'osso, aguzzi sproni che scoraggiano i pescatori più abili e più ostinati.

Shirùi - Protetto da una specie di corazza rugosa e durissima, questo pesce vive solo nei laghi e nei pantani. Tre volte più piccolo della shiripira, viene confuso con questo pesce per il colore giallo della carne.

Shùyu - Shuyo. Famoso per la voracità, i suoi denti affilati e la sua corazza di squame, questo pesce preferisce vivere in fondo ai laghi isolati e ai pantani circondati da boschi ostili, è capace di strisciare sulla terra per vari giorni come un serpente lasciando dietro di sé una scia di muco giallo e molle.

Songàrinchi - Flauto di legno nero, lunghissimo, emette suoni dissonanti e assordanti da cui i guerrieri amawaka traggono coraggio nelle guerre e allegria nelle feste.

Supay-oqote - Culo-del-Diavolo. Frutto allungato e rosso, offerto, tra foglie scure e ampie, dai rami di un albero chiamato parinàri.

Suri - Verme commestibile che nasce e trae alimento dal cuore di diverse palme. In realtà il suri nasce dalle uova che un coleottero, il papàsi, deposita nella corteccia delle palme, preferibilmente dell'aguaje. E quando il suri muore, dai suoi resti nasce il papàsi. Nasce il papàsi dai resti del suri e depota le uova dalle quali il suri nasce...

Tabaquerìllo - Picchio molto piccolo, riconoscibile per le piume biondo cenere o color tabacco caldo. Tagua - Frutto prelibato di

una pianta chiamata yarina. La sua polpa biancastra, lucida, remota, gli ha conquistato il nome di avorio vegetale.

Tampu Mach'ay - Tempio dell'Acqua situato nei dintorni della città di Cusco, oltre la fortezza di Saqsawma e di Q'enqo, il Tempio del Dio-Puma. I conquistatori virakocha battezzarono Tampu Mach'ay con il nome di "I Bagni della Principessa". E peggio fecero a Lima con la Waka Qollana, Waka: Luogo Sacro, Qollana: principale, che ancora oggi è conosciuta come la "Huaca Juliana".

Tangarana - Formica rossa, grande, spietata, velenosissima. Vive dentro un albero biancastro e rugoso che ha lo stesso nome. I cerberi delle prigioni della selva la utilizzano come strumento di tortura. Nel carcere di El Sepa, sulle rive dell'Urubamba, i reclusi conoscono la tangarana come "Albero dei supplizi". Molti rei, quasi sempre politici, sanno che la morte è preferibile alla tangarana. I carnefici spogliano il recluso, lo cospargono di miele, lo legano ad un albero e colpiscono il tronco con un bastone: migliaia di mandibole voraci e rosse spuntano tra le fenditure della corteccia, invadono il corpo della vittima e ne soffocano le urla spaventose. Subito dopo la vittima viene slegata e liberata dalla voracità delle formiche. I carcerieri sanno bene che è allora che comincia la vera tortura: un'infinità di piaghe purulente e nere che tormenteranno per mesi il condannato.

Tantóotzi - Una delle due case edificate dagli ashaninka. Nel tantóotzi vive il capo con le sue donne e i suoi figli. L'altra casa, la kaaza, viene costruita per prima ed è destinata esclusivamente agli ospiti.

Taperibà - Prugna gigantesca dalla polpa agrodolce e dal cuore spinoso, da molti considerato il frutto più saporito sulla terra.

Taràwi - Tarahui. Nonostante il suo becco curvo, color oro spento, e le sue piume nere dietro le quali nasconde una carne fresca come frutta, questo gallinaceo si nutre esclusivamente di lumache.

Taricaya - Tartaruga veloce, allungata, di media grandezza. Le sue uova e la sua carne sono commestibili.

Tatatà - Uccello rapace, di media grandezza. Durante il giorno apre il becco e le ali solo per mangiare. Al tramonto, anche se non sempre, canta: ta-ta-taoooo! ta-ta-taoooo! Per questo i nativi che non ricordano più il suo nome vero e originario lo chiamano col verso del suo canto.

Tibe - Trampoliere bianco. Miniatura di airone o se si preferisce di gabbiano di fiume.

Tiriri - Nome generico di sette varietà di un pesce piccolo, grasso, coperto da un guscio grigiastro. Vive in pantani e lagune.

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Tiwacuru - Uccellino canoro dal nome onomatopeico e dalle piume chiare sul petto, scure nel resto del corpo. Il suo becco riunisce tutte le sfumature del rosso. D'estate sceglie per nido le fronde delle wimbra; e si nutre, in qualunque stagione, di ogni tipo di formica.

Tohé - Nome generico di diverse solanacee dalla linfa allucinogena e dai grandi fiori color avorio a forma di campana. La più diffusa è la Datura Speciosa, detta anche Tohé Mullaca. Le altre sono state designate, a capriccio, Solanum Bicolor, Cornutia Odorata e/o Datura Insignis. Gli stregoni amazzonici aggiungono i poteri del tohé a bevande a base di succhi di ayawaskha.

Tokón - Grande scimmia, dalla coda robusta e pelosa che usa più delle estremità per difendersi e spostarsi, afferrandosi ai rami, come se volasse tra gli alberi.

Tortuga-kaspi - Albero-tartaruga, così chiamato per la sua cor-teccia grigia e rugosa.

Trompetero - v. Montete. Tùnchi - Uccellino canoro e notturno. Pochi lo hanno visto, molti lo

hanno ascoltato, tutti lo temono. Se un tùnchi fischia lo fa perché qualcuno è morto o morirà inevitabilmente entro la notte.

Tupaq Amaru - In quechua, in runasimi: Serpente-Dio-Risplendente. Nome di uno dei Re Inka. Un suo discendente, José Gabriel Condorcanqui, adottò il nome di Tupaq Amaru II e guidò, nel 1781, una delle più famose sollevazioni contro i conquistatori spagnoli. Soffocata la ribellione, Tupaq Amaru fu torturato e squartato a Wakaypata, attuale Plaza de Armas di Cusco. La sua testa fu sotterrata nelle vicinanze della Città Sacra e le sue membra furono sparse, di nascosto, sotto diverse terre, entro i confini dell'Antico Impero dei suoi avi.

Tuta-cuchillo - Coltello-della-notte. Scimmia notturna. Prima che si avvicini il pericolo, cioè l'uomo, spezza rami grossi e sottili e li getta dall'alto della oscurità.

Tzangapilla - Zangapilla. Arbusto che fiorisce una sola volta e produce un solo fiore. Fiore dell'arbusto dallo stesso nome: i suoi giganteschi petali arancioni, audaci di colore e di profumo, emanano un calore insopportabile al tatto. Il fiore di Tzangapilla può vivere diversi giorni reciso dal ramo: gene-ralmente al settimo i suoi petali perdono il colore e il profumo e cadono, all'improvviso, freddi, come piccoli animali morti.

Tziho - In ashaninka: uccello. Tzipìbo - Shipibo. Aborigeno della regione amazzonica dallo stesso

nome.

Ucuashéro - Piccolo uccello canoro, dal nome onomatopeico. Uchusanango - Sanango piccante. Bevanda blandamente alcolica che

gli stregoni preparano macerando, a seconda del caso, i vegetali più diversi. Può servire come tonico, come medicina, e come fattura.

Unchala - Uccello della grandezza di una grossa colomba. Il suo canto è armonioso e persistente e le sue piume sono di un rosso scuro.

Urkutùtu - Civetta. Uru - Uro. Appartenenti alla stirpe dallo stesso nome, oggi com-

pletamente estinta; un tempo abitavano l'altopiano del Lago Titikaka. Si dice che furono i fondatori della città di Cusco: che i primi Re Inka, Manko Kapaq e Mama Oqllo, appartenevano a questa stirpe.

Varayoq - Alcalde. Autorità principale delle comunità inka o Ayllu che abitano la Cordigliera delle Ande Peruviane.

Virote - Dardo avvelenato, piccolo, capace di abbandonare e di riprendere la sua condizione materiale per raggiungere qualunque distanza, qualunque tempo, qualunque muro, scudo, protezione, per conficcarsi in carni nemiche e colpire il bersaglio stabilito dallo stregone, che al virote ha dato una forma e a quella forma ha dato un'anima e a quella punta animata ha concesso un destino e una trascendenza.

Wirotear - Scagliare un virote. Fattura dagli effetti quasi sempre letali.

Wakamayu - Pappagallo. Wakapù - v. Huacapù. Wakapuràna - v. Huacapurana. Wàlo - v. Hualo. Wanakawre - Monte alle cui falde si estende la città di Cuzco. I fratelli

Manko Kapaq e Marna Oqllo, nati e cresciuti tra gli uru, obbedendo al Dio Sole uscirono dal lago Titikaka provvisti di una verga d'oro. Là dove la verga si fosse conficcata senza difficoltà avrebbero dovuto fondare una città, il Qosqo, destinata ad essere il cuore di un impero illimitato. Manko Kapaq e la sua sposa-sorella camminarono dall'altopiano fino alla cordigliera andina cercando invano il luogo indicato dal Sole. Ormai senza speranza, provarono a scagliare la verga sulla cima del monte Wanakawre: al primo tentativo la verga d'oro si conficcò nella terra e scomparve.

Wapapa - v. Huapapa.

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Zui-Zui - Piccolo uccello canoro, dal nome onomatopeico e dalle piume celesti.

Zùngaro - Nome utilizzato indistintamente per tutti i pesci di fiume, purché siano grandi e abbiano la testa della stessa misura del corpo e siano privi di squame e spine.

Zùri - v. Suri.

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Indice Wakaypata - Luogo-Dove-Si-Piange. Nome inka della Plaza de Armas di Cusco dove i conquistatori giustiziarono Tupaq Amaru.

Waqrapona - v. Huacrapona. Wayranga - v. Huairanga. Wikungu - v. Huicungu. Willaq Umu - Sommo sacerdote degli Inka. Massima autorità che

presiede le cerimonie più importanti. Wilkamayu - Fiume Sacro. Nome inka dell'Urubamba le cui acque,

unendosi con quelle del fiume Tambo, formano l' Ucayali. Questo e il Maranon danno origine al Rio delle Amazzoni, fiume-mare delle selve sudamericane.

Wimbra - Huimbra. Albero alto e sottile, dal tronco color smeraldo che si apre in una chioma non troppo grande, pedante, rumorosa. È facile trovare tra le alte fronde della Wimbra il nido di un uccello che fischia: l'inquieto tiwakuru.

Witote - Huitoto. Appartenente alla stirpe dallo stesso nome.

Pag. 7 Dedica

11 a mo' di prologo

19 I. Le visioni

71 //. Il viaggio

185 III. Ino Moxo

249 IV. Il risveglio

267 Glossario

Yaku-jergón - Serpente. Serpente-di-fiume. Yakumama - Serpente gigante che vive nei fiumi. Madre-Delle-

Acque. Yanaboa - Anaconda. Boa nero. Yarina - Palma dai frutti chiamati tagua o avorio vegetale. Le

sue larghe foglie servono in generale per ricoprire il tetto delle case nella selva. Yora - Appartenente al territorio

amazzonico dallo stesso nome. Gli occidentali chiamano gli yora amawaka, senza una ragione precisa. Yungurùru - Pernice gigante. Le sue uova celesti sono

identiche per grandezza e per sapore a quelle delle galline.