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LO ZEN E L’ARTE DI APRIRE UNA PORTA APERTA

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LO ZEN E L’ARTE DI APRIRE

UNA PORTA APERTA

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BRUNO BALLARDINI

LO ZEN E L’ARTE DI APRIRE

UNA PORTA APERTA

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da Mondadori Libri S.p.A.© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-566-6499-7

I Edizione settembre 2018

Anno 2018-2019-2020 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Pubblicato per

Le traduzioni dei brani dal Mumonkan della Parte Terza sono a cura dell’Autore.

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RIfLEssIONI PRE LImINARI 5

Riflessioni pre liminari

Un tempo avevamo riti che scandivano i momenti più im-portanti della nostra esistenza e ci consentivano di rina-scere in uno stadio evolutivo nuovo rispetto a quelli pre-cedenti, più consapevoli, più maturi, capaci di vedere il mondo con occhi nuovi. Erano i cosiddetti riti di passag-gio, che stabilivano ad esempio il passaggio dall’adole-scenza all’età giovanile o dalla gioventù all’età adulta, dalla maturità alla vecchiaia. Un patrimonio che ormai è andato perso, a parte alcuni modelli moderni già totalmente svalu-tati come il servizio militare (finché c’era l’obbligo della leva), il fidanzamento, lo scoutismo, i riti religiosi come quelli del battesimo e della cresima, o i riti esoterici delle varie sette di moda oggi. sopravvive ancora qualche trac-cia della loro funzione originale negli esami universitari e nella festa di laurea, nel test d’assunzione, nell’addio al ce-libato, nel matrimonio e nel funerale (ovviamente, per chi resta). ma l’umanità di oggi, persi quei riti, resta sospesa in un’eterna condizione infantile, non avendo più chiaro quando debba avvenire il passaggio nell’età adulta, e senza più una chiara consapevolezza dei ruoli che deve ricoprire nelle varie stagioni della vita, con l’assunzione di respon-sabilità che comporta.

I riti di passaggio erano incentrati prevalentemente sulla

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6 RIfLEssIONI PRE LImINARI

simbologia della soglia: una porta, un cancello o in gene-rale un confine, che doveva essere attraversato morendo a se stessi per poi rinascere. Tutto sembrava cambiare, eppure tutto restava come prima: eravamo noi ad aver cambiato condizione, avendo in quel passaggio acquisito un ruolo diverso, riconosciuto dalla società. Era come aprire gli oc-chi di nuovo per la prima volta. In effetti, la pratica dello Zen consiste in un percorso analogo che produce un grande cambiamento proprio nella nostra visione del mondo. C’è un famoso aneddoto a questo riguardo. Una volta fu chie-sto a Daisetz Teitaro suzuki, uno degli ultimi grandi mae-stri e studiosi Zen dell’epoca moderna, quale fosse il risul-tato della pratica. Lui disse: «Prima di studiare lo Zen gli uomini sono uomini e le montagne sono montagne. stu-diando lo Zen le cose si confondono un poco. Dopo aver studiato Zen gli uomini sono di nuovo uomini e le mon-tagne montagne». Gli fu chiesto allora quale sia la diffe-renza tra il prima e il dopo. E suzuki rispose: «Nessuna differenza, solo che dopo i piedi sono un tantino staccati da terra». Il processo cui accennava suzuki coincide esat-tamente con la descrizione che gli antropologi fanno dei riti di passaggio, suddividendoli in tre fasi. Una fase pre li-minare in cui avviene la preparazione alla separazione dal mondo e l’ingresso nella realtà rituale, ovvero la fase in cui ci si accinge ad attraversare la soglia e l’attimo stesso in cui viene attraversata. Poi, una fase liminare in cui si svolge il rito, in cui tutta la nostra visione del mondo viene sconvolta e rimessa in discussione. E infine, una fase post liminare con il ritorno e la reintegrazione del soggetto nella sua vita ordinaria. Ora, siccome in realtà lo Zen tende a far diventare meditazione ogni momento della nostra vita

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RIfLEssIONI PRE LImINARI 7

quotidiana, si può dire che in un certo senso ci sottoponga a un unico continuo rito di passaggio, facendoci attraver-sare un numero illimitato di soglie – cioè di morti e di ri-nascite, tutte qui e ora – fino a farci trovare al cospetto della grande porta di cui parla questo libro. La vera diffe-renza con i riti di passaggio consiste nel fatto che nello Zen questo cammino va compiuto individualmente e interior-mente. Non c’è nessuna cerimonia, nessuna festa né prima né dopo, non c’è la comunità ad applaudirci, e questo pas-saggio non può essere riconosciuto da nessuno al di fuori di noi, a parte un maestro. Cosa si vedrà una volta varcata la soglia non può essere detto. Non avrebbe senso. ma se per tutta la vita ci eserciteremo a farlo, potremo sconfig-gere perfino la morte lasciando in eredità ciò che abbiamo scoperto a chi verrà dopo di noi.

Impariamo a fare un piccolo gesto rivoluzionario che può cambiare tutto: cambiando la nostra visione del mondo, cambieremo noi stessi, cambiando noi stessi, cambieremo il mondo. Questo certamente non si può apprendere leg-gendo un libro: i libri non insegnano nulla, possono al mas-simo suggerire un modo diverso di rapportarci col mondo e ispirare l’intenzione di sperimentarlo. Il resto dobbiamo farlo noi, rischiando in prima persona. Queste pagine sono in fondo soltanto un lungo pre liminare che vi auguro di lasciarvi presto alle spalle.

Bruno Ballardini

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Parte Prima IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

Meglio sarebbe stato esseresordi e ciechi fin dalla nascita.

sutta Nipata XX, VII

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VENIRE AL mONDO 11

Venire al mondo

C’è un momento in cui apriamo gli occhi per la prima volta e guardiamo il mondo così com’è. fino a un attimo prima eravamo una cosa sola col buio che ci proteggeva e ci nutriva. Quando apriamo gli occhi la luce ci sembra fortissima, quasi insopportabile. Poi, cominciamo a di-stinguere forme e colori che si muovono sullo sfondo. C’è qualcosa di là da noi. Ci vuole un po’ di tempo per met-tere a fuoco le immagini di ciò che abbiamo intorno, ma il buio da dove veniamo lo dimentichiamo subito. Dal mo-mento in cui nasciamo e apriamo gli occhi abbiamo un punto di vista. Questo punto di vista è unico, ed è solo il nostro. Nessuno può modificarlo, nessuno può sostituirlo o togliercelo. Il punto di vista non è ancora una visione. È solo il punto da cui parte la nostra osservazione del mondo. È qui tutto il senso dell’atto di aprire gli occhi. Non è sol-tanto risvegliarsi, ma anche aprire gli occhi alla vita cioè, di fatto, nascere. Aprire gli occhi è la nascita stessa: di-ventiamo coscienti di esistere. Più tardi, praticando lo Zen, rifaremo lo stesso percorso. Apriremo gli occhi come se fosse la prima volta, venendo al mondo più volte. Lo stu-pore che abbiamo vissuto nei nostri primi mesi di vita,

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12 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

nell’alternanza tra il sonno e la veglia, si rinnova per tutto l’arco della nostra esistenza ogni mattina, quando usciamo dal mondo dei sogni ed entriamo nel mondo reale. ma da adulti dura molto poco perché, a esso, si sovrappone subito la nostra visione del mondo che diventa, di anno in anno, sempre più definita e immutabile. Il risveglio ripristina la nostra condizione originaria: cerchiamo di fissare e di pro-lungare il più possibile quella sensazione di candido stu-pore, di non-pensiero, di disponibilità ad accogliere tutto ciò che ci riserva il nuovo giorno, che abbiamo ogni mat-tina aprendo gli occhi come se fossimo appena nati. Prima di essere assaliti dai mille pensieri che quotidianamente of-fuscano la nostra mente.

Sogno o realtà?

Prima di arrivare a costruirci una visione del mondo, ab-biamo soltanto il nostro punto di vista. Non sappiamo an-cora nulla del mondo eppure abbiamo già le idee piutto-sto chiare: tutto quello che abbiamo intorno ci appartiene. All’inizio non possiamo avere coscienza del mondo e di quanto possa essere grande, eppure abbiamo l’impressione che tutto ciò che vediamo sia nostro. Perché non abbiamo ancora nemmeno elaborato un’idea della separazione che c’è fra noi e la realtà: tendiamo spontaneamente all’u-nione con ciò che ci circonda. Poi cominciamo a cammi-nare a quattro zampe muovendoci in questo scenario esat-tamente come si muove un adulto che indossa un casco per la realtà virtuale. Andiamo avanti impacciati ma con

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UNA QUEsTIONE DI PUNTI DI VIsTA 13

la spinta di un’immensa insaziabile curiosità. Non esiste per noi nemmeno una distinzione fra reale e virtuale: tutto sembra sogno e tutto è reale. Crescendo, continueremo a giocare indugiando spesso sul confine fra realtà e virtualità, illudendoci che forse anche il reale in fondo non sia così reale, una fantasia consolatoria che, ad esempio, utilizziamo per farci forza quando tutto va storto. «Coraggio, è solo un brutto sogno. Vedrai che fra poco finisce, aprirai gli occhi e tutto tornerà a posto», dice una vocina interna. ma è il nostro Ego che ci offre molto presto la sua guida e la sua protezione dai pericoli del mondo. E noi, accettandola, fini-remo per non riuscire più a distinguere il reale dal virtuale.

Una qUeStione di PUnti di ViSta

Possiamo cambiare punto di vista? No. Possiamo cam-biare luogo da cui osservare la realtà ma il nostro punto di vista rimane sempre lo stesso: sono i nostri occhi, la nostra mente. Il punto di vista può cambiare solo per un artificio letterario o cinematografico quando il narratore o il regista rivelano di volta in volta il punto di vista – e spesso anche la visione – dei personaggi che animano la sua opera, in modo che chi osserva possa immedesimarsi in ciascuno di loro. ma nella realtà non è possibile cam-biare punto di vista. Al massimo, possiamo salire su un treno e provare la sensazione che il nostro punto di vi-sta cambi continuamente. E, ancora una volta, non cam-bia: è il nostro punto d’osservazione che si sta spostando. Proviamo a partire da questa esperienza per fare una ri-

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14 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

flessione utile. Osservando il paesaggio dal finestrino di un treno, tutto scorre eppure noi stiamo fermi. È esatta-mente ciò che accade nella nostra vita: la prospettiva da cui osserviamo il mondo è stretta come il finestrino da cui guardiamo. Possiamo riconoscere ed elencare a voce alta a chi ci sta vicino i nomi dei luoghi, delle città, delle montagne, perfino degli alberi che vediamo. A qualche passeggero con cui condividiamo il viaggio sembrerà che conosciamo veramente tante cose ma questo è ciò che sap-piamo del mondo attraverso i libri o per sentito dire. Qual è la riflessione che possiamo fare? Che noi possiamo de-cidere di vivere la nostra vita guardando il mondo da un finestrino ma la vita si muove, scorre, e ci viene addosso ugualmente, anche se viaggiamo chiusi nel vagone delle nostre convinzioni e delle nostre teorie sul mondo. E alla fine del viaggio la peggior scoperta che possiamo fare è che è stato un viaggio inutile. Perché quando il viaggio è finito e ci accingiamo a scendere dal treno ci accorgiamo che quello che avevamo visto non era nulla e che non sap-piamo veramente nulla del mondo. Proviamo a far partire da qui una meditazione.

gUardarSi allo SPecchio

Nel fai-da-te della meditazione la tecnica più diffusa tra i principianti è quella di guardarsi allo specchio. Come se questa azione di per sé permettesse di recuperare l’one-stà intellettuale e la moralità, sviluppando (addirittura!) la consapevolezza. Questo luogo comune è talmente stupido

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GUARDARE E VEDERE 15

che non vale nemmeno la pena di sprecarci delle parole. Lo sanno tutti che i peggiori criminali, pur guardandosi allo specchio tutte le mattine, sono rimasti tali e quali. Il più delle volte, quindi, è un’operazione perfettamente inutile, perché tutto quello che vediamo è un riflesso del nostro Ego e di ciò che crediamo di essere, non il nostro vero sé. Allora smettiamo di cercare di fare autocoscienza in que-sto modo banale e fuorviante. Irrimediabilmente, automa-ticamente, non possiamo fare altro che assolverci. È il no-stro Ego che lo fa. Lo specchio è una finestra sul nulla, anzi sulla realtà virtuale. Il nostro vero specchio è dentro. Ed è quello di cui abbiamo più paura. Per questo, prima o poi, è necessaria una guida vera, una persona che ci aiuti a guar-dare veramente in questo specchio, e che abbia già fatto questo percorso prima di noi per riconoscere subito i no-stri tentativi di scappare, intervenendo al momento giusto. Così come non ci si può vedere allo specchio, non si può nemmeno diventare direttamente maestri di se stessi senza aver avuto prima un maestro. È il secondo errore più dif-fuso, una tentazione che viene direttamente dall’Ego, quel subdolo demone che per tutta la vita cerca di possederci e contro cui lo Zen ci aiuta efficacemente a combattere.

gUardare e Vedere

Di fronte alla realtà abbiamo un ruolo di spettatori più o meno coscienti. Chi non è cosciente di ciò che vede sta soltanto guardando. Osservare è una modalità più anali-tica del semplice guardare, implica uno sforzo maggiore

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16 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

per soffermarsi sui dettagli, sui più minuscoli particolari, o comunque su una porzione minore del campo inqua-drato che può esserci sfuggita. La capacità analitica che usiamo nell’osservazione del particolare, quando torniamo a guardare il totale ci dà per un attimo l’illusione di essere riusciti finalmente a “vedere”. Invece, stiamo ancora una volta soltanto “guardando”. Nemmeno l’azione di guardare la successione delle cose che accadono equivale a vedere l’insieme. Questo significa avere una visione sincronica di tutto, avere oltrepassato il nostro punto di vista. ma non è ancora tutto: manca ancora la capacità di vedere contem-poraneamente noi stessi all’interno di questo tutto, che si può ottenere soltanto non rendendo oggetto della nostra visione l’una cosa o l’altra. Vale a dire, non-guardando. La Retta Visione, il punto d’arrivo della pratica Zen, ini-zia col non-guardare.

modi di Vedere

Avere gli occhi e non saper guardare. sembra un para-dosso, ma è la nostra condizione. Eppure ci sono almeno due modi di guardare il mondo per arrivare alla Retta Vi-sione. Il primo è far finta che la realtà che ci circonda sia virtuale. Chi ha visto il film Matrix sa di cosa sto parlando. È un metodo per allentare il nostro attaccamento alla vi-sione che abbiamo del mondo esterno. ma resta sempre un po’ difficile da attuare se, come è consigliabile, abbinate allo Zen un’attività fisica, cioè non intellettuale: prima o poi dovrete ammettere che tutto è reale e non potrete più

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mODI DI VEDERE 17

rifugiarvi nello spiritualismo, dovrete per forza prendere il problema molto sul serio.

Un altro modo è vedere ogni cosa in modo simbolico. Noi abbiamo perso da secoli la nostra capacità di interpre-tare. Dopo decenni di distruzione della scuola pubblica, il livello cognitivo medio della popolazione si è abbassato al punto che la gran massa non è più in grado di ricono-scere una metafora e di leggerla correttamente, o di inter-pretare un simbolismo: ormai si prende tutto alla lettera. Un tempo facevamo un grande uso di simboli e metafore perché, grazie al meccanismo dell’analogia, aiutavano ad avere una profonda comprensione dei concetti che veico-lavano. figuriamoci collegarli fra loro!

C’è infine un terzo modo, quello a cui ci abitua lo Zen, e cioè guardare la realtà in modo diretto, per quello che è. si ottiene con l’esercizio della meditazione sempre collegata, però, con le nostre attività pratiche. A proposito: perché non finisco mai di consigliare la pratica di un’arte marziale in-sieme alla meditazione Zen? Perché da un punto di vista terapeutico è la combinazione più benefica. facendo sol-tanto meditazione si rischia di perdere quella “concretezza”, quel contatto con il reale che occorre mantenere sempre, e di scivolare inavvertitamente in uno spiritualismo superfi-ciale che lusinga solo il nostro Ego narcisista e porta fuori strada. Nel dojo1 di arti marziali, invece, ci si allena a col-legare ciò che apprendiamo con la meditazione Zen alle at-tività pratiche. Karate, Kendo, Kung fu, Aikido ecc. sono soltanto pretesti per apprendere come mantenere e appli-care la nostra visione a tutto il resto della vita quotidiana.

1 Letteralmente “luogo in cui si pratica la Via”.

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18 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

gUardare l’arte

Anche l’arte può essere un utile punto di partenza per il lavoro che dobbiamo fare sulla visione. L’arte visiva in particolare è fatta per essere guardata. Quindi, guardare un quadro, un’illustrazione, una fotografia, una scultura, un’in-stallazione, può essere un ottimo esercizio per avvicinarci alla meditazione2. Contrariamente a quanto ci vuol far cre-dere l’industria della cultura di massa, non occorre avere alcuna preparazione specifica per farlo. Potete sempre ap-profondire dopo. Basta sedersi davanti all’opera e lasciare che entri nei nostri occhi, accogliendola per quello che è, sforzandosi di non dare alcun giudizio su ciò che stiamo vedendo. È come sederci di fronte a un paesaggio. si po-trebbe anzi considerare l’opera come un tentativo dell’ar-tista di riprodurre il proprio paesaggio interiore, e in que-sto senso anche un quadro astratto può essere considerato in realtà figurativo. L’arte visiva sottopone sempre nuove provocazioni al nostro occhio. È il ponte tra il punto di vi-sta dell’artista e la sua visione del mondo. Per noi è prima di tutto la prova tangibile che altri vedono il mondo in un modo diverso dal nostro, un modo che ha pieno diritto di esistere e anzi esiste. Il nostro egocentrismo ci abitua a non considerare mai che ci siano gli altri, con i loro punti di vista, che vivono e soffrono come noi. Vedere su tela o in un’immagine il risultato delle loro emozioni e perce-zioni è altamente educativo e terapeutico. Un quadro si può guardare, ma in nessun modo potremo avere la stessa vi-

2 Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la musica, assumendo che l’atto di ascoltare è come guardare. ma la musica è un linguaggio notevolmente più complesso, si sviluppa nel tempo, e spesso contiene l’interferenza di un testo. Per iniziare a medi-tare, dunque, è più utile l’arte visiva.

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ALLARGARE IL PUNTO DI VIsTA 19

sione dell’artista che l’ha dipinto. A seconda della nostra sensibilità e apertura mentale possiamo avvicinarci a com-prendere la sua visione, altrimenti saremo destinati solo a “guardare” la sua opera, che in buona parte è la sua vita. Il passo successivo nel nostro percorso verso la Retta Vi-sione è quello di diventare a nostra volta pittori e dipingere giorno per giorno la nostra stessa vita. ma non allo scopo di ammirarla o di farla ammirare. Vivere dev’essere sem-plicemente la nostra opera d’arte.

allargare il PUnto di ViSta

Cercare la Retta Visione mantenendo lo stesso punto di vista (e la visione che ci abbiamo costruito sopra) è come continuare a sbirciare il mondo dal buco della serratura. Per uscire dalla nostra ristretta prospettiva occorre ripar-tire da zero prendendo coscienza del fatto che esistono tanti altri punti di vista oltre al nostro, e che il nostro non ha nessuna importanza. Ce l’ha solo per l’Ego, ed è questo il terreno su cui possiamo cominciare a contrastarlo. fin-ché il nostro Ego la farà da padrone dettando le regole di come bisogna guardare il mondo, avrà vinto. Da che parte cominciare? È un lavoro che si può iniziare in tanti modi. Anche leggendo romanzi o guardando film. Anzi, narra-tiva e cinema sembrano fatti apposta: nessuno fa caso al fatto che all’interno di una stessa narrazione esistano di-versi punti di vista che si alternano. Non esiste sempre e soltanto un io narrante ma anzi si usa far vedere la stessa scena, la stessa situazione, gli stessi oggetti o persone, at-

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20 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

traverso gli occhi di diversi personaggi. Un utile esercizio allora potrebbe essere quello di apprendere attraverso la lettura di un testo la capacità di immedesimarci negli altri per comprenderne meglio lo sguardo. Alla fine, il nostro punto di vista ne uscirà, se non superato, perlomeno “al-largato”. Questo può essere senz’altro un esercizio preli-minare al lavoro che andremo a fare per acquisire consa-pevolezza della nostra visione di parte, per poterla al più presto abbandonare.

allora, doVe gUardare?

se potessimo ripescare dal pantheon latino la divinità più adatta a rappresentare la condizione di disagio dell’u-manità di oggi, sarebbe sicuramente Giano, il dio bifronte. Perché, reinterpretandolo in un’ottica Zen, si direbbe con-dannato a un’eterna infelicità dovendo guardare sempre avanti e contemporaneamente sempre indietro. Il passato è un fardello troppo scomodo e inutile per essere continua-mente portato sulle spalle perché man mano che la nostra vita va avanti diventa sempre più pesante. Guardare solo al passato e al futuro significa non avere la minima consi-derazione del presente. È la condizione più diffusa oggi: quella di preoccuparsi di ciò che deve ancora accadere e nello stesso tempo rimpiangere ciò che è accaduto e che forse non accadrà mai più. si guarda avanti perché si deve, è la società stessa che ce l’impone, ma nello stesso tempo si guarda indietro con rimpianto alla nostra vita passata. E così facendo si resta fermi. È un errore fatale poi cercare

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ChE COs’È LA CONCENTRAZIONE 21

di trovare la porta guardando avanti, si rischia di sprecare una vita intera per cercarla. Perché la porta ce l’abbiamo davanti, certo, ma solo in senso figurato, per dire che ce l’abbiamo a portata di mano: è dentro di noi.

che coS’è la concentrazione

Occorre chiarire una volta per tutte quale sia l’attitudine corretta con cui nello Zen si medita. La chiave per arrivare alla Retta Visione è la meditazione. molti fanno l’errore di credere che per meditare occorra esercitare una sorta di sforzo interiore, e lo identificano con la concentrazione.

se fosse un fatto fisico, lo identificherebbero con uno sforzo muscolare che coinvolge tutto il corpo. In tutte le gag comiche in cui qualcuno imita l’atteggiamento degli orientali nell’atto di meditare c’è sempre una macchietta che se ne sta seduta a gambe incrociate con una faccia con-tratta fino allo spasimo nello sforzo disumano di “concen-trarsi”. ma non è così, questa è una versione fantozziana dello Zen. In Oriente la concentrazione non implica nes-suno sforzo, anzi. Tutte le scuole insegnano a “lasciarsi andare”, lasciar andare tutto, anche i pensieri. Concen-trarsi su un punto è esattamente il contrario della medita-zione. Quel punto sembra sfuggirci continuamente, ma in realtà è la nostra mente che si ribella all’idea di dover stare ferma. Lei ama sfarfalleggiare con leggerezza, spesso an-che cazzeggiare, perché mai dovrebbe accettare una tor-tura del genere? È il nostro Ego che condiziona le nostre emozioni e i nostri comportamenti, e la meditazione serve

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22 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

appunto a domarlo. Nella meditazione Zen, si cerca di es-sere qui e ora lasciando andare tutto il resto, per allargare la propria visione. Non ci si concentra su un punto, si apre lo sguardo fino ad abbracciare tutto, noi stessi, la stanza, il mondo animato da tutti gli esseri senzienti, l’universo. si osserva la realtà seduti su un cuscino. Comodo? Non pro-prio: il cuscino sta sull’orlo di un precipizio.

non aPrite qUella Porta

C’è un vecchissimo videogame in cui ci si trova in una stanza piena di porte e la sfida consiste nell’aprire quella giusta per accedere a un livello superiore. Chi ci ha gio-cato ricorderà senz’altro il senso di angoscia provato in quell’ambiente angusto, non potendone uscire se non fa-cendo per forza una scelta da cui potrebbe dipendere anche la fine del gioco, cioè la morte virtuale. Virtuale certo, ma comunque una prospettiva che, lì per lì, preoccupa qualsi-asi giocatore. Ora, siccome la vita non è un gioco, imma-ginate quanto possa atterrire la scoperta di trovarci a nostra volta in una scatola da cui non possiamo uscire se non pren-dendo quella maledetta decisione. Ci sono momenti in cui i nostri occhi inquadrano la scena fuori come se si trovas-sero dentro a questa scatola, ne percepiamo distintamente i bordi. Non cerchiamo di annullare questa impressione per quanto spiacevole. Cerchiamo invece, proprio in quei momenti, di concentrarci su di essa per farla durare più a lungo, per mettere bene a fuoco la separazione che c’è fra noi e la realtà. molti scacciano subito questa percezione

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EsERCIZIO 23

appena comincia perché oggettivamente è terribile: da una parte ci siamo noi, dentro la nostra scatola cranica, che os-serviamo il mondo esterno dalle nostre cavità oculari (quasi dal buco della serratura). Dall’altra parte ci sono le cose, le persone, che animano questo film tridimensionale che chiamano realtà. La prima reazione è quella di cercare di uscire in qualche modo dalla scatola per raggiungere quello che c’è fuori di noi. È lo sforzo disumano di chi fa Yoga. I praticanti del livello più elevato ripetono come un man-tra «Tat tvam asi»3, per autoconvincersi di avere realizzato l’unione col Tutto. ma sono soltanto parole. Per lo Zen si tratta invece di riuscirci veramente. magari bastasse pro-nunciare tre parole per superare l’abisso che ci separa dal mondo! ma è inutile anche tentare di “uscire” dalla nostra testa facendo meditazione, perché la porta è dentro di noi. se avete paura di trovarvi davanti a uno strapiombo o sof-frite di vertigini, non apritela. state benissimo così. Altri-menti, continuate pure a leggere. E fate il primo esercizio.

eSercizio

Usciamo di casa e andiamo in un luogo molto frequen-tato. Va bene un caffè all’aperto, seduti a un tavolino da cui poter osservare la gente che passa, ma va benissimo anche una bella panchina in una piazza gremita. Evitiamo magari i luoghi affollati da turisti o da nostri concittadini che fanno shopping: sono tutti lì per uno scopo e non sono nella loro

3 In sanscrito, “Tu sei quello”.

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24 PARTE PRImA . IL NOsTRO PUNTO DI VIsTA

condizione naturale. meglio, molto meglio allora un parco, o una spiaggia, luoghi in cui la gente va per ricrearsi, per tornare a essere semplicemente se stessa. Ora sediamoci e non guardiamo nessuno in particolare. Lasciamo che siano le persone a entrare nel nostro sguardo, spontaneamente. Cosa vediamo? Persone, appunto. Belle, brutte, ciascuna con una storia a volte anche molto visibile, altre invece che vi risulteranno indecifrabili. Verrà automatico cercare di intuire qualcosa di più di loro e del loro vissuto. sono così diverse da noi. ma cosa ce ne importa di farlo? Chi ci spinge in quella direzione? È il nostro Ego che vuole su-bito fare distinzioni, che ci porta a confrontarci, perché si sente destabilizzato dall’esistenza dell’altro. Il nostro Ego vuole stabilire subito dei parametri di confronto, ci spinge a una sfida all’ultimo sangue verso gli altri, da cui noi (in-sieme a lui) dobbiamo uscire vincitori. ma che senso ha anche soltanto pensarlo? sono persone come noi! Nel mo-mento stesso in cui cominciamo a “ricamare” sulla foggia dei vestiti di qualcuno o sul modo di camminare di qual-cun altro, o sul suo aspetto fisico, non siamo più noi che stiamo guardando, ma è il nostro Ego che ci costringe su-bito al confronto per arrivare a poter dire: «Lo vedi? Tu sei molto meglio», oppure «Poveraccio guarda com’è messo. Dovresti ringraziare che ci sono io a darti il modello di vita giusto e impedirti di scendere così in basso». Eppure, cia-scuna di queste persone potrebbe fare la stessa cosa e dire esattamente lo stesso di noi. Proviamo allora a fare silen-zio dentro, a non commentare, a non discriminare. sco-priremo che, a guardare bene, non c’è nessuna differenza fra noi e loro. Questo esercizio serve fondamentalmente a capire che il nostro punto di vista comincia a evolversi in

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EsERCIZIO 25

visione compiuta subito dopo che abbiamo acquisito il lin-guaggio. Perché, tramite la parola, siamo in grado di clas-sificare tutto quello che vediamo, ed è questo lo strumento di cui si appropria subito il nostro Ego, che se ne servirà poi per i suoi scopi. Era giusto per darvi un’idea di quanto lavoro occorra fare per ottenere la Retta Visione. se il no-stro punto di vista è così inquinato, immaginate quanto possa essere difficile scalzare la visione che su quel punto di vista abbiamo costruito.

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