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1 LA FAMIGLIA MARTINELLI DEI PATRIZI DI SALERNO Origini, operato e patrimonio Martinelli, un alterato di Martini, è cognome sparso ovunque in Italia e trova la sua base nel nome Martino che ebbe grande fortuna a causa del culto del santo. Per questa sua larga diffusione è difficile stabilire con precisione il luogo di origine delle famiglie che lo portano. La famiglia Martinelli di Monopoli però, fuori da ogni dubbio e con prove documentali sicure, deriva da quella omonima di Mola città nella quale essa fu presente già sul declinare del 1500 come può desumersi dall’atto di nascita di Clemente, nato nel 1646, che riporta anche il nome dell’avo del neonato: un altro Clemente. E’ opinione, fondata sulla tradizione orale familiare, che la casata sia di lontane origini venete; ma documenti a sostegno di questa tesi non sono stati rinvenuti. E’ da notare, a tale proposito, che altre due famiglie fiorirono, con lo stesso cognome, nel Lombardo- Veneto: la prima, (che porta uno stemma del tutto diverso da quello dei Martinelli nostrani) originaria di Bergamo, nel 1646 acquistò “l’elevazione a maggiori prove della sua pietà nella occasione che il tempo ne farà nascere”; l’altra, originaria di Padova e domiciliata in Portogruaro, fu ascritta al nobile consiglio patavino nel 1795. E forse questi due dati spiegano il nascere della leggenda dell’origine veneta. A Mola un ramo della casata, in verità quasi sterminata così diffuso appare il cognome, dov’è imporsi per ceto tanto che un Vito Giuseppe nel 1744 ed un Vito Giovanni nel 1763 posero due lapidi sulle proprie sepolture: il primo nella chiesa del Santo Rosario di S. Domenico ed il secondo in contrada Pozzovivo. Vito Giuseppe (Mola 1692-Monopoli 1766), discendente diretto di quel Clemente vissuto nella seconda metà del 1500, è il primo Martinelli che venne a Monopoli staccandosi da Mola, perché attratto dalle maggiori possibilità di commercio offerte dalla città di Monopoli e vi aprì un fondaco dal quale s’ebbe l’intero patrimonio. Qui abitava in una casa in parrocchia Santa Maria degli Amalfitani, per circa otto mesi l’anno; trascorreva i rimanenti presumibilmente in viaggi d’affari. Monopoli con il suo attivo porto commerciale rappresentò per lui un ottimo centro per poter ampliare i propri affari.

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LA FAMIGLIA MARTINELLI

DEI

PATRIZI DI SALERNO

Origini, operato e patrimonio

Martinelli, un alterato di Martini, è cognome sparso ovunque in Italia e trova la sua base

nel nome Martino che ebbe grande fortuna a causa del culto del santo.

Per questa sua larga diffusione è difficile stabilire con precisione il luogo di origine delle

famiglie che lo portano.

La famiglia Martinelli di Monopoli però, fuori da ogni dubbio e con prove documentali

sicure, deriva da quella omonima di Mola città nella quale essa fu presente già sul

declinare del 1500 come può desumersi dall’atto di nascita di Clemente, nato nel 1646,

che riporta anche il nome dell’avo del neonato: un altro Clemente.

E’ opinione, fondata sulla tradizione orale familiare, che la casata sia di lontane origini

venete; ma documenti a sostegno di questa tesi non sono stati rinvenuti. E’ da notare, a

tale proposito, che altre due famiglie fiorirono, con lo stesso cognome, nel Lombardo-

Veneto: la prima, (che porta uno stemma del tutto diverso da quello dei Martinelli

nostrani) originaria di Bergamo, nel 1646 acquistò “l’elevazione a maggiori prove della

sua pietà nella occasione che il tempo ne farà nascere”; l’altra, originaria di Padova e

domiciliata in Portogruaro, fu ascritta al nobile consiglio patavino nel 1795.

E forse questi due dati spiegano il nascere della leggenda dell’origine veneta.

A Mola un ramo della casata, in verità quasi sterminata così diffuso appare il cognome,

dov’è imporsi per ceto tanto che un Vito Giuseppe nel 1744 ed un Vito Giovanni nel

1763 posero due lapidi sulle proprie sepolture: il primo nella chiesa del Santo Rosario di

S. Domenico ed il secondo in contrada Pozzovivo.

Vito Giuseppe (Mola 1692-Monopoli 1766), discendente diretto di quel Clemente

vissuto nella seconda metà del 1500, è il primo Martinelli che venne a Monopoli

staccandosi da Mola, perché attratto dalle maggiori possibilità di commercio offerte dalla

città di Monopoli e vi aprì un fondaco dal quale s’ebbe l’intero patrimonio.

Qui abitava in una casa in parrocchia Santa Maria degli Amalfitani, per circa otto mesi

l’anno; trascorreva i rimanenti presumibilmente in viaggi d’affari.

Monopoli con il suo attivo porto commerciale rappresentò per lui un ottimo centro per

poter ampliare i propri affari.

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Il commercio di "sete e pannamenti", che importava dal vicino Oriente, ed un “fondaco

di tavole”, con legname ricavato da numerose estensioni boschive di sua proprietà

esistenti all'epoca, gli rendevano bene, tanto da reinvestire i guadagni ricavati in acquisti

immobiliari ed in appezzamenti coltivati ad ulivi, in particolare : comprò una casetta

confinante con quella già ricordata, 45 opere di olive in più partite a Covello, Samato, S.

Cipriano ed altri piccoli appezzamenti a Campione, a “Cippullazzo” e “nel luogo detto lo

cretazzo”.

Nel 1760 comprò la masseria Spina da Pasquale Ammazzalorsa.

Sposato con la molese Caterina Buttaro non ebbe figli e suo erede fu il nipote

Clemente (Mola 1711 – Monopoli 1780) che lo aveva seguito e che qui si sposò.

Clemente continuò l'attività dello zio circa il commercio di panni e seterie praticando

anche la compravendita di olio e vino. Sua moglie, Rosa Pizzangroia, esercitò “

l’industria dei veli bambagini” che rendeva all’anno trenta ducati.

Fra i tanti figli maschi di Clemente (1711-1780) e di Rosa (1726-1796), sopravvissero

Francesco Paolo (1755-1818) e Vito Giuseppe (1758-1833) che portava il nome del

prozio paterno, il primo dei Martinelli che, come già detto, venne a Monopoli per aprirvi

un fondaco, i quali continuarono attività degli avi incrementando smisuratamente la loro

ricchezza ed ottennero l’aggregazione al “ Registro delle piazze dichiarate chiuse” sotto il

Sedile di Salerno e il patriziato di Salerno nel seggio di Portaretese.

A Monopoli, con il passare del tempo e più ancora per il consolidarsi di una ingentissima

fortuna, la famiglia si imparentò con nobili casati locali: Indelli, Manfredi, Carbonelli,

Farnararo, Grezzi, Antonelli; e forestieri: Noja baroni di Bitetto ( di Mola), Pandolfelli e

Antonacci ( di Trani), Tresca – Carducci ( patrizi di Bari ), d’Eramo, Zaccaria, Ventura,

Lamonaca, Correale ( patrizi di Sorrento), Ceci…

Tornando ai due citati fratelli:

Vito Giuseppe (1758-1833) sposa la monopolitana ……………Manfredi e non ebbe

figli ed è colui che edificò la bella villa della “Caccia Reale” in Cozzana, l’ ”ingeniosus

et hilaris homo” come egli stesso si definisce in una lapide che ricorda il termine (1792)

dei lavori di essa, ossia un uomo di buon carattere, socievole e gaudente, e che volle farla

costruire per il piacere suo e per la delizia degli amici, ma fu anche sagace e posato, come

rivelano i documenti che esamineremo più avanti.

Francesco Paolo (1755-1818) sposa la monopolitana Eleonora Indelli, ed è ricordato

essere l'iniziatore della fortuna della famiglia. Il matrimonio con la nobile e ricca

Eleonora Indelli, figlia di Guido, detto Michele, e della patrizia bitontina Vittoria

Giannone Alitto, dalla quale ebbe due figli maschi: Clemente Maria (1778-1836) e

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Michele Antonio (1781-1853) e una femmina di nome Rosa (1778-1852) gli consentì,

peraltro, l'accesso nella gelosa nobiltà monopolitana.

Francesco Paolo si è sempre occupato dell’amministrazione dei beni comuni di famiglia

e, dalla morte del padre Clemente (1726-1796), del “ decoroso e dispendioso”

mantenimento della madre “Donna Rosa Pizzingroia a lei spettante in funzione della loro

Nobile condizione.

Francesco Paolo in data 22/04/1818 fu ritrovato morto in misteriose circostanze, sulla

strada di Bovino - loc. Pagliarone come si ha modo di leggere nel libro della

confraternita della Chiesa di S.Maria delle Grazie, detta anche Chiesa dei Morti, di

Bovino nella quale fu sepolto e vi si trova ancora oggi, davanti alla sua sepoltura, il

busto e cenotafio.

I suoi due figli:

* Clemente Maria (1778-1836) sposa, all’età di 24 anni, il 25/02/1802 Benedetta

Noja dei Baroni di Bitetto di Mola, che morì prematuramente nel 1830, e dalla quale

ebbe 9 figli: Francesco Paolo (1803-1875), Giuseppe (1805-1838), Eleonora (1808-

1833), Sante (1810-1870), Colomba (1812-1863), Rosa (1814-1898) , Domenico

Antonio (1816-1893), Maria Angelica (1822-1866), Vincenzo (1827-1868) e in

data 23/03/1832 trasferisce il suo domicilio a Mola per “ affari urgenti”

* Michele Antonio (Monopoli 1781-Napoli 1853), sposa, all’età di 32 anni, il

22/09/1819, per procura conferita a Nicola Pandolfelli di anni 30 di professione

Direttore dei Dazi dei distretti della provincia Terra Principato Ultra, nella Casa

Comunale del Comune di Solofra nella citata provincia, alle ore 1 di notte, la

diciannovenne Beatrice Pandolfelli dalla quale ebbe due figli: Giuseppe che nacque

a Monopoli il 01/12/1832- e Vincenzo de Paoli che nacque a Napoli il 10/07/1841

dove nel frattempo il padre si era trasferito con la famiglia.

I due fratelli diedero origine ai due rami della famiglia, quello Monopolitano e quello

Napoletano, da cui discendono tutti i Martinelli nostrani.

La casata, riconosciuta ammissibile tra le borboniche guardie del corpo a cavallo (per le

quali “... tutti gli individui napoletani come siciliani, che dovranno comporre questo

Corpo, debbono essere di nobiltà tal quale è stato sempre l’aspirante a far le prove di

giustizia dell’Ordine Gerosolomitano” - decreto del 1° agosto 1815 di Ferdinando IV),

iscritta nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano del 1922 col titolo di patrizio di Salerno in

ambedue i rami (monopolitano e napoletano), ha avuto per stemma uno scudo “d’argento,

al lambello di tre pendenti di rosso sostenente una fenice posta sulla sua immortalità, al

naturale, fissante un sole d’oro, posto nel canton destro del capo, e accompagnato in

punta da due spade poste in croce di S. Andrea”,

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Il ramo napoletano si imparentò successivamente con i Materi, i Tufari, i Paternostro, i

Pedoni, i Galbusera, ecc…e nel 1862, Vincenzo de Paoli, fu ammesso nel S.M.O.M.e

successivamente fece anche voto di castità: fu commendatore di Vizzino, poi di S.

Stefano di Schiattina e di S. Antonio di Albigiana di Palermo e, più tardi ancora, di S.

Giovanni di Taormina. Patrizio salernitano e iscritto al “Registro delle piazze chiuse” del

Regno, fu segretario generale e quindi vice presidente dell’Opera degli Asili Infantili di

Napoli.

Del ramo napoletano si ricordano ancora:

Giuseppe, di Michele Antonio e di Beatrice Pandolfelli, ( Monopoli 1832 – Napoli

1901), ufficiale mauriziano e della corona d’Italia, con i figli:

Michele ( Napoli 1852 – Napoli 1901) che fu ufficiale di artiglieria e sposa Laura

Squillace – non ebbe figli

Beatrice ( Napoli 1854 - ………) – sposa Tufari

Marianna ( Napoli 1857 - ……….) – sposa Guerra

Francesco Paolo ( Napoli 1858 – 1906) – sposa Pedoni - che fu ingegnere e anche

realizzatore di importanti opere, con i figli:

Giuseppe - da cui Arnaldo ( Napoli 1913 – 1992) da cui Francesco (

Napoli 1944) da cui Michele ( Roma 1978

Angela,

Michele

Mario

Clotilde ( Napoli 1862 – 1895 ) – sposa Paternostro

Del ramo monopolitano, ricordiamo:

Clemente (1778-1836), di Francesco Paolo e di Eleonora Indelli, sindaco di Monopoli

negli anni 1817 – 1818, con i suoi figli:

- Francesco Paolo (1803 - 1875), patrizio salernitano, cavaliere mauriziano, cavaliere

gerosolomitano, pari del regno nel 1848, sindaco di Monopoli negli anni dal 1834 al 1839

e dal 1846 al 1851. Al di là della sua attività politica, ci piace ricordare di lui la pregevole

raccolta di vasi e reperti archeologici ospitata in un piccolo museo posto nel mezzo di

uno splendido parco alla “Caccia reale”, la bella villa edificata dal Vito Giuseppe già

ricordato.

- Sante (1816-1870), avvocato e consigliere della sezione di accusa alla Corte di Appello

di Napoli della quale in seguito divenne presidente. Abbandonò i familiari sentimenti

filoborbonici dopo l’unificazione d’Italia e collaborò alla riforma dei Codici. Lasciò

scritte diverse opere giuridiche tutte pubblicate a Napoli: “Delle circostanze attenuanti

nel Codice Penale italiano” (1862); “Di alcune riforme ai Codici Penali Italiani, a

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proposito di una circolare del Ministro Guardasigilli” (1863); “Del certificato di penalità.

Commento all’art. 604 della Procedura Penale”.

A questi aggiungeremo:

Clemente (1829-1909), sindaco di Monopoli negli anni 1895-96-97, sposò Laura

Correale dei Patrizi di Sorrento;

Nicola (1832-1884), cavaliere della corona d’italia e consigliere della Corte di Appello di

Napoli. Sposò Violante figlia del duca Agostino de Vargas Maciucca marchese di Vatolla

e della duchessa Maria Giuseppa Martinez;

Vito Giuseppe (1834-1910), aspirante Guardia del Corpo a cavallo nel 1851, poi

ufficiale dei carabinieri e cavaliere della corona d’Italia, sposò Elmerinda Lanza dei

duchi di Brolo;

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Ma perché il patriziato di Salerno?

Per capirlo bisogna rifarsi un po’ alla storia dei tempi più antichi della nobiltà civica del

Regno di Napoli.

Nel XVIII secolo la nobiltà assieme alla borghesia civile, deteneva il potere

amministrativo della città, però le prerogative riguardanti l'esercizio di pubblici uffici, di

attività legislative o di iniziative economiche erano privilegio esclusivo delle classi

nobiliari; pertanto vi furono molte pressioni su questi ultimi affinché la nuova borghesia

mercantile, acquistando titoli nobiliari, potesse affiancarsi ad essi nell'esercizio di queste

funzioni.La nobiltà reagì di fronte a questo stato di cose con l'istituzione "Registro delle

piazze chiuse", (detto così per l'antichissima usanza di alcune famiglie di riunirsi nelle

piazze per legiferare) ossia un registro nel quale potevano iscriversi solo le famiglie

nobili di una certa tradizione e importanza. così fecero anche i due fratelli Martinelli,

Vito Giuseppe (1758-1833) e Francesco Paolo (1755-1818), e poiché la nobiltà

monopolitana poco contava rispetto a quelle più importanti della nobiltà salernitana,

ottennero l'aggregazione al "Registro delle piazze chiuse" del patriziato di Salerno. La

casata fu fedelissima al governo borbonico di Ferdinando IV, il quale per evitare abusi e

iscrizioni irregolari istituì il "Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno"

che doveva verificare e portare ordine nei riconoscimenti nobiliari. Da questo momento i

due Martinelli sopra citati divengono Guardie del Corpo a Cavallo, non prima però di

aver dato prova di nobiltà facendo parte dell'Ordine dei Cavalieri di S. Giovanni in

Gerusalemme. Ricevono pertanto dal sovrano borbonico uno stemma raffigurante uno

scudo ..."d'argento, al lambello di tre pendenti di rosso, sostenente una fenice posta, nella

sua immortalità, al naturale, fissante un sole d'oro, posto nel canton destro del capo, e

accompagnato in punta da due spade in croce di S. Andrea (simbolo dei Cavalieri di

Malta).

Salerno, Tropea, Bari, Sorrento, Trani e naturalmente Napoli erano considerate da tempi

antichissimi sedi di vero patriziato costituito da un certo numero di famiglie che, separato

dal resto della popolazione, costituiva un “corpo” a sé stante con privilegi e diritti tutti

propri. Queste famiglie, non feudali, si ritennero sempre le eredi ideali dei patrizi romani

ed esercitarono, osteggiate dai dominatori di turno, una sorta di potere nella pubblica

amministrazione.

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Le città che abbiamo nominato (ed altre che in seguito furono riconosciute anch’esse sedi

di patriziato: Amalfi, L’Aquila, Lucera, Amantea, Aversa, Cosenza, Benevento, Pozzuoli,

Sulmona, Giovinazzo) furono chiamate di “Piazza chiusa” dall’antichissima usanza di

alcune famiglie di quelle di riunirsi in luoghi aperti, cioè piazze, dette pure seggi o sedili,

per legiferare.

Detto patriziato, oltre ad esercitare quel potere di cui abbiamo parlato, poteva deliberare,

senza la presenza del regio rappresentante, aggregazioni, reintegrazioni e iscrizioni di

nuovi casati con il diritto alla. regia ratifica dei propri atti. Da tanto discendeva la

impossibilità di ottenere l’aggregazione, la reintegrazione o la iscrizione a detto

patriziato senza il consenso dello stesso.

Le grandi famiglie feudali che si erano orgogliosamente mantenute distanti dalle

sopradette città e dai pubblici affari di esse, allorché, compresero che l’unica maniera per

partecipare alla pubblica amministrazione era quella di avere l’aggregazione o la

iscrizione al patriziato di quelle città, si affrettarono per ottenerla.

Cosi, ad esempio, a Napoli vediamo le case feudali dei Gaetani, Acquaviva, del Balzo,

Colonna, Orsini, Ribera, Gonzaga, Sanseverino, ecc…. aggregarsi una dopo l’altra ai

seggi della città.

V’era pure la “semplice nobiltà” che insieme al patriziato costituiva l’intero “corpo” della

nobiltà del Regno di Napoli.

E come v’erano le città di “Piazza chiusa”, così vi furono città di “semplice ma vera

separazione” dal resto della popolazione: Taranto, Taverna, Lettere, Gaeta, Crotone,

Capua, Ravello, Penne, Scala, Nola, Barletta, Bitonto e Monopoli.

Ferdinando IV che dovette indubbiamente assistere ad abusi e ad iscrizioni irregolari, ma

soprattutto per accentrare ancora di più il potere nelle proprie mani, abolì i sedili e istituì

il “Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno”; e scopo di tale Tribunale

fu quello di riportare ordine nel campo dei riconoscimenti di nobiltà.

Così il “Libro d’Oro della Nobiltà Napoletana” accolse i nomi delle casate iscritte agli

aboliti sedili della città di Napoli e ad esso il sovrano si riservava il diritto di aggregare i

soggetti più benemeriti di famiglie di antichissima nobiltà.

Erano affiancati: un registro delle famiglie feudatarie da almeno 200 anni; uno delle

famiglie accolte per giustizia nell’Ordine di Malta ed infine in registro di tutti i nobili

iscritti agli aboliti sedili delle città del regno che formavano nobiltà.

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I BENI DI FAMIGLIA

Premessa PANORAMA STORICO

Prima di analizzare il patrimonio di famiglia è opportuno effettuare un'analisi delle

situazioni storico-socio-economiche dei secoli XVIII e precedenti, poiché queste ebbero

grande rilevanza circa l'operato e la fortuna della famiglia Martinelli.

Il suo insediamento sul territorio prima di Mola e poi di Monopoli trova delle possibili

spiegazioni nel dominio veneziano cui furono sottoposte, sin dal 1496, le due cittadine

accanto ad altre della costa pugliese come Trani, Polignano, Brindisi e Otranto.

Con il trattato di Granada, 11 novembre 1500, il Re di Francia Luigi XII ed il Re di

Spagna, Ferdinando il Cattolico, decisero di occupare e spartirsi il Regno di Napoli, dove

regnava Federico III D'Aragona.

In base all'accordo, i Francesi avrebbero occupato Napoli, la Campania e gli Abruzzi; gli

Spagnoli la Calabria e la Puglia. Di fatto la Calabria era già nelle mani degli spagnoli, che

non persero tempo nel passare in Puglia, occupandola quasi completamente. Mancavano,

appunto, le già citate città di Mola e Monopoli dominate dalla Serenissima.

In seguito ad una battaglia campale per la contesa della Capitanata, davanti a Cerignola, il

28 aprile del 1503, i francesi e gli spagnoli si scontrarono, con la vittoria di questi ultimi

che rimanevano i padroni incondizionati della Puglia e si aprivano la via per Napoli.

Tutto il Regno passava così sotto Ferdinando il Cattolico. Nel giro di pochi anni non fu

difficile per il sovrano spagnolo ottenere da Venezia la restituzione delle città costiere

pugliesi succitate (1508).

Per la città di Venezia fu un atto tutt'altro che piacevole, riusciva tuttavia ad osservare il

controllo dell'Adriatico precludendo l'accesso ad altre flotte. Era suo interesse a che il

mare non fosse minacciato da alcuno e non fossero compromessi i suoi traffici. I buoni

rapporti con il sovrano spagnolo, poi, consentirono alla Repubblica di San Marco, di

mantenere attivissimi i suoi vitali rapporti commerciali con la Puglia: qui poteva

continuare ad approvvigionarsi di frumento, olio (per l'illuminazione e l'alimentazione) e

vino; qui poteva continuare ad esportare tessuti, seterie, vetri.

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L'influsso di Venezia spinse la regione ad importare artisti e prodotti d'arte, si pensi alle

presenze di opere come quelle di Paolo Veronese, del Tintoretto e della sua scuola e

soprattutto di Palma il Giovane.

Venticinque anni dopo, la tensione tra spagnoli e francesi riprese, tanto che il dominio

spagnolo, con Carlo V sul Regno di Napoli, sembra vacillare, avallato anche dal fatto che

molte città pugliesi, compresa la stessa Venezia, cominciarono ad appoggiare i francesi.

Vi furono altre guerre che prostrarono la Puglia e che videro, ancora una volta, vincitrice

la Spagna.

Nel 1529 Venezia firmò la pace con Carlo V, consegnando all'Imperatore le città di

Monopoli, Barletta e Trani. Un funzionario provveditore dell'esercito veneto avrebbe

scritto nel 1528 che le terre erano state tolte ai loro feudatari e vendute ad altri feudatari

dietro l'esborso di grosse somme; tutta la Puglia era in uno stato di disperazione. La

monarchia spagnola, infatti, sempre a corto di denaro per alimentare la sua macchina

bellica, non esitava a vendere le città a nobili potenti, e soltanto se le città erano in grado

di pagare le ingenti somme richieste, potevano rimanere "demaniali", ossia sottoposte

solo a giurisdizione regia, ma tuttavia autonome. Queste cittadine, tra le quali la stessa

Monopoli, potevano così evitare la dipendenza feudale, limitatrice del libero gioco delle

forze economiche e sociali, inoltre godere di qualche privilegio. Tali comuni avevano i

loro statuti e capitolazioni, ossia norme scritte che regolavano la loro vita amministrativa,

politica e spesso anche economica e sociale. Naturalmente erano norme rispondenti al

numero di abitanti, all'ampiezza del territorio, alle strutture produttive di ciascuna

comunità.

Nel 1713 si concludeva la guerra di successione spagnola e la Spagna dovette cedere

all'Austria i suoi domini italiani, quindi anche il Regno di Napoli. La Puglia dalla

dominazione austriaca ricavò ampi vantaggi. Una politica di traffici e di commerci

mediterranei ridiede vita ad un organismo depresso: le esportazioni di olio da Gallipoli e

dalla terra di Bari (Monopoli, Bitonto ecc.), quelle della lana da Manfredonia, di grano e

di altri cereali da Barletta, Trani, Molfetta, Taranto, verso altri porti italiani come

Genova, Livorno e Venezia, e da qui verso altri porti del Mediterraneo. Si aprivano così,

nuove prospettive per i più intraprendenti patriziati locali e per i gruppi più attivi di una

nascente borghesia. Questo intensificarsi dei traffici si accompagnava ad un aumento

della estensione delle terre coltivate e ad un incremento della popolazione specialmente

nelle zone agricolo-commerciali. Ma la battaglia di Bitonto del 1734 combattuta tra le

truppe austriache e quelle spagnole, sanciva la fine del poco meno trentennale (1707-

1734) viceregno austriaco e l'inizio, con la monarchia borbonica, di una nuova fase

storica per il Mezzogiorno d'Italia.

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In terra di Bari numerosi divennero i centri con quasi 10.000 abitanti. Si trattava o di

grossi borghi rurali dell'interno o di porti molto attivi nel commercio di lana, grano e olio,

come già detto. Queste città erano caratterizzate da una struttura sociale abbastanza

articolata, con la presenza di un ceto medio di mercanti e massari capaci di esercitare

pressioni sui potenti nuclei di patriziato locale. Il governo cittadino era determinato,

infatti, dai nobili da una parte, e dai "civili" o popolo grasso, composto da notai, avvocati,

medici, speziali, grossi proprietari e mercanti dall'altra.

Verso il 1750-1760 vi furono numerose carestie causate dalla siccità, invasione di

locuste, gelate che implicarono una vera e propria crisi in Puglia e nel Regno. Le

preoccupazioni circa l'approvvigionamento alimentare dei centri urbani, ed in primo

luogo di Napoli, nonché le manovre speculative di mercanti e di accaparramento delle

derrate da parte dei feudatari e benestanti, crearono notevoli margini di profitto per coloro

che disponevano di ingenti quantità di prodotti agricoli, e non solo anche per una fitta rete

di usurai che comprendeva oltre ad esponenti del notabilato locale anche il clero.

Tra il 1771-80 ed il 1792-94 la terra di Bari ebbe il primato nella produzione dell'olio che

oltre a soddisfare un crescente consumo interno alimentò un commercio di esportazione

sempre più immenso. Tale commercio offrì favorevoli occasioni di investimento e di

profitto ad un ceto mercantile, quale era quello dei Martinelli, in rapida ascesa

economica e politica, in centri costieri come Bisceglie, Molfetta, Bari, Mola,

Polignano e Monopoli.

Tra il XVIII e XIX secolo si assiste ad una espansione della proprietà fondiaria, continua

inoltre la secolare tendenza a dare in affitto o a colonia le terre, ricavandone la più alta

rendita possibile e scaricando sui fittavoli e coloni i rischi di impresa. Decine di migliaia

di ettari di terra incolta o a pascolo furono trasformati in vigneti, oliveti e mandorleti. Si

affermò sempre di più la "masseria", l'azienda tipica della media e grande proprietà

fondiaria, che si avvaleva di grosse concentrazioni di contadini poveri e di braccianti che,

da un lato assicuravano forza lavoro a buon mercato e abbondante, e dall'altra comunque

garantivano, anche in caso di scarsa richiesta di manodopera, discreti margini di profitto

ai proprietari.

Il patrimonio Il patrimonio accumulato da Vito Giuseppe (1692-1766) e poi incrementato dal nipote

Clemente ( 1711-1790), padre di Francesco Paolo (1755-1818) e di Vito Giuseppe ( 1758-

1833), che portava il nome del prozio paterno, fu ereditato dai due citati fratelli.

E fu per questo patrimonio, e per quello paterno, che i due, il 15 novembre del 1790

davanti al notaio Pietro Antonio Mileti, sottoscrissero un atto di divisione che

scorreremo con attenzione perché da esso ricaveremo preziose informazioni (3).

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I fratelli, già “Patrizi Salernitani e Cavalieri del Sedile di Portaretese” (4), dichiararono

sotto giuramento che Vito Giuseppe (1692-1766) seniore, loro prozio, aveva nominato

erede universale e particolare il pronipote, che nel nome lo ricordava, con testamento reso

davanti al notaio Vito Domenico Capozzi di Mola nel 1744 e pubblicato, dopo la morte

del testatore, il 18 agosto del 1776.

Il giovane Vito Giuseppe (1758-1833), il 6 giugno del 1777, a Napoli, per atto del notaio

Vitantonio Cernelli rinunciò a tutta la sostanza del prozio e la donò a suo padre Clemente

con esclusione però di tre appezzamenti ad uliveto posti in agro di Monopoli: il Votano,

Cipollazzo e Garzaneto.

Pochi giorni dopo, il 30 giugno, Clemente (1711-1790) decise di donare ai due figli i beni

di Vito Giuseppe (1692-1766) seniore e quelli ricevuti dal proprio genitore Vito Giovanni

(1686-1766) con la riserva, però, di 25.000 ducati per le sue necessità.

La liberalità del padre e del figlio fu più volte ratificata e dopo la morte di Clemente (9

gennaio 1790), Vito Giuseppe la confermò a beneficio di Francesco Paolo.

Così le proprietà erano state possedute fino ad allora (1790) “in una perfetta comunione de

beni, sotto uno stesso tetto, ed in una stessa mensa ...“ e ad esse si erano aggiunti altri

acquisti fatti in comune dai due che si dichiararono vicendevolmente soddisfatti

dell’amministrazione.

Soggiunsero poi le “Signore Parti, come intendendo di conservare la stessa antica

armonia... han convenuto di venire ad una parziale divisione di alcuni de suaccennati beni,

lasciando il rimanente in comune nella maniera, che inferius si dirà”.

L’intero patrimonio venne diviso in tre quote:

- i beni di Mola,

- la masseria Spina

- e quelli che sarebbero rimasti indivisi.

Alcuni fogli sciolti, non numerati ma inseriti nel protocollo notarile del notaio Piero

Antonio Mileti, contengono gli elenchi dettagliati di tutto quanto fu sottoposto a divisione

secondo il criterio esposto.

A Vito Giuseppe furono assegnate le proprietà in Mola consistenti in:

- circa duecentonovanta opere di terre frazionate in più corpi,

- stabili vari,

- palazzo di famiglia con tutta la mobilia, gli ori e gli argenti.

A tutto questo fu dato, di “comune consenso, e piacere, senza misura e senza stima”, il

valore di 24.000 ducati

Francesco Paolo, per pari valore, ebbe:

- la masseria di Spina (5)

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- con le centoventi opere originarie cui se n’erano aggiunte, nel corso degli anni,

- altre duecentottantasei comprate da più proprietari.

Indiviso rimase tutto il resto, e cioè:

- 4.755 ducati prestati a parenti e amici di Mola;

- la masseria di Covello (6)

- la massaria S.Francesco

- un’altra masseria nei pressi di Fasano;

- il palazzo di Largo Cacace n. 7

- alcune botteghe al piano terra (7)

- dieci case e casette nelle parrocchie di San Salvatore, San Pietro e Sant’Angelo;

- piccoli appezzamenti di terreno a Carmiano in provincia di Lecce

- due modesti capitali prestati a gente di Mesagne;

- e poi, in un bell’ordine, su tre fogli sottoscritti dai fratelli, sono elencati più di ottanta

debitori tra i quali spiccano, per l’importanza delle somme, Filippo Manfredi, Pasquale

Ammazzalorsa e figlio, il conte di Conversano, un Palmieri, un Indelli, un Taveri

- e tanti altri, popolani e non, per un totale di 81.750 ducati

- ai quali devono esserne aggiunti altri 8.316, controvalore dell’olio depositato a

Monopoli e a Marsiglia dove, forse, i Martinelli erano entrati in contatto con i Francois

(8).

- in più, tratto da un “Libro di speranza”, un lungo elenco di piccoli crediti decotti, cioè

non più esigibili, concessi a postulanti di Monopoli, Bari, Fasano, Polignano,

Giovinazzo ... per un totale di oltre 10.000 ducati.

Francesco Paolo sarebbe stato amministratore di questa quota indivisa ma in cambio

avrebbe versato subito al fratello 1.000 ducati e una rendita di 1.248 ducati con gli

interessi, fino a divisione definitiva, sui capitali dati in prestito a Mola.

Inoltre Francesco Paolo avrebbe avuto l’usufrutto di tutti i crediti e tutto il di più che gli

fosse venuto dall’amministrazione dei beni comuni; ma avrebbe anche dovuto prestare alla

madre “Donna Rosa Pizzingroia gli alimenti tutti a lei dovuti secondo la loro Nobile

Condizione, il decoroso mantenimento della famiglia... e il dispendioso mantenimento

dell’accidentato Vito Caputi loro scritturale, il livello alle due sorelle religiose, e tutt’altro,

che si è avuto in considerazione da esso Signore Don Vito Giuseppe” che invece chiese ed

ottenne altri 11.000 ducati ed “il Casino sito, e posto nel luogo detto la Cozzana con

tutti li membri, e nello stato in cui trovasi presentemente con vigne, e poche terre

seminative”.

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Per concludere riferiamo che da un atto di concordia fra i due Martinelli, steso nel 1802

dal notaio Nicola Sancito (9), apprendiamo che la masseria Losciale, venduta per 31.886

ducati tra il 1790 ed il 1802 da Raffaele Andriani e fratelli a Francesco Paolo Martinelli che

l’aveva ceduta il 6 settembre 1803 al fratello - Ib., fondo Atti notarili di Monopoli,

notaio Benedetto Moretti, anno 1803, voi. n. 1140, pag. 193. (10), era appartenuta al

notaio Giacinto Andriani che l’aveva acquistata nel 1757 dal magnifico Girolamo Sierra .

I Martinelli possedevano in Monopoli:

- il palazzo nell’attuale via O. Comes n. 26 ora sede della sezione del Conservatorio

Musicale e già appartenuto ai Lentini;

- il palazzo in largo Plebiscito n. 7 sotto il quale nel 1815, tra botteghe, magazzini e

stalle, si apriva una “bottega e bigliardo”;

- più lontano, nella strada detta “delle verdure”, era situata una bottega “per cafetteria”;

- una casa in Chiasso Purgatorio;

- ed ancora: locali, rimesse e botteghe, case, casette e magazzini, sottani, stalle,

casinetti...

Possedettero ancora i Martinelli masserie a:

Cervarolo (70 tomoli),

a Tortorella (oltre 25 tomoli),

a Carluccio (oltre 100 tomoli),

a Baione (oltre 70 tomoli);

e poi ancora la masseria Losciale (106 tomoli),

la Masseria di Montalbano (365 tomoli in tenimento di Ostuni),

la Masseria S. Procopio nei pressi della stazione di Egnazia,

la Masseria Lamantia (107 tomoli),

la Masseria Covello (66 tomoli),

la masseria Magnetta (49 tomoli),

la Masseria Spina

la villa Caccia reale...

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I FATTI DI FAMIGLIA

Come già detto in precedenza Vito Giuseppe ( 1758-1833) non ebbe figli e Francesco

Paolo (1755-1818), che ed è ricordato essere l'iniziatore della fortuna della famiglia,

ebbe dalla nobile monopolitana Eleonora Indelli due figli: Clemente Maria (1778-

1836) e Michele Antonio ( 1781-1853), i quali sarebbero stati gli eredi universali

dell’intera sua quota disponibile, come era consuetudine delle nobili famiglie dell’epoca,

conservandosi alla moglie, se ancora in vita alla morte del marito, il diritto di godere e

percepire la metà dell’usufrutto della sua disponibile, durante il letto vedovile.

Non c’è però traccia che le cose siano andate proprio così!

Dai racconti di casa il mio antenato Francesco Paolo era ricordato essere il padre di due

figli uno buono e l’altro cattivo ed è per questo che decise di mettersi in viaggio da

Monopoli per raggiungere Napoli dove avrebbe diseredato, lontano dalla sua terra, il “

cattivo “. Nel corso del viaggio però fu fatto ammazzare…………….

Per puro caso, mentre ricercavo su Internet altri fatti storici riguardanti la mia famiglia, è

apparsa sullo schermo del computer la tesi di Laurea in Storia dell’Arte di una studentessa,

tal Cinzia Maraschi, la cui relatrice era una tal prof. Mirella Casamassima, dell’Accademia

di Belle Arti di Bari – anno accademico 1991-92 - su “ i Martinelli e la Villa Meo Evoli

fra storia leggenda e realtà”, nella quale venivano narrati anche fatti della mia famiglia fra

cui che Francesco Paolo Martinelli morì nel 1818 sulla strada di Bovino nel corso di un

suo viaggio a Salerno.

L’emozione fu tale che decisi di provare a far luce su questa vicenda che si era venuta a

riproporre con avvincente casualità.

Decisi di partire proprio da Bovino e perciò stabilii un primo contatto con l’attuale Parroco

della Chiesa di Bovino, don Stefano Caprio, il quale, sorprentendemente mi fornì

preziose notizie sulla sepoltura del mio antenato.

Mi sono allora recato a Bovino e ho così potuto accertare che Francesco Paolo morì il 23

Aprile 1818, in località Pagliarone, sulla strada di Bovino, come è riportato nel “Liber

Mortorum Parochiae S.Petri ab anno domini 1800 usque ad annum 1835” , da me

consultato nell’archivio storico ……………………….. e anche fotografato la pagina dove

fu annotata la morte (fig.1)

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Fig.1

TRADUZIONE

Lo stesso giorno ( 23 Aprile 1818 ) in Caupona, detta comunemente Pagliarone, improvvisamente morì don Francesco Paolo Martinelli di anni settanta circa nobil uomo Monopolitano, e il suo corpo trasportandolo con grande accompagnamento fu sepolto nella Chiesa dei Morti

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Cioè si legge che il suo corpo fu sepolto nella Chiesa dei Morti, oggi Chiesa SS. Maria

delle Grazie della Confraternita della Buona Morte..

Nella chiesa ho però trovato solo una piccola lapide, epigrafata come Cenotafio, con busto

marmoreo sovrapposto ( fig.2).

Fig. 2

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TRADUZIONE

A FRANCESCO PAOLO MARTINELLI CAVALIERE GEROSOLIMITANO NATO A MONOPOLI DA NOBILE CASATA SALERNITANA A TUTTI GRADITISSIMO PER INTEGRITÀ, DOLCEZZA E RETTITUDINE DI COSTUMI. I PARENTI MESTISSIMI A CAUSA DEL LORO AMORE EBBERO CURA DI ERIGERE QUESTO CENOTAFIO VISSE 63 ANNI MORÌ IL 23 APRILE NELL’ANNO 1818

Il Cenotafio, parola italiana derivata dal greco e dal latino ( cenotaphium), è una parola che

viene usata per onorare personaggi di rilievo dei quali non era stato possibile conservare le

spoglie perché anche dispersi in luoghi non conosciuti.

Dunque in Chiesa non ho trovato nessun resto mortale, come confermatomi da Pasquale

Lombardi, priore della Confraternita della Buona Morte.

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Nel registro dei morti reperito nella Parrocchia dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di Monopoli

però si legge che ……il 26 Aprile del 1818, terzo giorno del suo viaggio da Monopoli a

Napoli, Francesco Paolo Martinelli, all’età di 63 anni, morì lungo la strada che porta a

Bovino, a causa di “ funesta e improvvisa malattia” ……….( fig.3).

Fig. 3

TRADUZIONE

Nell’anno del Signore 1818 il giorno 26 del mese di Aprile il signore Don Francesco

Paolo Martinelli, marito di Donna Eleonora Indelli e figlio di Don Clemente e Donna

Rosa Pizzangroia, appartenente alla Parrocchia dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, partito

da questa sua patria (Monopoli) per recarsi a Napoli, dopo tre giorni di viaggio, lungo

la strada che conduce a Bovino, all’età di 63 anni, rese l’anima a Dio a causa di una

funesta e improvvisa malattia.

I suoi servitori portarono il corpo a Bovino dove fu inumato nella Chiesa della

Confraternita del Suffragio

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Per togliere ogni ombra su come sia effettivamente morto Francesco Paolo occorre però

anche indagare sui lasciati ereditari del defunto, ossia che fine abbia fatto il suo ingente

patrimonio, in quanto era consuetudine dei nobili d’epoca, soprattutto se facoltosi, stendere

presso un notaio il proprio testamento prima di affrontare un lungo viaggio e soprattutto in

età avanzata (per l’epoca naturalmente).

Altro mistero poi è il perché la salma di Francesco Paolo non fu fatta trasportare a

Monopoli per essere inumata nella tomba di famiglia, ossia nella cappella dei Martinelli,

all’interno della Cattedrale della SS. Madonna della Madia, dove si trova invece la

sepoltura di suo figlio Clemente assieme a Nicola Antonacci suo ”amico fraterno”, padre di

Francesca moglie del suo primogenito Francesco Paolo che portava il nome del proprio

nonno.

Si ricorda che la cappella, non adornata di marmi e stucchi, fu concessa a Vito Giuseppe

Martinelli (Mola 1692 - Monopoli 1776), che risultava essere uno dei maggiori benefattori

della chiesa avendo dato, in tutti i tempi della fabbrica di essa, diverse migliaia di ducati.

Vito Giuseppe nella sua richiesta si impegnava a fare, a tutte sue spese, l’adornamento

della Cappella con lo stucco e l’Altare in marmo, per farvi la sepoltura per sè e la sua

famiglia.

Quanto poi a Clemente, figlio maggiore di Francesco Paolo, il cosiddetto “ cattivo” nei

racconti di mia nonna, è storicamente provato che è stato Sindaco di Monopoli per Real

Decreto dal 24 gennaio 1817 per poi essere proscritto per Real Decreto del 29 gennaio

1818, ossia dopo un anno.

Ecco quindi che la storia si colora di nuovo di “fatti oscuri” che vanno pazientemente

scovati per amore di verità!!

E poi ancora che fine ha fatto il patrimonio della nobile e ricca Eleonora Indelli, moglie di

Francesco Paolo, morta il 14/04/1847, all’età di 88 anni.

Per arricchire il quadro delle conoscenze sui fatti di famiglia ho anche provato a cercare di

raccogliere notizie storiche su dove abitavano e come vivevano i Martinelli all’epoca del

decesso di Francesco Paolo.

Ancora una volta sono stato fortunato perché sono riuscito a mettermi in contatto con la

società che gestisce gli archivi storici del Comune di Monopoli e da questa fonte sono

venute fuori altre interessanti notizie, ossia che:

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• Francesco Paolo e Eleonora Indelli, figlia di Guido Francesco Michele, detto

Michele, avevano anche una figlia, di nome Rosa, nata nel 1778 la quale aveva sposato

Giovanni Carbonelli, appartenente ad una famiglia

monopolitana…………………………………….;

• il Verbale del possesso del Sindaco per Clemente Martinelli fu stilato e firmato nel 26

Gennaio 1817 (doc…..) da sua sorella Rosa Martinelli;

• Clemente Martinelli, Sindaco di Monopoli, in esecuzione di “venerato foglio del Signor

Intendente della Provincia” viene sostituito nella carica di Sindaco da Giovanni

Carbonelli, marito della sorella Rosa, con verbale del possesso datato 26 giugno 1818,

ossia dopo poco più di un anno dal suo insediamento, sottoscritto sia da Clemente

Martinelli che da Giovanni Carbonelli;

e, relativamente al domicilio, dalla consultazione degli atti di Morte dei Martinelli e delle loro

consorti, di cui è stata fatta anche copia, , ho potuto apprendere che:

• Vito Giuseppe ( 1758-1833) abitava in “ strada il Castello”;

• Eleonora Indelli (1759-1847), moglie di Francesco Paolo (1755-1818) ha abitato

prima in “strada Borgo la Piazza” e poi in “strada Galderisi”;

• Clemente (1778-1836) abitava in “strada il Castello” e poi, in data 23 marzo 1932, ha

trasferito il suo domicilio a Mola, come da atto reperito presso i citati uffici – (doc… );

• Michele Martinelli (1781 - Napoli 1853), ha abitato in “strada Galderisi” fino al suo

trasferimento a Napoli, avvenuto dopo il 1832, ma in data da accertare ancora;

• Francesco Paolo ( 1803-1875), figlio di Clemente, abitava in “ Via Castello N.13”;

• Giuseppe ( 1805-1836), figlio di Clemente, abitava in “ Strada il Castello”;

• Eleonora ( 1808-1833), figlia di Clemente, abitava in “ Strada il Castello e fu data in

sposa a Federico Indelli;

• Domenico Antonio ( 1816-1893), figlio di Clemente, abitava in “ via Magno 22”;

e poi ancora che:

• Clemente Martinelli (1829-1809), figlio di Francesco Paolo (1803-1875), con sua

moglie Laura Correale, ha abitato prima in “strada Martinelli” e poi in “Via Castello n.

24”, e oltre ad avere due figlie, Maria e Chiara sposate poi ai fratelli Meo Evoli, aveva

avuto anche un figlio maschio, Francesco Paolo, morto però ad un anno, e che Laura,

sua moglie, è morta a Monopoli il 25 Maggio 1896, mentre lui non risulterebbe morto a

Monopoli;

• Maria, che sposa Giuseppe Meo Evoli il 1884, non risulterebbe morta a Monopoli .

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.

(3) Archivio di Stato di Bari, fondo Atti notarili di Monopoli, notaio Pietro Antonio Mileti,

scheda n. 45, anno 1790, voi. n. 1.033, pag. 215r e segg.

(4) Portaretese era uno dei tre Seggi della nobiltà di Salerno. B. Candida Gonzaga, op. cit.,

voi. V, pag. 87(2). li dr. G. Ruggiero, direttore dell’Archivio di Stato di Salerno, assicura

che il Seggio si chiamava Portarotese.

(5) Cfr. M. Pirrelli, op. cit., pag. 26 e nota n. 7 della trattazione dei Peroscia in questo

lavoro.

(6) La masseria, composta da più corpi olivati tra i quali il Votano, Cipollazzo e Garzaneto

che Vito Giuseppe aveva esclusi da ogni donazione, si trova in contrada Chiesa del morti.

(7) Per la storia del fabbricato, cfr. la trattazione delle famiglie Splues e de Magistris in

questo lavoro.

(8) Non è improbabile che i Martinelli, a Marsiglia, abbiano avuto una qualche occasione,

forse commerciale, di entrare in relazione con i Franois di quella città da dove, sul finire

del XIX secolo, si trasferì in Puglia Paul Franois, uomo ricco e geniale, che dopo aver

sposato in Bari Maria Angela Vacca, si spostò a Monopoli per impiantarvi uno stabilimento

oleario. Qui i Franois, che nel frattempo si erano imparentati con i Carbonelli ed i

Mengano, si imposero per censo e gusto del vivere. Proprietà dei Franois furono: il palazzo

di piazza Milite Ignoto n. 2, oggi Sbiroli, venduto a Paul Franois da Francesca Losavio fu

Sebastiano nel 1895; il palazzo, non più esistente, di piazza Vittorio Emanuele, via Ten.

Vacca e via Bandiera, venduto al marsigliese nel 1895 da Angela Losavio fu Felice; una

casa in via Manin; le due belle ville oggi Carenza e Profilo sulla strada Monopoli-Cozzana;

un fabbricato rurale, attualmente proprietà Manghisi, sulla stessa strada. Cfr., per altre

notizie, la partita n. 2.447 del Catasto fabbricati intestata a Paul Franois di Giovanni Pietro.

Monopoli, Archivio storico comunale.

Sui Mengano aggiungiamo che è probabile che essi provengano da Venezia (Cfr. Giuseppe

Galluppi, L’armerista italiano, tipografia Wilmant, Milano, 1872, pag. 225, che ne descrive

lo stemma).

(9) Archivio di di Stato di Bari, fondo Atti notarili di Monopoli, notaio Nicola Sanvito,

anno 1802, voI. n. 1238, pag. 47v. Il notaio ha lasciato ventuno protocolli dal 1786 al 1810.

(10) Ib., fondo Atti notarili di Monopoli, notaio Benedetto Moretti, anno 1803, voi. n.

1140, pag. 193.

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(11) Di Giacinto Andriani, notaio e mercante originario di Casteilana, nell’Archivio di

Stato barese si conservano cinquantuno protocolli dal 1731 al 1752. Viveva, con la moglie

Benedetta Valentini e gli undici figli, in casa d’affitto in parrocchia Amalfitana; uomo cui

non mancavano spirito d’intraprendenza e bernoccolo degli affari, commerciava in olio con

ricco profitto ed intanto comprava terre e masserie:

una buona parte di un giardinetto d’agrumi vicino ai Cappuccini; un uliveto nella masseria

Comarelle “nel luogo detto Canne”; una masseria di centocinquanta torno- li “nel luogo

detto Stasi”; un uliveto di sei opere a Calvo; un piccolo appezzamento “nel luogo detto

Sciale” dove, più importante di tutti, fu l’acquisto, registrato sul Catasto Onciario del 1754

alla partita a lui intestata, di una “masseria consistente in più corpi di terre serrate, ed olive,

tappeto ... giardinello, pozzi d’acqua” vendutagli dal magnifico Girolamo Sierra.

(12) Il riscontro preciso dell’acquisto fatto dall’Andriani si trova nel Catasto Onciario del

1754, alla partita intestata al gentiluomo napoletano Girolamo Niccolò Sierra, di Pietro.

Viveva “del suo”, con la giovane moglie, due figlie ed una sorella in parrocchia di

SanAngelo “nella strada detta di S(anta) Caterina, giusta la casa de Signori D(on)

Dom(enic)o e D(on) Felice Guida, quella del m(agnifi)co Domenico La Ghezza, ed il forno

dei Ven(erabil)e Conven(to) di S(an) Francesco de Assisi (cioè l’antico forno di Santa

Caterina, n.d.a.) ed altri confini”. Sotto la casa, Girolamo aveva le immancabili piscine per

olio ed una cantina affittate, le prime a Giacinto Andriani, e la seconda al dottor fisico

Martino Pinto da Castellana.

Inoltre, “nella contrada dello Sciale” possedeva un tappeto ed una masseria di venti opere

di uliveto con “torre, tappeto, foggia d’acqua, Giardinelli, orticello per uso proprio.

Quattro Parcori serninatoriali arbustati d’olive, con una Larnistella, e stalle, iazzile, mettà

di Pozzo, una cortaglia con un albero d’olive dentro, e due grotte ...“ confinante con i beni

dotali delle sorelle Beatrice e Rosa Persio e con le proprietà del magnifico Domenico La

Ghezza e dell’ospedale.

Anche un altro appezzamento diventi opere con un giardinello di fichi, grotte e pozzi,

sempre a Losciale, apparteneva a Girolamo che aveva ereditato la masseria della madre

donna Laura Maria La Ghezza che, a sua volta, l’aveva ricevuta in dote dalla di lei madre

donna Vittoria Silvestri vedova di Lucantonio La Ghezza. Buona parte del terreno

circostante era stato comprato da Pietro e da Girolamo il quale, oppresso dai debiti, il 26

novembre del 1757 la vendette all’Andriani per quattromila ducati. Archivio di Stato di

Bari, fondo Atti notarili di Monopoli, notaio Girolamo Simonelli, scheda n. 24, anno 1757,

voI. n. 579, pag. 243 e segg.

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Per ricapitolare, la masseria Losciale ha avuto i seguenti padroni che man mano l’hanno

ampliata: Vittoria Silvestri, Laura Maria La Ghezza, Girolamo Sierra, Giacinto Adriani,

Francesco Paolo e poi Vito Giuseppe Martinelli, Meo Evoli.

ALTRI FATTI STORICI

L’adunanza del Capitolo Cattedrale del 7 dicembre 1768 esaminò, tra gli altri punti, anche

quello relativo ad un memoriale presentato da Vito Giuseppe Martinelli (Mola 1692 -

Monopoli 1776) in quello stesso giorno. Egli, nell’antefatto, esordisce scrivendo “come ha

presentito con certezza, che da alcuni devoti di Maria SS.ma della Madia si voglia fare la

spesa per la Coronazione della miracolosissima Immagine della medesima; e rendere la di

Lei Cappella eretta in questa Cattedrale, Santuario”. Per fare più bella la chiesa, Vito

Giuseppe chiede per sé e per la sua famiglia una delle cappelle ancora non adornate di

marmi e stucchi per innalzare sull’altare il Crocifisso detto della Provvidenza che allora si

trovava nella cappella dei Palmieri.

Martinelli, nella sua richiesta, si impegna a “fare detto Altare a tutte sue spese di Marmo

ed adornare altresì detta Cappella collo stucco, farvi la sepoltura per se, e sua famiglia,

mundo durante” ed esprime il desiderio che la cappella sia dirimpetto al pulpito. Se questo

dovesse restare, continua Vito Giuseppe, “ove sta di presente situato in Cornu Epistolae, in

tal caso vorrebbe conceduta la Cappella che immediatamente attacca alla Cappella delli

Signori Palmieri; ma se poi detto Pulpito si avesse a situare in Cornu Evangeli, vorrebbe

quella, ove presentemente stanno riposte le travi miracolose della Vergine SS.ma”. Ma

perché tante precisazioni? È lo stesso Vito Giuseppe a chiarire: “e ciò non ad altro fine, se

non per potere in essa cappella situare in tempo di quadragesima, e d’Avvento, e così in

tempo di missioni, due sedie, come godesi tal prerogativa dagli eredi del q(uonda)m

Borrassa”.

Il riferimento è a Francesco Paolo Palmieri che aveva tale privilegio.

Il Capitolo, a maggioranza, ma con otto voti contrari, si espresse a favore del Martinelli e

l’abate de Nigris, uno dei canonici vecchi, trovò il modo di lodare don Vito Giuseppe la cui

offerta di trecento ducati doveva essere accolta “ad occhi chiusi trattandosi di compiacere

uno dei Maggiori Benefattori di questa chiesa, che in tutti i tempi della fabbrica di essa, ed

ornamenti, ha dato delle

migliaia (di ducati, n.d.a.), come tutto ciò apparisce dalle carte lasciate dal fu Custode della

Madonna Canonico Termine, che si ricevé dal detto Martinelli mille ducati d’aiuto ... oltre

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di altre grosse spese, e partite annuali in dette Carte notate; come ancora altre centinaia

erogate ultimamente nello stuccare l’intiera Cupola e Travi di palmi 36 fatti venir apposta

da Trieste a spese di esso Sig. Martinelli, serviti per l’ante della Navata maggiore, e

consumati quasi tutti nel coprimento di essa”. Meglio farebbe il Capitolo, continuò il

canonico, a concedere la cappella gratuitamente perché ciò sarebbe di stimolo per altri

ricchi ad “allargar la mano alla povera Chiesa esausta” e farebbe “veder al mondo che la

chiesa monopolitana non fu sua Madrigna, ma gratissima ed amorosissima Madre a suoi

devoti Figli, e Benefattori”.

Non abbiamo trovato traccia della elargizione da parte di Vito Giuseppe; possiamo invece

affermare, traendo notizia da un “Introito delle offerte fatte da Devoti”(13) per la festa

dell’incoronazione della Madonna dell’S luglio 1770, che Clemente Martinelli, nipote di

Vito Giuseppe, offrì mille ducati per i festeggiamenti.

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PANORAMA STORICO

PRESENZE TURCHE NEL TERRITORIO DI PUGLIA E L'ORDINE DEI CAVALIERI DI MALTA A partire dal '500 fino ai primi anni del 1800, la Puglia dovette pagare costantemente un grave prezzo per la difesa del litorale dagli attacchi dei turchi e dalle scorrerie dei barbareschi (si intendevano così tutti i pirati africani provenienti dalla Barberia, ossia dalla costa settentrionale dell'Africa e precisamente dalla terra delle tre reggenze, Algeri-Tripoli e Tunisi). Per questo in nessuna ricca città costiera poteva mancare una buona cinta muraria integrata in un sistema di avvistamento. Occorreva essere in grado di respingere il primo attacco, che solitamente avveniva di sorpresa, e resistere anche per diversi giorni fino all'arrivo dei soccorsi, non sempre solleciti. Il pericolo era sempre incombente; i più esposti erano i pescatori, che venivano sorpresi in mare e i contadini che lavoravano le terre prossime alla riva. Gli ultimi schiavi fatti in Monopoli furono quattro persone rapite il 26 luglio 1804. [AV2] Monopoli per la sua importanza strategica ed economica e per ricchezza di territorio, rappresentava una preda appetibile per l'Impero Ottomano. Per queste ragioni l'Università (comune) di Monopoli potenziò il proprio sistema difensivo creando una cinta muraria simile ad una vera e propria fortezza e dislocando sulla costa una serie di torri di avvistamento per far fronte agli attacchi provenienti dal mare. Per proteggere i beni e le vite dei cittadini a prezzo di grossi sacrifici finanziari anche le esigenze di spazio, evidentissime nei periodi di espansione demografica, venivano sacrificate rispetto alle prioritarie necessità di ordine difensivo, determinando così nel XVII e XVIII secolo condizioni igieniche drammatiche [DV]. Una testimonianza di ciò la fornisce nel 1767 Jhoann Hermann Von Riedesel, viaggiatore tedesco corrispondente del Winckelman, il quale attirato dalla bellezza della città e dal suo pittoresco porto, si inoltrò tra i vicoli della congestionata Monopoli, ma l'esperienza non positiva lo portò a definire la città nel suo libro "nella Puglia del settecento", come spaventevole per il gran numero di gente che la popolava, quasi diecimila anime [Ri]. Tra i sistemi difensivi costruiti sulla costa rientrava anche il castello di Santo Stefano. Fondato nel 1086 da Goffredo il Normanno, Conte di Conversano e figlio di Tancredi di Altavilla, la rocca sorse al tempo delle crociate su di una penisoletta protendentesi tra due insenature che formano due piccoli porti naturali. Fu sede del Monastero dei Benedettini Cistercensi di S. Stefano, i quali diedero il nome alla rocca e ciò per la presenza delle reliquie del santo, poi traslate il 26 dicembre del 1365-68 da Monopoli a Putignano proprio per difenderle da una eventuale aggressione dei turchi. Intorno alla fine del 1200 l'Ordine cavalleresco dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme detto anche di Malta, poiché già possedeva una casa-ospedale nella città di Monopoli, decise di trasferirsi nel castello di S. Stefano per poter svolgere agevolmente i suoi traffici in Terra Santa. In seguito alla loro presenza il patrimonio dell'abbazia benedettina si ampliò in relazione all'acquisto di tenimenti lontani, e la vita del monastero subì radicali trasformazioni divenendo albergo e ospedale: qui vi alloggiarono i pellegrini e i Crociati in attesa di salpare per la Terra Santa, inoltre fungeva da cantiere dove i condottieri riparavano le navi e riempivano i magazzini di viveri, nonché da ospedale per medicare i feriti provenienti da Gerusalemme. Santo Stefano fu nel XVIII sec. la più alta dignità dell'Ordine in Italia ed ebbe il privilegio di dare investitura ai più famosi cavalieri del tempo, la

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cui cerimonia si svolgeva appunto nel monastero. [Li] L'Ordine dei Cavalieri di Malta rappresentò la più importante delle istituzioni sovranazionali di cui fosse dotata l'aristocrazia europea; ne facevano parte cavalieri provenienti da Castiglia, Aragona, Italia, Francia, Alvernia, Provenza e Alemagna. Venivano accolti nelle sue fila solo quei "nobili" che volevano combattere in difesa della fede e portare assistenza agli infermi e ai poveri, ma non prima di aver preso parte ad un certo numero di "caravane" o spedizioni navali contro il Turco, ed essere permasti a Malta per almeno 5 anni. Ma al di là di questi compiti, entrare a far parte dell'"Ordine dei Cavalieri di Malta" rappresentava un vero e proprio blasone per quei nobili che, non solo possedevano feudi e ricchezze (tra l'altro richieste dall'Ordine) o esercitavano magistrature civiche, ma che soprattutto confermavano così documentalmente le loro qualità nobiliari. Infatti, solo coloro i cui genitori e antenati erano stati ascritti alla nobiltà da almeno 200 anni, dimostrabile con l'esibizione di prove come l'atto di battesimo, certificati di matrimonio dei genitori e degli ascendenti, potevano entrare a farvi parte. [AV5] Queste rigide motivazioni previste dallo Statuto per "vestire l'abito di Malta" furono introdotte a causa del fenomeno che si verificò già tra la fine del'500 e inizio del '600: molti esponenti delle classi mercantili e manifatturiere, investendo le proprie sostanze nell'acquisto di feudi, speravano così di poter entrare nei ranghi della nobiltà titolata acquistandone il titolo. Ma questa loro integrazione nel mondo nobiliare doveva necessariamente essere avallata da simboli esteriori come la "croce gerosolimitana" che confermava a pieno titolo la loro "origine nobiliare" e questo status privilegiato consentiva la partecipazione alle attività legislative, politiche e amministrative della città. Pertanto per frenare le ambizioni di gente non nobile che attraverso la manipolazione di documenti, provvedeva a falsificare prove della inesistente nobiltà, fu istituito un Tribunale che ne verificava le effettive origini nobiliari. [Mu]

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NOTIZIE STORICO-GENEALOGICHE DELLA FAMIGLIA MARTINELLI