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Hannah Arendt L’umanità in tempi bui – Riflessioni su Lessing Pagina 1 Hannah Arendt L'umanità in tempi bui Riflessioni su Lessing

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Riflessioni su Lessing

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Hannah Arendt – L’umanità  in  tempi  bui  – Riflessioni su Lessing

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Hannah Arendt

L'umanità in tempi bui

Riflessioni su Lessing

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Edizione italiana a cura di Laura Boella Raffaello Cortina Editore www. raffaellocortina. it Titolo originale On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing (c) 1968 Harcourt Brace, New York Traduzione di Laura Boella ISBN 88-6030-034-7 (c) 2006 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2006

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Indice

Introduzione (Laura Boella)

L'umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing

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Introduzione

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Una politica dell'amicizia

O Germania - Udendo i discorsi che echeggiano nelle tue case si ride.

Ma chiunque ti vede pone mano al coltello. BERTOLT BRECHT

La fortuna di una pensatrice fuori dell'ordine

Il testo di Hannah Arendt L'umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing11 fu pronunciato il 28 settembre 1959 come discorso in occasione del conferimento del premio Lessing, prestigiosa istituzione della Libera Città Anseatica di Amburgo. Si trattò del primo riconoscimento pubblico ufficiale dell'autrice di Le origini del totalitarismo (1951)22 e 1 Il saggio fu pubblicato originariamente con il titolo Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Rede ùber Lessing, Hauswedell, Hamburg 1960; Piper, Mùnchen 1960. L'edizione amburghese contiene anche la laudatio del Senatore dr. H. H. Biermann- Ratjen, pp. 5-14, e il testo dell'atto di conferimento del premio, p. 15. Un estratto della seconda parte del discorso di Hannah Arendt fu pubblicato, con il titolo, "Menschlichkeit in finsteren Zeiten", in Neue deutsche Hefie, 6, 66, 1960, pp. 930-934. Il saggio fu tradotto in inglese da Clara e Richard Wiston con la supervisione di Hannah Arendt e divenne, con il titolo On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing, l'introduzione alla raccolta Men in Dark Times, Harcourt, Brace & World, New York 1968, pp. 3-31. La traduzione italiana parziale di questa raccolta, a cura di Lea Ritter Santini (Il futuro alle spalle, il Mulino, Bologna 1981) non comprende il saggio introduttivo. Le varianti rispetto al testo tedesco sono di poco conto (piccole aggiunte o cambiamenti di formulazione). La traduzione è condotta sul testo inglese confrontato con quello tedesco. Per quanto riguarda le numerose citazioni tratte dai testi di Lessing, è nota la libertà con cui Hannah Arendt componeva, nei suoi scritti, veri e propri montaggi di brani senza preoccuparsi dell'esattezza del riferimento testuale. Ne risulta un nesso molto stretto tra citazioni e svolgimento del pensiero arendtiano, che ho scelto di mantenere in questa versione italiana in attesa di future edizioni critiche. 2 Vedi H. Arendt, Le origini del totalitarismo, a cura di A. Martinelli, tr. it. Einaudi, Torino 2004.

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di Vita activa (1958).33 Hannah Arendt aveva lasciato la Germania nel 1933: dopo otto anni passati a Parigi, nel 1941 era riuscita a raggiungere con non poche peripezie gli Stati Uniti. Negli anni Cinquanta era tornata varie volte in Germania, dove aveva ripreso i contatti con Heidegger e con Jaspers, le figure decisive per la sua vocazione filosofica. Il viaggio che la riportò in Europa il 16 settembre 1959 e che iniziò, come sempre, con un breve soggiorno a Parigi, fu la tournée di un'intellettuale i cui libri avevano già provocato molte discussioni oltreoceano e che ora veniva richiesta e acclamata nelle principali città tedesche. Inizia così la vicenda della fama di Hannah Arendt. La sua celebrità non ha smesso di crescere, negli Stati Uniti e in Europa, fino a oggi, anno del centenario della nascita, ma non costituisce affatto un fenomeno trasparente da tutti i lati. Certo, la caduta del muro di Berlino e il corrispondente esaurirsi delle grandi ideologie hanno reso tanto più attuale un pensiero che si è sempre proclamato né di destra né di sinistra, un pensiero autonomo da riferimenti di fede, di gruppo, di partito. Ma anche tenendo conto dell'effetto valanga delle mode culturali e filosofiche, viene da chiedersi come sia possibile che un modello di stile intellettuale e critico quale quello rappresentato dal pensiero di Hannah Arendt possa corrispondere allo spirito di un'epoca come la nostra.

3 Vedi H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, a cura di A. Dal Lago, tr. it. Bompiani, Milano 1999.

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In effetti, la storia della sua "fortuna", se così si può chiamare, non ha nulla di lineare. Hannah Arendt non fu una pensatrice accademica, ma nemmeno una scrittrice dotata del talento della formula sapiente o dell'espressione "semplice". Molti dei suoi saggi sono ispirati, ma da una volontà di parlare e di scrivere che provoca ingorghi di materiali e fughe repentine di idee. Eccellente e classica è la sua cultura, raffinato il suo gusto per le distinzioni (del privato dal pubblico, dell'economia e della morale dalla politica, del pensare dall'agire), in netta controtendenza rispetto alle generalizzazioni di una cultura che ha rimesso in discussione, spesso anche giustamente, i confini tra esperienza personale e politica, tra filosofia e pratiche di vita. Del tutto non contemporanea, infine (già negli anni Sessanta e Settanta), la sua idiosincrasia per la psicologia, la psicoanalisi, la sociologia e le teorie economiche, ossia l'insieme delle scienze umane allora e oggi trionfanti. In fondo, la sua eredità incompiuta (morì improvvisamente mentre stava iniziando la parte conclusiva della sua opera La vita della mente")4 è molto difficile da gestire: le tesi che la rendono oggi una pensatrice molto citata - sul totalitarismo, l'agire politico, la banalità del male, il giudizio - chiamano in causa la filosofia nel senso classico del termine (da Agostino e Duns Scoto a Kant, Heidegger e Merleau- Ponty), ma sono anche soggette alla revisione e all'aggiornamento propri di

4 Vedi H. Arendt, ha vita della mente, a cura di A. Dal Lago, tr. it. il Mulino, Bologna 1987.

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discipline in continua e rapida evoluzione come la storiografia e la teoria politica.

La notorietà di Hannah Arendt non è paragonabile a quella di altri intellettuali ebrei tedeschi, emigrati negli Stati Uniti, che, come Herbert Marcuse o Eric Fromm, divennero popolari tra i giovani dei campus in rivolta, e nemmeno al successo di Ernst Bloch o di Adorno che, tornati in Germania dopo la guerra, divennero negli anni Sessanta i simboli di un marxismo critico e utopico. Fu essenzialmente radicata in cerchie intellettuali liberal-radicali di tradizione anglosassone, che esercitarono una critica attiva attraverso prestigiose riviste, case editrici e università nel corso delle vicende della politica americana, dal maccartismo alla guerra del Vietnam al Watergate, ma non aderirono mai né alla politica dei movimenti né a quella dei partiti.

Nel momento però in cui Marcuse, Fromm, Lukàcs, Bloch, Horkheimer, Adorno sembrano quasi dimenticati, Hannah Arendt, per quanto ben poco allineata sull'asse della nostra epoca, tiene ancora la scena. Privilegio, questo, condiviso, in modo abbastanza singolare, con l'amico Walter Benjamin, molto più di lei tormentato dalle ansie escatologiche e rivoluzionarie del Novecento.

Ne dovremmo concludere che, una volta esauriti i sommovimenti culturali e sociali della seconda metà del Novecento, sulla scena ormai placata della filosofia sono rimaste le grandi scuole, in particolare quella fenomenologico- esistenziale a cui di diritto appartiene Hannah Arendt in quanto allieva di Heidegger e di Jaspers?

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Potremmo aggiungere solo che la sua fortuna si deve all'originale impasto della sua opera, al riuscito intreccio di presenza intellettuale e politica e di pensiero teoreticamente forte e originale che ne rappresenta la cifra inconfondibile.

Celebrità, notorietà, fama - a prescindere dall'ampiezza degli ambiti di riferimento - hanno sempre a che vedere con lo spirito o, se si preferisce, con l'atmosfera del tempo. Per quanto riguarda Hannah Arendt, il problema non è certo quello del "successo di pubblico" (copie vendute, traduzioni, tesi di laurea e di dottorato, studi critici, biografie e gossip sulla sua, quella sì, celebre relazione con Heidegger5). E" piuttosto significativo che, ben consapevole che "Fama, la dea tanto desiderata, ha molti volti, e [...] si presenta nelle forme e misure più diverse", Hannah Arendt la considerò essenzialmente un fenomeno sociale attraverso il quale le persone vengono classificate in relazione a "che cosa" sono e non a "chi" sono, al loro ruolo e funzione attestati dall'opinione dei più e non alla loro unicità.6 La

5 È impossibile richiamare qui l'imponente bibliografia critica recente sul pensiero arendtiano. Basti ricordare la nuova biografia di L. Adler, Dans les pas de Hannah Arendt, Gallimard, Paris 2005 e il ritratto che apre la trilogia Le genie feminin, a lei dedicato da J. Kristeva, Hannah Arendt, ou l'action comme naissance et comme étrangeté, Fayard, Paris 1999 (tr. it. Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma 2005). Sull'eredità, per molti aspetti incompiuta, di Hannah Arendt vedi L. Boella, "Che cosa resta? Resta Hannah Arendt", in Hannah Arendt. Percorsi di ricerca fra passato e futuro 1975-2005, a cura di M. Durst e A. Meccariello, La Giuntina, Firenze 2006.

6 H. Arendt, "Walter Benjamin 1892-1940", tr. it. in Il futuro alle spalle, cit., p. 105-107. La distinzione tra chi e che cosa è fondamentale per la teoria dell'azione politica. Vedi H. Arendt, Vita activa, cit., pp. 127-132.

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pensatrice che si considerò sempre fuori dell'ordine e fu fortemente attratta dagli inclassificabili come Kafka e Benjamin, imprevedibilmente si interrogò in molti modi sulla fama considerata come misura del rapporto con un dato contesto sociale e culturale. Che si sia trattato di un "realismo" dalle molteplici sfumature, lo prova il fatto che, tra gli intellettuali, scrittori e pensatori di una generazione di ebrei cacciati dalla Germania, costretti a imparare una nuova lingua e a rifarsi una vita in esilio, Hannah Arendt appare un esempio particolarmente riuscito di capacità di ricominciare da capo, di tenace volontà di uscire dall'incubo e dallo smarrimento per prendere la parola anche in un mondo uscito dai cardini. Assuefatti come siamo alle piroette, a volte inspiegabili, del favore che un pensatore o uno scrittore può trovare presso il pubblico, non ci rendiamo probabilmente conto dell'impronta eccezionalmente "costruttiva" dell'opera arendtiana. I suoi libri sono parti di un unico tentativo di comprensione della catastrofe storico- politica del Novecento, che era stata anche per molti aspetti la tragedia della sua vita.

Appare pertanto immediatamente chiaro che per Hannah Arendt la notorietà fu innanzitutto la fortuna di poter scrivere, pubblicare, insegnare e tenere conferenze retribuite prima nel paese del suo esilio, gli Stati Uniti, e poi in Europa. Tale "fortuna" fu tenacemente voluta e di conseguenza propiziata da molte "virtù", prima fra tutte l'aver appreso velocemente la lingua inglese, quindi da una straordinaria produttività e vitalità. La visibilità pubblica, la

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possibilità di esprimersi e di essere ascoltati non è tuttavia mai un dato scontato quando si tratta di un "emigrato", di un esule. In anni di laceranti scontri culturali e politici (dalla fondazione dello Stato di Israele ai processi contro i criminali nazisti all'elaborazione del passato da parte dei tedeschi fino alle rivolte giovanili negli Stati Uniti e in Europa), Hannah Arendt affermò la propria presenza pubblica in ripetuto dissidio con organizzazioni (per esempio quelle sioniste) o gruppi. Parlò sempre da una posizione molto personale, quella né di un animale politico né di un'intellettuale engagée, bensì della pensatrice che voleva "comprendere". La capacità di trasmetterci un pensiero forte e originale sintonizzato sulla "presenza al proprio tempo"7 non fu solo il frutto della maledizione, come lei la chiamava, di vivere in "tempi interessanti", bensì della convinzione che, dopo tante tempeste, sconvolgimenti e sradicamenti, fosse decisivo mantenere un rapporto con la realtà.

La posizione del tutto originale di Hannah Arendt fu in sostanza che occorre accettare la propria posizione "senza balaustra" e insieme rimanere debitori nei confronti del mondo, attaccati meticolosamente alle cose, positive e negative, che la realtà ci offre.

La questione è sapere quale misura di realtà occorre mantenere anche in un mondo diventato disumano, se non

7 Uso volutamente l'espressione di J. Hersch, "Auto- critique", in Philosophes critiques d'eux mèmes, a cura di A. Mercier e M. Svilar, Peter Lang, Bern- Frankfurt a. M.-Las Vegas 1981, vol. 7 (pp. 41-51), p. 51. Vedi anche, della stessa autrice, Rischiarare l'oscuro. Autoritratto a viva voce, a cura di L. Boella e F. De Vecchi, tr. it. Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006.

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si vuole ridurre l'umanità a vuota parola o fantasma. In altri termini, fino a che punto rimaniamo obbligati al mondo quando ne siamo stati espulsi o ci siamo ritirati da esso?8

Questa frase annuncia uno dei percorsi più profondi e complessi del pensiero di Hannah Arendt, forse quello che riassume meglio il suo confronto con la condizione umana e con l'inumano che costantemente la minaccia. Tale percorso comincia a dispiegarsi nel momento in cui cercò di venire a capo delle ragioni per cui proprio a lei fosse toccato il prestigioso premio Lessing. E dato che quello non fu che l'inizio della storia, è meglio ricordare subito che, per quanto molto più battagliera, anche Hannah Arendt, come il suo amico Benjamin, veniva regolarmente presa di mira dall'omino gobbo, ossia dalla malasorte che si diverte a scombinare i piani e a mandare all'aria ogni cosa. La celebrità, in cui le sembrò quasi di cullarsi all'inizio degli anni Sessanta e che la indusse a profonde riflessioni, doveva conoscere presto una brusca interruzione: nel 1963 scoppiò il caso Eichmann e tutti sanno il furore degli attacchi che la colpirono, ai quali essa caparbiamente non rispose.

8 Infra, pp. 79-80.

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Vivere umanamente tra le rovine della storia

Il testo del discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Lessing è uno degli esempi più riusciti della capacità arendtiana di tradurre in pensiero e in scrittura il proprio vissuto.9 Come appare chiaro fin dalle prime battute, il premio pone il problema della fama, del riconoscimento e viene accettato con gratitudine, ma innesca un vortice di rovesciamenti. Nella Germania appena uscita dalla catastrofe bellica, e direttamente per quanto riguarda la situazione personale di Hannah Arendt, è tutta una serie di contrasti a essere messa in gioco: l'oscurità (di chi è emarginato, perseguitato, escluso) e la visibilità pubblica, l'eclissi, la barbarie della civiltà occidentale e la luce dei suoi acclamati valori: ragione, verità, umanità.

Il discorso dedicato a Lessing diventerà il saggio introduttivo alla raccolta Men in Dark Times (1968), in cui Hannah Arendt comporrà il suo personale "libro degli amici",10 comprendente saggi dedicati a scrittori, poeti, filosofi (Franz Kafka, Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Hermann Broch, Isak Dinesen, Randall Jarrell, Martin Heidegger, Karl Jaspers), a uomini e donne d'azione e di pensiero (Waldemar Gurian, Rosa Luxemburg e Papa Giovanni xxiii). Il tema di fondo è quello del rapporto con l'epoca di persone dotate di grande talento. Alcuni furono

9 Il Denktagebuch recentemente pubblicato documenta il sorgere di tale capacità da un complesso processo soggettivo che cerca l'espressione linguistica. Vedi H. Arendt, Denktagebuch 1950-1973, a cura di U. Ludz e I. Nordmann, Piper, Munchen- Zùrich 2002. 10 Vedi H. von Hoffmanstahl, Il libro degli amici, tr. it. Adelphi, Milano 1980

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baciati dalla fortuna in vita, altri si smarrirono irrimediabilmente o vennero distrutti dalle tempeste del loro tempo. Si tratta di figure che non hanno incarnato alcun tipo di Zeitgeist, ma che hanno gettato, con la loro vita e le loro opere, "una luce incerta, vacillante e spesso debole" sul tempo che fu loro concesso di vivere sulla terra.11 I Lumi dell'Illuminismo si sono dunque rovesciati nei tempi bui di Brecht,12 allo stesso modo in cui nella società contemporanea la "luce pubblica oscura tutto".13 Dato questo sistema di contrasti, la posizione di Hannah Arendt è netta: rischiarare l'oscuro14 ed esporsi alla luce pubblica non è un compito senza senso. La distanza tra epoca dei Lumi ed epoca contemporanea è certo quella tra l'opera distruttiva e demistificatrice dell'Illuminismo e le rovine compiute della storia contemporanea. Ma il rapporto di Hannah Arendt con la storia è sempre stato quello di raccogliere perle e coralli in fondo al mare: i fili della tradizione sono spezzati e rimangono, sepolti nelle profondità sottomarine, i

11 H. Arendt, "Preface", in Men in Dark Times, cit., pp. vii- x. 12 Vedi B. Brecht, "A coloro che verranno", tr. it. in Poesie 1933-1956, a cura di R. Fertonani, Einaudi, Torino 1977, p. 328: "Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate / quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati / [...] / pensate a noi con indulgenza". 13 Vedi M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, tr. it. Longanesi, Milano 1976, p. 164 (par. 34): "La pubblicità oscura tutto e presenta ciò che risulta così dissimulato come notorio e accessibile a tutti".

14 Due anni prima, pronunciando, dopo molte titubanze, la laudatio in occasione del conferimento a Jaspers del premio della pace, Hannah Arendt aveva sottolineato con forza la natura della filosofia jaspersiana, tutta improntata alla luce e a una ragione che vuole illuminare l'oscuro. Vedi H. Arendt, "Karl Jaspers: A laudatio", in Men in Dark Times, cit., pp. 71-80.

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frammenti cristallizzati del passato, che si offrono alla libera combinazione del "pescatore di perle". 15 L'Illuminismo e la sua fiducia nell'umano non sono dunque irrimediabilmente lontani solo se si compie un arduo cammino di riscrittura e di ripensamento, il cui esito, pare di capire, dovrebbe essere un difficile universalismo e umanismo nella storia ridotta a un campo di rovine. Che mai, in tutta la sua opera, Hannah Arendt sia stata tanto esplicita, lo si può dedurre dal fatto che, tra i tanti rovesciamenti scatenati dal tema dell""umanità in tempi bui", non privo d'importanza è quello del contesto della Lettera sull'umanismo,16 pubblicata da Heidegger nel 1949, che non viene citata né in questo scritto né altrove.

A differenza della distruzione che dell'idea di humanitas aveva compiuto il suo maestro Heidegger al cospetto dello svuotamento dell'eredità umanistica europea, Hannah Arendt la riprende in tutta la sua tensione interna. L'idea di umanità è il lascito altamente simbolico della civiltà e dell'etica antica. Da Roma attraversa l'umanesimo rinascimentale e si esprime nell'Illuminismo, nella fiducia che il possesso della facoltà razionale sia un legame e una base di uguaglianza tra gli uomini capace di dissipare pregiudizi, antagonismi, appartenenze. Parlare di "umanità in tempi bui" significa fare i conti con la catastrofe dell'idea di umanità e insieme andare oltre. La questione 15 Vedi H. Arendt, "Walter Benjamin 1892-1940", cit., pp. 156-170.

16 Vedi M. Heidegger, Lettera sull'umanismo, a cura di F. Volpi, tr. it. Adelphi, Milano 1995.

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allora non è quella di preservare residui o frammenti di valori passati o di difendere un'ipotetica "natura umana" dalle sue perversioni, tanto meno riflettere sull'umanità come valore appartenente a una visione del mondo. Si tratta piuttosto di andare a vedere i modi, se ci sono stati, di essere umani, di vivere umanamente nei brechtiani tempi bui.

Il processo Eichmann inizierà nel 1961 e Hannah Arendt interromperà improvvisamente il suo lavoro di stesura del libro sulla rivoluzione per assistervi come inviata del New Yorker. Seguiranno gli scandali e le polemiche, le riflessioni su verità e politica.17 Lo scritto su Lessing apre dunque una fase cruciale, in cui l'impianto del pensiero formulato in Vita activa inizia a dispiegarsi in maniera ampia e precisa e anche ad attenuare alcune rigidità. In esso troviamo numerose anticipazioni, in particolare delle riflessioni sul pensare e giudicare che occuperanno l'ultima fase dell'opera arendtiana: il "pensare da sé" (Selbstdenken) lessinghiano, modello di libertà da ideologie, appartenenze, verità consolidate e assoluti di ogni tipo, corregge il suo carattere fortemente individualista con la passione per il dialogo, per lo scambio di esperienza con gli altri.

Ma ciò che rende unico il saggio su Lessing è il fatto che tali temi si presentano, per così dire, allo stato nascente, nella forma di due imprevedibili e molto singolari apparizioni

17 Vedi H. Arendt, "Verità e politica", tr. it. in Verità e politica - La conquista dello spazio, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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di Hannah Arendt in prima persona: come ebrea e come pensatrice che costruisce il proprio autoritratto disegnando la figura di Lessing illuminista atipico e sostanzialmente contemporaneo.18 Intrecciando, con un'intensità emotiva che non sacrifica nulla alla rigorosa distinzione di pubblico e privato, la sua esperienza personale con la storia del totalitarismo e della Shoah, Hannah Arendt affronta infatti l'arduo compito di situarsi rispetto alle proprie origini ebraiche e alla condizione di paria, di apolide. E lo fa "rivelando bruscamente lo sfondo personale" delle sue riflessioni:

Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla Germania a un'età relativamente giovane, è perché desidero prevenire taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda "Chi sei?" fosse: "Un'ebrea". Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione. [...] Dicendo "Un'ebrea", non [...] riconoscevo altro che un fatto politico, attraverso il quale il mio essere un membro di quel gruppo finiva per avere il sopravvento su tutte le altre questioni di identità personale o piuttosto le decideva in favore dell'anonimato".19

18 Vedi H. Arendt, "Preface", cit., p. ix.

19 Infra, pp. 70-71.

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È davvero brusco questo passaggio, in cui compaiono parole non propriamente familiari al vocabolario arendtiano, come gruppo, appartenenza, e che segue pagine molto forti sul dramma dell'umanità nei "popoli paria", che si stringono calorosamente insieme per difendersi contro il mondo che li perseguita, sviluppano qualità umane sublimi, come la compassione e l'altruismo (la fraternité della Rivoluzione francese), ma in realtà costruiscono mondi a parte, invisibili, incapaci di sopravvivere "neppure per un minuto" all'ora della liberazione.20 Quasi che, con la franchezza che le era congeniale, Hannah Arendt evochi, parlando in prima persona, la controfigura della politica che tutti i suoi libri propongono come unica alternativa alla crisi moderna e contemporanea: il profugo, il rifugiato, l'apolide, l'invisibile e inesistente sotto il profilo giuridico e politico, l'uomo senza radici e senza cittadinanza esposto alle tempeste della storia. Hannah Arendt taglia di netto la questione dell'origine ebraica: non si tratta di "identità personale", bensì di anonimato, di scelta (obbligata) di definirsi, non per l'individuo unico e irripetibile di cui molte pagine di Vita activa affermano la dignità supremamente umana, bensì come membro di un gruppo. E questo perché l'unico frammento, penoso, di realtà concesso a un paria è la realtà della persecuzione.

La posizione di Hannah Arendt può sembrare estrema o paradossale. In realtà, è tutt'altro da una rappresentazione

20 Infra, p. 68.

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tragica o eccessivamente esigente del perseguitato. L'anonimato, che dovrebbe essere la risposta alla domanda sull'identità, ha invero tratti molto singolari: è fortemente connotato come impegno storico- pratico individuale (fare qualcosa in quanto ebrea21), ma è privo completamente di tratti "personali" o privati. In altri termini, rispondere alla domanda "Chi sei?" con "Un'ebrea" voleva dire accettare il criterio di identificazione di un essere umano attraverso la razza, accettare cioè qualcosa non solo di persecutorio, ma di inammissibile come qualificazione di un essere umano. Eppure, questo era l'unico dato di realtà concesso all'ebreo: la realtà della persecuzione che lo inchiodava a una nascita brutalmente ridotta a legame di sangue, di etnia, a marchio biologico e, come la giovane Hannah Arendt aveva mirabilmente mostrato nel suo libro su Rahel Varnhagen, gli assegnava una storia ridotta a questione privata, vissuta come destino, a cui esporsi come a un temporale senza ombrello.22 L'anonimato fa i conti con la realtà in tutta la sua durezza e insieme rovescia la prospettiva, la rimette in gioco nel punto in cui un essere che il progetto totalitario vuole rendere "superfluo" fa l'unica cosa che può fare - attaccato in quanto ebreo, si difende da ebreo. Nel punto in 21 . Vedi H. Arendt, ""Che cosa resta? Resta la linguà. Una conversazione con Giinter Gaus", in Archivio Arendt 1930-1948, a cura di S. Forti, Feltrinoli, Milano 2001, vol. 1, p. 46: ""Se si è aggrediti in quanto ebrei, bisogna difendersi da ebreì; non in quanto tedeschi, cittadini del mondo, fautori dei diritti dell'uomo o chissà che altro. La questione è piuttosto: che cosa posso specificamente fare in quanto ebreo?".

22 Vedi H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un'ebrea, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. il Saggiatore, Milano 1987.

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cui il meccanismo della persecuzione sembra funzionare senza intoppi, l'anonimo definito esclusivamente da una realtà a lui ostile scopre di essere elemento di contrasto, di resistenza: la fatalità viene messa in discussione, sia pure in virtù di un effetto non di mutamento delle condizioni date, bensì di verità intesa come dire ciò che è. Ne consegue infatti che la fuga, il mettersi fuori gioco non appare più l'unico modo di sottrarsi al potere distruttivo.23 Ecco allora che il proclamarsi ebrea diventa un "problema politico":

Lei mi chiede se sono tedesca o ebrea. Per essere onesta, devo dire che da un punto di vista individuale e personale, la cosa mi è del tutto indifferente [...]; sul piano politico, parlerò sempre soltanto a nome degli ebrei, in quanto sono costretta dalle circostanze a esibire la mia nazionalità.2424

23 Sul tema dell'anonimato, molto importante fu la riflessione arendtiana sui protagonisti dei romanzi di Kafka Il processo e Il castello, indicati con le sole iniziali. Vedi H. Arendt, "Franz Kafka: il costruttore di modelli" e "Franz Kafka: l'uomo di buona volontà", tr. it. in Il futuro alle spalle, cit. Si può ricordare anche l'importante commento, che accompagnò l'intero sviluppo del suo pensiero, a F. Kafka, "Egli", tr. it. in Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, vol. 2, pp. 807-819. Vedi H. Arendt, "Premessa. La lacuna tra passato e futuro", tr. it. in Tra passato e futuro, a cura di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, pp. 32-38; La vita della mente, cit., pp. 296-305. 24 H. Arendt- K. Jaspers, Briefwechsel 1926-1969, a cura di L. Kòhler e H. Saner, Piper, Miinchen- Zurich 1985, p. 106. Si tratta del poscritto alla lettera del 17 dicembre 1946, in cui compare l'affermazione "La lingua è ciò che resta", al centro della conversazione del 1964 con Gùnter Gaus. Vedi anche H. Arendt, "Che cosa resta?", cit., p. 47: "Ora l'appartenenza all'ebraismo era diventata anche per me un problema, e questo problema era un problema politico: puramente politico!". Vedi ancora H. Arendt- M. Heidegger, Lettere (1925-1975) e altre testimonianze, a cura di M. Bonola, tr. it. Comunità, Torino 2001, p. 54: "Non mi sono mai sentita una donna tedesca, e ho smesso da molto tempo di sentirmi una donna ebrea. Mi sento quello che sono in realtà, una donna che viene da lontano" (lettera del 9 febbraio 1950).

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L'affiorare di un complesso strato di esperienza personale sembra l'aprirsi improvviso di una zona oscura, in cui domina una vulnerabilità corporea ed emotiva "indifferente", ossia quasi priva di parole in grado di nominare la differenza e unicità degli esseri umani. A questa soggettività, che può essere vissuta con intensità, ma solo nell'ombra e nel riserbo, si contrappone di conseguenza la realtà della persona tutta giocata alla luce della scena pubblica.25 Potrebbe risultarne una troppo netta polarizzazione se intorno a essa non risuonasse insistentemente il controcanto di Nathan il saggio di Lessing: "Dobbiamo essere amici", pronunciato da ciascuno dei tre protagonisti della vicenda, l'ebreo, il cristiano e il musulmano.26 Rispondere alla domanda "Chi sei?" con "Un'ebrea" è una netta confutazione della fiducia illuministica di Nathan nella comune appartenenza al genere umano, ma ciò non toglie che il modello lessinghiano di amicizia suggerisca a Hannah Arendt una nuova formulazione: "Tedesco, ebreo - e amici",27 una sequenza in cui la persecuzione, i tempi bui, l'esclusione e la fuga dalla realtà, il conflitto che crea il bisogno, se non la necessità, nelle minoranze perseguitate di fare corpo, di stringersi in gruppo per affermare la propria differenza, mantengono tutta la loro tragicità, ma vengono inseriti in un contesto di 25 . Vedi H. Arendt, "Karl Jaspers: A laudario", cit., pp. 72-73, in cui alla consueta distinzione soggettivo/ oggettivo, Hannah Arendt sostituisce quella di soggettivo/ personale 26 . Vedi G. E. Lessing, Nathan il saggio, tr. it. in Teatro, a cura di M. Freschi, utet, Torino 1981, pp. 228,252.

27 . Infra, p. 82.

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accoglienza e di ospitalità, che non ha nulla a che vedere con l'universalizzazione dell'umano, ma piuttosto consiste nella messa in movimento della contraddizione, del conflitto, nell'impedire che esso si fissi in identità, in opposizione di forze, di fedi, di credenze. L'amicizia non è un "valore" supplementare o alternativo al conflitto. È piuttosto ciò che consente di vivere il conflitto tra l'ebreo e il mondo mettendolo in parola, ossia scambiando l'esperienza del mondo a partire da cui il conflitto si genera e di cui è parte costitutiva:

Poiché il mondo non è umano essendo stato fatto dagli uomini e non diventa umano perché la voce degli uomini risuona in esso, ma solo quando è divenuto oggetto di dialogo.28

Il ritratto di Lessing contemporaneo dei poeti, filosofi e scrittori che nei tempi bui spesso hanno pagato di persona, con i loro tradimenti e la loro innocenza, la loro tenerezza e la loro vulnerabilità, il fatto di essere lo specchio rovesciato delle contraddizioni di un'epoca si disvela compiutamente come autoritratto di Hannah Arendt nel punto in cui lo spirito della critica che mette costantemente in pericolo il suo provvisorio accordo con il mondo, la solitudine che accompagna la sua testimonianza della verità trovano una misura umana, una ragione, se non di amore, di amicizia.

L'amicizia, di cui il saggio su Lessing offre una delle più intense trattazioni, non è privata, ma politica, non è comunione delle anime o sublime intesa tra due esseri, ma

28 . Infra, p. 85

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tiene in sé l'immediatezza e la concretezza della relazione intersoggettiva, il suo carattere di esperienza vissuta e la realtà di un mondo costituito dall'impossibilità che il legame tra gli esseri umani diventi parola d'ordine o fede dottrinaria: uguaglianza, fraternità, comunità.

Come nello svolgimento del dramma (non tragico) Nathan il saggio, l'amicizia è necessaria, l'amore è impossibile: Recha e il Templare scopriranno di essere fratello e sorella, le loro nozze non avranno luogo. Il "sacrificio" dell'amore all'amicizia, che fa il paio con quello della verità all'amicizia, non vuol dir altro che il conflitto inconciliabile - non si può amare un popolo, un'idea, ma solo i propri amici, dirà Hannah Arendt nel duro scambio con Gershom Scholem durante la controversia sul caso Eichmann29 - invece di venire fissato come antagonismo di forze o di valori tra i quali regna la logica della sconfitta o della vittoria, viene messo in movimento, diventa indice di realtà. L'operatore o il dispositivo di tale fluidificazione - la vera e propria umanizzazione - è l'amicizia in quanto capacità di attirare nello spazio dell'incontro, del dialogo e dell'ascolto quanto si è inclini a tacere perché non può essere padroneggiato né forse compreso, ancor meno realizzato: il dolore, la morte, l'amore, la verità.

L'amicizia riassume in sé l'idea di "umanità in tempi bui", ne è la manifestazione più piena, in quanto gli elementi che la costituiscono, lo scambio di esperienza, la

29 . Vedi H. Arendt, Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, tr. it. Feltrinelli, Milano 2003, pp. 222-223 (lettera a Scholem del 24 luglio 1963).

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condivisione del mondo, il dialogo e il piacere dello stare insieme esprimono la sovrana libertà del soggetto di sostituire l'obbedienza all'autorità con l'incontro e la relazione, anche quando siano in gioco valori sublimi come la bellezza e la verità. L'amicizia è un tener fermo al reale umanizzando il mondo e i suoi impossibili assoluti attraverso un vissuto emotivo di relazione che comprende (con un approfondimento del tema che non compare in nessun altro luogo dell'opera arendtiana) l'attivazione di passioni fortemente orientate verso la realtà, come la collera, il riso e la gioia, e suggerisce l'idea che il lavoro sulle emozioni sia una delle condizioni imprescindibili per sottrarsi all'assoggettamento a poteri impersonali. Ritrovando nell'amicizia lessinghiana molto di se stessa, della sua libertà appassionata e del suo difficile, doppio rifiuto della solitudine e dell'eccessiva vicinanza, Hannah Arendt indica anche le linee per completare il suo ritratto di pensatrice. Ormai esaurita una stagione di studi che ne hanno enfatizzato l'immagine di teorica della politica o ne hanno criticato le ambiguità e i silenzi su tutto quanto preme ai confini della vita pubblica (passioni, corpo, turbolenze del sociale), appare chiaro che il pensiero arendtiano non lascia in eredità rigide contrapposizioni, bensì un movimento in cui il contesto prepolitico o impolitico della politica (classe, razza, differenza sessuale, comunità e gruppi, moralità e spiritualità religiosa) viene accolto e trasformato, fatto oggetto di dialogo, sulla scena pubblica. Sta agli appassionati lettori di Hannah Arendt continuare a costruire le forme sempre nuove e diverse del

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movimento che porta incessantemente dentro e fuori la scena pubblica. Laura Boella

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L'umanità in tempi bui.

Riflessioni su Lessing I.

La distinzione conferita da una città libera, e il premio che si avvale del nome di Lessing, rappresentano un grande onore. Ammetto di non sapere come sono arrivata a riceverlo e anche che non mi è stato affatto facile venirne a capo. Dicendo questo, posso lasciare totalmente da parte la delicata questione del merito. Da questo punto di vista, un onore impartisce una vigorosa lezione di modestia; ci nega infatti la competenza di giudicare i nostri meriti con lo stesso metro con cui giudichiamo i meriti e le realizzazioni altrui. Conferendoci un onore, il mondo prende la parola, e possiamo accettarlo ed esprimere la nostra gratitudine solo se rinunciamo a pensare a noi stessi e decidiamo di agire interamente nell'ambito del nostro rapporto con il mondo, un mondo e un pubblico ai quali siamo debitori dello spazio in cui parliamo e in cui siamo ascoltati.

Un tale onore non ci ricorda però imperiosamente solo la gratitudine che dobbiamo al mondo: esso ci crea dei doveri nei suoi confronti, a un livello molto alto. Certo, possiamo sempre rifiutare un tale onore. Se l'accettiamo, non solo la nostra posizione nel mondo viene rafforzata, ma ci leghiamo a esso in maniera decisiva. Che una persona appaia in pubblico e che il pubblico la accetti e la confermi, non è affatto scontato.

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Solo il genio è spinto nella vita pubblica per il solo fatto dei suoi doni e può fare a meno di una decisione preliminare. È questo l'unico caso in cui l'onore si colloca sulla stessa linea di un accordo con il mondo, fa risuonare nell'intera sfera pubblica un'armonia nata indipendentemente da ogni riflessione e decisione, indipendente da ogni obbligo, come un fenomeno naturale che fa irruzione nella società umana. Qui assume il suo senso più vero ciò che una volta Lessing disse a proposito dell'uomo di genio in due dei suoi versi più belli:

Was ihn bewegt, bewegt. Was ihm gefàllt, gefàllt. Sein glùcklicher Geschmack ist der GeschmackderWelt.30

Niente è più problematico nella nostra epoca, credo, del nostro atteggiamento verso il mondo, niente è meno scontato della manifestazione pubblica di armonia con il mondo che un onore ci impone e di cui esso afferma l'esistenza. Nel nostro secolo, persino il genio ha potuto svilupparsi solo in conflitto con il mondo e con la sfera pubblica, per quanto egli abbia sempre naturalmente trovato il suo peculiare accordo con la società. Ma il mondo e le persone che lo abitano non sono la stessa cosa. Il mondo sta tra le persone e questo "tra" - molto di più (contrariamente a quanto spesso si pensa) degli esseri umani o dell'Uomo - è oggi oggetto della massima preoccupazione e dello sconvolgimento più manifesto in 30 "Ciò che lo commuove, commuove. Ciò che gli piace, piace. / Il suo gusto felice è il gusto del mondo".

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quasi tutti i paesi. Anche là dove il mondo è ancora, o è mantenuto, quasi in ordine, la sfera pubblica ha perduto l'intensità luminosa che in origine apparteneva alla sua essenza. Un numero sempre crescente di persone nei paesi occidentali, che dal declino del mondo antico hanno innalzato la libertà dalla politica a libertà fondamentale, fanno uso di questa libertà ritirandosi dal mondo e dagli obblighi nei suoi confronti. Questo ritiro fuori dal mondo non è necessariamente un male per l'individuo; può anzi permettere a grandi talenti di elevarsi fino al genio e di tornare a essere, dopo questa deviazione, utili al mondo. Ma ognuno di questi ritiri provoca una perdita per il mondo che si può quasi dimostrare; ciò che va perduto è lo specifico e perlopiù insostituibile "tra" che avrebbe dovuto formarsi tra quell'individuo e i suoi simili.

Allora, quando consideriamo il significato reale degli onori e dei premi ufficiali nelle condizioni attuali, possiamo ritenere che il Senato di Amburgo abbia scoperto l'uovo di Colombo risolvendo il problema con l'intitolare a Lessing il premio conferito dalla città. Lessing infatti non ha mai trovato, e probabilmente non ha mai voluto trovare, l'armonia con il mondo esistente; eppure, a modo suo, si è sempre sentito debitore verso di esso. Circostanze uniche e particolari sono entrate qui in gioco. Il pubblico tedesco non era preparato ad accoglierlo e, per quanto ne so, non lo ha mai onorato in vita. Gli mancava, come lui stesso ammetteva, l'armonia felice e naturale con il mondo, una combinazione di virtù e fortuna, che Lessing e Goethe consideravano il segno del genio. Lessing credeva di dovere

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alla critica qualcosa di "molto vicino al genio", ma non riuscì mai a realizzare compiutamente quell'accordo naturale con il mondo in cui Fortuna sorride quando Virtù fa la sua apparizione. Tutto ciò può avere avuto una sua importanza, ma non fu decisivo. Sembra quasi che un giorno egli abbia deciso di rendere omaggio al genio, all'uomo di "gusto felice", e di seguire per parte sua coloro che una volta, con una certa ironia, aveva chiamato "gli uomini saggi", che "ovunque posino lo sguardo, scuotono i pilastri delle verità più accettate". Il suo atteggiamento verso il mondo non fu mai né positivo né negativo, bensì radicalmente critico e, paragonato alla sfera pubblica del suo tempo, totalmente rivoluzionario. Fu però anche l'atteggiamento di chi continuò a sentirsi debitore nei confronti del mondo, non abbandonò mai il suo solido terreno, e non arrivò mai al punto di entusiasmarsi per un'utopia. In Lessing il temperamento rivoluzionario aveva una singolare forma di parzialità, che si attaccava ai dettagli concreti con meticolosità esagerata, quasi pedante, provocando una quantità di fraintendimenti. Un elemento della grandezza di Lessing fu di non aver mai permesso a una presunta oggettività di fargli perdere di vista il reale rapporto con il mondo e la reale posizione nel mondo delle cose o degli uomini che attaccava o lodava. Ciò non contribuì a renderlo ben accetto in Germania, paese in cui l'essenza della critica trova più difficoltà che altrove a essere compresa. Era difficile per i tedeschi comprendere che la giustizia ha poco a che fare con l'obiettività nel senso comune del termine.

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Lessing non fece mai la pace con il mondo in cui visse. Gli piaceva "sfidare a viso aperto i pregiudizi", e "dire la verità [...] alla nobile plebe di corte". Per quanto gli costassero cari, erano piaceri in senso letterale. Una volta, tentando di chiarire a se stesso l'origine del "piacere tragico", disse che "tutte le passioni, anche le più spiacevoli, in quanto passioni sono piacevoli", poiché "ci rendono [...] più coscienti della nostra esistenza, ci fanno sentire più reali". Questa frase richiama sorprendentemente la dottrina greca delle passioni, che annoverava, per esempio, la collera tra le passioni piacevoli, e relegava la speranza, insieme al timore, tra i mali. Questa distinzione, esattamente come in Lessing, si fonda sul grado di realtà, non nel senso che la realtà si misuri in base alla forza con cui le passioni colpiscono l'anima, piuttosto in base alla quantità di realtà che la passione trasmette all'anima. Nella speranza, l'anima oltrepassa la realtà, mentre nel timore indietreggia di fronte a essa. La collera invece, e soprattutto la collera di Lessing, rivela ed espone il mondo, proprio come il riso di Lessing nella Minna von Barnhelm vuole riconciliare con il mondo, sempre che si trovi il proprio posto in esso, ma con ironia, senza vendergli la propria anima. Il piacere, che è fondamentalmente un'intensificata consapevolezza della realtà, sgorga dall'apertura appassionata e dall'amore per il mondo, che nel "piacere tragico" non si lasciano fuorviare nemmeno dal fatto che l'individuo può essere distrutto dal mondo.

L'estetica di Lessing, contrariamente a quella di Aristotele, vede nella paura una forma della compassione, la

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compassione che noi proviamo per noi stessi: forse perché Lessing cerca di spogliare la paura del suo aspetto di fuga per salvarla come passione, ossia come un affetto in cui noi siamo colpiti da noi stessi, allo stesso modo in cui nel mondo siamo colpiti abitualmente dagli altri. Strettamente connesso a questo è il fatto che per Lessing l'essenza dell'arte era l'azione (come Heym ha giustamente riconosciuto) e non, come per Herder, una forza -"la forza magica che colpisce la mia anima" - né, come per Goethe, la natura che riceve una forma. Lessing non si preoccupava affatto della "perfezione dell'opera d'arte in sé", che Goethe considerava "l'eterna, indispensabile esigenza". Piuttosto, e qui sta il suo accordo con Aristotele, si preoccupava dell'effetto sullo spettatore, che, per così dire, rappresenta il mondo o, meglio, lo spazio che si è creato tra l'artista o lo scrittore e i suoi simili nella forma di un mondo comune.

Lessing fece esperienza del mondo nella collera e nel riso, e collera e riso sono per loro natura partigiani. Ecco perché non seppe o non volle giudicare un'opera d'arte "in sé", indipendentemente dal suo effetto nel mondo, e poté attaccare e difendere nelle sue polemiche, tenendo conto ogni volta del modo in cui il pubblico giudicava la questione e del tutto indipendentemente dal suo grado di verità o di falsità. Non solo per noblesse diceva che "avrebbe lasciato in pace chi è attaccato da tutti"; era anche un modo, che sarebbe diventato istintivo in lui, di tener conto della giustezza relativa delle opinioni che per buone ragioni hanno la peggio. Perciò nel dibattito sul Cristianesimo non assunse una posizione definita una volta per tutte. Al contrario,

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come disse con mirabile conoscenza di sé, iniziò involontariamente a dubitare del Cristianesimo "tanto più stringenti erano le prove che taluni cercavano di darmi" e involontariamente cercò di preservarlo nel suo cuore quanto più "altri allegramente e trionfalmente volevano calpestarlo". Ciò significa che, laddove tutti gli altri dibattevano sulla "verità" del Cristianesimo, egli ne difendeva in primo luogo la posizione nel mondo, ora preoccupato che esso potesse rafforzare ulteriormente le sue pretese di dominio, ora timoroso che esso scomparisse completamente. Lessing fu notevolmente lungimirante quando si rese conto che la teologia illuministica del suo tempo "con il pretesto di fare di noi dei cristiani razionali, ci sta trasformando in filosofi estremamente irrazionali". Un'intuizione di questo genere non poteva derivare unicamente dalla presa di partito in favore della ragione. La preoccupazione primaria di Lessing in questo dibattito fu la libertà, che gli sembrava molto più minacciata da chi voleva "imporre la fede con le prove" di quanto lo fosse da chi considerava la fede un dono della grazia divina. C'era però anche la sua preoccupazione per il mondo, in cui sentiva che la religione e la filosofia dovevano avere il loro posto, ma un posto separato, di modo che "dietro alla parete divisoria [...] ognuno possa andare per la sua strada senza ostacolare gli altri".

La critica, nel senso di Lessing, prende sempre partito per il mondo, comprendendo e giudicando ogni cosa in base alla sua posizione nel mondo in un momento dato. Una mentalità di questo tipo non potrà mai far nascere una

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visione del mondo definita che, una volta adottata, sia immune da ulteriori esperienze nel mondo, essendosi fissata a una delle prospettive possibili. Noi abbiamo un grande bisogno di Lessing per insegnarci questo modo di pensare, perché ciò che rende il nostro apprendimento tanto difficile non è la nostra sfiducia nell'Illuminismo o nella fede nell'umanità del XVIII secolo. Tra noi e Lessing non si frappone il XVIII secolo, ma il XIX. L'ossessione del XIX secolo per la storia e per l'impegno ideologico incombe sul pensiero politico del nostro tempo ancora a tal punto che tendiamo a considerare privo di autorità su di noi un pensiero completamente libero, che non utilizza come sostegno né la storia né il rigore logico. Certo, noi siamo ancora consapevoli che il pensiero non richiede soltanto intelligenza e profondità, ma soprattutto coraggio. Ma ci riempie di stupore il fatto che la presa di partito di Lessing per il mondo abbia potuto spingersi fino al punto di sacrificare il principio di non contraddizione, l'esigenza della coerenza, che presumiamo far parte del mandato di chi parla e scrive. Egli diceva in tutta serietà: "Non ho il dovere di risolvere le difficoltà che creo. Le mie idee possono anche essere sempre un po'"sconnesse, o sembrare anche contraddirsi: conta solo che siano idee in cui i lettori possano trovare materia per pensare da sé". Così come non voleva che nessuno esercitasse un potere di costrizione su di lui, non voleva nemmeno costringere nessuno, né con la forza né con le prove. Considerava la tirannia di coloro che cercano di dominare il pensiero con il ragionamento o con i sofismi, con la forza dell'argomentazione, molto più

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pericolosa dell'ortodossia per la libertà. Soprattutto, non esercitò mai alcuna costrizione su se stesso e, invece di affermare la sua identità nella storia con un sistema perfettamente coerente, non fece altro, come sapeva bene, che seminare nel mondo fermenta cognitionis.

Il famoso Selbstdenken di Lessing - il pensare da sé - non è pertanto in nessun caso l'attività di un individuo unitario e chiuso, maturato e coltivato organicamente, che allora cerca nel mondo intorno a sé il luogo più propizio per il suo sviluppo, al fine di trovare l'armonia tra sé e il mondo passando per il pensiero. Per Lessing, il pensiero non nasce dall'individuo e non è la manifestazione di un sé. É piuttosto l'individuo -creato secondo Lessing per l'azione e non per il raziocinio - che si apre al pensiero perché scopre nel pensare un altro modo di muoversi liberamente nel mondo. Di tutte le libertà particolari che possono venirci in mente quando sentiamo nominare la parola "libertà", la libertà di movimento è storicamente la più antica e la più elementare. Poter andare dove si vuole è il gesto originario dell'essere liberi, mentre la limitazione di tale libertà è stata da tempo immemorabile il preludio della schiavitù.

La libertà di movimento è dunque condizione indispensabile dell'azione, ed è nell'azione che gli uomini fanno esperienza primaria della libertà nel mondo. Quando gli uomini sono privati dello spazio pubblico - che si costituisce nell'agire in comune e quindi si riempie di eventi e di storie - si ritirano nella libertà di pensiero. Certo, è un'esperienza molto antica. E può sembrare che un ritiro di

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questo tipo sia stato imposto anche a Lessing. Quando sentiamo parlare di un ritiro dalla schiavitù terrena nella libertà del pensiero, ricordiamo spontaneamente il modello stoico, che storicamente fu il più efficace. A dire il vero, lo stoicismo non rappresenta tanto un ritiro dall'azione nel pensiero, quanto una fuga dal mondo nell'io, che, si spera, potrà bastare a se stesso in sovrana indipendenza dal mondo esterno. Nulla di tutto questo nel caso di Lessing. Lessing si ritirò nel pensiero, ma niente affatto nel proprio sé; e, se è esistito per lui un vincolo segreto tra azione e pensiero (credo che sia esistito, ma non lo posso provare con citazioni), esso consisteva nel fatto che entrambi, azione e pensiero, avvengono nella forma del movimento e perciò la libertà li sottintende entrambi: la libertà di movimento.

Lessing non ha certamente mai creduto che l'azione possa essere sostituita dal pensiero o che la libertà di pensiero possa essere un surrogato della libertà propria dell'azione. Sapeva molto bene di vivere in quello che allora era "il paese più schiavo d'Europa", per quanto gli fosse permesso di "offrire al pubblico tutte le stupidaggini contro la religione" che voleva. Era infatti impossibile dire "una parola in favore dei diritti dei sudditi [...] contro la spogliazione e il dispotismo", in altri termini: agire. La relazione segreta del suo "pensare da sé" con l'azione sta nel rifiuto di sottomettere il pensiero ai risultati. Questi infatti avrebbero potuto significare la soluzione definitiva di problemi che il pensiero aveva posto a se stesso; e tale rinuncia poteva valere anche il prezzo della verità, poiché ogni verità necessariamente mette fine alla pura attività del

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pensiero. I fermenta cognitionis, che Lessing sparse per il mondo, non miravano a comunicare conoscenze bensì a stimolare altri a pensare da sé, e questo con l'unico scopo di provocare un dialogo tra pensatori. Il pensiero di Lessing non è il dialogo silenzioso (platonico) tra me e me stesso, ma un dialogo anticipato con altri, e per questo motivo è essenzialmente polemico. Ma anche se gli fosse riuscito di provocare il dialogo con altre persone che pensavano da sé, sfuggendo così a una solitudine che, per lui in particolare, paralizzava ogni facoltà, non ne avrebbe certo concluso che così tutto andava a posto. Perché ciò che non era in ordine, e che nessun dialogo e nessun pensare da sé avrebbe potuto raddrizzare, era il mondo -ossia lo spazio che sorge tra le persone e in cui tutto ciò che ogni individuo porta con sé con la nascita può diventare visibile e udibile. Nei duecento anni che ci separano dall'epoca in cui visse Lessing molto è cambiato sotto questo aspetto, ma ben poco per il meglio. Le basi delle "verità universalmente riconosciute" (per restare alla sua metafora), che allora erano state scosse, oggi giacciono in frantumi; non abbiamo bisogno né della critica né di uomini saggi per scuoterle ulteriormente. Basta solo guardarsi intorno per vedere che ci troviamo nel mezzo di un vero campo di rovine.

Ora, ciò potrebbe essere, in un certo senso, un vantaggio, che favorisce un nuovo tipo di pensiero, non più bisognoso né di sostegni né di stampelle, né di canoni né di tradizioni per muoversi liberamente senza balaustre su un terreno non familiare. E" tuttavia difficile apprezzare tale vantaggio nel mondo così com'è. Infatti già da molto tempo

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è risultato evidente che i pilastri della verità sono stati anche i pilastri dell'ordine politico e che il mondo (a differenza delle persone che lo abitano e che si muovono liberamente in esso) ha bisogno di quei pilastri come garanzia di continuità e permanenza, senza le quali non è in grado di offrire ai mortali la patria relativamente sicura e imperitura di cui hanno bisogno. È vero che l'umanità di un individuo perde la sua vitalità in corrispondenza con il suo astenersi dal pensiero, affidandosi a verità vecchie o anche nuove, gettandole sul piatto come se fossero monete con cui saldare il conto di tutte le esperienze. Ebbene, ciò può valere per l'individuo, ma non per il mondo. Il mondo diventa inumano, inospitale per i bisogni umani - che sono bisogni di esseri mortali - quando è violentemente trascinato in un movimento in cui non si da più alcun tipo di permanenza. Per questo motivo, anche dopo il fallimento della Rivoluzione francese, i vecchi pilastri che erano stati rovesciati furono di nuovo, ripetutamente eretti, solo per vederli tremare ancora una volta e poi crollare di nuovo. Gli errori più spaventosi hanno rimpiazzato le "verità universalmente riconosciute", e l'errore di queste dottrine non costituisce una prova, né una nuova base per le vecchie verità. In campo politico, la restaurazione non riesce mai a essere una nuova fondazione, ma al massimo vuole essere una misura di emergenza che diventa inevitabile, allorché l'atto di fondazione, chiamato rivoluzione, ha fallito. È però pressoché inevitabile che in una tale costellazione, soprattutto quando copre un vasto arco temporale, la diffidenza delle persone nei riguardi del mondo e di tutti gli

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aspetti della vita pubblica cresca inesorabilmente. La fragilità delle basi ripetutamente restaurate dell'ordine pubblico diventa infatti sempre più evidente dopo ogni crollo, fino a che la sfera pubblica presuppone come di per sé evidenti proprio quelle "verità universalmente riconosciute" a cui interiormente non crede più nessuno.

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II.

La storia conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata. Li si può chiamare "tempi bui" (Brecht). Coloro che hanno vissuto e che si sono formati in tali epoche probabilmente sono sempre stati inclini a disprezzare il mondo e lo spazio pubblico, a ignorarli per quanto possibile e anche a saltare al di là, per poi ritrovarsi al di qua - come se il mondo non fosse che una facciata dietro la quale le persone possono nascondersi - al fine di arrivare a una mutua intesa con i loro simili senza considerazione per il mondo che sta tra di essi. In epoche di questo genere, se le cose vanno bene, si sviluppa un tipo particolare di umanità. Per apprezzare le sue possibilità, basti pensare a Nathan il saggio, il cui vero nodo tematico - "Basta essere un uomo" - domina l'intero dramma, insieme all'appello "Sii amico mio", che risuona come un motivo di fondo. Possiamo analogamente pensare al Flauto magico, che mette a tema una concezione dell'umanità molto più profonda di quella a cui siamo abituati a pensare quando prendiamo in considerazione unicamente le teorie correnti nel xviii secolo di una natura umana unitaria, sottostante alla molteplicità di popoli, nazioni, razze e religioni in cui il genere umano si divide. Se una siffatta natura esistesse, sarebbe un fenomeno

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naturale, e chiamare "umano" il comportamento a esso conforme implicherebbe ammettere che comportamento umano e naturale sono la stessa cosa. Nel XVIII secolo il massimo e più efficace sostenitore di questo tipo di umanità fu Rousseau, per il quale la natura umana comune a tutti i tipi di uomini non si manifestava nella ragione, ma nella compassione, nella ripugnanza innata, come affermava, a veder soffrire un nostro simile. Con un accordo degno di nota, anche Lessing affermò che l'uomo migliore è quello più compassionevole. Lessing era però turbato dal carattere egualitario della compassione - dal fatto che, come notava, noi sentiamo "qualcosa che assomiglia alla compassione" anche nei confronti di chi fa il male. Questo non disturbava Rousseau. Nello spirito della Rivoluzione francese, che faceva riferimento alle sue idee, egli vedeva nella fraternità il compimento dell'umanità. Lessing, al contrario, riteneva che fosse l'amicizia - tanto selettiva quanto la compassione è egualitaria - il fenomeno centrale in cui soltanto si attesta la vera umanità.

Prima di affrontare il concetto lessinghiano di amicizia e la sua rilevanza politica, dobbiamo fermarci un momento sulla fraternità quale l'ha intesa il XVIII secolo. Anche Lessing la conosceva bene, quando parlava di "sentimenti filantropici", di un'inclinazione fraterna per gli altri esseri umani che sgorga dall'odio per il mondo in cui gli uomini sono trattati "disumanamente". Per noi, tuttavia, è importante che l'umanità si manifesti in quella forma di fraternità principalmente in "tempi bui". È vero che tale umanità diventa inevitabile quando i tempi per alcuni gruppi

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umani si oscurano al punto che non è più questione né di teoria né di libera decisione per ritirarsi dal mondo. L'umanità nella forma della fraternità fa inevitabilmente la sua comparsa nella storia presso i popoli perseguitati e i gruppi ridotti in schiavitù. Nel xviii secolo doveva essere pressoché naturale scoprirla tra gli ebrei, allora nuovi arrivati nei circoli letterari. Questo tipo di umanità è il grande privilegio dei popoli paria; è il vantaggio che i paria di questo mondo possono avere sempre e in tutte le circostanze sugli altri. È un privilegio pagato caro; spesso accompagnato da una perdita del mondo tanto radicale, da un'atrofia tanto terrificante di tutti gli organi per mezzo dei quali entriamo in corrispondenza con esso - dal senso comune con cui ci orientiamo in un mondo condiviso con gli altri al senso della bellezza o al gusto, con cui amiamo il mondo - che nei casi estremi, in cui la condizione di paria si è prolungata per secoli, possiamo parlare di reale acosmia. E l'acosmia, purtroppo, è sempre una forma di barbarie.

In tale umanità, per così dire organicamente sviluppata, tutto avviene come se sotto la pressione della persecuzione i perseguitati si avvicinassero talmente gli uni agli altri da provocare la scomparsa dello spazio intermedio che abbiamo chiamato mondo (e che naturalmente esisteva tra di loro prima della persecuzione, creando una distanza tra l'uno e l'altro). Ciò provoca un calore tra le relazioni umane che può colpire chi è entrato in contatto con quei gruppi come un fenomeno quasi fisico. È ovvio che non voglio affatto negare che il calore dei perseguitati sia qualcosa di grande. Nel suo pieno sviluppo, può generare

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una bontà e una gentilezza di cui altrimenti gli esseri umani sono difficilmente capaci. Spesso è anche sorgente di una vitalità, di una gioia per il semplice fatto di essere vivi, che induce a pensare che la vita raggiunga la sua pienezza solo presso coloro che, dal punto di vista del mondo, sono gli umiliati e gli offesi. Dicendo questo, non dobbiamo però dimenticare che il fascino e l'intensità dell'atmosfera che così si sviluppa sono dovuti anche al fatto che i paria di questo mondo hanno il grande privilegio di essere esonerati dalla cura del mondo.

La fraternità, che con la Rivoluzione francese si è aggiunta alla libertà e all'uguaglianza, da sempre categorie della sfera politica -questa fraternità trova il luogo naturale tra gli oppressi e i perseguitati, gli sfruttati e gli umiliati, che il XVIII secolo chiamò gli sventurati, i malheureux, e il XIX secolo i miserabili, les miserables. La compassione, che in Lessing e in Rousseau (sebbene in contesti molto diversi) giocò un ruolo fondamentale per la scoperta e la conferma di una natura umana comune a tutti gli uomini, divenne per la prima volta il motore centrale della rivoluzione in Robespierre. Da allora, è diventata parte inseparabile della storia delle rivoluzioni europee. Certo, la compassione è senza alcun dubbio un affetto naturale della creatura che colpisce involontariamente ogni persona normale alla vista della sofferenza, non importa quanto estranea essa possa essere, e di conseguenza, estendendosi all'intero genere umano, potrebbe costituire la base ideale di un sentimento in grado di istituire una società in cui gli uomini possano veramente diventare fratelli. Attraverso la compassione,

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l'umanitarismo rivoluzionario dell'umanità del xviii secolo cercava una solidarietà con lo sventurato e il miserabile, per risalire alla fonte stessa della fraternità. Tuttavia divenne presto evidente che tale umanità, la cui forma più pura è privilegio del paria, non è trasmissibile e non può essere facilmente acquisita da coloro che non appartengono al gruppo dei paria. Non bastano né la compassione né la condivisione delle sofferenze. Non è qui il luogo per discutere il danno provocato dalla compassione alle rivoluzioni moderne, quando ha tentato di riscattare la massa degli sventurati, invece di istituire la giustizia per tutti. Per prendere una certa distanza rispetto a noi stessi e al modo moderno di sentire, potremmo richiamare brevemente come il mondo antico, tanto più esperto di noi nelle faccende politiche, considerava la compassione e l'umanitarismo della fraternità.

I tempi moderni e l'antichità sono d'accordo su un punto: entrambi considerano la compassione come qualcosa di totalmente naturale, altrettanto inevitabile per l'uomo della paura, per fare un esempio. Tanto più colpisce l'opposizione tra gli antichi e i moderni nella valutazione della compassione. Proprio perché avevano riconosciuto con tanta chiarezza la natura affettiva della compassione, che invade come la paura senza possibilità di difesa, gli antichi non consideravano l'uomo compassionevole migliore di quello pauroso. Entrambe le emozioni, essendo puramente passive, rendono l'azione impossibile. Per questo motivo, Aristotele ha trattato congiuntamente la paura e la compassione. Ma sarebbe un errore ridurre la compassione

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alla paura - come se la sofferenza degli altri facesse nascere la paura per noi stessi - o la paura alla compassione - come se nella paura non provassimo che compassione per noi stessi. La nostra sorpresa è ancora maggiore quando leggiamo (Cicerone, Tusculanae Disputationes, m, 21) che gli stoici mettevano sullo stesso piano compassione e invidia: "Poiché l'uomo che piange la sventura altrui, soffre anche della felicità altrui". Lo stesso Cicerone si avvicina notevolmente al cuore della questione quando si chiede: "Bisogna compatire piuttosto che aiutare? Oppure siamo incapaci di portare aiuto senza provare compassione?". In altre parole, gli uomini sarebbero meschini al punto di non poter agire umanamente senza pietà, senza essere sollecitati e per così dire costretti dalla loro propria compassione, quando vedono altri soffrire?

Nel valutare questi affetti è difficile evitare la questione dell'altruismo o piuttosto dell'apertura ad altri, che di fatto è la precondizione dell’  "umanità" in tutti i sensi del termine. Sembra evidente che da questo punto di vista condividere la gioia è infinitamente superiore rispetto a condividere la sofferenza. La gioia, non la sofferenza, è loquace, e il vero dialogo umano si distingue dalla semplice conversazione o discussione per il fatto di essere interamente permeato dal piacere che si prova per l'altra persona e per ciò che essa dice. La gioia, per dir così, dal tono. Ciò che la rende impossibile è l'invidia, il peggior vizio nell'ambito dell'umanità, sebbene l'opposto della compassione non sia l'invidia, ma la crudeltà, che è un affetto tanto quanto la compassione, ma perverso, perché

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consiste nel provare un sentimento di piacere quando naturalmente si dovrebbe provare dolore. Il fattore decisivo è che piacere e dolore, come tutto ciò che costituisce il lato naturale della creatura, tendono naturalmente al mutismo e, ove producano suono, non è parola né tantomeno dialogo.

Tutto questo per dire che l'umanità creata dalla fraternità si adatta difficilmente a chi non appartiene al novero degli umiliati e degli offesi e non può parteciparvi se non mediante la compassione. Il calore dei popoli paria non può legittimamente estendersi a coloro che solidarizzano con essi: poiché una diversa posizione nel mondo fa pesare su di essi una responsabilità verso il mondo che vieta loro di condividere l'insofferenza dei paria. È vero però che in tempi bui il calore, che presso i paria è sostituto della luce, esercita un grande fascino su tutti coloro che si vergognano del mondo così come è, al punto di voler rifugiarsi nell'invisibilità. E nell'invisibilità, in quell'oscurità in cui, essendo nascosti, non si ha nemmeno più bisogno di vedere il mondo visibile, solo il calore e la fraternità degli uomini stipati gli uni contro gli altri possono compensare la misteriosa irrealtà che contraddistingue le relazioni umane ogni volta che esse si sviluppano nell'acosmia assoluta e senza essere collegate a un mondo comune a tutti. È facile, in un tale stato di assenza di mondo e di irrealtà, concludere che l'elemento comune a tutti gli uomini non è il mondo ma la "natura umana" di questo o quel tipo, a seconda dell'interprete. Poco importa che si metta l'accento sulla ragione, identica per tutti gli uomini, o su una sensibilità

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riscontrabile in tutti come la capacità di compatire. Il razionalismo e il sentimentalismo del xviii secolo sono solo due aspetti di una stessa situazione; entrambi possono condurre in egual misura all'entusiastico eccesso in cui gli individui si sentono legati da vincoli di fraternità con tutti gli uomini. Razionalità e sentimentalismo non furono peraltro che sostituti psicologici, localizzati nell'invisibile, del mondo comune visibile, allora perduto.

In effetti la "natura umana" e il corrispondente sentimento di umanità si manifestano solo nell'oscurità e non possono quindi venire individuati nel mondo. Inoltre, in condizioni di visibilità si dissolvono nel nulla come fantasmi. L'umanità degli umiliati e offesi non è mai sopravvissuta all'ora della liberazione neppure per un minuto. Ciò non vuol dire che non abbia alcun significato, poiché essa rende sopportabile l'umiliazione, bensì che in termini politici è assolutamente irrilevante.

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III.

Tali questioni, e altre analoghe, sull'atteggiamento proprio dei tempi bui sono certo particolarmente familiari alla generazione e ai gruppi ai quali appartengo. Se l'accordo con il mondo, che il ricevere degli onori presuppone, non è mai stato facile nella nostra epoca e nelle condizioni del nostro mondo, lo è ancora meno per noi. Certo, non siamo stati cullati tra gli onori, e non ci sarebbe niente di sorprendente se non fossimo più capaci dell'apertura e della fiducia richieste semplicemente per accettare con gratitudine ciò che il mondo ci offre nei giorni felici. Anche quelli tra di noi che con la parola e la scrittura si sono avventurati nella vita pubblica non lo hanno fatto in seguito a un desiderio spontaneo di mostrarsi in pubblico, e difficilmente hanno aspirato a ricevere il crisma della pubblica approvazione. Anche in pubblico essi tendevano a indirizzarsi solo ai loro amici o a parlare ai lettori o ascoltatori ignoti, isolati, con cui chiunque parli o scriva non può negare di sapersi istintivamente unito da una qualche oscura fraternità. Temo che nei loro sforzi essi si siano sentiti ben poco responsabili verso il mondo; i loro sforzi erano piuttosto guidati dalla speranza di preservare un minimo di umanità in un mondo sempre più disumano, ma al tempo stesso cercavano di resistere per quanto possibile all'irrealtà inquietante della mancanza di mondo - ognuno a modo suo, e qualcuno, pochi, cercando, nei limiti delle sue

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capacità di comprendere anche l'inumano e di riprodurre idealmente il mostruoso.

Se sottolineo tanto esplicitamente la mia appartenenza al gruppo degli ebrei cacciati dalla Germania a un'età relativamente giovane, è perché desidero prevenire taluni malintesi che insorgono fin troppo facilmente quando si parla di umanità. In questo contesto, non posso passare sotto silenzio il fatto che per molti anni ho ritenuto che la sola risposta adeguata alla domanda "Chi sei?" fosse "Un'ebrea". Solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione. Lo stesso vale per l'affermazione (di cui restituisco il senso, e non la lettera) con la quale Nathan il saggio risponde all'ordine "Avvicinati, ebreo" con le parole "Io sono un uomo" - avrei ritenuto che non fosse altro che una grottesca e pericolosa evasione dalla realtà.

Permettetemi di dissipare velocemente un altro malinteso. Quando uso la parola "ebreo", non alludo a un tipo speciale di essere umano, come se il destino degli ebrei fosse o rappresentativo o esemplare del destino del genere umano. (Una tesi di questo genere ha potuto, al massimo, essere legittimamente sostenuta solo nell'ultimo periodo nazista, quando gli ebrei e l'antisemitismo furono effettivamente utilizzati con l'unico scopo di innescare e mantenere attivo il processo di sterminio …….., proprio di quella forma di dominio totalitario. Fin dall'inizio il movimento nazista tendeva al totalitarismo, ma il Terzo Reich non fu in alcun modo totalitario nei primi anni. Per "primi anni" intendo dal 1933 al 1938.) Dicendo "Un'ebrea",

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non mi riferivo neppure a una realtà dotata di una specificità storica. Al contrario, non riconoscevo altro che un fatto politico, attraverso il quale il mio essere un membro di quel gruppo finiva per avere il sopravvento su tutte le altre questioni di identità personale o piuttosto le decideva in favore dell'anonimato. Oggi un tale atteggiamento potrebbe sembrare una posa. Ecco perché oggi è facile notare che quelli che si sono comportati in quel modo non hanno imparato molto alla scuola dell’"umanità", anzi sono caduti nella trappola di Hitler, ossia sono stati succubi dello spirito dell'hitlerismo a modo loro. Sfortunatamente, il principio maledettamente semplice che è qui in questione rientra in quelli che è particolarmente difficile comprendere in tempi di diffamazione e persecuzione: non ci si può difendere se non nei termini dell'identità che viene attaccata. Coloro che rifiutano le identificazioni che vengono loro imposte da un mondo ostile, possono sentirsi mirabilmente superiori al mondo, ma la loro superiorità non è più di questo mondo; è la superiorità di un "paese dei sogni" più o meno ben attrezzato.

Se in questo modo rivelo bruscamente lo sfondo personale delle mie riflessioni, ciò può suonare alle orecchie di quelli che non conoscono il destino degli ebrei se non per sentito dire come uno spiattellare i segreti di un mondo che non hanno frequentato e le cui vicende non li riguardano. Ma succede che nello stesso periodo esistesse in Germania il fenomeno noto come "emigrazione interiore" e chi sa qualcosa di quell'esperienza può facilmente riconoscere talune questioni e conflitti che presentano un'analogia - non

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solo di forma o di struttura - con i problemi che ho sollevato. Come suggerisce il termine stesso, l’"emigrazione interiore" fu un fenomeno curiosamente ambiguo. Significava, da un lato, che all'interno della Germania c'erano persone che si comportavano come se non appartenessero più a quel paese, che si sentivano come degli emigrati; indicava, dall'altro, che essi non erano emigrati, ma si erano ritirati in uno spazio interiore, nell'invisibilità del pensare e del sentire. Sarebbe sbagliato pensare che questa forma di esilio, di ritrarsi dal mondo per rifugiarsi in uno spazio interiore, sia esistita solo in Germania, e analogamente che tale emigrazione sia finita con la fine del Terzo Reich. In quell'epoca oltremodo buia, dentro e fuori della Germania, fu in realtà particolarmente forte la tentazione, di fronte a una realtà apparentemente insopportabile, di abbandonare il mondo e il suo spazio pubblico per un'esistenza intcriore, o semplicemente di ignorarli a vantaggio di un mondo immaginario "come dovrebbe essere" o "come era stato una volta".

Si è discusso molto sulla tendenza ampiamente diffusa in Germania ad agire come se gli anni dal 1933 al 1945 non fossero mai esistiti, come se quella parte della storia tedesca ed europea, quindi mondiale, potesse essere cancellata dai manuali; come se tutto dipendesse dalla capacità di dimenticare il negativo e di ridurre l'orrore a sentimentalismo. (Il successo mondiale del Diario di Anna Frank dimostrò chiaramente che tali tendenze non erano confinate alla Germania.) Era grottesco che ai giovani tedeschi non fosse permesso di venire a conoscenza di fatti

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che ogni scolaro, a qualche chilometro di distanza, non poteva ignorare. Dietro c'era certamente un effettivo disorientamento, ed è probabile che l'incapacità di fronteggiare la realtà del passato abbia rappresentato l'eredità diretta dell'emigrazione interiore, così come fu indubbiamente in larga misura, e ancor più direttamente, una conseguenza del regime hitleriano - ossia una conseguenza della colpa organizzata in cui i nazisti coinvolsero tutti gli abitanti dei paesi tedeschi, gli emigrati all'interno non meno dei membri convinti del partito e degli esitanti compagni di strada. Gli Alleati non fecero altro che riprendere in seguito tale espediente, inserendolo nella tesi nefasta di una colpa collettiva. Di qui deriva il profondo imbarazzo dei tedeschi, che colpisce tanto uno straniero, in ogni discussione sui problemi del passato. La difficoltà che deve esserci nel trovare un atteggiamento ragionevole è espressa forse nella maniera più chiara dal cliché secondo cui il passato resta ancora "non padroneggiato", nonché nella convinzione che la prima cosa da fare sia padroneggiarlo. Probabilmente ciò non è possibile con nessun passato, di sicuro non è possibile con il passato della Germania di Hitler. Il risultato migliore che si può conseguire è sapere esattamente che cosa è stato e sopportare il peso di tale presa d'atto, quindi aspettare e vedere che cosa viene fuori dal sapere e dal sopportare.

Forse posso spiegarlo meglio con un esempio meno doloroso. Dopo la Prima guerra mondiale abbiamo fatto esperienza del "padroneggiamento del passato" in una quantità di descrizioni della guerra e nelle loro infinite

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variazioni di genere e qualità; naturalmente, ciò accadde non solo in Germania, ma in tutti i paesi coinvolti. Eppure, dovevano passare circa quarant'anni prima che facesse la sua comparsa un'opera d'arte e con essa la rivelazione trasparente della verità segreta degli avvenimenti. Solo allora fu possibile dire: sì, è così che è stato. Nel romanzo di William Faulkner, Varaboia, molto poco è descritto, ancor meno spiegato, nulla è "padroneggiato"; finisce con le lacrime che anche il lettore versa e ciò che rimane è l'effetto o piacere tragico, la sconvolgente emozione che mette in grado di accettare il fatto che qualcosa come quella guerra sia potuto accadere. Nomino volutamente la tragedia, perché, più di altre forme letterarie, rappresenta un processo di riconoscimento. L'eroe tragico perviene al sapere, sperimentando di nuovo nella forma del patire quello che è stato fatto, e in questo pathos, nel patire il passato, la trama degli atti individuali viene trasformata in evento, in un tutto significante. L'apice drammatico della tragedia si ha quando l'agire si trasforma in patire; qui sta la peripezia tragica, il dispiegarsi del suo finale. Ma anche trame non tragiche diventano veri eventi solo quando se n'è fatta esperienza una seconda volta nella forma della sofferenza provocata dalla memoria e del suo agire retrospettivamente e sensibilmente. Una memoria di questo tipo può parlare solo quando l'indignazione e la collera, che ci spingono all'azione, si sono placate - e per questo ci vuole tempo. Non possiamo padroneggiare il passato allo stesso modo in cui non possiamo disfarlo. Dobbiamo però riconciliarci con esso. La forma di questa riconciliazione è il

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lamento che sgorga da ogni reminiscenza. Come ha detto Goethe (nella dedica al Faust):

Der Schmerz wird neu, es wiederholt die Klage des Lebens labyrinthisch irren Lauf.31

L'effetto tragico di questa ripetizione nel lamento tocca uno degli elementi fondamentali di ogni azione; ne istituisce il senso e il significato durevole che da quel momento fa il suo ingresso nella storia. A differenza di altri elementi propri dell'agire -in particolare dei fini progettati, dei motivi e dei principi che lo orientano, che diventano tutti visibili nel corso dell'azione -, il senso di un'azione si rivela solo quando l'azione si è compiuta e diventa una storia suscettibile di narrazione. "Padroneggiare" il passato è possibile solo nella misura in cui si racconta ciò che è accaduto; d'altra parte, tale narrazione, che da forma alla storia, non risolve alcun problema e non allevia alcuna sofferenza; non padroneggia nulla una volta per tutte. Piuttosto, finché il senso degli eventi rimane vivente - e ciò può durare molto a lungo - "il padroneggiamento del passato" può assumere la forma di un'incessante narrazione. Il poeta in un senso molto generale e lo storico in un senso molto speciale hanno il compito di mettere in moto il processo di narrazione e di coinvolgerci in esso. E noi, che per lo più non siamo né poeti né storici, abbiamo una familiarità con la natura di questo processo in virtù della 31 "Si rinnova il dolore, ripete il lamento / il folle corso labirintico della vita."

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nostra esperienza di vita, poiché anche noi abbiamo bisogno di richiamare gli avvenimenti significativi delle nostre esistenze raccontandoli a noi stessi e agli altri. Perciò apriamo di continuo la strada alla "poesia", nel senso più ampio del termine, in quanto potenzialità umana; siamo in costante attesa che essa faccia la sua irruzione in qualche essere umano. Quando ciò accade, la narrazione dell'accaduto si arresta, e un racconto provvisoriamente compiuto, uno in più, si aggiunge come una cosa tra le altre alle cose del mondo esistente. Nella reificazione operata dal poeta o dallo storico, la narrazione della storia perviene alla permanenza e alla durata. La narrazione ha ottenuto così il suo posto nel mondo, dove ci soprawiverà. Qui può continuare a vivere - una storia tra molte. In queste storie non c'è alcun significato che possa essere separato da esse - e anche questo lo sappiamo dalle nostre esperienze non poetiche. Nessuna filosofia, nessuna analisi, nessun aforisma, per quanto profondo, può avere un'intensità e una pienezza di senso paragonabili a quelle di una storia ben raccontata.

La mia può sembrare una digressione. La questione è sapere quale misura di realtà occorra mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non si vuole ridurre l'umanità a vuota frase o fantasma. In altri termini, fino a che punto rimaniamo obbligati al mondo anche quando ne siamo stati espulsi o ci siamo ritirati da esso? Non è certo nelle mie intenzioni affermare che l’"emigrazione interiore", la fuga dal mondo nel nascondiglio della propria interiorità, dalla vita pubblica nell'anonimato (quando si è trattato

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proprio di questo e non di un puro pretesto per fare ciò che tutti hanno fatto con riserve mentali sufficienti per salvarsi la coscienza), non sia stata un atteggiamento legittimo, in molti casi l'unico possibile. La fuga dal mondo in tempi oscuri di impotenza si può sempre giustificare finché la realtà non viene ignorata, ma è costantemente riconosciuta come ciò da cui si deve fuggire. Quando le persone scelgono la loro alternativa, anche la vita privata può mantenere una realtà per nulla irrilevante, benché continui a essere impotente. Solo che per loro è essenziale capire che il carattere reale di quella realtà non consiste nella sua nota fortemente personale, tanto meno sgorga dalla sfera privata in quanto tale, ma inerisce al mondo da cui esse sono fuggite. Esse si devono ricordare che si trovano in fuga e che la realtà del mondo si esprime attualmente nella loro fuga. Che quindi la vera forza della fuga deriva dalla persecuzione e l'energia personale dei fuggitivi cresce all'unisono con la persecuzione e con il pericolo.

Al tempo stesso, non possiamo ignorare il limitato significato politico di una tale esistenza, per quanto essa sia condotta in tutta purezza. Il suo limite sta nel fatto che forza e potere non sono la stessa cosa; che il potere sorge solo là dove delle persone agiscono insieme, ma non là dove cresce la loro energia in quanto individui. Nessuna forza sarà mai grande abbastanza per sostituire il potere; ovunque la forza si confronterà con il potere, soccomberà sempre. Ma nemmeno la semplice forza di fuggire e di resistere nella fuga potrà materializzarsi quando la realtà è ignorata o dimenticata, quando l'individuo si ritiene troppo buono,

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troppo nobile per misurarsi con un mondo simile o non riesce a fronteggiare la "negatività" assoluta delle circostanze che dominano in un momento dato. Grande fu la tentazione, per esempio, di ignorare semplicemente la chiacchiera intollerabilmente stupida dei nazisti. Ma nonostante la seduzione insita nel cedere a tali tentazioni e di prendere dimora nel rifugio della propria interiorità, il risultato sarà sempre lo stesso: si getterà via l'umanità insieme con la realtà, come il bambino con l'acqua calda.

Perciò, nel Terzo Reich, nel caso di un'amicizia tra un tedesco e un ebreo, non sarebbe stato segno di umanità se gli amici avessero detto: non siamo tutti e due uomini? Sarebbe stata nient'altro che un'evasione fuori della realtà e fuori del mondo comune a entrambi a quell'epoca e non una presa di posizione contro il mondo esistente. Una legge che proibisse ogni rapporto tra ebrei e tedeschi poteva essere elusa, ma non smentita da uomini che negassero ogni realtà alla distinzione. Dal punto di vista di un'umanità che non abbia perso il solido terreno della realtà, un'umanità nella realtà della persecuzione, essi avrebbero dovuto dirsi: tedesco, ebreo, e amici. In tutti i casi in cui a quell'epoca un'amicizia del genere è esistita (ovviamente, la situazione è cambiata totalmente oggi), in tutti i casi in cui è stata mantenuta nella sua purezza, ossia senza falsi complessi di colpa, da un lato, e falsi complessi di superiorità o di inferiorità, dall'altro, si è prodotta una scintilla di umanità in un mondo divenuto inumano.

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IV.

Con l'esempio dell'amicizia, che ho introdotto perché mi sembra possedere, per ragioni diverse, un significato del tutto particolare per quel che concerne l'umanità, eccoci tornati a Lessing. È noto che gli antichi ritenevano che una vita umana non potesse fare a meno degli amici, anzi che una vita senza amici non valesse la pena di essere vissuta. L'idea che si ha bisogno dell'aiuto degli amici nella sfortuna non giocava un ruolo determinante in questo modo di pensare; al contrario, essi pensavano che non può esserci felicità per un uomo se un amico non la condivide. C'è qui indubbiamente qualcosa di awicinabile alla massima secondo la quale solo nella sfortuna si riconoscono i veri amici, ma quelli che noi stessi consideriamo veri amici senza averli messi alla prova nella sfortuna sono piuttosto coloro ai quali non esitiamo a mostrare la nostra felicità e su cui contiamo per condividere la nostra gioia.

Oggi siamo abituati a vedere nell'amicizia solo un fenomeno di intimità, in cui gli amici aprono la loro anima senza tener conto del mondo e delle sue esigenze. Rousseau, e non Lessing, è il migliore rappresentante di tale concezione conforme all'alienazione dell'individuo moderno, il quale non può rivelarsi se non ai margini di ogni vita pubblica, nell'intimità del faccia a faccia. Ecco perché è difficile per noi comprendere la rilevanza politica

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dell'amicizia. Quando, per esempio, leggiamo in Aristotele che la philia, l'amicizia tra i cittadini, è una delle condizioni fondamentali del benessere della città, tendiamo a pensare che egli non stia parlando di altro se non dell'assenza di fazioni e di guerra civile tra di esse. Per i Greci, al contrario, l'essenza dell'amicizia consisteva nel discorso. Essi sostenevano che solo un costante scambio di parole poteva unire i cittadini in una polis.

Nel discorso si rendeva manifesta l'importanza politica dell'amicizia, e l'umanità che la caratterizza. Il dialogo (a differenza del colloquio intimo in cui gli individui parlano di se stessi), per quanto intriso del piacere relativo alla presenza dell'amico, si occupa del mondo comune, che rimane "inumano" in un senso del tutto letterale finché delle persone non ne fanno costantemente argomento di discorso tra loro. Poiché il mondo non è umano perché è fatto da esseri umani, e non diventa umano solo perché la voce umana risuona in esso, ma solo quando è diventato oggetto di discorso. Per quanto le cose di questo mondo ci colpiscano intensamente, per quanto profondamente esse possano emozionarci e stimolarci, esse non diventano umane per noi se non nel momento in cui possiamo discuterne con i nostri simili. Tutto ciò che non può diventare oggetto di dialogo - il sublime, l'orribile, il perturbante - può anche trovare una voce umana attraverso la quale risuonare nel mondo, ma non è propriamente umano. Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi solo parlandone e, in questo parlare, impariamo a diventare umani.

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I Greci chiamavano filantropia questa umanità che si realizza nel dialogo dell'amicizia, poiché essa si manifesta nella disponibilità a condividere il mondo con altri uomini. Il suo opposto, la misantropia, significa semplicemente che il misantropo non trova nessuno con cui si cura di condividere il mondo, che egli non ritiene nessuno degno di rallegrarsi con lui nel mondo, nella natura e nel cosmo. La filantropia greca subì molti mutamenti diventando la romana humanitas. Il più importante avvenne in corrispondenza con il fatto politico che a Roma persone di origine etnica e di stirpi completamente diverse potevano ottenere la cittadinanza ed erano di conseguenza ammesse a partecipare al dialogo tra Romani colti sul mondo e sulla vita. Questo sfondo politico distingue Yhumanitas romana da ciò che i moderni chiamano "umanità", termine con cui comunemente non designano che un semplice fenomeno di educazione.

Che l'umanità debba essere sobria e lucida, piuttosto che sentimentale, che si attesti non nella fraternità, ma nell'amicizia, che l'amicizia non sia intimamente personale, ma ponga domande politiche e rimanga riferita al mondo - tutto ciò ci sembra così esclusivamente riferito all'antichità classica che siamo piuttosto sconcertati nel trovare tratti analoghi in Nathan il saggio, un testo che, per quanto moderno, potrebbe essere considerato a buon diritto il dramma classico dell'amicizia. Ciò che in esso ci colpisce e ci sembra strano è il "dobbiamo, dobbiamo essere amici", con cui Nathan si rivolge al Templare, e in realtà a tutti quelli che incontra; l'amicizia, per Lessing, è infatti talmente più

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importante della passione d'amore che egli può far finire bruscamente la storia d'amore (gli amanti, il Templare e Recha, figlia adottiva di Nathan, si scoprono fratello e sorella), trasformandola in una relazione in cui l'amicizia è richiesta e l'amore è reso impossibile. La tensione drammatica dell'opera riposa unicamente sul conflitto che insorge tra l'amicizia e l'umanità, da una parte, e la verità, dall'altra. Ciò può sembrare agli uomini moderni ancora più strano, ma, una volta di più, ci troviamo curiosamente nelle vicinanze dei conflitti e dei problemi dell'antichità classica. Alla fine, dopo tutto, la saggezza di Nathan consiste unicamente nel suo essere disposto a sacrificare la verità all'amicizia.

Lessing aveva delle opinioni ben poco ortodosse sulla verità. Rifiutava di accettare una verità quale che sia, fosse anche quella fornitagli dalla provvidenza; non si sentiva mai costretto dalla verità, che essa fosse imposta dai ragionamenti propri o altrui. Se lo si fosse messo a confronto con l'alternativa platonica della doxa e della aletheia, dell'opinione e della verità, la sua decisione non avrebbe lasciato dubbi. Era felice - per usare la sua parabola - che l'anello autentico, se pure mai esistito, fosse andato perduto; se ne rallegrava per amore dell'infinità delle opinioni possibili in cui si riflette il dialogo degli uomini sulle questioni di questo mondo. Se l'anello autentico fosse esistito, ciò avrebbe comportato la fine del dialogo, quindi dell'amicizia e, in ultimo, dell'umanità. Nello stesso senso, gli bastava di appartenere alla razza degli "dei limitati", come una volta chiamò gli uomini; e pensava che la società umana

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non patisse "di quelli che sono più indaffarati a fare le nuvole che a dissolverle", mentre rischiava di "soffrire molto a causa di quelli che aspirano ad assoggettare tutti i modi di pensare degli uomini al loro proprio". Ciò ha ben poco a che fare con la tolleranza nel senso ordinario (di fatto Lessing stesso non fu una persona particolarmente tollerante), ma ha molto a che vedere con il dono dell'amicizia, con l'apertura al mondo e infine con l'amore genuino per il genere umano. Il tema degli "dei limitati", dei limiti dell'intelletto umano, limiti che la ragione speculativa può mostrare e quindi trascendere, divenne in seguito il grande tema delle Critiche kantiane. Ma quali che possano essere gli elementi comuni tra Kant e Lessing - e di fatto ce ne sono molti -, i due pensatori si distinguevano in un punto decisivo; Kant ammise che non ci può essere verità assoluta per l'uomo, almeno non in senso teoretico. Egli sarebbe stato certamente disposto a sacrificare la verità alla possibilità della libertà umana; perché, se possedessimo la verità, non potremmo essere liberi. Difficilmente, però, sarebbe stato d'accordo con Lessing sul fatto che la verità, se esistesse, potrebbe essere sacrificata all'umanità senza esitazione, alla possibilità dell'amicizia e del dialogo tra gli uomini. Kant riteneva infatti che esistesse un assoluto, il dovere dell'imperativo categorico, posto sopra gli uomini, decisivo in tutte le questioni umane e che non può essere trasgredito nemmeno per amore dell'umanità in qualunque senso la si intenda. I critici dell'etica kantiana hanno spesso denunciato questa tesi come disumana e implacabile. In realtà, la disumanità non è relativa all'istanza dell'imperativo

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categorico che oltrepasserebbe le possibilità di una natura umana troppo debole, ma semplicemente al fatto di essere postulato come un assoluto e di introdurre pertanto nell'ambito umano - che per essenza consiste di relazioni - qualcosa che contrasta con la sua fondamentale relatività. La disumanità, legata al concetto di un'unica verità, emerge con particolare chiarezza nell'opera di Kant proprio perché egli ha tentato di fondare la verità sulla ragion pratica; come se Kant, che tanto inesorabilmente aveva fissato i limiti cognitivi dell'uomo, non avesse potuto evitare di pensare che nell'azione l'uomo può comportarsi come un dio.

Lessing, in ogni modo, si è rallegrato di ciò che - almeno da Parmenide e Platone - ha gettato i filosofi nella disperazione: del fatto che la verità, non appena enunciata, si trasforma immediatamente in un'opinione tra le altre, viene contestata, riformulata, portata a essere nient'altro che un oggetto di conversazione come tanti. La grandezza di Lessing non consiste soltanto nell'intuizione teorica che non può esserci una verità unica nel mondo umano, ma nella sua gioia per il fatto che non ne esiste nessuna e che quindi il dialogo infinito degli uomini tra di loro possa continuare incessantemente finché esisteranno gli uomini. Un'unica verità assoluta, se fosse esistita, avrebbe significato la fine di tutte le controversie in cui questo padre e maestro di tutte le polemiche in lingua tedesca si trovava così a suo agio e in cui prese sempre partito in modo totalmente chiaro e definito. Ciò avrebbe significato decretare la fine dell'umanità.

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Per noi oggi è difficile identificarci con il conflitto drammatico ma non tragico di Nathan il saggio, come avrebbe voluto Lessing. In parte perché, per quanto riguarda la verità, una condotta tollerante è diventata ovvia, sebbene per ragioni che hanno ben pochi legami con le ragioni di Lessing. È possibile che qualcuno oggi imposti, sia pur occasionalmente, la questione nello stile della parabola lessinghiana dei tre anelli - per esempio, nella mirabile sentenza di Kafka: "È difficile parlare della verità, perché, sebbene ce ne sia una sola, è vivente, e ha quindi un volto che cambia con la vita". Anche qui nulla è detto relativamente al punto politico dell'antinomia lessinghiana - ossia in relazione al possibile antagonismo tra verità e umanità. Oggi, inoltre, è raro incontrare persone che credano di possedere la verità; ci confrontiamo invece costantemente con quelli che sono sicuri di avere ragione. La differenza è netta; al tempo di Lessing, la questione della verità era ancora una questione filosofica e religiosa, mentre il nostro problema di avere ragione ha origine nel contesto della scienza e viene sempre deciso da un modo di pensare modellato su quello scientifico. Dicendo questo, tralascio la questione se questo mutamento nel modo di pensare si sia rivelato un bene o un male. Le cose stanno semplicemente così: anche le persone del tutto incapaci di valutare gli aspetti propriamente scientifici di un'argomentazione sono affascinate dalla ragione scientifica, almeno quanto gli uomini del xviii secolo lo erano dalla questione della verità. Ed è abbastanza strano che gli uomini moderni non siano stati indotti a deflettere dalla loro fascinazione

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dall'atteggiamento degli scienziati che, fintanto che procedono realmente in modo scientifico, sanno molto bene che le loro "verità" non sono mai definitive, ma sono sottoposte a revisione radicale da parte della ricerca vivente.

Nonostante la differenza tra il possedere la verità e l'avere ragione, i due punti di vista hanno una cosa in comune: coloro che abbracciano o l'uno o l'altro non sono in generale disposti a sacrificare la loro prospettiva all'umanità o all'amicizia in caso di conflitto. Essi credono in effetti che agire in questo modo significherebbe venir meno a un dovere più elevato, quello dell'obiettività; di modo che, se capitasse loro di fare un tale sacrificio, non sentirebbero di agire secondo la propria coscienza, ma si vergognerebbero della loro umanità. Succede anzi spesso che se ne sentano espressamente colpevoli. Nel quadro dell'epoca in cui viviamo e delle numerose opinioni dogmatiche che dominano il nostro modo di pensare, possiamo tradurre il conflitto di Lessing in un altro, più vicino alla nostra esperienza, applicandolo ai dodici anni del Terzo Reich e del suo dominio ideologico. Lasciamo per il momento da parte il fatto che la dottrina sociale nazista è, in via di principio, indimostrabile, poiché è in contraddizione con la "natura" dell'uomo. (Ricordiamo di sfuggita che quelle dottrine "scientifiche" non furono invenzione né dei nazisti né specificamente dei tedeschi.) Ma supponiamo per il momento che le dottrine razziste siano state dimostrate in maniera convincente. Non si può infatti negare che le conclusioni politico-pratiche che i nazisti ne hanno tratto

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siano state perfettamente logiche. Supponiamo che si possa dimostrare con evidenza scientifica indubitabile che una razza è inferiore: ciò giustificherebbe il suo sterminio? La risposta a questa domanda è ancora troppo facile, poiché si può invocare il "non uccidere", il comandamento fondamentale che regge il pensiero giuridico e morale dell'Occidente a partire dalla vittoria del Cristianesimo sull'antichità. Ma nei termini di un pensiero non sottoposto a regole restrittive né giuridiche, né morali, né religiose - e il pensiero di Lessing era così libero che "cambiava con la vita" - la domanda dovrebbe essere posta come segue: una dottrina di tal genere, per quanto provvista di prove convincenti, potrebbe giustificare il sacrificio di una sola amicizia tra uomini?

Eccoci di ritorno al mio punto di partenza, alla stupefacente mancanza di obiettività dell'atteggiamento politico di Lessing, alla sua parzialità sempre vigilante e che non ha niente a che vedere, in nessun caso, con la soggettività, poiché non si riferisce a se stessa, ma agli uomini nel loro rapporto con il mondo, alle loro posizioni e alle loro opinioni. Lessing non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rispondere alla domanda che ho appena posto. Nessuna idea sulla natura dell'Islam, dell'Ebraismo o del Cristianesimo avrebbe potuto impedirgli di allacciare un'amicizia o di dialogare con un maomettano convinto, un ebreo pio o un cristiano credente. La sua coscienza tanto ferma quanto integralmente libera sarebbe bastata a smascherare "obiettivamente", come un errore, ogni dottrina che rendesse impossibile in via di principio

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l'amicizia tra gli uomini. Si sarebbe messo subito dalla parte degli uomini, senza preoccuparsi troppo degli argomenti, più o meno eruditi, dell'uno e dell'altro campo. Questa era l'umanità di Lessing.

Un'umanità che si è manifestata in un mondo politicamente asservito i cui fondamenti, per di più, erano già stati scossi. Anche Lessing viveva già in "tempi bui" e a modo suo fu distrutto dalla loro oscurità. Abbiamo visto quanto forte sia il bisogno degli uomini in simili epoche di avvicinarsi gli uni agli altri, per cercare nel calore dell'intimità il sostituto della luce e della visibilità che solo la sfera pubblica può procurare. Questo vuol dire però che essi evitano il conflitto, che desiderano per quanto è possibile avere a che fare solo con persone con cui non possano trovarsi in conflitto. Un uomo del temperamento di Lessing non aveva certamente posto in un'epoca siffatta e in un mondo tanto angusto; quando gli uomini si stringevano per riscaldarsi l'un l'altro, si staccavano da lui. Ma lui che amava la polemica al punto di andarla a cercare, non poteva sopportare la solitudine tanto quanto la prossimità eccessiva di una fraternità che cancellava tutte le distinzioni. Non arrivava mai al punto di rompere effettivamente con un avversario; la sua sola preoccupazione era di umanizzare l'inumano con un incessante parlare continuamente ricondotto alle vicende e alle cose del mondo. Voleva essere l'amico di molti, ma il fratello di nessuno.

Non gli riuscì di realizzare l'amicizia nel mondo tra le persone per la via del conflitto e del dialogo; e nelle

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condizioni allora dominanti nei paesi di lingua tedesca sarebbe stato ben difficile. In Germania non si è mai avuta molta simpatia per un uomo che "valeva più di tutti i suoi talenti" e la cui grandezza "stava nella sua individualità" (Friedrich Schlegel), poiché tale comprensione sarebbe dovuta provenire dalla politica, nel senso più autentico del termine. E poiché Lessing era un uomo integralmente politico, sostenne che la verità non può esistere se non là dove può essere umanizzata dal discorso, là dove ciascuno dice non ciò che gli viene in mente in quel momento, ma ciò che gli "sembra verità". Un dire di questo genere è tuttavia quasi impossibile nella solitudine; esso è legato a uno spazio a più voci, in cui l'annuncio di ciò che sembra verità lega e insieme separa gli uomini, creando di fatto quelle distanze tra le persone che, insieme, formano il mondo. Ogni verità situata fuori da questo spazio, sia che apporti agli uomini felicità o infelicità, è inumana nel senso letterale del termine, e non perché potrebbe levare gli uomini gli uni contro gli altri e separarli. Al contrario, perché potrebbe avere come conseguenza che tutti si accordino improvvisamente su un'unica opinione, di modo che dalla molteplicità delle opinioni ne risulti una sola, come se non gli uomini nella loro pluralità infinita, ma l'uomo al singolare, una specie e i suoi rappresentanti, abitasse la Terra. Se ciò accadesse, il mondo, che si forma solo nell'intervallo tra gli uomini nella loro pluralità, scomparirebbe dalla faccia della terra. Pertanto, quanto è stato detto di più profondo sul rapporto tra verità e umanità si trova in una frase di Lessing,

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in cui lo si può anche veder tremare di fronte all'ultima conclusione filosofica della sua opera:

Jeder sage, was ihm Wahrheit dùnkt, und die Wahrheit selbst sei Gott empfohlen!32

32 "Dica ognuno cosa gli sembra verità, / e sia raccomandata a Dio la verità! "