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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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Guido Valabrega

Ebrei fascismo, sionismo

Studi storici

Argalìa Editore Urbino

1974

AAARGH Internet

2008 Studi storici a cura di Enzo Santarelli e Livio Sichirollo

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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[5] PREMESSA

I saggi qui riuniti e che attraverso una scelta ragionata vorrebbero render conto delle caratteristiche e delle finalità d'un determinato lavoro di ricerca, sono stati originariamente editi su pubblicazioni diverse ed in un arco di tempo abbastanza vasto: circa quindici anni. L'uno e l'altro motivo, insieme al dato che solo da poco e cioè dal 1967, è cominciata a maturare nel nostro paese una consapevolezza diffusa della questione sionistica e del problema israeliano, spiegano perché tra un testo e l'altro possa avvertirsi qualche discordanza o notarsi qualche ripetizione o sfasatura.

Negli anni '50, giova ricordare, nomi come quelli di Hess e Borochov erano in vero noti a poche persone. Altri personaggi, organizzazioni o istituzioni - quali Martov o il Bund o il Judenrat - se non erano totalmente ignorati, risultavano purtuttavia conosciuti in forma assai superficiale. Adesso tale stato di cose è molto cambiato: per tante cause ed anche perché nuovi tragici avvenimenti hanno pungolato a studiare e ad approfondire temi che ingenuamente, forse, ma anche comprensibilmente, due decenni fa si consideravano pressochè estranei al dibattito culturale corrente. Cosi', mentre la cautela di molti politici che faceva riluttare di fronte all'analisi di taluni nodi, è stata vinta dall'urgere degli eventi, la noncuranza per l'ebraismo o per l'area medio-orientale ereditata dall'epoca monarchica e [6] fascista è stata gradualmente superata dalla curiosità delle giovani generazioni.

Questa raccolta, dunque, è in parte pure testimonianza d'un procedere faticoso, dei numerosi condizionamenti con i quali si trova a misurarsi chi scriva non avendo autonomia economica e anche dei mutamenti via via avvenuti nelle temperie del nostro paese nel periodo indicato in riferimento con certi argomenti. Sentiamo di poter dire, comunque, che una sostanziale continuità ideale e di metodo è riscontrabile nelle pagine che seguono, al di la dei difetti formali: se vi sono state - e continueranno ad esserci - evoluzioni e riconsiderazioni, queste in pratica vorremmo si qualificassero non come slittamenti o esitazione, bensi' come impegno alla verifica concreta, tensione, progresso.

* * *

Tutti i testi, salvo tre, sono stati pubblicati nei volumi e nelle riviste segnalati in nota. Non sono state apportate che scarse e del tutto esteriori correzioni: è rimasta pertanto evidente la molteplicità delle occasioni che ha dato luogo ai vari interventi.

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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Sono inediti lo studio «Aspetti della partecipazione di ebrei italiani alla seconda guerra mondiale» e la nota storico-biografica e le testimonianze su Janusz Korczak.

* * *

Ringrazio tutti coloro che in molte circostanze mi hanno aiutato: in particolare chi lo ha fatto con critiche ed osservazioni.

Uno speciale ringraziamento ad Adolfo Scalpelli che mi ha amichevolmente indirizzato all'attuazione di questo [7] libro, a Enzo Santarelli che con sollecitudine ed equilibrio mi ha guidato nelle fasi della sua preparazione, all'Editore Argalìa.

* * *

E' sempre difficile scegliere una dedica: cercando di essere coerente con le commozioni d'un tempo, dedico questo lavoro alla memoria dello studente Roberto Franceschi, caduto a pochi passi da casa mia il 23 gennaio 1973, mentre lottava per la democrazia nella scuola e per il socialismo.

Milano, gennaio 1974.

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Parte I

Gli israeliti italiani durante il fascismo

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[11] Il fascismo e gli ebrei: un esperimento di consuntivo storiografico

Le note che seguono, suddivise per maggiore chiarezza in due parti, riportano il contributo che ho cercato di recare al Convegno su «Il fascismo e le autorità locali» tenutosi in Val d'Aosta nel settembre 1972. La prima parte, qui intitolata "Per un inquadramento dei problemi», costituisce la presentazione ed il commento alla comunicazione inviata al Convegno; la seconda, «Temi del lavoro», è il testo della comunicazione stessa.

I Per un inquadramento dei problemi

Prima di avviare una sommaria ricognizione su alcuni punti del problema fascismo-ebrei, appare opportuno mettere a fuoco taluni elementi preliminari sulla scorta dei quali risulterà poi più agevole venire ai nodi specifici. E, innanzitutto, conviene sottolineare come sia nella periodizzazione, sia per varie angolature, numerose risultino le convergenze, per ciò che concerne la realtà israelita, con quanto esposto in altre importanti relazioni presentate in questo Convegno. Così la suddivisione cronologica che emerge dallo studio di Ettore Rotelli, i sottofondi più vasti e complessi che sottintende l'analisi di Massimo Ganci sull'«unione» forzosa della Sicilia all'Italia, gli accenni nell'intervento del prof. Benini alla tradizione antiautonomista dello Stato liberale pre-fascista, le riflessioni di Arduino Agnelli su deter- [12] minati atteggiamenti filo-fascisti di dirigenti sloveni sono altrettanti preziosi spunti che coincidono con quanto si potrebbe dire in generale sulla tematica dell'ebraismo italiano: tale concomitanza di risultati - sia detto per inciso – già mi pare un frutto ragguardevole di questo incontro.

Del pari, venendo incontro alla sollecitazione di Ettore Passerin d'Entrèves per un lavoro quanto più possibile fondato su documenti e per convalidare come sia legittimo adombrare pure per quanto riguarda la gerarchia religiosa israelita qualche collegamento con le autorità politiche in senso reazionario ed antiautonomistico, così come è avvenuto, secondo quanto egli accennava, per il clero cattolico, recherò qui una segnalazione specifica: 'il testo, cioè, d'una significativa dedica che il capo dei fascisti israeliti Ettore Ovazza scrisse al rabbino capo della Comunità a cui apparteneva facendogli omaggio del suo famoso volume Sionismo bifronte (1). Così vergava di suo pugno l'Ovazza: «All'Ecc.mo Dott. Prof.

1 Su E. Ovazza, le sue iniziative ed il suo giornale La nostra Bandiera si veda, ad esempio, G. Valabrega, Prime notizie su «La nostra Bandiera» (1934-1938), in «Quaderni del Centro di Documentazione ebraica contemporanea», n. 1, 1961, p. 21. La dedica dell'Ovazza si trova nel n. 22 dei

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Dario Disegni, Rabbino Capo della Comunità Israelitica di Torino in ricordo di una comune battaglia, combattuta per la gloria d'Italia e d'Israele». Dove si nota che tutto un intreccio si raggruma in quelle due parole «comune battaglia».

Un argomento, questo delle posizioni del rabbinato italiano nei confronti del fascismo, invero tutto da studiare: che vide indubbiamente, accanto al disimpegno meno sim- [13] patico, coraggiose presenze in senso antifascista, ma anche sconcertamenti cedimenti. Il rabbinato non si distinse, ad esempio, solo per le pie traduzioni dall'ebraico in italiano di testi liturgici, ma pure per aver collaborato a più politicizzate traduzioni dall'italiano in ebraico di testi come la nota Vita di Arnaldo di B. Mussolini.

Un altro dato che giova rilevare in sede di impostazione del lavoro è che per una serie di motivi la discussione intorno alla tematica ebraica è stata negli anni scorsi disagevole e tale resta tuttora. Il peso infatti delle persecuzioni verso questa minoranza e delle superstizioni nei suoi confronti che anche prima del fascismo non poco l'affliggevano, ha provocato e provoca in parecchi un comprensibile senso di colpa e di disagio che non è sempre semplice superare. V'è inoltre sovente negli israeliti, anche quella conseguenza delle traversie che hanno subito, o una tendenza ad una completa assimilazione o una spinta ad una chiusura in se stessi che li portano o a rifiutare il ripensamento storico e ad esprimersi secondo modi un poco angusti, diremmo «parrocchiali», mentre assai sottile è lo strato degli studiosi israeliti e degli studiosi dell'ebraismo che conducono con linguaggio moderno ed aggiornato le loro ricerche. Riguardo a quest'ordine di fatti va registrata poi la pressione spesso deformante delle passioni politiche contemporanee. La diatriba, non di rado in chiave inconsciamente metafisica, su categorie quali sionismo-antisionismo, ebrei-arabi, Stato d'Israele-imperialismo, colonialismo-antisemitismo ecc. ha in parecchie occasioni reso difficile l'emergere della paziente indagine critica a vantaggio di più sbrigative generalizzazioni.

Tuttavia, prendendo in considerazione questi ultimi elementi, è lecito aggiungere che proprio l'attualità, con la sua irruenza drammatica, anche se in forme molte volte [14] confuse, ha finito con il creare un interesse nuovo, con il determinare pure un impegno serio a riandare alle origini dei contrasti d'oggi. Nelle Università, ad esempio vi sono migliaia di studenti che s'avvicinano con una valida curiosità intellettuale, che sarebbe colpevole e pericoloso disattendere, non soltanto alla problematica della resistenza palestinese, ma ovviamente a ciò che con essa via via si concatena: lo Stato d'Israele, il sionismo, la questione ebraica, il perchè dell'antisemitismo.

D'altro canto alcune recenti publicazioni attestano che qualcosa di nuovo si muove anche al di la degli studenti. Basti pensare alla pubblicazione del volume curato da Massimo Massara, Il marxismo e la questione ebraica (Edizioni del Calendario, 1972), unico, tra l'altro, al mondo nel suo genere, e che rappresenta un intervento razionalizzante di grande rilievo sia verso l'esclusivismo dei sionisti, sia verso le inadeguatezze che esistono in certi strati del movimento operaio, e, in cento esemplari su carta speciale della raccolta di scritti apparsi su La nostra Bandiera che si intitola appunto Sionismo bifronte (Pinciana, Roma, 1935 – XIV), Tale volume è stato reperito verso il 1960 in una bancarella di libri usati a Torino in piazza Carlo Alberto, vicino a Palazzo Campana. Ivi sarebbe giunto, non si sa attraverso quali vie, dalle ruberie effettuate dai nazisti durante l'ultima fase della persecuzione.

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campo meno vasto, del libro La persecuzione antiebraica a Trieste 1938 - 1945 di Silva Bon Gherardi (Del Bianco, 1972), per avvertire che forse per la cultura italiana nel complesso e non solo per gli storici specialisti sta maturando il momento di fare i conti con certi avvenimenti non ancora affrontati compiutamente (2).

Tornando al nocciolo della questione, per rispondere più puntualmente all'interrogativo su quali siano le modalità [15] ed il significato della politica fascista verso gli israeliti sia permesso ricordare che come punti di partenza occorre aver chiaro due ordini di informazioni: cosa è stato il fascismo specialmente come prassi politica e costruzione ideologica e come erano strutturati socialmente, quali orientamenti ideali avevano, come erano organizzati gli ebrei.

Lungi da noi l'intento di voler affrontare in questa circostanza tali dilemmi. Tuttavia, quale premessa ed in riferimento con le altre valide analisi che qui sono state presentate, sia concesso ribadire che pure per ciò che concerne la politica antisemita del fascismo è necessario verificare tutto l'arco della sua gestione dello Stato: chi volle il fascismo, lo allevò e lo insediò; quali erano gli obiettivi fondamentali che si proponeva; quali le evoluzioni e le contraddizioni del suo programma. Parallelamente andrebbero verificate le posizioni sociali e le tendenze politiche degli israeliti in Italia per lo meno dall'epoca della prima guerra mondiale: ad esempio, il fatto che a Ferrara o a Trieste alte cariche pubbliche fossero a lungo occupate da fascisti di origine israelita potrebbe qualificarsi indicativo d'una più ampia temperie, così come va considerato che al fascismo ed ai fascisti (compresi quelli qui sopra menzionati) si contrapponevano, nell'antifascismo, non rari ed insigni militanti analogamente di famiglia ebraica.

Nella misura in cui si risponde a questo tipo di quesiti diviene possibile dilucidare problemi anche più pertinenti: ad esempio perchè alcune correnti indubbiamente antisemite che già marginalmente circolavano in Italia siano riuscite ad imporsi ed il fascismo mussoliniano sia divenuto antisemita e perchè il fascismo, pur non perdendo alcuno dei suoi peggiori connotati, possa, in talune circostanze, tranquillamente assorbire (come in Spagna, Portogallo o Grecia) la modesta diversificazione religiosa degli ebrei. [16]

In questa prospettiva appare necessario tornare a domandarsi quanto alcuni episodi che furono definiti di fronda rispetto all'ortodossia fascista fossero eifettivamente tali: cosa questa assai più importante di quanto possa apparire a prima vista, giacchè è attraverso la loro esaltazione che alcuni dirigenti israeliti tendono a nobilitare il loro operato durante il regime a scapito dell'azione meno nota e più pericolosa di correligionari che, impegnati nella lotta clandestina, non primeggiavano certo alla guida delle Comunità durante il «ventennio». Così, per citare qualche fatto preciso, andrebbe puntualizzato in quale modo l'iniziativa di determinate cerchie di israeliti italiani per stabilire contatti e portare, con il loro

2 Meno importante risulta la pubblicazione del lavoro di SAM WAAGENAR Il ghetto nel Tevere (Storia degli ebrei di Rome) Mondadori, 1972 giacché inquadrato nella poderosa attività della casa editrice milanese, si direbbe in qualche modo riparatoria dell'incredibile scritto dell'agente del governo israeliano Pinchas S. Lapide, Roma e gli ebrei. L'azione del Vaticano a favore delle vittime del Nazismo (Mondadori, 1967). Da non confondere con il volume antologico curato dal Massara, ma pure simbolo di alto livello del processo di aggiornamento culturale in atto, è la traduzione in italiano del saggio di Abram Léon, Il marxismo e la questione ebraica (Samonà e Savelli, 1968).

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caritevole sussidio, la luce della civiltà europea agli ebrei abissini detti falascià - iniziativa che ebbe origine addirittura prima del fascismo, pur raggiungendo sotto il fascismo il massimo rilievo - si inserisca nella politica d'espansione colonialistica dell'Italia sabauda. Ancor più rilevante e già in una certa misura studiata è la questione degli «agganci» e delle «coperture» - si tratta poi anche di vedere quanto consapevoli e quanto inconsapevoli - offerti per un discreto arco di tempo dall'azione dei sionisti italiani al governo italiano diretto da Mussolini che tentava di estendere la sua influenza nel bacino orientale del Mediterraneo.

Non sembra dunque esagerato sottolineare come esistano numerose spinte per una «rilettura» della politica fascista nei confronti degli israeliti alla luce anche di numerosi dati inediti che sono venuti accumulandosi negli ultimi anni. E, al riguardo, rinviando di qualche pagina un giudizio complessivo, siamo lieti di poter rilevare come nell'ultima edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (Einaudi, 1972) vi siano alcune integrazioni abbastanza utili rispetto alla prima del 1961. [17]

Interessante, ad esempio, l'allargamento di notizie a p. 281 - 282 sul progetto mussoliniano. mai attuato, ma che qui si dimostra essere stato seriamente discusso, per offrire agli israeliti una «terra promessa» nell'Etiopia meridionale: progetto con il quale si in treccia non per caso ad certo punto anche la questione dei falascià. Per un altro risvolto, ma comunque degna di menzione, ci pare la documentazione che il De Felice reca a p. 534-540 dalla quale facilmente si deduce come le massime autorità della polizia fascista sapessero esattamente sin dal 1936 che cosa fosse il sistema repressivo nazista, campi di concentramento compresi. In terzo luogo, piuttosto clamoroso sembra che, dopo dieci anni di discussioni e di polemiche, a volte esplicite e più spesso soffocate, il De Felice a più riprese ammetta, sia pure in forme indirette, la presenza nel mondo ebraico ed in determinati momenti cruciali di incertezze, scontri ideologici ed opposizioni alla linea dominante: in una nota a p. 320 compaiono ad esempio, dei mai prima nominati «giovani filosionisti» che sono piuttosto enigmaticamente emarginati dalla vita comunitaria ad opera dei «benpensanti» (virgolette del De Felice) e del gruppo de La nostra Bandiera; nella stessa pagina un'altra noticina avverte che uno dei pochi israeliti a prendere posizione con un articolo contro il Manifesto degli «scienziati» razzisti fu un avvocato israelita torinese, al presente del tutto emarginato per il suo anticonformismo dalla vita comunitaria; infine a p. 615, tra i documenti, appare la relazione di p. Maria Benedetto sull'attività della «Delegazione assistenza emigranti ebrei», la cui opera specie nel primo periodo venne in verità assai criticata: orbene l'elemento principale d'interesse che ci pare di scorgere in tale relazione è appunto la difesa contro le «lagnanze contro la Delasem».

Da tutto quanto siamo venuti elencando un'indicazione [18] essenzialmente sembra emergere: che si debba andare avanti nello studio e nella ricerca anche per ragioni piu generali di quelle d'ordine storiografico o per erudizione. Poiche infatti gli stessi israeliti, turbati recentemente da molesti rigurgiti antisemiti, si sono spesso espressi, per quanto loro è stato dato, in questo senso crediamo che si debba tener conto in qualche misura della loro testimonianza. Non intendo qui riferirmi ai temi sollevati dalle riflessioni sugli ebrei di Natalia Ginzburg apparse sulla Stampa del 14 settembre '72, sia perchè in parte coinvolgono questioni che esulano dal nostro argomento, sia perché in taluni casi le risposte di alcuni illustri interlocutori erano un poco troppo abilmente calibrate, sia anche perché in

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quell'occasione da parte di altri s'è troppo inveito o recitato invece di discutere. Si preferiscono piuttosto segnalare alcuni interventi filtrati nella stampa ebraica nel periodo immediatamente precedente che paiono avere caratteri più semplici e spontanei, più vicini a quelli che si potrebbero definire i reali intendimenti della parte più vigile della cosidetta «base» del nucleo israelita italiano.

Fausto Pitigliani (Israel, n. 28, 15 giugno 1972), facendosi interprete di più diffuse preoccupazioni, così conclude uno scritto sulla modernizzazione delle Comunità israelitiche: "Ricordino i 'leaders' comunitari che in passato il non aver tenuto conto dei molti segni premonitori ci è costato lacrime di sangue e che le accuse più pesanti, sebbene in vari casi immeritate, sono piovute sul capo del cosidetto 'establishment' di allora proprio per questo difetto di valutazione».

Il direttore dell'Israel, Carlo Alberto Viterbo - le cui tesi sono state sovente discusse e non condivise. da molti lettori, quantunque di tali contestazioni non siano trapelati che scarni echi - intervenendo a proposito della ripresa del [19] MSI, uscì (Israel, n. 27, 1° giugno 1972) con la seguente affermazione alquanto peregrina: «Il Fascismo di per sè è stato già un male: il Fascismo più razismo è stato ed è quel male detestabilmente moltiplicato per mille». Fortunatamente, anche se il Viterbo ha continuato ad insistere, v'èstato chi è riuscito a rispondere a quella battuta di cattivo gusto. Sull'Israel, n. 29 ( 22 giugno 1972), l'avv. Raoul Camerini, infatti, scriveva in una lettera al direttore: «La suddetta distinzione non può essere accettata; il fascismo in Italia, come nel resto del mondo, è stato e sarà sempre anche razzismo il quale consegue ai principi dittatoriali ed antidemocratici del fascismo che non si suddivide in 'buono' o 'cattivo'; è fascismo e basta sia che si accompagni al razzismo, sia che, in particolari momenti storici, simuli per opportunismo un atteggiamento esteriormente non razzista». E, con molta opportunità, e spirito critico, per dare un preciso riferimento di che cosa si debba intendere per antidemocraticità, il Camerini segnalava un grave e recentissimo intervento repressivo in materia religiosa da parte del Consiglio dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane.

Quasi contemporaneamente Ha-tikwà (Organo della Federazione giovanile ebraica, n. 3; giugno 1972) recava una lettera di Paola Moscati che ribadiva con spontanea coincidenza i concetti del Camerini: «Non dimentichiamo che originariamente il fascismo non era antisemita, anche se poi non ha esitato a diventarlo pur di ottenere l'appoggio dei nazisti tedeschi. In ultima analisi voglio dire che un ebreo non deve essere antifascista perchè ebreo, ma antifascista perchè antifascista: e cioè contrario a tutto ciò che quella dittatura ha provocato e nemico di quella classe che un tempo ha permesso ed incoraggiavo, se non addirittura voluto e finanziato (per salvaguardare i propri interessi so [20] cio-economici) il fascismo: cioè la borghesia». Infine, avendo menzionato il Viterbo, sia concesso concludere citando Bruno Segre, direttore di un altro foglio: L'Incontro, che su questi problemi è intervenuto in modo pungente sia sul n. 6 (giugno), sul n. 7-8 (luglio) del suo giornale. Ad un lettore che gli chiedeva cosa fare per combattere l'antisemitismo che si riaffacciava, il Segre (L'Incontro, n. 6, giugno 1973) rispondeva: «Purtroppo quasi nulla si fa da parte degli ebrei per combatterlo. A Roma, l'Unione delle Comunità israelitiche italiane, organo burocratico, guidato da conservatori e moderati (il presidente è un magistrato di Cassazione), giustifica con la mancanza di mezzi l'assenza di iniziative politiche... Ancora una volta, come nel 1938, l'ebraismo in Italia resta passivo di fronte al ritorno di un antisemitismo di ispirazione neofascista (non manca qualche ebreo che simpatizza col MSI)».

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Difficile sembra quindi negare che da questi interventi, e da altri che si potrebbero riportare, scaturisca, tanto sul piano morale, quanto sul piano politico nel senso più valido dell'aggettivo, un'immediata insistenza a sviluppare l'indagine: per quanto ci riguarda, comunque, quanto segue è un passo che tenteremmo di fare in quella direzione, grazie all'occasione propizia del presente Convegno, precisamente traendo lo spunto dall'ultima citazione.

II

Temi di lavoro Nei mesi scorsi, come forse alcuni tra i partecipanti al Convegno ricorderanno, si sono avute due prese di posizione inconsuete ed importanti che, quantunque determinate da cause diverse, in qualche modo hanno espresso [21] autorevoli giudizi di parte israelita sui complessi rapporti tra fascismo ed ebrei e, più in particolare, sugli ideali e l'azione politica esplicati dal fascismo e la vicenda della comunità ebraica del nostro paese.

In occasione, infatti, del seminario degli insegnanti israeliti tenutosi a Milano il 24 e 25 aprile scorso, la prof. E. Ravenna (3), segretaria del Centro di Documentazione ebraica contemporanea, illustrando gli obiettivi ed i criteri della sua attività, aveva modo di ribadire una tesi già sostenuta altre volte: che cioè profondamente diverso sarebbe stato rispettivamente l'atteggiamento dei fascisti e dei nazisti verso gli ebrei. Diverso, e a tutto vantaggio sul piano morale dei fascisti italiani, esso sarebbe stato prima del 1938, anno in cui vennero emanate a Roma le prime disposizioni di legge razziste ed antisemite; diverso dopo il 1938 per l'applicazione relativamente blanda che avrebbero avuto quei provvedimenti; diverso, infine, dopo il 1943, durante l'occupazione germanica dell'Italia, per il sabotaggio che molte tra le stesse autorità dell'apparato statale - Prefetture, Questure, Carabinieri - avrebbero attuato nei confronti delle più crudeli misure antiebraiche messe in atto durante il periodo della Repubblica di Salò.

Quasi contemporaneamente a tale intervento, come si può rilevare leggendo i nn. 22 (del 23 aprile '72), 24 (del 4 maggio '72) e 26 (del 18 maggio '72) del settimanale Israel, si sviluppava, nel clima acceso della recente campagna elettorale, la nota polemica tra il gen. Giorgio Liuzzi e l'Unione delle comunità israelitiche italiane. In breve il [22] Liuzzi (cfr. gli interventi su Panorama nn. 310, 312, 314) sosteneva, sia pure in forme alquanto tortuose, una certa disponibilità a comprendere se non proprio a condividere, più come italiano che come israelita, i programmi del Movimento Sociale Italiano. Di contro l'Unione delle Comunità, attraverso anche un preciso intervento del suo presidente Sergio Piperno Beer, dichiarava l'inammissibilità per un israelita di appoggiare il Movimento Sociale, erede della tradizione antidemocratica del fascismo e dei fasti dell'antisemitismo mussoliniano e ciò nonostante la ben nota ammenda dell'ono. Almirante per i suoi trascorsi razzisti. 3 La prof. Eloisa Ravenna è immaturamente scomparsa l'8 settembre 1973. Proprio per profondo rispetto al Suo impegno di lavoro, ho creduto doveroso non modificare qualche punto di dissenso con alcune Sue tesi che si potrà qui notare. Ma la migliore maniera per ricordare coloro che non sono più con noi, penso sia quella di continuare con loro a dialogare, astenendosi dagli omaggi formali. come se tra noi essi ancora fossero.

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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Senza entrare in una valutazione approfondita delle dichiarazioni dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane, nelle quali non è difficile scorgere un contingente strumentalismo elettorale, resta comunque il fatto, culturalmente se non storicamente significativo, che ci troviamo di fronte a due valutazioni in sostanza diverse del fenomeno fascista.

Se l'opinione della dirigente del Centro di Documentazione ebraica contemporanea fosse appurata come fondata e cioè se fosse definitivamente chiarito che il fascismo - pur con tutti i suoi soprusi odiosi - non fu congenitamente antisemita e che le sue iniziative antiebraiche del 1938 e del 1943 per quanto gravi, furono dovute ad eccezionali coincidenze politiche, non si capisce perché non dovrebbe essere lecito ad un reazionario quale si dimostra il gen. israelita Giorgio Liuzzi nelle sue pubbliche affermazioni, di fare esplicitamente la sua opzione missina, un'opzione che in definitiva non sarebbe più deprecabile di quella del cattolico, se non andiamo errati, ammiraglio Birindelli.

Per l'altro l'avv. Piperno Beer, presidente dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane, avrebbe ragione nelle sue reprimende se effettivamente venisse dimostrato che [23] tra fascismo ed israeliti, presto o tardi non soltanto si venne ad un tragico ed ineguale scontro, ma che tale scontro rendeva palese un'originaria ed assoluta incompatibilitàdi coesistenza.

Come si vede dalle tes timonianze che ci siamo permessi di recare, il nodo fascismo-israeliti non risulta, almeno al livello di discussione d'attualità, risolto: vale a dire che permangono anche tra esponenti di primo piano dell'ebraismo italiano puntuali divergenze nonostante gli studi e le discussioni che si sono avuti in proposito negli ultimi anni. C'è, in verità, ancora un insieme di remore, di reticenze, di confusioni che hanno reso arduo e tuttora complicano un approccio coraggioso, ma spassionato allo spinoso problema: di qui la straordinatia validità di questa occasione per riprendere con calma un discorso che deve ancora essere completato.

Comunque, per ritornare al nodo centrale, non sembra inutile richiamare alla mente, seguendo all'incirca un ordine cronologico, una serie di dati che permettano di rendere evidente quanto gli otientamenti del regime nei riguardi degli israeliti siano stati mutevoli e carichi di precedenti e condizionamenti. 1. L'antisemitismo in Italia

Giova anzitutto ricordare che prima dell'avvento del fascismo, pur in una prospettiva che vedeva avviato consistentemente il processo di assimilazione, esistevano nel nostro paese limitate, ma tenaci correnti di antisemitismo. Vi erano, ad esempio da parte cattolica, nei confronti degli israeliti, non poche manifestazioni di ostilità che in genere [24] sono considerate eredi di una tradizione secolare di intolleranza religiosa e che rimbalzavano frequenti in giornali, riviste e libri. V'era, poi, un più virulento antisemitismo nei circoli nazionalisti che si collegò intorno agli anni '20 alle prime uscite del Preziosi, colorandosi anche di vero e proprio razzismo. V'era infine e non importa se il fenomeno non è ancora stato studiato adeguatamente, verso gli israeliti, come verso altri gruppi della popolazione, una diffusa spinta all'esclusione,

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alla discriminazione, all'assimilazione più o meno forzosa dei modelli di comportamento delle classi dominanti: tendenza questa più istintiva che consapevole, forse, e connessa pure con i modi autoritari con cui era avvenuto il processo d'unificazione del paese (si ricordino le polemiche sulla «piemontesizzazione», il brigantaggio, l'immigrazione interna, le emigrazioni all'estero), certo poco avvertita dalla cultura ufficiale e sovente ovattata dal paternalismo cattolico o dal laicismo anticlericale, ma non pertanto aspra e pesante e che è opportuno almeno adesso riconoscere al fine di non trasformare l'Italia reazionaria e bigotta dei Savoia in una terra straordinariamente all'avanguardia per ciò che concerne tolleranza, rifiuto degli esclusivismi, mancanza di imposizioni di ben precisi obblighi e convenzioni sociali. 2. Il primo fascismo e gli ebrei

L'atteggiamento verso l'ebraismo del fascismo ai suoi inizi e fin verso la crisi dell'Abissinia, fu come per altre e più grosse questioni occasionale e polivalente, sebbene, in sostanza si noti verso di esso uno scarso interesse. Non [25] pochi israeliti furono tra i fascisti della prima ora e gli accenni che su questo o quel giornale fascista o negli stessi scritti di Mussolini si trovano contro gli israeliti sembrano derivare essenzialmente dalla vischiosità delle suaccennate espressioni di un antisemitismo consuetudinario più che da intenti profondi e consapevoli. Va comunque aggiunto che la confluenza con il nazionalismo più acceso prima e la riscoperta della «romanità» poi dovettero contate alquanto nell'avviare il regime sul piano inclinato del razzismo. 3. Le Comunità israelitiche

Con il regio decreto del 30 ottobre 1930, n. 1731, il governo fascista, grazie pure all'attiva collaborazione dei maggiorenti dell'ebraismo, regolava con molta puntualità la vita delle comunità israelitiche sparse nelle varie città italiane, obbligandole a collegarsi in un'Unione. E' un provvedimento che ha il sapore agro dell'appena concluso Concordato con il Vaticano, ma nel quale i gruppi dirigenti dell'ebraismo all'unisono con le più alte istanze del regime, videro con soddisfazione consacrato il loro desiderio ultramoderato di ordine, obbedienza, spirito burocratico a tutto discapito della libera partecipazione personale, della distinzione tra Stato e Chiese e del superamento degli integralismi facilmente strumentalizzabili dal potere dittatoriale. Quali episodi minori che denotano il grado di fascistizzazione raggiunto dalle Comunità ebraiche, ricordiamo, ad esempio, che a Torino si riusci nella scuola elementare israelitica «Colonna e Finzi» a combinare la liturgia ebraica con la celebrazione della «Befana fascista» con distribuzione [26] di pacchi ai bambini bisognosi, discorsi ecc. e che a Milano nella redazione della locale rivista ebraica Davar fu per qualche tempo direttore responsabile Giorgio Spotti, capo-ufficio stampa del Municipio e collaboratore del Popolo d'Italia.

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4. Ebrei fascisti

A partire all'incirca dal 1934, si venne accentuando tra gli israeliti l'attivismo dei gruppi dei fascisti ebrei (con il loro giornale La nostra Bandiera) e dei sionisti revisionisti, anch'essi in larga misura chiaramente simpatizzanti per il fascismo. Tale fenomeno determinato da un insieme di eventi, tra i quali assai importante lo scatenarsi in Germania della persecuzione antisemita che indusse in Italia certuni a dimostrarsi il più fascisti possibile, finì con il provocare un'acuta crisi all'interno delle cerchie ufficiali ebraiche. Via via che il fascismo attraverso vari ondeggiamenti si accostava al nazismo accogliendone anche il divisamente razzista, una polemica sempre più accanita, quantunque spesso sotterranea, contrapporrà all'intemo della dirigenza ebraica gli israeliti «fascistissimi» che continuarono a puntare sino all'ultimo tutto su Mussolini, e i dirigenti conservatori-moderati che andarono ricredendosi sulla bontà del fascismo stesso. E una polemica, va aggiunto, quali che fossero i torti degli uni e degli altri, che farà trovare gli israeliti italiani particolarmente disorientati e divisi dinnanzi alla svolta attuata dal regime contro di loro. [27] 5. Sionismo

Alla dinamica di tipo interno, a cui essenzialmente si riferiscono gli elementi sin qui riportati, vanno aggiunte pure le interferenze della realtà internazionale: e non si intende solo ribadire ancora una volta quanto l'alleanza con Hitler dovesse costare anche in questa direzione. Va almeno ricordato come l'ipoteca del sionismo sulla Palestina non potesse non interessare il programma espansionista del fascismo: sionismo, infatti, significò alternativamente un movimento apprezzabile quanto puntando Roma sull'alleanza con Londra, esso si poteva considerare iniziativa dell'Europa «bianca» per colonizzare i paesi arabi; oppure quella sionistica parve in determinate occasioni organizzazione egemonizzabile allorché nel suo interno si profilavano le tendenze d'estrema destra che rieccheggiavano i programmi fascisti in opposizione all'imperialismo britannico; oppure l'associazione sionistica fu giudicata pericolosamente antinazionale quando si andarono contemporaneamente accentuando il distacco tra Roma e Londra e l'avvicinamento sionismo-democrazie occidentali.

Tenendo, dunque, presenti almeno i cinque temi di ricerca che abbiamo elencato, pensiamo di poter sottolineare come, dopo il periodo iniziale della diffidenza e delle dichiarazioni generiche ed improvvisate, la politica del governo fascista verso gli israeliti attraversò quattro diverse fasi.

[28] I - 1922-1929

Tra il 1922 ed il 1929 si ebbe un settennio di relativo nervosismo e di polemiche: il regime non era ancora pienamente fondato, non prive di incertezze sembravano le opinioni all'interno della comunità ebraica: di qui qualche tensione, qualche litigio, qualche scontro. Ad esempio, nell'estate del 1923 si ebbero a Tripoli

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vivaci tafferugli tra israeliti, carabinieri e fascisti che ebbero notevoli echi anche al di fuori della Libia. Casi alla fine del 1928 e a metà del 1929 a causa delle diatribe giornalistiche intorno al lealismo verso la patria degli ebrei sionisti, il giornale ufficioso dell'ebraismo italiano Israel corse il rischio di essere soppresso e nel secondo caso sospese effettivamente le pubblicazioni per breve tempo. Per altro, accanto a queste «incomprensioni», parecchie furono le occasioni che permisero di avviare al chiarimento: nel novembre 1923 Mussolini riceveva il rabbino di Roma, Angelo Sacerdoti; si avevano quindi diversi incontri tra autorità ebraiche e funzionari di ministeri; nel settembre 1926, Mussolini s'incontrava con Chaim Weizmann, la più alta personalità del sionismo; nel 1927, il Duce s'incontrava con il rabbino David Prato, poi con il dottor Jacobson dell'esecutivo sionista e, nell'ottobre dello stesso anno, con il presidente dell'esecutivo sionista Sokolov. II - 1929-1937

Sulla base di questi e di altri secondari e più operativi approcci è comprensibile come ci si potesse avviare all'approvazione della nuova legislazione sulle comunità ebraiche e come dovesse aprirsi un'epoca di quiete e sostanziale [29] normalità che durò dal '29 al '37: un'epoca che si può definire di soddisfazione nelle gerarchie fasciste per il comportamento sicuramente «nazionale» degli israeliti; di appoggio della stragrande maggioranza dei dirigenti israeliti al regime; di passiva acquiescenza in quasi tutti gli altri. Ne, d'altro canto, in una comunità idealmente guidata e controllata dalle tendenze della media borghesia sembra potersi immaginare che l'andamento potesse essere diverso, anche perché gli ebrei più poveri, quelli dell'ex-ghetto di Roma in particolare, erano (e sono) più accostabili al sottoproletariato per sentimenti ed atteggiamenti che ad un proletariato consapevole e cosciente della propria condizione di classe.

Per tali motivi, neanche episodi quali l'arresto a Torino nel marzo 1934 del gruppo di antifascisti israeliti e i nuovi incidenti di Tripoli dell'inverno 1936-37 con le campagne di stampa che li accompagnarono, turbarono effettivamente la buona armonia tra autorità statali ed Unione delle Comunità israelitiche. Forti della loro sincera adesione al regime, i dirigenti israeli ti in genere, furono porta ti a sottovalutare il gioco internazionale che volgeva a sfavore del tentativo italiano d'infiltrarsi nella questione palestinese, non si resero conto di come gli attacchi al sionismo stessero dilatandosi, trasformandosi a poco a poco in vero antisemitismo, non s'avvidero delle ripercussioni contro gli ebrei che avrebbero poruto derivare dagli impegni razziali affermati in occasione della guerra per l'Africa Orientale Italiana, chiusero gli occhi dinnanzi alle ripercussioni che si venivano determinando con l'alleanza via via più impegnativa con la Germania nazista. [30] III - 1938-1943

In verità la deliberazione di avviarsi verso l'antisemitismo razzista, i primi passi del quale sono da far risalire alla fine del '36, avvenne per un misto di infatuazione razziale-imperiale, di squallido cinismo politico per lo intento calcolato di consolidare la convergenza con Hitler e di casualità: fu in pratica una deliberazione che con altre concomitanti stava portando il regime fascista a fuoriuscire dai programmi di restaurazione dittatoriale ed anti-comunista stabiliti

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dalle classi dirigenti italiane nel 1922. Ma gli stessi industriali italiani, la stessa monarchia, nella loro chiusura conservatrice dovevano lasciar passare ancora degli anni, e quali anni!, prima di accorgersi che il cavalier Benito Mussolini, da loro designato a capo del governo, aveva fatto il passo più lungo della gamba.

Non si può quindi stupirsi se anche la borghesia israelita, avanti di comprendere la nuova congiuntura, dovette ritrovarsi sotto gli occhi il famigerato Manifesto degli «scienziati» razzisti del 1 luglio 1938 e poco dopo, nell'autunno, i primi provvedimenti antisemiti. «Il manifesto degli 'scienziati' in luglio e i successivi provvedimenti governativi giunsero per moltissimi ebrei e per la stessa Unione come altrettanti fulmini a ciel sereno», scrive il De Felice (R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, 1972, p. 320). Alla pubblicazione del «Manifesto della Razza», «gli ebrei italiani restarono increduli ed attoniti. L'esperienza tedesca era tragica e vicina: ma gli ebrei italiani continuarono a ripetere che 'in Italia certe cose non sarebbero mai accadute!' », annota Salvatore Jona (S. Jona, Contributo allo studio degli ebrei in Italia durante il fascismo, in «Quaderni del Centro di Documentazione ebraica contemporanea», n. 2, 1962, p. 19). [31]

In riferimento con il tema che veniamo affrontando merita ricordare le utili indicazioni che ha recato Valerio Casrtonovo con il suo volume su Giovanni Agnelli (Agnelli, UTET, 1971). Da tale testo si ricava, per un verso, la conferma che la grande borghesia di origine israelita si schierò compattamente in favore del fascismo (si vedano in particolare le posizioni di Donato Bachi, Emilio Debenedetti, Cesare Goldmann, Federico Jarach, Arturo Luzzato, Gino Olivetti, Guido Segre e Lodovico Toeplitz), per un altro, che persino la più prestigiosa figura del capitalismo italiano, Giovanni Agnelli, appunto, nel 1939-40 non mostrò alcuna preveggenza circa la bufera in cui stava per essere gettato il paese.

«Ma, in sostanza - scrive il Castronovo (op. cit. p. 588, 589, 590). - verso quale soluzione politica propendeva Agnelli? La neutralità, o un periodo adeguato di preparazione durante il quale continuare peraltro il far conto sulla grassa curée dei benefici commerciali assicurati dal regime di non-belligeranza?... Ma era possibile che Agnelli pensasse di andare avanti a far dormire i problemi, d'accordo con tutti, con i clienti francesi come con i fornitori tedeschi? Che questo fosse qualcosa di più di un calcolo sbagliato, sino a configurarsi piuttosto come una vera e propria miopia politica, non sembra si possa dubitare. In effetti, quando ormai la situazione imponeva di fare i conti con una realtà che non lasciava molte alternative, Agnelli persisteva nell'illusione che si potesse prender tempo... Quanto viene fuori insomma dai documenti della Fiat alla vigilia della guerra, è si un orientamento generalmente antibellicistico, privo tuttavia di reali riferimenti politici, incline semmai al 'meno peggio', senza alcuna bussola che non fosse quella, al di là delle furberie del momento, di un impossibile binomio 'autarchia-esportazione' (il riferimento è dello [32] stesso Agnelli, ancora nel marzo 1940), di un regime che 'al cospetto di un mondo guerreggiante' si preoccupasse piuttosto di tradurre in atto 'nuovi valori della civiltà costruttiva'. La posta in giuoco, ovviamente, era ben altra: ma i dirigenti della Fiat non sembravano coglierne la portata, quasi che la buona stella o gli errori degli altri, che avevano premesso al regime di superare la guerra di Etiopia, le sanzioni ginevrine, l'avventura di Spagna ecc. dovessero continuare a ripetersi all'infinito».

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Tenuto dunque conto dell'opportunismo, della faciloneria e della superficialità con cui venne avviata l'azione antisemita del fascismo, in parallelo con altre iniziative che dovevano portare la nazione nella seconda guerra mondiale, si spiegano pure il tipo di legislazione che venne approntata in materia e le numerose circostanze in cui essa trovò una applicazione non troppo rigorosa. Nondimeno, considerando anche l'assenza in Italia d'una «questione ebraica» per la scarsità stessa della popolazione israelita, la tolleranza che si afferma essere diffusa nel nostro paese, la poca consistenza delle correnti razziste, non pare proprio il caso di felicitarci per come si svolsero le cose. Piuttosto appare amaro constatare che tutto sommato, anche questo rospo bene o male venne fatto ingoiare al paese: le leggi furono elaborate ed approvate, gli organi preposti alla loro attuazione impiantati, migliaia di persone ci «camparono» su o ne trassero cospicui vantaggi. Una valutazione critica intorno a come si succedettero gli eventi e al modo con cui il fascismo approdò all'antisemitismo crediamo che possa portare legittimamente a dubitare che quella. fosse un'opzione assolutamente inevitabile: per consolidare il proprio potere il regime non aveva probabilmente necessità di volgersi conrro gli ebrei. Ma proprio per la sua gratuità, quindi, la sorniona violenza fascista contro gli ebrei del 1938, ci pare veramente grave; senza [33] dimenticare le non irrilevanti violenze fisiche e morali che lo squadrismo arrecò agli israeliti accanto ai provvedimenti di legge restrittivi, questo comportamento appare, in un certo senso, rapportabile solo alla cieca furia messa in atto contro gli avversari autentici del regime. IV - 1943 - 1945

Nel complesso più prevedibile, quantunque non pochi ebrei rimanessero ancora una volta sorpresi, appare la feroce caccia all'uomo del '43 - '45, quando l'autonomia della RSI era quasi nulla e furono le forze di polizia germaniche ad imporre il loro ritmo alla persecuzione contro gli ebrei. Lungi da noi, per quanto riguarda le vicissitudini di quegli anni tremendi, l'intento di sminuire lo slancio umanitario e patriottico di tanti italiani, di modesta condizione o in importanti uffici, che intervenendo in un modo o nell' altro in favore dei perseguitati, talvolta con estremo eroismo, ne salvarono non pochi da sicura fine.

Tuttavia, per quanto concerne «l'atteggiamento abbastanza umano verso gli ebrei» delle autorità fasciste nei primi mesi della RSI (De Felice, op. cit. p. 439) desideriamo ribadire che, frutto di coscienza sporca e desiderio di ricavare quadagni materiali sulla pelle delle vittime, incapacità 'ad attuare i propri propositi, doppiezza politica e vigliaccheria, esso non soltanto doveva risultare in certi casi un'insperata ancora di salvezza, ma contribui tragicamente a prorrarre in molti israeliti assurde illusioni sulla loro sorte: in primo luogo, attraverso la mistificazione dei colloqui «rassicuranti» a più o meno alto livello tra dirigenti israeliti e autorità dello Stato, a far trovare sguerniti gli ebrei romani dinnanzi alla razzia dei 16 ottobre 1943. [34]

Giudicando importante, al fine di arrivare ad una certa completezza di indicazioni, anche il rapporto ebrei-fascismo, oltre al rapporto fascismo-ebrei, vorremmo concludere questi rapidi appunti o meglio spunti di discussione, rimeditando, oltre che sui giudizi dai quali abbiamo preso le mosse, su altri ordini di considerazioni più pertinenti; più svincolati dalle vicende odierne e più inerenti al

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piano della ricerca storica, che offrono quindi buone possibilità di individuare meglio le componenti della complessa questione.

In proposito ci permetteremo di non soffermarci sugli approcci giustificazionistici dei dirigenti delle Comunità israelitiche e dell'Unione dell'epoca fascista, che invero non pare acquistino maggior consistenza dall'essere stati fatti proprio dall'ufficioso storico della comunità ebraica sotto il fascismo (4).

Segnaliamo, piuttosto, come stimolante, anzitutto la testimonianza, per qualche verso discutibile, ma ineccepibile al livello dell'impegno e del rigore morale recata da Guido Lodovico Luzzatto, insigne figura del socialismo democratico milanese. Rovesciando un'idea abbastanza diffusa, egli sostiene (G. L. Luz2Jatto, La partecipazione dell'antifascismo in Italia e all'estero dal 1918 al 1938, in «Quaderni del Cenrro Documentazione ebraica contemporanea», n. 2,1962, p. 32) che la maggioranza degli israeliti italiani fu, sin verso l'inizio degli anni trenta, quasi unanimemente antifascista, per passare successivamente ad un consunto e scialbo quieto [35] vivere che doveva precipitare nel '37 - '38 in un gravissimo smarrimento ai limiti del crollo psicologico. Il Luzzato sembra sottilmente spiegare questo atteggiamento interpretandolo come il risultato concreto della graduale divaricazione tra quelle che si potrebbero dire le cerchie dei dirigenti ufficiali dell'ebraismo e l'«intellighentia» di origine israelita, di cui egli tende a recuperare l'importanza: tra le prese di posizione ufficiali dell'ebraismo, da un lato, sempre più invischiate nella prassi fascista e, dall'altro, gli orientamenti antidittatoriali che erano spontanei in molti o più consapevolmente avvertiti negli israeliti preparati sotto il profilo politico.

Un'impostazione di «contestazione ebraica» di ispirazione marxista che forse ha per qualche verso anticipato certi atteggiamenti di contestazione cristiana e cattolica affermatasi in Italia negli ultimi anni, è quella portata avanti da Amos Luzzatto in un breve, ma pregevole studio sull'organizzazione comunitaria durante il fascismo (A. Luzzatto, La Comunità in Italia durante il fascismo, in «Quaderni del Centro di Documentazione ebraica contemporanea», n. 1, p. 14). Tenendo d'occhio, infatti, sia l'evoluzione del paese nel complesso, sia gli orientamenti di classe dei dirigenti che furono alla guida delle comunità prima e durante il fascismo, egli cerca d'individuare un processo storico per cui le autorità israelite in cambio delle «chances offerte loro nel mondo gentile dalle rinnovate strutture economiche e sociali... erano disposte a rinunciare a (quelle) autonomie storiche, ormai solo gravoso fardello» (op. cit. p. 16). Di qui la sostituzione, accettata dalla maggior parte dei dirigenti ebrei, della libera e spontanea scelta religiosa ed organizzativa, con l'inserimento nella politica del regime: non importa se le Comunità sono poste sotto il totale controllo politico dello Stato fascista; anzitutto tale Stato è tutt'altro che [36] inaccettabile, in secondo luogo alla testa delle Comunità i dirigenti non cambiano.

In questa prospettiva le resistenze, sia pure non organizzate, che negli strati meno abbienti dell'ebraismo e in particolar modo a Rodi e a Tripoli, si ebbero contro

4 Nell'articolo La tavola di salvezza degli italiani (in «Storia Illustrata», n. 6 anno V, giugno 1961) il giornalista Marco Cesarini scriveva: «Sappiamo del resto che il signor Renzo De Felice sta redigendo per conto della Unione delle Comunità israelitiche italiane un volume sull'argomento» (della persecuzione antisemita in Italia). A suo tempo corse voce che il lavoro in questione fosse stato sottoposto ad una sorte di commissione di fiducia dell'Unione delle Comunità israelitiche, composta dai signori Lelio Vittorio Valobra, Renzo Levi, Elio Toaf e Tullia Zevi.

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i metodi di governo e le interferenze dei fascisti, acquistano un vivo senso di protesta che appare importante recuperare contro l'involuzione burocratica che era stata sanzionata dalla legge sull'Unione delle Comunità del 1930. In altre parole, come in altri campi, il trionfo economico-politico della più ricca borghesia (quella ebraica compresa) comportò costi sociali ragguardevoli, a scapito pure di determinante benigne consuetudini precedentemente affermatesi nel corso del tempo.

Infine, per chiunque s'accinga ad approfondire questo tipo di problemi, risulta assai utile, a nostro avviso, la conoscenza delle ricostruzioni e delle interpretazioni avviate da Robert Katz in Black Sabbath. A Journey through a Crime against Humanity (MacMillan, 1969): un libro che comprendiamo quantunque con rammarico, perchè nessuna casa editrice abbia avuto il coraggio di tradurre in italiano (5).

Sulla scorta d'una analisi minuziosa della persecuzione degli ebrei romani dall'11 settembre al 23 ottobre 1943, per un verso, tenendo presenti, per un altro, le teorie della Arendt sulla comunità israelitica (6), l'Autore arriva ad inquadrare la condizione degli ebrei italiani secondo un più ampio contesto: la Comunità israelitica, giuridicamente costituita, in Italia come in Polonia o in Ungheria, in Francia o in Cecoslovacchia - sebbene secondo le particolarità d'ogni specifica [37] situazione - rappresenterebbe nell'attuale epoca storica uno strumento fondamentale dei dirigenti reazionari israeliti per affermare la loro supremazia. Di conseguenza, per costoro, l'essenziale, durante le campagne antisemite del fascismo e del nazismo, non sarebbe stato salvare gli ebrei, ma a costo del più completo collaborazionismo, salvare la istituzione.

Camprendiamo come queste ipotesi di R. Katz, per altro suffragate per quanto concerne l'Italia da una ricerca attenta e scrupolosa sull'orientamento politico dei maggiorenti israeliti romani più direttamente legati alla tragedia del 16 ottobre, possano trovare dissensi o almeno destare qualche sorpresa. Nondimeno, poichè credo vi siano qui studiosi che con spirito di coraggio hanno deciso di investigare un periodo di orrori e non di pace e di armonia, e poichè anche ci troviamo in un momento politico come l'attuale che pare richiedere ancora una volta tante virtù e non certo l'atteggiamento dello struzzo, mi sono permesso di adombrare una tematica che presto o tardi dovrà essere affrontata in tutta la sua estensione.

D'altro canto tra la costante predicazione da parte dei maggiorenti in favore dell'attesismo, della sottomissione e della fiducia nei poteri dello Stato, dei fascisti e degli stessi nazisti e l'atteggiamento sprovveduto di tante povere vittime, sembra difficile non vedere una correlazione: una correlazione che risulta specialmente preoccupante se si considera che a tutti gli effetti - nella vita privata ed in quella pubblica - tali maggiorenti, in linea di massima, avevano dato in precedenza prove di indubbia intelligenza ed abilità.

Riepilogando: qual è la posizione del fascismo nei confronti della minoranza religiosa israelitica? Per tutto il periodo della «normalità» (1922-1938) non [38] mancarono momenti di disagio e dissensi. Il lavorio per inquadrare la comunità ebraica nella visione autoritaria del fascismo, il timore che tra gli israeliti vi fosse 5 Per la precisione va segnalato che alcuni mesi dopo la lettura di questo intervento la casa editrice Rizzoli ha pubblicato tale opera. Ma essa risulta di fatto censurata dell'ultimo importante capitolo conclusivo! 6 Di Hannah Arendt l'opera più importante resta probabilmente Eichmann a Gerusalemme. La banalità del male. Feltrinelli, 1964.

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una alta percentuale di pericolosi oppositori, le accuse acrimoniose intorno allo scarso spirito nazionalistico che avrebbero avuto i sionisti, i malumori destati dalle resistenze degli ebrei libici, furono, ad esempio, altrettante circostanze di tensione e occasioni per i circoli antisemiti di soffiare nel fuoco. Tuttavia l'abile prudenza, il desiderio di collaborare, il rifiuto di ogni atteggiamento che avrebbe potuto irritare le autorità e, alla base di ciò, la convinzione che con le autorità fosse possibile onorevolmente collaborare, fecero si che i dirigenti israeliti riuscissero sempre ad aggirare e risolvere i malintesi.

Allineatesi, dunque, in conformità con le direttive, le Comunità israelitiche soddisfecero tangibilmente il fascismo: vale a dire che nella misura in cui gli ebrei italiani furono o sembrarono sufficientemente fascisti, il regime li accettò nel sistema. Non crediamo, però, che questa situazione possa definirsi di liberalità o di tolleranza, anche se in essa in pratica si adagiarono pure i fedeli di altre confessioni, tra i quali la grande maggioranza dei cattolici, e anche se in tale congiuntura i dirigenti conservatori dell'ebraismo si ritrovarono come pesci nell'acqua.

In verità non si tmttò che d'una operazione per strumentalizzare le fede religiosa e lo spirito associativo degli israeliti, per controllarli da vicino e dall'interno; fu una costrizione che snaturava profondamente quella che sembra essere l'essenza più valida d'ogni autentica aspirazione religiosa: l'impulso ad un miglioramento morale interiore. Si giunse invece, a valersi della aspirazione religiosa stessa per richiedere consenso ed appoggio ad un ben definito regime dittatoriale, alle sue soperchierie in tutti i campi, alle [39] sue avventure militari funeste; e ciò, spesso attraverso le maglie affilate e pericolose del ricatto non solo psicologico: come può il buon ebreo non approvare calorosamente, ad esempio, la guerra d'Africa? - sostenevano all'unisono tutte le autorità del tempo. Quale diritto ha un buon ebreo, con i suoi mugugni, con la sua eccessiva sottigliezza critica, di mettere in pericolo l'intera Comunità?

A questo s'aggiunge poi a dare il tocco dell'abiezione, la fredda e subdola giravolta antiebraica del '38, nella quale finirono sovente, infelicemente travolti, non pochi esponenti israeliti del fascismo che questa volta non furono protetti nè dai «meriti» politici, nè dal loro prestigio di classe.

Non pensiamo, in conclusione, che la politica fascista verso gli israeliti riesca a salvarsi dalla condanna che unanimamente sembra essere stata pronunciata. Ma tale sentenza sentiamo che non debba fondarsi nè sulla supposizione che gli israeliti fossero migliori di altri e che perciò particolarmente perversa sarebbe stata la persecuzione contro di loro (quindi operando, sia pure a rovescio una distinzione sempre pericolosa), nè sulla congettura che il fascismo sia stato ad un certo punto contagiato dal morbo misterioso di una inaudita diabolicità di marca nazista e che per questo da «umano» nei riguardi degli ebrei sarebbe diventato ad un certo punto, anche verso costoro disumano come lo era stato verso i socialisti o i comunisti, nè su una troppo comoda e restrittiva definizione del fenomeno fascista al quale risulterebbero perciò estranei i larghissimi e decisivi appoggi che esso trovò in vasti settori del mondo industriale, bancario, agrario, della burocrazia statale, dell'esercito, della polizia, del clero, oltre che nella Casa regnante.

Tenuto conto di tutto questo, è lecito tirare le somme sottolineando che nel succedersi e nel concatenarsi dei fatti, il fascismo stabilì utile ad un certo punto opprimere

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[40] gli ebrei soltanto perchè era fascismo: e chi all'inizio sottoscrisse quella cambiale, riconfermandola in seguito piùvolte, non può certo sentirsi esentato dalle proprie responsabilità. [41]

1934-1938 1) Prime notizie su «La Nostra Bandiera» (7)

Più si approfondisce lo studio della campagna antisemita nazifascista e si esaminano i comportamenti dei persecutori e dei perseguitati e più risulta chiaro quanto gli atteggiamenti degli uni e degli altri siano compositi e come in realtà vi sia stata una molteplicità di posizioni e di tendenze tanto in coloro che attuavano quanto in coloro che subirono la persecuzione. Evidentemente è impossibile non arrivare ad una constatazione del genere considerando la vastità del fenomeno fascista e la profondità delle sue radici nei settori irrazionalistici della cultura europea e nella struttura economica conservarrice e reazionaria che esso si impegnò a difendere.

Nell'ambito di questa problematica si pone anche, quindi, l'esame del modo non univoco, ma multiforme con cui gli ebrei risposero alla campagna razziale; se si esce dagli schemi in larga misura superati della retorica e del sentimentalismo si noterà che le risposte che gli israeliti [42] d'Europa diedero alla politica hitleriana sono d'una varietà assai più grande di quanto si sia fin qui in genere (e specie in Italia) ritenuto: questo riesame, secondo metodi interpretativi più realistici, dei modi d'autodifesa ebraica alla persecuzione nazifascista, finora non è stato effettuato che in piccola parte, ma ciò non toglie che esso permetterebbe certamente una migliore spiegazione del meccanismo della catastrofe e rivelerebbe più di un motivo di quella ineluttabilità che ad una certa distanza all'osservatore essa sembra possedere.

Secondo questa impostazione si intende nella presente rassegna esprimere qualche osservazione sull'opera svolta dalla pubblicazione torinese La Nostra Bandiera, edita da un gruppo di israeliti fascisti particolarmente attivi. Tale pubblicazione sembra degna di segnalazione non solo perché fu uno dei casi più clamorosi di adesione e di sostegno al fascismo da parte d'israeliti italiani in quanto e israeliti e italiani, ma anche perché essa in quello che volle rappresentare può essere, in linea di principio, per molti aspetti accostata a quelle manifestazioni di collaborazionismo in grande stile che si ebbero nel ghetto di Varsavia con l'azione del Judenrat locale (8) o a Budapest con l'attività del dottor R. Kastner (9) ecc. Infatti

7 Pubblicato nel 1961 nel primo (e unico) dei «Quaderni della Federazione giovanile ebraica d'Italia», dal titolo Gli ebrei in Italia durante il fascismo. A differenza dei due successivi, tale fascicolo non potè apparire (come invece era) opera del Centro di documentazione ebraica contemporanea, perche l'Unione delle comunirà israelitiche italiane, che controllava di fatto il Centro stesso, vi si opponeva dal momento che stava patrocinando l'imminente uscita di un libro di propria fiducia. Fu dunque giocoforza valersi d'una etichetta che almeno formalmente impedisse troppo rapidi interventi amministrativi. 8 Si veda ad esempio, il volume di A. Nirenstain, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, Einaudi, 1958, p. 29 nota 1, 65-67, 121-124.

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quantunque l'opera di questo giornale si sia esplicata prima dell'inizio formale delle persecuzioni antisemite in Italia, essa, per il clima storico complessivo in cui si verificò, clima per quanto riguarda gli ebrei dominato in primo luogo dalla violenza [43] razzista del nazismo germanico, si inserisce nettamente nella linea logica che porterà determinati gruppi ebraici a reagire a tale situazione collaborando fino all'ultimo con i carnefici della popolazione ebraica.

In altre parole l'esistenza e lo sviluppo d'un giornale come La Nostra Bandiera sta a confermare clamorosamente come anche in Italia l'atteggiamento dei perseguitati non fosse unitario bensi si strutturasse, prescindendo dall'omogeneità di cultura, religione e sofferenza, secondo diverse motivazioni politiche, sociali ed economiche e passando dalla passività dei più al legalitarismo degli organi ufficiali dell'ebraismo, all'antifascismo eroico dei pochi.

Va subito detto che un esame approfondito di La Nostra Bandiera richiederebbe ben più ampia trattazione di questi frettolosi appunti. La Nostra Bandiera è stata in verità un piccolo ma interessantissimo specchio della realtà italiana del quinquennio 1934-1938, secondo un particolare punto d'osservazione. Questo perché i suoi redattori fondandosi sul principio di dichiararsi «italiani (cioè fascisti) ebrei» potevano assumere, specie nei primi tempi, forti del beneplacito del partito, un atteggiamento spavaldo, riuscendo a dare un tono al giornale di gran lunga superiore a quello di semplice portavoce degli israeliti di Torino della cui Comunità presumeva esprimere opinioni e idealità. Nelle sue pagine (specie nel primo periodo) vengono infatti riportate vuoi per sottolinearli in senso positivo, vuoi per sottoporli a critica, molti e svariati interventi di fascisti grandi e piccoli su questioni attinenti l'ebraismo e. segnalazioni e appunti su un gran numero d'articoli e saggi tratti da pubblicazioni d'ogni genere: Il Popolo d'Italia, Milizia fascista, Gerarchia, Quadrivio, La vita italiana, Vent'anni, Il Tevere, La Gazzetta del popolo, Il Marc'Aurelio, Il Lavoro di cui si apprezzavano [44] molto i corsivi di «Stella Nera» (Giovanni Ansaldo) (10).

Volendo svolgere, e in parte riuscendo a svolgere, una funzione di rilievo nazionale La Nostra Bandiera fu perciò coinvolta (assai più spesso di quanto non sia stata artefice) in polemiche d'una certa importanza nelle lotte interne tra le diverse fazioni del partito fascista e nelle diverse valutazioni che tali fazioni esprimevano della situazione internazionale, tra filo ed antitedeschi ad esempio, vale a dire tra coloro che si richiamavano alle idealità anti-germaniche della prima guerra mondiale e coloro che col sorgere del regime nazista ispiratosi al fascismo cominciavano a subire il fascino della violenza e della rigidezza hitleriana.

Pur constatando tale vastità d'interessi, il nostro assunto si restringe a toccare alcuni punti soltanto e ad esprimere qualche giudizio provvisorio in attesa di più approfondite indagini intorno a quei filoni che partendo da polemiche locali o strettamente connesse alle vicende della minoranza israelitica arrivarono molto lontano nelle beghe interne del P. N. F.

Un primo quesito sul quale è opportuno soffertnarci concerne i motivi immediati e contingenti o sostanziali e di fondo che portarono alla decisione di dare vita alla pubblicazione di La Nostra Bandiera. Tra i primi, cioè tra le cause 9 Per una sommaria informazione sul caso Kastner si veda: A. Weissberg, La storia di Joel Brand, Feltrinelli 1958. Interessanti pure i giudizi di A. Eichmann sul Kastner riportati dal quotidiano israeliano Kol Haam del 28-11 e del 30-11 1960. Eichmann avrebbe dichiarato tra l'altro: «Kastner avrebbe potuto essere un ottimo ufficiale delle S.S. ... ho fatto con lui buoni affari». 10 Cfr. la testimonianza di I. Calvino in Il Paradosso n. 23-24 settembre-dicembre 1960, p. 13.

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occasionali che spinsero il gruppo di ebrei fascisti torinesi a raccogliersi intorno alla iniziativa di pubblicare un loro giornale, v'è senza dubbio da segnalare il desiderio di «lavare l'onta» caduta sull'ebraismo italiano in seguito alla scoperta in Torino di un gruppo di cospiratori antifascisti tra i quali numerosi erano gli ebrei (11). [45]

Anche secondo il Michaelis, è questo lo spunto che incitò i fascisti ebrei torinesi ad agire, come accenna nel suo saggio intitolato The Attitude of the Fascist Regime to the Jews in Italy: «The anti-Jewish campaign of the Fascist press reached its culmination with the Turin trial of March 30, 1934, in which 17 anti-Fascist, mostly Jews, were convicted. By Mussolini's order the Jewish origin of tbe accused was thrown into relief by the entire Italian press, which spoke of "Jewish anti-Fascist in the pay of expatriates". Jews of assimilationist tendencies gave vent to their patriotic zeal by setting up an appropriate weekly organ, La Nostra Bandiera. ("Our Banner") to mark themselves off from the Zionist Jews (April 1934» (12).

Ma oltre a ciò esiste, e mi sembra non vada sottovalutato, un altro stimolo contingente ed è quello descritto dalla stessa Nostra Bandiera nel primo numero, nell'articolo di fondo, allorché sostiene doversi prendere posizione contro «un fatto assai doloroso che ha colpito l'italianità e la religiosità degli ebrei, contro la deviazione del sionismo» (13). Quale è tale fatto doloroso di cui parla La Nostra Bandiera? In sostanza si tratta della dichiarazione dell'Unione delle Comunità israelitiche italiane in risposta alle violente diatribe antisioniste del Tevere (14); nel giornale torinese, [46] accanto all'indignazione per il comportamento degli ebrei «antinazionali» c'è un moto di ribellione e di fastidio per il comportamento non sufficientemente nazionale dell'Unione delle Comunità. All'odio contro i «superstiti» dell'antifascismo tra gli israeliti, s'assomma nel gruppo di La Nostra Bandiera lo sdegno per l'atteggiamento dell'Unione, da una parte giudicato imbelle, dall'altra politicamente sospetto di sionismo: dalla constatazione del sussistere di certi elementi in seno all'ebraismo che minacciano la coesione della nazione intorno al Duce e dell'incapacità delle istituzioni ufficiali ebraiche ad intervenire energicamente, sgorga allora l'esigenza urgente di prendere l'iniziativa, giacché ne andrebbero di mezzo la dignità e l'orgoglio di fascisti israeliti della prima ora.

11 Si veda in proposito l'articolo di fondo su Israel del 12-4-1934 «Triste episodio» e, a proposito di tutta la vicenda sulla quale ancora oggi si discute, la lettera di Leo Levi «Per fatto personale. in Israel, 28-7-1960. 12 In Yad Washem Studies IV Jerusalem 1960. 13 L.N.B. anno 1, n.1° maggio 1934, XII E.F. 14 Dichiarazione dell'Unione delle Comunità contro le polemiche antisionistiche e di fatto antisemite del Tevere, in Israel, anno 19'° n. 20-21, 15-22 febbraio 1934, XII: «L'Unione delle Comunità israelitiche italiane di fronte ad una discussione che si va svolgendo in un giornale di Roma intorno al patriottismo degli ebrei sionisti, afferma solennemente che tutti gli ebrei italiani, siano o non siano sionisti, sono per sentimento, per tradizione e per convinzione egualmente animati dalla più pura italianità della quale hanno dato e danno tuttora prove cosi luminose da dimostrare inconfutabilmente che quale sia il loro atteggiamento nel seno dell'ebraismo, l'italianità non viene ad essere meno fervida e pura. Tale dichiarazione l'Unione fa pubblicamente non per timore di un ritorno ad un periodo di coercizione e di violenza più che superato e da gran tempo dimenticato per il buon nome d'Italia, ma quale monito e protesta contro il ripetersi di polemiche che non hanno alcuna base nella realtà dei fatti, e per riaffermare ancora una volta la perfetta armonia dell'idea sionistica col più assoluto affetto all'Italia».

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Tuttavia accanto a queste cause occasionali è possibile elencare almeno tre fattori di più ampio momento che stimolarono gli ebrei fascisti di Torino all'azione.

In primo luogo si senti la necessità di assumere posizione contro il virulento antisemitismo che si rafforzava sempre di più in Germania, nello Stato contro cui l'Italia aveva pochi anni prima aspramente combattuto. Sulle colonne del primo periodo di La Nostra Bandiera, i continui rilievi critici contro pubblicazioni, dichiarazioni, decreti, soprusi antisemitici in Germania e la preoccupazione per la sistemazione dei profughi che affiuirono numerosi in Italia, danno un quadro abbastanza chiaro della gravità a cui si giudicava fosse giunta la situazione tedesca. Ovviamente, però, quest'esame è estremamente superficiale (ti [47] pico, si potrebbe dire, dei modi d'indagine fascisti) ed il il ragionamento su cui La Nostra Bandiera poggia la sua propaganda antinazista è del tutto esteriore e formale: il nazismo con i suoi estremismi razzistici non sarebbe che una cattiva copia, uno stravolgimento del fascismo il quale, invece, con la concezione della sua superiore universalità romana darebbe una superba prova di civiltà armonica e tollerante. Argomentazioni queste che fanno perciò leva su alcune caratteristiche esteriori e transitorie del fascismo verso gli anni '30 e prescindono da ogni accenno alle strutture economico-sociali italiane e tedesche che avrebbero facilmente rivelato quanto in concreto nazismo e fascismo si assomigliassero.

A questo proposito occorre notare che il periodo che va all'incirca dal 1929 alla conquista dell'Impero fu di «fioritura» per il regime fascista, che aveva ormai stroncato ogni seria opposizione interna, si era accordato con la Chiesa cattolica, aveva raggiunto, almeno apparentemente, una posizione di rispetto mondiale ed infine garantito all'Italia la colonia dell'A.O.I. Anche la congiuntura internazionale fu dunque in quest'epoca piuttosto favorevole a Mussolini. Da ciò deriva il secondo motivo che spinse gli uomini di La Nostra Bandiera a rompere ogni indugio: il desiderio d'inserirsi in un sistema di governo che si profilava solido ed efficiente; di fronte ai successi di Mussolini che appariva mediatore ed arbitro nei contrasti mondiali, ogni dubbio scomparve e ogni tentativo di approfondire le ricerche sui fenomeni antisemitici oltre quanto esteriormente si palesava, dovette sembrare pressoche opera da «disfattisti» e traditori. In breve il gruppo di La Nostra Bandiera credette nella maniera più actitica di poter puntare sul fascismo come su una carta di assoluta certezza e quindi stimò doveroso acconciarsi al più illimitato servilismo. [48]

Il terzo fattore è collegato con le specifiche condizioni d'esistenza degli ebrei in Italia. Verso il 1935, infatti, sia per una dinamica interna, sia per l'influsso suggestionante del nazismo, si ebbe nel nostro paese una ripresa, da parte di certi settori, della propaganda antisemitica, per i quali l'episodio torinese a cui si è accennato non fu che uno tra i molti spunti che spinsero ad intensificare l'azione (15). In relazione a ciò La Nostra Bandiera stimò opportuno intervenire per ribadire quello che essa riteneva, o diceva di ritenere l'atteggiamento ufficiale del fascismo in proposito. Tentativo, per altro, vano e destinato al fallimento più completo perché il fascismo non ebbe mai una posizione definitiva intorno a tali questioni, ma, come è

15 Caratteristico, sempre sui fatti torinesi, l'articolo di G. Preziosi «La risposta tocca ora agli ebrei», comparso in La Vita Italiana, aprile 1934, p. 398-402, nel quale si dice tra l'altro : «... Se questo è il pericolo del sionismo, non v'è, io penso, nessun paese nel quale una chiarificazione del problema ebraico s'impone oggi più che in Italia...»

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stato più volte dimostrato (16) si comportò sempre secondo i canoni del più deteriore machiavellismo. D'altronde sul n. 8 del 21 giugno 1934, dopo appena due mesi da che La Nostra Bandiera è sorta, essa è costretta a registrare l'incontro tra Mussolini e Hitler a Venezia, incontro che dimostra come la convergenza tra fascismo e nazismo procedesse nonostante gli screzi e le rivalità personali.

Accennato ai motivi che presiedettero all'uscita di La Nostra Bandiera, è opportuno segnalare taluni degli argomenti principali che ricorrono più spesso nelle sue pagine: ciò permetterà d'ampliare il panorama degli interessi che il giornale si preoccupava di difendere.

Premesso che nei cinque anni di vita di La Nostra Bandiera sono riscontrabili differenze e variazioni, i due [49] poli intorno ai quali fondamentalmente ruota sono l'antigermanesimo e l'antisionismo, come se sionismo e nazismo fossero due deviazioni analogamente inaccettabili delle superiori concezioni mussoliniane e, dovendo tenere ogni ebreo presente, per orientarsi esattamente, che «la romanità di Mussolini è idea centrale per l'ebraismo» (17), Cosìcome il nazismo è una deformazione dell'aspetto civile, laico, statale del fascismo, il sionismo ne sarebbe la corruzione, in campo ebraico, dei valori religiosi.

Nondimeno il problema della Palestina è visto con singolare attenzione da La Nostra Bandiera, tanto che risulterebbe assai utile un'indagine particolare su questo soggetto onde scoprire se intorno a tale questione non provenissero dall'alto consigli e suggerimenti. Infatti il giornale s'impegna vivamente al soccorso fascistico degli ebrei in Palestina «favorendo i traffici tra l'Italia e l'Oriente» (18) e sottolineando favorevolmente le proposte «per trasferire il mandato su di essa dalla Gran Bretagna all'Italia". Tale posizione diviene perfettamente spiegabile collegandola alle penose giustificazioni di tipo religioso che vengono date dell'impresa colonialistica in Africa orientale: i falascià abissini «aspirano a conquistare la civiltà europea; è quindi facile supporre con quanta simpatia essi vedono i contatti con l'Italia fascista, di cui presentono l'influenza benefica per essere sollevati da uno stato di barbarie e di pregiudizi in cui attualmente vivono» (19).

Tornando al problema del sionismo, assai significativa è la simpatia per il movimento revisionista, Vladimiro Giabotinski e la nuova organizzazione sionistica. Per dimo- [50] strare ciò basta, sul piano teorico, la presa di posizione in favore della azione del Giabotinski per la formazione della Nuova organizzazione sionistica contenuta nel n. 12, anno II, dicembre 1935-XIV, e la citazione dell'editoriale «Precisazione di programma» del 15 gennaio 1936-XIV, nel quale si sostiene l'esigenza d'una «ufficialità» (sic!) ebraica per la difesa della Palestina e la sua riunificazione con la Transgiordania, Sul piano pratico la enfatica descrizione della scuola marinara per ebrei stranieri di Civitavecchia dove sotto la direzione morale d'un professore

16 Ad esempio da A. Spinosa nei suoi quattro articoli sulle persecuzioni razziali in Italia in Il Ponte, n. 7-8-11 1952 e n. 7 1953. 17 L.N.B. anno III, n. 10, ottobre 1935, XIII. Da una recensione al volume di E. Ovazza Sionismo bifronte. 18 L.N.B. anno I, n. 3, 17 maggio 1934-XII. 19 L.N.B. anno II, n. 6, giugno 1935-XIII.

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esponente del movimento revisionista vengono recitate durante le funzioni religiose berachot per Giabotinski, è certo sufficientemente indicativa. (20)

Accanto agli attacchi al sionismo vanno segnalate le aspre polemiche contro la istituzioni centrali dell'ebraismo italiano, prima tra tutte l'Unione delle Comunità israelitiche italiane. E' questo un fatto molto interessante; in pratica pochissimo tempo dopo la promulgazione della legge istitutiva dell'Unione, il fascismo - tramite La Nostra Bandiera? - la poneva in discussione. Non è forse questo un ennesimo caso di tentativo mussoliniano di tenere il piede in due staffe, concedendo allo stesso tempo alla Comunità ebraica una legge che ne riconosceva certi diritti e agevolando gli attacchi contro le istituzioni previste da una legge voluta da Mussolini stesso?

Il giornale forte dei mille abbonati che proclama aver raggiunto (21), si lancia in una vera e propria azione sovvertitrice per sminuire l'autorità dei dirigenti dell'Unione ponendone in evidenza le deficienze amministrative (n. 24, 22 ottobre 1934 - XII) e le pericolose tendenze «internazionaliste» (n. 19, 18 settembre 1934 -XII). [51]

In questa breve ricerca dobbiamo prescindere pressochè completamente da un esame della politica dell'Unione delle Comunità durante il periodo fascista che, per quanto di estremo interesse, esula dall'assunto che ci siamo prefissati. Tuttavia per una migliore comprensione delle critiche che il gruppo di La Nostra Bandiera rivolgeva all'Unione, occorre sottolineare che l'organismo rappresentativo ufficiale degli ebrei italiani portava al suo interno una contradizione che lo induceva ad un atteggiamento in genere poco soddisfacente,

Da un punto di vista degli interessi di classe, l'Unione della Comunità, controllata da ebrei di condizioni economiche facoltose, non poteva, specie nei primi tempi, non appoggiare, come tutto l'ambiente capitalistico italiano, la politica conservatrice del fascismo, adeguandosi con duttilità alle nuove formalità che il regime aveva imposto rispetto al vecchio sistema parlamentare. In contrasto con ciò, una certa tradizione filantropica ed illuministica, caratteristica di certi imprenditori israeliti, ed i legami internazionali attraverso il movimento sionistico con il mondo della democrazia inglese, francese e statunitense, non potevano, specie con il progressivo accostamento dell'Italia alla Germania, non venire in urto con le correnti fasciste più fanatiche.

Il risultato pratico fu un atteggiamento sostanzialmente immobilistico che non poteva soddisfare evidentemente gli israeliti antifascisti, ma che non era gradito neanche dal gruppo di La Nostra Bandiera non solo per motivi politici, ma pure a livello dell'efficienza amministrativa, Da ciò deriva che negli appunti formulati all'Unione da La Nostra Bandiera ad argomentazioni campate in aria o puramente ideologiche si mescolano, in buona o in mala fede, critiche che hanno più di un fondamento. Questo atteggiamento burocratico dell'Unione spiega perchè La Nostra [52] Bandiera usufruisca di un numero piuttosto cospicuo di collaboratori di ogni tipo e tendenza e abbia modo, nello spazio lasciato libero dall'assenza dell'Unione, d'estendere i suoi contatti e collegamenti in pressoche tutte le Comunità italiane,

20 L.N.B, anno III, n. 7. 15 aprile 1936-XIV. 21 L.N.B, anno I, n. 13, 26 luglio 1934-XII.

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come dimostra il notiziario dalle varie località, veramente minuzioso e preciso e che non avrebbe potuto essere tale senza una rete efficiente di corrispondenti.

Dal punto di vista informativo vale la pena, per concludere, di riassumere le diverse fasi attraversate da La Nostra Bandiera, soffermandoci con più attenzione sugli atteggiamenti verso l'Unione delle Comunità. Eccole qui di seguito elencate,

1) Dal n. 1, anno I (1 maggio 1934 - XII) al n. 3, anno II (5 febbraio 1935 - XIII) La Nostra Bandiera è un Settimanale degli italiani di religione ebraica che ha per direttori Deodato Foà ed Ettore Ovazza, Esso si caratterizza per l'asprezza degli attaccbi contro l'Unione delle Comunità e le Comunità (come quella romana) ove sarebbero nel Consiglio persone non ben viste dal gruppo di La Nostra Bandiera. Nel n. 1 anno I si ha la notizia della nomina di Ettore Ovazza a commissario governativo della Comunità di Torino «in seguito ai recenti dolorosi avvenimenti»; un mese dopo circa (L.N.B., n. 8, 21 giugno 1934 - XII) le elezioni per il rinnovo del Consiglio torinese vedono la vittoria degli uomini di La Nostra Bandiera e la nomina a suo presidente del generale Guido Liuzzi che sarà autore dell'opuscolo Per il compimento del dovere ebraico nell'Italia fascista (Torino, maggio 1936 - XIV), Anche se i metodi usati nelle elezioni di Torino vengono riprovati dall'Israel (nel n. 37 anno XIX, 21 giugno 1934 - XII) per l'eccessivo numero dei voti per delega che si sarebbero registrati e perchè gli eletti sarebbero nuovi alla vita ebraica (!), l'influenza del gruppo di La [53] Nostra Bandiera cresce e si rafforza specie nelle Comunità toscane (Firenze, Livorno, Pisa) che accolgono nei loro Consigli ebrei fascisti di fede provata, tanto che, dopo un evidente retroscena di pressioni, discussioni e trattative, entrano a far parte del Consiglio dell'Unione il Liuzzi, l'Ovazza e Dario Nunes Franco di Livorno (il Liuzzi è addirittura chiamato a far parte della Giunta).

2) dal n. 5, anno II, maggio 1935 -XIII al n. 12, anno II, dicembre 1935 - XIV, La Nostra Bandiera divenne una mensile Rivista di cultura ebraica di cui è direttore solo più Deodato Foà. (Probabilmente l'Ovazza, avendo assunto cariche ufficiali nella guida dell'ebraismo, non desiderava più figurare alla testa di una pubblicazione, si voglia ammetterlo o no, di corrente). La rivista ha comunque ora un tono assai più calmo verso l'Unione delle Comunità e meno litigioso. Anche le polemiche coi giornali dell'epoca si fanno più ovattate e si ha l'impressione che in cambio dell'entrata di Liuzzi, Ovazza e Nunes Franco nel Consiglio dell'Unione quest'ultimo abbia ottenuto una sorta di controllo morale su La Nostra Bandiera ed un allineamento alla sua linea di azione

3) Con il n. 1, anno III (15 gennaio 1936-XIV) il giornale ritornava quindicinale e più simile a quello dei primi tempi. Una spiegazione del mutamento si ha nel n. 4 del 29 febbraio, con l'annunzio che Liuzzi, Ovazza e Nunes Franco per «divergenze profonde ed insanabili di vedute» danno le dimissione dal Consiglio dell'Unione (il quale non accetta di rassegnare le dimissioni in blocco e coopta nuovi membri al posto degli uscenti). Interessante è notare che mentre diminuiscono gli attacchi al regime antisemita nazista, aumentano da una parte gli articoli e le informazioni sul movimento revisionista di Giabotinski e dall' altra le no-

[54] tizie, praticamente solo statistiche, dalle varie Comunità italiane; tali notizie occupano di fatto parecchio spazio e permettono di diffondersi di meno su più gravi questioni.

Questa fase che dura sino al n. 4, anno IV (16 febbraio 1937 - XV) è probabilmente la più drammatica nell'esistenza del giornale: mentre la stragrande maggioranza della popolazione esulta per la conquista dell'Impero, gli attacchi agli

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ebrei che pur vorrebbero partecipare della gioia generaie, si moltiplicano, dando origine ai primi drammatici choc psicologici quale quello registrabile nella lettera di Legittimo sdegno d'una giovane ebrea, (22) terribilmente rattristata da un attacco antisemitico proprio nei giorni dell'entusiasmo collettivo a cui e!la sente d'aver diritto d'essere partecipe: è un piccolo dramma degno delia penna di Giorgio Bassani. Il giornale continua però ad avere una certa libertà di polemica contro gli antisemiti italiani, ai quali si risponde accusandoli di esser ai margini della Rivoluzione fascista (si veda l'articolo di A. Foà «Una legittima interrogazione» in La Nostra Bandiera, anno III, n. 18, 1 ottobre 1936-XIV), riconfermando vigorosamente le critiche all'Unione delle comunità e al movimento sionistico e con sparate come quella pubblicata in occasione della visita effettuata da Mussolini agli ebrei libici: «Con i fatti, dunque, Mussolini stesso ha voluto prevenire ogni possibilità di malinteso smentendo così anche le maligne e tendenziose voci secondo cui in Italia sarebbe già iniziata una campagna antisemita dipendente dal rafforzarsi dell'asse politico Roma-Berlino. Bugie, e noi siamo qui a dimostrarlo» (L.N.B. anno IV, n. 5, - marzo 1937 - XV). In questo caso si ha l'impressione che al giornale venga concesso ancora di esistere per facilitare la solita e comoda [55] ambiguità nelle direttive del governo fascista. La presenza d'un foglio come La Nostra Bandiera permetteva formalmente al regime d'essere contemporaneamente antisemita e agnostico cosicchè i fascisti, senza accorgersi di essere in realtà su un piano storico inclinato e ben preciso (23), con il loro bieco opportunismo si davano da fare per ingannare anche in questa occasione 1'opinione pubblica sulle loro reali intenzioni.

4) Dal n. 5, anno IV (1 marzo 1937 -XV) inizia l'ultima fase del giornale che, per quel che mi risulta, si conclude con il n, 3-4, 15-28 febbraio, anno V, 1938-XVI (sarò grato a chi mi segnalasse eventualmente altri numeri del giornale), Questa fase è contraddistinta dall'annunzio dell' abbandono dell 'incarico di direttore da parte di Deodato Foà (Òe viene sostituito da Amedeo Recanati), Poco dopo esce dall'apparato del giornale anche Ettore Ovazza (si veda il n, 16-17, 1 settembre 1937 - XV). Si ha la sensazione che in alto loco la trincea di La N ostra Bandiera venga giudicata troppo arretrata ed è per questo che il 24 gennaio 1937 viene creato a Roma un Comitato degli italiani di religione ebraica (emanazione del gruppo fondatore di La Nostra Bandiera) di «fede» ancora più provata (24), Ormai il

22 L.N.B. anno III, n. 10, 31 maggio 1936-XIV. 23 Interessante, a proposito della razionalità dei piani politici e militari fascisti, è la recensione di Roberto Battaglia al volume di Emilio Faldella, L'Italia nella seconda guerra mondiale. Revisione di giudizi, contenuta nelle p. 1086-1096 di Studi Storici, anno I, 1959-60, n. 5. 24 In risposta ai quesiti rivolti agli ebrei italiani dal Popolo d'Italia e da altri giornali nel maggio-giugno 1937, dopo la pubblicazione del libro Gli ebrei in Italia di P. Orano, il Comitato risponde con la seguente dichiarazione pubblicata in L.N.B., a. IV, n. 9, 1° giugno 1937-XV: «Il giorno 30 maggio 1937-XV, nella sede della Comunità israelitica di Firenze, in Firenze, in via Parini 4, alle ore 11,30 e poi alle ore 14,30, si sono riuniti i seguenti camerati per la quinta seduta del Comitato degli italiani di religione ebraica. .......................... I suddetti camerati, all'unanimità: a) prendono atto delle recensioni apparse nei quotidiani Il Popolo d'Italia e il Corriere della Sera ed in altri giornali, sul libro Gli Ebrei in Italia, di Paolo Orano. e decidono di rispondere agli interrogativi contenuti in dette recensioni con una dichiarazione da portarsi al Popolo d'Italia, del seguente tenore: Il Comitato degli italiani di religione ebraica, costituitosi in Roma il 24 gennaio 1937-XV, in coordinamento alle precedenti iniziative sotte nelle diverse Comunità italiane, presa visione dell'articolo pubblicato nel Popolo d'Italia in data 25 maggio 1937-XV per recensione del libro dell'ono. Paolo Orano, e delle varie pubblicazioni in argomento, in piena consapevolezzz dello scopo

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[56] giornale ha esaurito la sua funzione: si ripetono sempre più stancamente le solite asserzioni, si plaude alla «conquista» da parte dei fascisti ebrei sicuri delle Comunità di Roma, Firenze, Genova, Trieste ed Ancona (L.N.B., a. IV, n. 18, 1-16 ottobre 1937 - XV), ma il colore, tendente invero al grigio, è dato essenzialmente da lunghe rievocazioni biografiche degli ebrei più illustri dell'epoca risorgimentale e da scritti di poesia, linguistica e liturgia religiosa.

La vita italiana è turbata dal crescere della marea antisemita, gli episodi significativi della vergognosa campagna razziale si moltiplicano (degna di non essere dimenticata è la pubblicazione del libello noi Noi Ebrei, compilato da un anonimo dal nome di Abramo Levi, libello che viene addirittura attribuito al gruppo di La Nostra Bandiera) (25): mentre si precisano gli orientamenti dello Stato, il giornale ha portato ha termine la sua torbida missione di illudere gli ebrei italiani con la speranza che uno sfrenato ossequio potesse acquietare il moloch fascista. [57]

«Speriamo che Dio ci conceda di veder risolti molti dei problemi e delle oppressioni che oggi ci angustiano» ...(26), con queste parole, in stridente contrasto con l'albagia che ha caratterizzato tanti scritti degli anni precedenti, terribilmente drammatiche e sconsolate alla luce di quello che gli anni successivi dovranno portare, si conclude il 1937 e si va incontro al 1938, anno I° della persecuzione ufficiale del fascismo contro gli ebrei.. [58]

2) Prime notizie su Davar (27)

Nel panorama n0n troppo ricco dei giornali ebraici che furono editi o continuarono ad uscire durante il periodo fascista, spicca per vari motivi, una rivista mensile stampata a Milano con buona regolarità per alcuni anni: Davar, titolo che significa parola, seconda la tradizione terminologica ebraica e denominazione di vari fogli il più noto dei quali è l'omonimo quotidiano portavoce della Confederazione del lavoro israelitica, già esistente in Palestina negli anni trenta. Questa «rassegna», pubblicata a Milano con impegno tecnico ed organizzativo evidentemente ragguardevole, non sembra aver lasciato un buon ricordo, Il De Felice, l'ufficioso storico della comunità ebraica italiana sotto il fascismo, nella sua Storia (28), scrivendo a pp. 23-27 del giornalismo ebraico contemporaneo - un argomento, in verità, tutto da studiare a partire dalle sue due voci principali: il settimanale Israel e la rivista Rassegna mensile di Israel - non la cita nemmeno. A p. 176, a proposito delle polemiche sioniste del 1934, nelle quali fu coinvolta, come per cui è sorto, risponde in maniera precisa: che gli italiani di religione ebraica sono e si dichiarano nettamente nemici di qualunque internazionale ebraica e non ebraica, massonica, sovversiva o sovvertitrice e soprattutto antifascista; considerano l'Ebraismo come puro fatto religioso; dichiarano di non aver nulla in comune con chiunque professi dottrine sionistiche, e disconoscono il giornale Israel, le cui idee ed i cui programmi sono in netto contrasto con le loro convinzioni e con il loro spirito; ........... 25 Si veda l'articolo «Verità», nel n. 21-22 del 16-30 novembre 1937-XV. 26 L.N.B., anno IV, 16-31 dicembre 1937-XV. 27 In «Il movimento di Liberazione in Italia» n. 107, aprile-giugno 1972. 28 Renzo de Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, 1961.

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vedremo, pure Davar, la definisce seccamente rivista di cultura e pubblicità. Alle pp. 225, 269 e 381, in tre note a pie di pagina, la rivista viene genericamente menzionata per un articolo [59] sulla proclamazione dell'Impero, per un riferimento a Davar contenuto in un articolo di G. Preziosi e per dare notizia che questo, insieme ad altri giornali ebraici, cessò le pubblicazioni nel 1938. A p. 474 c'è un assai fuggevole e alquanto enigmatico accenno. Un più ampio riferimento si trova a p. 382. Qui si citano ampiamente i due editoriali contenuti nel n. 9 del settembre 1938 e si sottolinea che «da Milano il Davar volle cessare le pubblicazioni maledicendo i fratelli dell'Israel e accollando loro la responsabilità della persecuzione» antisemitica fascista.

Lungi da noi l'idea di difendere questi due editoriali. Tuttavia profondamente errato ci sembra, ma in fin dei conti dal De Felice si ricava proprio questa impressione, che la vita non breve e non tranquilla di Davar possa riassumersi nei suoi ultimi numeri assolutamente condizionati dalla svolta in senso antiebraico della politica del regime. Tutto sommato, per quello che abbiamo potuto leggere di Davar, questo genere di valutazioni tendenzialmente negative non risulta convincente, cosl come in quel tempo le antipatie nutrite, nell'ambito ebraico, dal centro romano verso la periferica rivista milanese sono assai meno semplici da spiegare di quanto potrebbe parere, non essendo certo riconducibili ad una polemica in sordina che si sarebbe svolta tra dirigenti centrali dell'ebraismo di tendenze non fasciste ed esponenti israeliti milanesi troppo ossequienti al regime.

In effetti, pure senza arrivare a dire che il gruppo milanese del Davar spiccasse per antifascismo, il senso dell'ostilità romana, che in realta vi fu, risulta, con buona pace del De Felice, sostanzialmente diverso. E' anche dalla relativa complessità di tale divergenza, una divergenza che è in parte provocata dall'impegno all'originalità ed alla rottura d'un certo conformismo della pubblicazione milanese, [60] che nasce l'interesse a rileggerne la collezione e a tentare una valutazione della sua proposta,

Abbiamo scritto più sopra: «per quello che abbiamo potuto leggere»: questo perché la fonte a cui abbiamo potuto accedere è la raccolta posseduta dalla Biblioteca comunale di Milano, la quale dal suo schedario e da quanto ci hanno confermato i suoi impiegati, possiede solo le annate 1934-38 ed in più il n. 9 (ultimo?) dell'anno II, ottobre-novembre 1933. In pratica, cioè, mancando le due prime, cinque delle sette annate di esistenza, Nel catalogo generale delle biblioteche della Lombardia, consultabile sempre presso la summenzionata Biblioteca civica, v'è l'indicazione dell'esistenza d'un'altra raccolta completa presso la Biblioteca ambrosiana, per esattezza sotto la schedatura Riv. 182: in questa sede però c'è stato detto che il riferimento non sarebbe aggiornato e che la raccolta della rivista sarebbe andata distrutta sotto i bombardamenti dell'ultima guerra.

Comunque, segnalati per la precisione questi dati, ci permettiamo di aggiungere che, nell'insieme crediamo di esserci potuti fare un'idea adeguata degli intenti della rivista: delle mete che si prefiggeva, degli ostacoli incontrati, dei risultati raggiunti. E, per cominciare ad entrare nel vivo, si può osservare che già il sottotitolo merita qualche commento, a partire dall'iniziale «Rassegna mensile israelitica illustrata» che indica un intento di concordanza-distinzione nei confronti della Rassegna mensile di Israel. Con quest'altra pubblicazione, infatti, per un verso si voleva istituire una simbolica colleganza tra correligionari; ma da essa, per un altro, ci si voleva nettamente differenziare scegliendo un orientamento divulgativo

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ben diverso da quello intellettualmente aristocratico tipico della rivista diretta da Dante Lattes, l'unico allora, e probabilmente [61] l'ultimo, israelita italiano di autentico rilievo nel campo della filosofia ebraica.

Il sottotitolo divenne poi (gennaio-febbraio 1937, n. 1-2), forse per le prime sotterranee imposizioni fasciste che ricbiedevano di confermare una linea consuetudinariamente tranquilla, «Rassegna israelitica illustrata di cultura arte ed attualità»: un programma, per altro, rispondente al vero e che confermava il desiderio di aprirsi e di rivolgersi ad un pubblico il più vasto possibile. Tra la fine del 1937 e del 1938 il sottotitolo però cambia ben quattro volte e se si tiene conto della costante aspirazione alla puntualità, alla precisione, alla «signorilità» che presiedette sempre al lavoro redazionale, è intuibile quanto dovessero costare questi continui aggiustamenti e come fossero sintomatici del succedersi delle drammatiche vicende nazionali e dei riflessi che esse avevano all'interno dello stesso gruppo dei collaboratori di Davar. Dicembre 1937, n. 12: «Rassegna illustrata di cultura ed attualità per gli israeliti di tutti i paesi», il che diremmo indichi un passaggio da strumento di comunicazione ebraico rivolto a tutti indistintamente, a giornale per i soli israeliti. C'è dunque una sorta di rinunzia a poter continuare a parlare a tutti i lettori, ebrei o non ebrei che siano, anche se si rifiuta di volersi chiudere programmaticamente nel ristretto ambiente dell'ebraismo italiano. Gennaio-febbraio 1938, n. 1: «Periodico illustrato di cultura arte ed attualità per gli israeliti di tutti i paesi»: il programma rimane invariato, ma la cadenza di uscita della rivista, che a lungo è stata regolare, non può più essere garantita anche per la morte di Mario Da Fano, la principale figura, la personalità-chiave tra coloro che la diressero e vi scrissero. Marzo 1938, n. 3: «Periodico illustrato di cultura arte ed attualità»: ormai non è più lecito in Italia parlare in modo aperto di [62] cose ebraiche se non per offendere ed insultare ebrei ed ebraismo e di conseguenza il compito essenziale di Davar, a parte il solo titolo!, viene meno. Tali intenti di pura evasione, i quali però facevano seguito ad un acuto travaglio, ad un vero scontro politico tra coloro che erano alla testa della rivista, sono ulteriormente esaltati nella parte conclusiva della storia di Davar che non può più esistere senza diventare qualcosa di totalmente mutato rispetto all'impronta iniziale e cioè un fascistissimo fascicolo di rimasricature nazionalistiche e peggio: «Rassegna illustrata di cultura, arte, attualità, turismo» (giugno 1938, n. 6). E neanche cosl potrà ovviamente avere vita lunga.

Da quanto forse già si può intravvedere, Davar - in tempi non certo agevoli per gli esperimenti culturali. aveva raccolto forze composite, riuscendo entro certi limiti ad armonizzarle, intorno a quello che sembra, per la parte centrale e migliore della sua vita, l'obiettivo fondamentale e primario: la creazione d'un giornale collegato all'ebraismo attraverso la partecipazione autorevole di israeliti qualificati, ma con carattere di «massa» sia per impostazione grafica, sia per l'impaginazione, sia, inoltre, per la cbiarezza espositiva, per l'accessibilità degli articoli, per la scioltezza e la spregiudicatezza delle rubriche e delle note di varietà, sia, infine, per la varietà dei collaboratori, non solo ebrei certamente.

A noi sembra che nell'insieme, considerata l'angustia dell'epoca, quelle finalità (parlare in modo non «parrocchiale» dell'ebraismo oltre che agli israeliti, agli ebrei tiepidi ed ai non ebrei, offrendo ricchezza d'informazione per tutti, tanto al lettore più preparato, quanto alla più sprovveduta piccola e media borghesia ebraica milanese) siano state in non piccola misura raggiunte. E questo discreto risultato, a cui non è più pervenuta alcuna altra pubbli-

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[63] cazione ebraica da allora sino ai nostri giorni, pensiamo che non soltanto giustificbi ulteriormente il tentativo di riesumazione che veniamo compiendo, ma che dovrebbe indurre a riflettere tutti coloro che di stampa ebraica in Italia si interessano.

Dunque, almeno in linea di principio, una pubblicazione non provinciale, che rifiutasse l'atmosfera un po' troppo chiusa, anche se confortevole, del ghetto ottocentesco e della familiarità, ma che invece tentasse di misurarsi con le grandi questioni, avendo sott'occhio quanto e come avevano scritto le grandi penne del giornalismo della metropoli lombarda prima del fascismo e quanto si scriveva, diceva e sussurrava a Milano in quel torno di tempo - 1930 - pieno di ricordi e di echi del passato, pieno di esaltazioni dannunziane per il presente, pieno di presagi ancora indistinti per l'avvenire. In conclusione, una specie di Domenica del Corriere degli ebrei con quanto c'è di apprezzabile e di meschino nel confronto con quello che è stato in un determinato periodo il settimanale forse più influente, probabilmente il più diffuso, certo il più letto. (Una cutiosa conferma è data dal carattere tipografico usato per il titolo della rubrica «Corriere istaelita» che reca notizie dalle varie comunità a partire dal luglio 1934, n. 7. Tali caratteri riprendono chiaramente quelli famosi della testata del Corriere della Sera...).

In verità, un esperimento del genere non poteva essere avviato che a Milano, dove c'era e c'è la seconda comunità israelitica d'Italia per grandezza e prestigio (circa 10.000 erano nel 1938 gli israeliti nella provincia di Milano) : un nucleo dal quale erano uscite tanto figure prestigiose di democratici e di socialisti, quanto autorevoli esponenti del fascismo. Inoltre, sotto un aspetto più generale, esistendo una puntuale coincidenza tra la dinamica [64] del gruppo ebraico e quella della borghesia italiana nel complesso, pure nell'ambito israelita si riflette quel fenomeno di inurbamento e concentrazione che fa di Milano l'asse dirigente del paese, il luogo principale di dibattito e di scelte per gli strati commerciali ed industriali e di Davar il minuscolo portavoce dell'ebraismo «efficiente» in concorrenza con quello più burocratico alla testa della comunità romana. Ne va dimenticato che la comunità di Milano, a partire dal 1933, comincia al accogliere, magari solo di passaggio, ma con proporzioni superiori a quelle di qualsiasi altra comunità israelitica, la corrente degli ebrei che, provenienti dalla Germania, fuggono per l'incalzare del nazismo. A questi s'aggiungono numerosi israeliti che emigrano dall'Europa orientale: dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Polonia fascistizzanti, ad esempio. Pure questo secondo fattore, che tuttavia renderà sempre particolarmente acuto il problema d'integrare in un unico ambito gli israeliti residenti a Milano, provocando fenomeni di dispersione e d'esclusivismo, contribuirà comunque a rendere dinamica e cosmopolita tale comunità, ricca di energie e capace, tra l'altro, in una sorta di gareggiamento con la comunità di Roma dalla pigrizia trasteverina e dall'indolenza ministeriale, di dare vita all'organo di stampa del quale ci stiamo occupando.

Però, prima di passare ad una rapida descrizione delle vicende del Davar, anche perché parecchi articoli francamente non rivestono significato storico-politico o rivelano valori letterari molto modesti, appare opportuno delineare un bilancio globale delle annate che è stato possibile analizzare. Si tratta infatti, ne pare inutile rammentarlo ancora una volta, d'una pubblicazione che non rivela quasi mai esplicita finalità d'intervento nella realtà contemporanea e che pur perseguendo obiettivi ideali abbastanza rigorosi e

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[65] specifici, costantemente mira - anche senza contare gli obblighi inevitabili dell'epoca - a convincere il lettore in via indiretta e mediata, facendo largo uso di rievocazioni alquanto pesanti della liturgia e delle solennità israelitiche, di grandi figure dell'ebraismo ecc. E' dunque anche per tali motivi che, volendo evidenziare il senso ed i segnali d'una battaglia d'idee tutt'altro che irrilevante, cercheremo di sottolineare, almeno quale primo approccio, alcuni elementi di fondo estraendoli da una materia assai più vasta e vaga. Ed innanzitutto pensiamo utile richiamare l'attenzione sulle tre persone che pare abbiano maggiormente pesato nelle traversie del giornale e che più siano riuscite a caratterizzarlo, prescindendo da incombenze direzionali consacrate. Parliamo cioè di Federico Ottolenghi, Mario Da Fano e Raul Elia.

Il primo, ufficialmente direttore del Davar a due riprese, grazie all'abilità professionale riuscì ad ottenere parecchie collaborazioni di rilievo. Il secondo, probabilmente colui che sotto il profilo redazionale diede di più alla rivista come solerzia organizzativa, e quantità di lavoro ed interventi scritti, figlio del rabbino-capo Da Fano garantì un notevole appoggio nell'ambito comunitario. Il terzo, pur senza avere, a quanto ci risulta, incarichi dichiarati, fu colui che s'impegnò con maggior rigore ad individuare una direttrice ideologica ricca d'una propria vitalità e capace di contraddistinguete tutta la fase mediana delle pubblicazioni (gennaio 1935 - maggio 1938) che fu pure la più importante, attraverso le secche e gli scogli d'una navigazione costantemente complessa,

Orbene l'Ottolenghi, il Da Fano e l'Elia, sin dagli interessi che rivelano nei loro articoli, dallo stile e dalle inclinazioni che trapelano, risultano uomini assai diversi: tra Federico Ottolenghi e Raul Elia ci sarà poi, in modo [66] palese, una grave rottura dovuta ad uno scontro sostanziale su quelli che avrebbero dovuto essere gli indirizzi del giornale. E nondimeno anche tra questi due, specie negli anni iniziali, collaborazione si ebbe; direi di più: in generale, scorrendo i nomi dei collaboratori va sottolineato che in Davar s'incontrarono persone molto lontane, vale a dire che a Davar riuscì egregiamente di raccogliere nelle medesime pagine un arco composito e fitto di articoli di provenienza dissimile.

Quale fu allora il terreno effettivo dell'incontro? Quale la ragione ideale che più o meno consapevolmente permise convivenze strane se non vere e proprie coincidenze? Quali i retroscena che, in modi tortuosi anche a causa dell'imposizione fascista di aggirarsi sempre intorno a determinati luoghi comuni, portarono al coagularsi intorno a Davar d'interessi in prospettiva non solo divergenti, ma in modo netto contrapposti ed avversi? Dove comincia l'ingenuità e dove finiscono gli equivoci?

Poiche ci si sta soffermando su un terreno assai poco conosciuto, specie per ciò che concerne la comunità israelitica di Milano (e questo silenzio, ancorché variamente motivabile, che contraddistingue gli ebrei milanesi in confronto con le ricerche sugli ebrei a Roma, Trieste, Casale Monferrato o Pitigliano, conferma l'urgere di interrogativi seri e congregati) pensiamo che si comprenderà il carattere di ipotesi che talune osservazioni e valutazioni possono avere, In attesa che testimoni e protagonisti superstiti rechino il loro contributo, non ci asterremo però, a proposito delle ragioni che possono spiegare il comune interesse per Davar di Federico Ottolenghi, Mario Da Fano, Raul Elia ed altri, dal formulare quella che in parte può apparire una suggestiva e stimolante supposizione.

In concreto, pare lecito affermare che il punto di rac-

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[67] cordo tra i personaggi sopra menzionati fu un'analoga simpatia per il partito sionista revisionista - una corrente sionista di estrema destra - che, a partire dal XVII congresso del 1931, comincia ad avere ragguardevole consistenza (52 delegati su 254) all'interno del movimento sionistico. I revisionisti, infatti, che fonderanno prima una loro Unione mondiale e poi nel 1935, staccandosi dagli altri sionisti, una Nuova organizzazione sionistica, trovarono consistenti consensi nell'ambiente ebraico italiano: sia perché il loro capo Vladimir Zeev Jabotinsky, personalità irruente e pugnace, soggiornò a lungo in Italia, sia perché gli orientamenti revisionisti erano i più consoni con l'atmosfera fascista dominante nel nostro paese.

Una disquisizione più ampia su questi temi, per altro non poco interessanti, esulerebbe in verità dal nostro assunto e quindi non svilupperemo l'indagine sul peso del gruppo revisionistico all'interno del sionismo italiano. Tuttavia è importante ribadire, come ha chiarito C.L. Ottino nel suo saggio Jabotinsky e l'Italia (29) che nelle impostazioni revisioniste di allora in effetti coesistevano due tendenze o meglio si avvertivano due versanti: da un lato v'è, in determinate cerchie del revisionismo italiano, una spinta sempre più marcamente fascista che le porta a collegarsi con gli ebrei fascisti tout court rappresentati dal giornale La Nostra bandiera (30); dall'altro vi sono i revisionisti che, attestati su posizioni di nazionalismo conservatore, di attivismo anti-inglese ed anti-arabo e di critica serrata al parlamentarismo borghese, riusciranno purtuttavia ad evitare l'identificazione con il fascismo dei primi e, magari in nome d'un esasperato particolarismo ebraico, perverranno addi- [68] rittura a posizioni sempre più vibranti in senso «antifascistico» via via che il regime s'accosta al nazismo.

Va aggiunto che l'uno e l'altro modo di essere revisionisti - per essere sinceri, agli inizi degli anni trenta, non sempre troppo distinguibili nella pratica - non potevano che riuscire sgradevoli per gli altri sionisti italiani, nella stragrande maggioranza legati alla corrente allora dominante nell'Organizzazione sionista mondiale, corrente che faceva capo a Chaim Weizmann. Da una parte i revisionisti fascistizzanti, insieme con gli israeliti fascisti, finiranno infatti con l'essere una specie di squallida quinta colonna del regime all'interno del piccolo mondo ebraico, spontaneamente attestato nei suoi principali dirigenti su posizioni di perbenismo conservatore e reazionario, ma, nell'insieme, alieno dal chiasso e dagli eccessi dallo squadrismo più volgare; è dunque per questo che i sionisti ufficiali italiani, per lo più assai vicini alle linee di imperialità democratica-borghese patrocinata dal filo-britannico Weizmann e cioè, in prospettiva, «antifascisti» di stile badogliano, non potevano che nutrire diffidenze per i correligionari eccessivamente entusiasti di Mussolini. Di contro, l'ala del revisionismo italiano non invischiata in quello che poi si sarebbe chiamato collaborazionismo almeno potenziale, dava fastidio al sionismo dell'Unione delle Comunità israelitiche perché troppo aspramente criticava alcuni pilastri del suo credo politico: la simpatia per le democrazie occidentali, il principio della massima cautela in ogni iniziativa, l'insistenza nelle manovre diplomatiche, il rifiuto dell'azione diretta, la sfiducia negli ebrei di più umili condizioni ed anche la relativa pazienza per la trattativa allora in corso con i dirigenti feudaleggianti degli arabi palestinesi (31). 29 Carlo L. Ottino, Jabotinsky e l'Italia, in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, n. 3, 1963. 30 Guido Valabrega, Prime notizie su «La Nostra Bandiera» (1934-38), in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, n. 1, 1961. 31 Per meglio chiarire questo tipo di divergenze giova ricordare che esse rieccheggiano pure contrasti allora in atto su più ragguardevole scala. Ad esempio, il leader del sionismo-labourista, David Ben

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Giacché, se si volesse scavare più a fondo - ma il nostro non è che un inciso - è probabile che in quel torno di tempo la dirigenza dell'Organizzazione sionistica offrisse parecchio spazio alle manovre della destra revisionistica di Jabotinsky. Weizmann ed i suoi, infatti, legati come s'è accennato in molti modi alle potenze occidentali, finirono, nolenti o volenti, per essere inglobati nella strategia attendistica, poco realistica e piena di infondato senso di superiorità che caratterizzerà Francia ed Inghilterra tra il '30 ed il '40: anche quando di fronte all'urgere dei problemi, ad esempio al manifestarsi in tutta la sua virulenza del fenomeno nazi-fascista, i governi di Parigi e Londra si comporteranno in modo profondamente inadeguato, prevalentemente teso ad utilizzare in senso anti-bolscevico i dittatori di Berlino e Roma. Tale inettitudine, dunque, si riverbera pure sulla maggioranza del movimento sionista ed i revisionisti avranno facile gioco nell'accusare di cedimento gli uomini di Weizmann troppo ossequienti agli indugi e alle formalità «democratici». E' per questo, di conseguenza, che in quell'arco di anni, i gruppi ebraici di estrema destra finirono con l'apparire in alcuni momenti addirittura all'avanguardia nella polemica anti-hitleriana: ciò fu possibile, in verità, solo per lo scarso impegno nella lotta democratica ed antifascista da parte dei gruppi più autorevoli del sionismo conservatore.

Tornando a Davar, le inclinazioni verso il revisionismo delle figure che più direttamente l'hanno controllata, quantunque orientate verso sbocchi differenti, pensiamo comin- [70] cino a spiegare in modo più pertinente il perché dell'insistenza e dell'animosità dei detrattori romani: giacché in loro la rivista destava l'impressione o che si tendesse ad una più o meno precisa trasformazione degli israeliti italiani in fascisti di fede mosaica oppure che si puntasse a gettare le basi, anche nella comunità italiana, per un'organizzazione sionistica alternativa, ostile a quell'Organizzazione sionistica ufficiale che con il suo stile fin di secolo, compito e colonialistico, costituiva la principale fonte d'ispirazione per i maggiorenti dell'ebraismo italiano. Tutto ciò, inoltre, spiega come su Davar si alternassero vari atteggiamenti, spesso polemici, e mai pienamente omogenei tra loro ma comunque determinati dal modo assai diverso secondo cui coloro che via via controllavano la rivista portavano innanzi le loro proposte.

Come si concretarono, allora, tali aggiustamenti, correzioni di tiro e mutamenti?

Si individua anzitutto un periodo iniziale, che giunge sino al n. 3-4 dell'anno III (marzo-aprile 1934-XII) che presumiamo di poter definire di preparazione e d'impostazione pure per la veste editoriale ancora modesta e per la pubblicità relativamente scarsa che si riesce a raccogliere. Comunque si offrono già numerosi elementi su cui riflettere.

Per esempio che autorevoli esponenti della pubblicistica fascista milanese non israeliti garantivano con la loro presenza la fisionomia dinamica ed «aperta» della pubblicazione: ad esempio era direttore responsabile Giorgio Spotti, capo-ufficio stampa del municipio di Milano e collaboratore del Popolo d'Italia, mentre collaborava Marcello Migliavacca, poi redattore di Regime fascista (scriveva, ad Gurion, che doveva, nel 1942, rovesciare, in nome del dinamismo di stile americano, la politica di Weizmann, elaborò nell'ottobre 1934 insieme a Jabotinsky uno schema di accordo con i revisionisti sui problemi sindacali ed operai che finiva con il provocare una tempesta di proteste all'interno della Confederazione del lavoro ebraica.

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esempio, un pezzo sul n. 1-2 del gennaio-febbraio 1934 dal titolo Eroismo ebraico). Dall'altro canto, nello stesso momento in cui Mario Da Fano s'impegnava con due o tre articoli [71] per numero sui problemi del sionismo e della Palestina, non mancano curiosi exploits, del tutto insoliti nella stampa ebraica di consueto austeramente puritana, che costituiranno una specie di costante, probabilmente invisa a molti rabbini, nell'economia della rivista: ci riferiamo tanto per segnalare un caso, ad articoli come quello di Anselmo Gioda su Il fascino della donna (a. II, ottobre-novembre 1933, n. 9). Si tratta di tentativi diretti essenzialmente ad accattivarsi il lettore, non certo contraddistinti da intenti innovatori, carichi invece di deteriori umori tardo-gozzaniani oggettivamente retrivi; nondimeno rappresentano una nota originale che convalida l'impegno verso una spregiudicata vivacità.

Nei numeri 1-2 (gennaio-febbraio) e 3-4 (marzo aprile) del 1934 (a. III-XII EF), subentra alla direzione Marcello Migliavacca, poi con il n. 5-6 e sino al n. 8-9 (agosto-settembre 1934) si ha una fase nuova, contrassegnata da quello che si sarebbe detto allora un «cambio della guardia»: la direzione viene assunta in termini di grande slancio da Federico Ottolenghi, israelita, non privo di specifiche attitudini e di agganci nell'ambiente giornalistico e fascista di chiara fama. Perchè il mutamento? A parte le divergenze che possono essersi verificate sul piano personale, il più fiero inquadramento nella logica mussoliniana che l'Ottolenghi indubbiamente desidera attuare pensiamo abbia piùgravi motivazioni e che sia da collegare con lo scombussolamento provocato dal famoso episodio di Ponte Tresa dell'11 marzo 1934: l'arresto di un folto gruppo di antifascisti torinesi tra cui parecchi israeliti, che destò spiacevoli preoccupazioni nell'intero ebraismo italiano e che impegnò anche la rivista Davar a serrare i ranghi mettendo in evidenza come, nonostante gli spiriti elusivi, fosse dotata di sensibili antenne politiche (32). [72]

Invero l'Ottolenghi era già entrato in campo con notevole asprezza con il trafiletto Un pericolo sociale nel n. 1-2 (gennaio-febbraio 1934) a proposito di una pungente ed equivoca discussione intorno al sionismo avviata dal Tevere di Roma. Infatti, in una pagina della rubrica «Segnalazioni» dedicata a questa polemica, l'Ottolenghi, criticando in particolare certi articoli comparsi nel settimanale Liguria del popolo perchè effettivamente antisemiti e non solamente antisionisti, usava argomentazioni che dovevano poi trasformarsi quasi in una linea programmatica: egli, pur affrontando in modo alquanto nebuloso il nodo sionismo-ebraismo, non esitava a tacciare il giornale ligure di provincialismo inconsistente perché s'era fatto sostenitore di tesi estranee all'autentica interpretazione dei principi fascisti. Dunque una presa di posizione impegnativa: noi siamo più rigorosamente fascistai di tanti altri. Sul n. 7 (luglio 1934), assunta la direzione, l'Ottolenghi con la nota Parole chiare ai lettori nella rubrica «Corriere israelitico», poteva calare nella pratica quelle imposizioni definendo ciò che avrebbe dovuto essere il piano d'attività della rivista. «Conscio della missione affidata alla stampa in regime fascista», il novello direttore si proponeva «non già di propagandare» questo o quell'aspetto dell'ebraismo, ma di lavorare «per consentire agli uomini che amano pensare, credere ed agire in "buona fede", gli elementi all'uopo necessari»... «Davar si

32 Sulla vicenda, su cui vari storici si sono soffermati, cfr. Leo Levi, Antifascismo e sionismo: convergenze e contrasti (note e ricordi sui «fermi» e sui fermenti torinesi del 1934), in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, n. 1, 1961.

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propone quindi di rivendicare, mediante documenti, fatti storici e rilievi, i meriti e le virtù degli israeliti». Un progetto, nel quale il termine sionismo veniva accuratamente evitato, che lasciava presumere un inquadramento dell'ebraismo in senso essenzialmente religioso-culturale e che infine quest'ultimo [73] riassorbiva pienamente nella prospettiva del fascismo: una direttiva indirizzata, dunque, a garantire che Davar, nonostante i sussulti e gli sbandamenti provocati dalle acri e livide insinuazioni scaturite dagli arresti del marzo precedente, avrebbe tirato diritto. Il che si potrebbe definire una bella sterzata verso la più piatta ortodossia littoria e se fosse riuscita è assai probabile che su Davar non sarebbe più stato il caso di riaprire il discorso. Invece, vuoi perchè verosimilmente all'interno della redazione l'Ottolenghi era non poco condizionato, vuoi perchè la sua durezza era forse soprattutto verbale, vuoi perchè, a parte una certa scioltezza di linguaggio, molti problemi di fondo egli sapeva solo sfiorarli superficialmente, Davar non risulta assumesse nell'insieme la grinta preconizzata. Si nota sì che la rivista raggiunge in questo torno di tempo maggiore robustezza d'impaginazione e una quantità davvero ragguardevole di inserzioni pubblicitarie; però è sotto il profilo culturale che, ne fosse consapevole o meno l'Ottolenghi, parecchie cose emergono oggettivamente lontane dalla rigida coerenza fascista che era stata auspicata. Così ad esempio, la passione sionistica torna insistente (33); così si denota un desiderio un poco cosmopolita d'imparzialità artistica parlando in campo musicale (34) di Ernst Bloch, in campo cinematografico di Charlot (35) o in campo letterario di Luigi (sic!) Lewisohn (36); così con molta assiduità si interviene insistentemente contro l'antisemitismo nazista allora in piena espansione.

Nel complesso il piano di lavoro proposto dall'Ottolenghi stentò subito ad avviarsi e Davar pote sfuggire alla [74] pronosticata fascistizzazione completa: le resistenze interne, per un verso, il riassorbirsi, per un altro, degli attacchi antisionisti avanzati da alcuni organi di stampa e che in alto loco probabilmente erano sembrati ad un certo punto diventare troppo ostinati, le capacità infine modeste e sbilanciate dai propositi velleitari, indussero l'Ottolenghi ad andarsene sbattendo la porta. Ed a restarsene fuori sin quando tempi più bui non lo avrebbero richiamato un'altra volta a questa mediocre ribalta. Lo sconquasso fu tuttavia abbastanza grosso, tanto che solo dopo tre mesi d'interruzione il nuovo direttore, Alberto Borghesi, figura che non assumerà mai grande rilievo, annuncia nel n. 1 del gennaio 1935 - XIII anno IV, la ripresa delle pubblicazioni. Egli nel suo saluto ai lettori, desidera almeno in apparenza riconfermare la linea precedente, però in verità il tono moderato, !'insistenza sul «carattere di singolare eleganza» che si vuol dare alla rivista e l'indicazione come obiettivo dell'informazione sulla cultura ebraica, l'arte, la vita della comunità e le relazioni dei fatti più significativi del giorno (il termine sionismo non è citato, ma si lascia aperta la strada per parlarne) sono altrettanti indizi del mutato orientamento e del diverso equilibrio raggiunto.

Inizia qundi il periodo che è lecito definire centrale nella vita di Davar. Tale periodo che va dal n. 1 dell' anno IV (gennaio 1935) al n. 4-5 dell'anno VII (aprile-maggio 1938) è contrassegnato dall'operosità del binomio Da Fano - Elia che verrà 33 Ad es. cfr. l'articolo di H. Galbel, Sulle orme di Teodoro Herzl in Palestina, luglio 1934, n. 7. 34 Mary Tibaldi Chiesa, I nostri musicisti, maggio-giugno 1934, n. 5.6. 35 René Cohen, Ribalte e schermi, agosto-settembre 1934, n. 8-9. 36 Recensione di a.j. in «Libri nuovi» a Il popolo senza terra di L. Lewisohn, agosto-settembre 1934, n. 8-9.

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spezzato da due eventi tragici di diversa portata, ma ugualmente esiziali per la storia della rivista: la morte per malattia del De Fano e l'inasprirsi della campagna razziale del fascismo.

Su un paio di temi, comunque, si riesce a notare una continuità tra le gestioni, continuità che conferma gli elementi di sotterranea connessione tra fascisti ebrei e revi- [75] sionisti ai quali s'è accennato. Il primo tema - in verità più che altro di sottocultura - lo si ritrova nell'insistenza con cui, per mezzo d'una sorta di compiaciuto razzismo alla rovescia e con accenti che oggi risultano bizzarri, si esaltavano attraverso immagini fotografiche «tipi di bellezze ebraiche» (!): un esempio caratteristico questo della disposizione ad accogliere le pressioni del potere dominante, in questo caso la politica «eugenetica», a farle proprie, e in un certo senso ad esorcizzarle affiancandovisi in forme pericolosamente entusiastiche. Il secondo tema è molto più serio riguarda l'attitudine a segnalare con molta cura e con accenti di appassionato dissenso i misfatti dell'antiebraismo germanico che stava infuriando Oltralpe. E' opportuno precisare che l'opposizione al nazismo di Davar, riscontrabile tanto nella gestione Ottolenghi, quanto in quella successiva, non è immune da qualche sospetto: che cioè, in fin dei conti, i suoi detrattori ed in primis l'Ottolenghi, male lo giudicassero esclusivamente per la crudeltà contro gli israeliti; se, come il fascismo, anche il nazismo avesse assunto un atteggiamento di tolleranza per gli ebrei, questi ultimi non avrebbero avuto alcun motivo di lamentarsi, così come per gli ebrei italiani il fascismo sarebbe andato benissimo. Ma, senza scavare troppo in questa direzione, si può dire che la nota di riprovazione per le manifestazioni antisemite in Europa e prima di tutto per quelle in atto in Germania, è costante e tenace, quantunque in prevalenza con l'elencazione di notizie più che con commenti e valutazioni. Così, benchè un poco in ombra nelle rubriche «Notiziario» e «Segnalazioni», troviamo quasi in ogni numero il richiamo ad una condizione che s'aggrava sempre più destando serissime preoccupazioni: si segnala, ad esempio, la proibizione di proiettare i films di Charlot su suolo tedesco; sono sottolineati negativamente i furori di J. Streicher a Berlino; si [76] riportano dati assai allarmanti sugli ebrei che in Germania sono rinchiusi in campi di concentramento; vengono pubblicate ampie informazione sugli episodi di violenza antiebraica che dilagano nel regime nazista; è messo in evidenza lo stato particolarmente drammatico in cui versano gli israeliti tedeschi ex-combattenti; è riportato il ringraziamento al duce di duemila ebrei germanici che hanno trovato ospitalità in Italia; compaiono più volte fotografie di A. Einstein espulso dalla Germania ecc. (37)

Per quanto l'inquietudine per il destino degli israeliti tedeschi risulti su una pubblicazione ebraica di quei tempi forse ovvia, va rivelata nell'assiduità con cui Davar torna su tale argomento specie sotto la direzione di Borghesi, qualcosa di più d'una semplice solidarietà o d'un moto di sdegno umanitario: c'è, in effetti, anche un suggerimento a riflettere, un ammonimento ad essere vigilanti che, per quanto scaturisca pure da indirizzi ideologici non lineari (è questa l'epoca di accaniti scontri all'interno del movimento sionistico sulla tattica da seguire verso il nazismo germanico), è pur sempre lodevole tanto più se confrontato con la sollecitazione

37 Su tutto ciò cfr. rispettivamente i nn.: 2-3, gennaio-febbraio 1935; 4, aprile 1935; 7-8, luglio-agosto 1935; 9-10, settembre-ottobre 1935: 1-2, gennaio-febbraio 1936; 34, marzo-aprile 1936; 2-3, febbraio-marzo 1935 e 4, aprile 1935.

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proveniente dai maggiorenti dell'Unione delle comunità, a lasciar correre, a non sollevar problemi, a non disturbare gli addetti ai lavori. Indizio di quanto la realtà di Germania fosse incombente sulla comunità milanese è la frequente pubblicazione su Davar di articoli in tedesco, traduzione di corrispondenti articoli in italiano, che cominciarono ad apparire dal luglio 1934 proseguendo sino agli inizi del 1937. Essi risultano evidentemente indirizzati al folto gruppo di profughi dalla Germania giunti negli ultimi [77] tempi, verso i quali la rivista si volge amichevolmente per cercare di favorire l'inserimento nel nuovo ambiente.

Ciò che più spicca in questa serie di Davar in confronto con l'era Ottolenghi è però la veemente accentuazione in senso sionistico: o più esattamente, la spinta - che anche allora doveva essere evidente per i pochi lettori smaliziati - a persuadere che l'unico modo legittimo d'essere veramente ebrei consistesse nell'accettazione della dottrina sionistica in particolare secondo l'accezione revisionista. Si ha quasi l'impressione, dall'intensità e dall'energia degli articoli e dallo sforzo di convinzione messo in atto, che prevalga la tesi che la scelta nazionalistica in senso sionistico sia, se non più importante, certo assolutamente alla pari con l'osservanza dei precetti religiosi. E questa predicazione, condotta di conserva dal Da Fano e dall'Elia, ma con più irruenza, con punte di lucido fanatismo nel secondo allorchè esalta la supremazia ebraica e la missione politica che agli ebrei tocca in opposizione alle furbesche manovre inglesi ed alla stracciona infingardaggine araba, si colora appunto d'aperte simpatie per la tendenza revisionista attraverso ampi richiami alle iniziative di Jabotinsky, l'esaltazione degli ideali eroici e pugnaci specifici del revisionismo, le informazioni ammirate sulla Scuola nautica organizzata dai revisionisti a Civitavecchia e via di seguito (38). [78]

Peraltro i sentimenti derivanti da tale orientamento, a tutt'oggi, in mutate condizioni e con mutati obiettivi, manifesti con diverse accentuazioni in larghi strati sia della popolazione israeliana, sia degli israeliti della diaspora, risultavano ancara allora non solo discutibili, ma portatori di elementi nettamente negativi. Tali passioni infiammavano sì gli animi, ma senza sufficiente consapevolezza razionale, puntavano ad isolare gli ebrei in una torre d'avorio d'autoesclusione, favorivano per mezzo delle forzature verbali un richiamo autolesionistico alla violenza: tutto ciò era poi reso più pernicioso per la mancanza di possibilità di qualsiasi autentico dibattito e confronto. Nondimeno la spregiudicatezza, anche se essenzialmeme apparente, e l'irruenza dovevano dare una risonanza insolita negli ovattati ambienti comunitari di quegli anni, dovevano dare l'impressione, essendo per i più inesistenti le possibilità di verifica, che quella fosse una indicazione combattiva e adeguata ai

38 Poiche si desiderano offrire alcune linee generali di valutazione e non stendere un resoconto analitico, non sembra il caso di appesantire con troppi riferimenti in nota quanto veniamo elencando. Per questo segnaliamo qui per comodità di lettura solo alcuni dati essenziali. Articoli significativi sul sionismo: Benjamin Mifano (Mario Da Fano), Una patria, una bandiera, febbraio-marzo 1935, n. 2-3; Raul Elia, Gli inglesi e il mandato palestinese (novembre-dicemhre 1935, n. 11-12); Raul Elia, L'assemblea legislativa in Erez Israel (gennaio-febbraio 1936, n. 1-2); R. E. (Raul Elia), La lotta tra la civiltà e la barbarie: l'impresa di Rutenberg (maggio-giugno 1937, n. 5-6). Articoli su Jabotinsky in particolare nei nn. 7-8, 9-10 e 11-12 del 1935. Esaltazioni di Josef Trumpeldor, tipico eroe del revisionismo, nei nn. 2-3 e 4 del 1935. Notizie encomiastiche sulla Scuola di Civitavecchia nei nn. 4 e 9-10 del 1935; 34, 7-8 e 9 del 1936. Tenuto conto che Davar non vuole e non può essere rivista d'attualità politica, ma genericamente culturale, ci pare che le intenzioni siano esposte senza troppi ambagi.

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tempi, capace di battere persino, se si fosse voluto, lo stesso dinamismo fascista: insomma per colui che fosse ostile o disgustato dal regime la spregiudicatezza dell'Elia poteva risultare più convincente ed efficiente della freddezza e dell'alterigia borghesi della maggioranza dell'Unione delle comunità israelitiche. Fu probabilmente anche per queste ragioni che in un modo o nell'altro su Davar circolarono nomi antifascisti e che in Davar almeno alcuni antifascisti, nel 1935-37, trovarono qualche spazio: sono segnalate, ad esempio, le conferenze di Lavinia Mazzucchetti, Guido Ludovico Luzzato o Marcello Savaldi, così come il giovanissimo Rubens Tedeschi, antifascista pure per tradizione familiare, faceva i suoi primi esperimenti poetici ed Israele Kalk [79] andava scrivendo una serie di medaglioni di autori ebrei dell'Europa orientale (Simon Frug, I. Leibush Perez, Avraham Reizen, Leivik), accompagnati da saggi delle loro opere tradotti dallo jiddish, che ci sembrano uno dei contributi recati dalla rivista più ricchi ed originali sotto l'aspetto letterario. D'altro canto l'esclusivismo sionista non poteva non incidere su taluni dei propositi originari di Davar: l'intento di «fortificare» gli ebrei all'interno della loro siepe di popolo eletto non poteva, ad esempio, non tradursi in un parziale venir meno dell'apertum verso il mondo circostante. Pur non cessando il desiderio di spiegare a chiunque volesse ascoltare che cosa è l'ebraismo e la sua vicenda nei secoli, inevitabilmente si affermava in primo piano l'intento di strappare gli israeliti all'assimilazione e quindi in pratica, non potevano non riproporsi nel processo di stesura della rivista quegli aspetti che si sono definiti parrochiali (la vita spicciola delle singole comunità, le fotografie dei matrimoni più sontuosi, le annotazioni sul conferimento di onori a questo o a quel correligionario) dai quali ci si era impegnati a sollevarsi consapevoli che non avrebbero destato interesse al di fuori della cerchia comunitaria. La rivista, però, non viveva nel limbo: erano ormai gli anni della guerra d'Abissinia, quando le Comunità - quanto spontaneamente? - si autotassavano, come puntualmente riferisce Davar, con contributi cospicui per festeggiare il sorgere dell'impero sui colli di Roma, quando la «linea di marcia» fascista in Libia e a Rodi provocava in quegli antichi gruppi ebraici, come Davar registra, non lievi risentimenti, quando l'Italia andava rivedendo in senso filo-arabo e anti-inglese la sua politica nel Mediterraneo e quando soprattutto la convergenza con la Germania nazista cominciava a contare sempre di più e l'allievo Adolfo si trasformava in maestro del maestro Benito. [80]

E' indispensabile tenere presente l'atmosfera determinata da tali avvenimenti per comprendere l'insistenza di Raul Elia su una sorta d'«integralismo ebraico» che, non più conservatore del circostante integralismo cattolico, ha tuttavia ben più tragiche giustificazioni nel tentativo di far argine alla tempesta'incombente. Quelle dell'Elia sono, nell'insieme, posizioni coraggiose che allusivamente incitano i fratelli israeliti a non cedere, a non lasciarsi travolgere, a rimanere saldi nella propria fede, a credere nel mito della nuova Sion che va sorgendo in Palestina e che sarà la vera patria degli ebrei: una patria tanto più vera in quanto le terre natie della civilissima Europa li stanno rinnegando. E se in queste indicazioni la storia successiva doveva poi mostrare quanto di esagerato e inesatto vi fosse, non pertanto erano in quell'epoca una specie di non sottovalutabile ausilio psicologico per chi, all'improvviso sbandato ed abbandonato, stava per perdere tutto.

Che le cose stiano così e che dunque Davar, più di altri organi di stampa ebraici, si contrapponesse tenacemente alla svolta antisemita, abbiamo conferma

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dalla campagna che contro di essa aprì, dalla prima metà del 1937, la più nefanda rivista antisemita apparsa nel nostro paese: mi riferisco a La vita italiana di Giovanni Preziosi, i cui attacchi vili quanto oggettivamente inconsistenti furono la causa diretta ed immediata dell'allontanamento dell'Elia dal suo posto di guida spirituale del Davar. Scorrendo le fatali annate 1937-38 della pubblicazione del Preziosi, per la storia del razzismo in Italia così significativa, risulta che non vi fu alcun altro giornale ebraico altrettanto accanitamente bersagliato come il Davar: non pensiamo dunque di esagerare adducendo la destimonianza della Vita italiana per convalidare la renitenza del Davar, sotto la guida congiunta del Da Fano e dell'Elia, verso le tendenze antiebraiche sempre più [81] vistose nel fascismo di questo biennio.

La piccola persecuzione di G. Preziosi ebbe inizio nel maggio del 1937 con una nota della rubrica «Fatti e commenti» dall'irritante e pretenzioso titolo Vorrei poter far giungere questo commento in ogni casa. In essa, rifacendosi ad un articolo di R. Elia sull'immutabilità della Legge ed alla quinta puntata della Guida pratica dell'Israelita dell'invero ultra-moderato rabbino Augusto Hasdà di Pisa (39), il Preziosi trovava conferma alla sua nota tesi che gli israeliti stessi dichiarerebbero di sentirsi un popolo diverso e superiore, tutto teso al trionfo dell'intangibile ed immutabile dottrina della Mishnà, del Talmud e del Pentateuco. Questi concetti non hanno, invece, nulla di misterioso e tanto meno v'erano in essi riferimenti ad una concretezza d'attuazioni pratiche capace di turbare minimamente la politica fascista: sono le consuete dottrine sulla superiorità morale della propria religione che i fedeli di tendenze integralistiche usualmente ribadiscono qualsiasi culto essi professino. Ma per il Preziosi ce n'era già abbastanza e quegli scritti, che oggi possono apparire anche un poco noiosi per una certa contegnosità, gli davano il destro per concludere la sua tirata con un interrogativo dal tono minaccioso: «Quanti cristiani conoscono la rivista ebraica Davar che si pubblica a Milano?».

Il numero di giugno della Vita italiana riprende poi con un articolo in grande stile di Arthos (se non erro, Preziosi) intitolato Gli Ebrei in Italia e il vero problema ebraico il tema accennato un mese avanti: prima con un attacco alla sincerità dell'Unione delle comunità per la dichiarazione che essa aveva fatto il 10 giugno sulla «perfetta armonia dell'idea sionista con l'assoluto affetto per l'Italia», [82] dichiarazione che sarebbe stata appunto inaccettabile, poi con un altro attacco a Bandiera nostra (sic!) la cui condanna del sionismo sarebbe un puro espediente, e infine ribadendo l'«incompatibilità» tra ebrei ed italiani sempre sulla scorta dell'articolo dell'Elia sul Davar del gennaio-febbraio.

Non ci sembra si possa dire che la rivista ebraica milanese, così tenuta d'occhio, si permettesse risposte adeguate ai lazzi del Preziosi. Certo però che nel n. 5-6 (maggio-giugno 1937) un accenno di difesa vi fu, anche se per via molto indiretta: la celebrazione encomiastica del quaranta-cinquennio di attività rabbinica del Hasdà con notizia delle pergamene offertegli e dei discorsi pronunziati in tale fausta circostanza. In altre parole si intese dimostrare, riferendo fatti precisi, chi fosse uno degli individui tirati in ballo con tanta faciloneria dal Preziosi.

Ma la marea anti-ebraica era già in piena ascesa e qualsiasi appello alla ragionevolezza si sarebbe inevitabilmente scontrato d'ora in poi con la ragion di stato dell'alleanza con Hitler e con il corollario del neo-razzismo ufficiale del fascismo. Il numero successivo della Vita italiana (luglio 1937) poteva difatti, tutto

39 Davar, gennaio-febbraio 1937, n. 1-2.

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gongolante, dilungarsi su Davar addirittura con due trafiletti. Sotto il titolo I veri termini della questione ebraica (p. 97), il Preziosi riportava con compiacimento il corsivo Davar apparso nientemeno che sul Popolo d'Italia (del 19 giugno) che condannava quanto s'era scritto sul numero di maggio-giugno sulla festa della rivelazione del Sinai: si sarebbe messo ancora una volta in evidenza l'esclusivismo degli israeliti che non avrebbero perciò motivo di prendersela per il razzismo altrui. A p. 98, poi, sotto il titolo A proposito di «Davar», il Preziosi segnalava una lettera - tanto inopportuna quanto carica di risentimenti personali - inviata da Federico Otto- [83] lenghi al Regime fascista (8 giugno) di duro biasimo contro il Davar: «Come vive? Con quali fini? Perché? A che scopo? [...]. La stampa ebraica dovrebbe assolutamente scomparire». E da ciò si traeva lo spunto per rivolgere all'antico direttore la domanda: «Perché il signor Ottolenghi queste gravi cose se le è tenute in corpo per tre anni? ».

Mentre di fronte al dilagare delle polemiche, segno d'una ben più opprimente involuzione generale, il Davar non poteva che chiudersi in se, cedendo sui contenuti che diventano via via più evasivi ed abbondando in pezzi retorici su argomenti allora di moda (40), tra l'Ottolenghi ed il Preziosi si svolse in concreto, quantunque probabilmente involontario, uno strano gioco delle parti: per un verso il Preziosi si valse degli appigli offerti dalle sfuriate dell'Ottolenghi per proseguire la sua miseranda campagna, per un altro l'ex-direttore del Davar si giovò della tribuna offertagli dalla Vita italiana per cercare di tornare sulla tolda di comando.

Il numero di agosto della rivista antisemita recava infatti una lunga lettera di accuse e spiegazioni dell'Ottolenghi (41), nella quale essenzialmente si dichiarava: che fin dal 1934 l'Ottolenghi aveva denunciato il Davar al camerata Zamboni della regia procura del re ed al comm. Orsini capo ufficio stampa della pretura di Milano; che l'Orsini aveva fatto sospendere la rivista per circa sei mesi; che dentro a Davar c'erano allora i camerati Spotti e Migliavacca e che essi però non si erano mossi; che nel settembre 1934 aveva inviato al Preziosi quattro articoli sul sionismo e [84] che quindi il Preziosi avrebbe dovuto ben conoscerlo anche perché, è sempre l'Ottolenghi che scrive, egli era il fondatore del Movimento antisionistico italiano.

Non crediamo valga sinceramente al pena d'inseguire ancora le malignità del Preziosi contro il Davar - malignità, giova ricordare, che non erano gratuite, ma che dovevano costare a degli innocenti lacrime e sangue - e che proseguirono a lungo di numero in numero. Certo l'ostilità accanita contro questa rivista (e non contro altri giornali israeliti) non è del tutto chiaro anche se propendiamo a credere che, scopertala quasi per caso, il Preziosi, che a distanza di decenni appare scarsamente convincente proprio come polemista, si sia essenzialmente voluto «divertire» con gusto perverso a tormentarla a causa della sua sostanziale integrità (42). Comunque, 40 Cfr., ad esempio, il grande necrologio di G. Marconi (luglio-agosto 1937, n. 7-8); le notizie sui festeggiamenti per la visita nel Dodecaneso del governatore De Vecchi (settembre 1937, n. 9); il saggio sul bimillenario di Augusto (dicembre 1937, n. 12). 41 In «Fatti e commenti», p. 218, Eccola integralmente la lettera dell'ex direttore di «Davar». 42 Può essere utile segnalare quali siano state le altre occasioni in cui La Vita italiana s'è occupata di Davar. Settembre 1937: in «Fatti e commenti», Dell'ebreo ha il nome ma non certo il cervello (breve replica ad una nuova lettera dell'Ottolenghi); ottobre 1937: in «Le potenze occulte», Gli ebrei d'Italia dicono la verità; gennaio 1938: in «Fatti e commenti», due trafiletti Furono gli ebrei che resero possibile lo stato cecoslovacco e Gli ebrei e la musica; agosto 1938. in «Fatti e commenti», Quel che si legge in «Davar» rinnovata (ultimi insulti a Raul Elia che ha annunziato le sue dimissioni).

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con la fine dell'anno, il primo obiettivo, stroncare ogni energia e ogni slancio culturale nella rivista milanese, è raggiunto, anche perché agli attachi dei razzisti s'aggiunge la scomparsa di Mario Da Fano, come s'è detto uno dei pilastri della redazione.

In proposito, perché informa con precisione di un'intera condizione intuibile, ma mai denunciata, merita riportare qualche frase del commosso necrologio In memoria di Mario Da Fano, comparso anonimo, sul n. 1-2 (gennaio-febbraio 1938) ma che crediamo attribuibile alla penna di Raul Elia. Ricordato che Davar «era la sua vita» e che pur essendo figlio del rabbino Da Fano non era «persona stret- [85] tamente osservante», entrando nel vivo della rievocazione del defunto veniva messo in evidenza che «un gran numero di preconcetti, spesso meschinissimi, altre volte ammantati di lussuosi nomi, avevano generato intorno a «Davar» diffidenza e ostilità», «irriducibili critici» ed «accuse per cui la Sua opera era priva di significato ebraico. Che questa accusa gli giungesse da un fogliucolo di modestissime apparenze [e cioè La Nostra Bandiera], o da uomini pavidi del loro stesso nome ebraico [e cioè i fascisti ebrei] non lo meravigliava ne scuoteva; lo addolorava piuttosto che gli elementi responsabili dell'ebraismo italiano [vale a dire l'Unione delle comunità israelitiche] non avessero accolto con fiducia la Sua rivista». La rievocazione si concludeva, con l'enunciazione del programma del Davar, enunciazione che, dati i tempi e le circostanze, risuonava inevitabilmente come commiato con i lettori: «allargare la cerchia dei lettori di cose ebraiche, far conoscere anche ai non ebrei la nostra cultura, la nostra storia, la nostra fede, e soprattutto, fare sentire una nostra parola, tempestiva se pure non frequente, nel dilagare delle polemiche».

Quantunque alcuni sintomi avessero lasciato trapelare quanto stava per accadere (ad esempio uno sproloquio del prof. M. M. Tumminelli su La nuova scienza educativa biopedagogica con un alquanto ripugnante elogio del razzista Nicola Pende nel n. 3, marzo 1938), l'effettivo stravolgimento della rivista dai propositi iniziali e l'effettiva conclusione della sua storia quale portavoce relativamente autonomo di determinate idealità si realizzano con il numero 6 del giugno 1938. Attraverso una lotta durata alcuni mesi gli antisemiti italiani riescono cioè ad eliminare tutti gli autentici redattori, a mettervi al posto delle marionette, a fare, in breve, della rivista qualcosa di assolutamente diverso da quanto essa è stata nei vari momenti del suo [86] travagliato cammino. Con il n. 6 (giugno 1938) di Davar non è restato che il nome (per questo i toni di condanna del De Felice per cosa adesso si può leggere sulla pubblicazione milanese ci sono parsi privi di validità): cambia la copertina; si definisce rassegna di cultura, arte, attualità e turismo; è introdotta la cronologia delle glorie fasciste «Tra la cronaca e la storia»; si apre con un articolo su Francesco Baracca invece che con quello consueto di soggetto biblico; contiene come unico argomento ebraico un saggio sugli arazzi al Museo di Gobelins in quanto su tali arazzi compaiono scene del Vecchio Testamento; reca, quale spunto di varietà, la musica ed il testo della canzonetta Diventar papà della quale merita leggere qualche verso:

... Grande si farà e diventerà un soldatino fiero che ognor difenderà il nostro grande Impero

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che conquistò papà!

Ma soprattutto va segnalato il corsivo di spiegazione dei mutamenti apportati che pensiamo sia dell'Ottolenghi (dal numero successivo condirettore con Alberto Borghesi):

«Davar si trasforma verso mete luminose [...] eminentemente culturale e turistica. Non tralascerà articoli riflettenti argomenti ebraici, ma di puro studio, critica e osservazione onesta». Di contro, spersa nella pubblicità, c'è anche una breve e dignitosa lettera dell'Elia in data 27 giugno, nella quale comunica come abbia ritenuto «opportuno rinunciare alla mia attività in favore della rivista» a causa delle «nuove direttive impartite». Con «la nuova gestione - soggiunge – Davar viene a perdere quel carattere ebraico che era per me fondamentale».

Rimasto solo a servire il regime, la carica attivistica e la scarsa intelligenza non permisero all'Ottolenghi di sfuggire all'abiezione. Ma se c'è parso d'un qualche interesse tentare di registrare gli sforzi degli anni '35-'37 per dire [87] qualche cosa di valido attraverso le maglie della dittatura, pensiamo che possa interessare solo lo psicologo il desiderio di continuare a trovare giuste e belle ad ogni costo tutte le tappe che rapidamente il fascismo stava bruciando nell'allinearsi all'antisemitismo nazista. L'impegno di ricerca, per quanto possano discutersi le scelte di quel biennio, non è infatti paragonabile con la decadenza a foglio di divulgazione delle tesi razziste degli ultimi numeri (luglio-agosto n. 7-8, settembre 9 e ottobre-novembre, 10-11).

Piuttosto un accoramento infinito non può non cogliere, comprendendo che cosa lasci presagire in prospettiva l'annunzio pubblicitario che compare al fondo dell'ultimo numero. E' una lettera di propaganda del prof. Arturo Finzi, croce di guerra e medaglia di volontario, preside dell 'Istituto Finzi, scuole medie, tecniche e professionali, di recente creazione, nella quale si comunica che «avendo dovuto cedere, il 14 settembre scorso per motivi razziali, dopo 27 anni, il suo Istituto Leonardo da Vinci» sono aperte le iscrizioni alla nuova scuola privata per israeliti. Post scriptum Solo quando la presente nota era già in bozze abbiamo potuto prendere rapidamente visione dell'ultima edizione della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi, 1972) da cui abbiano tratto qualche spunto. Per comodità del lettore riportiamo secondo la vecchia e la nuova edizione le pagine alle quali abbiamo fatto riferimento: pp. 23-27 = 20-24; p. 176 = 152; p. 225 = 193; p. 269 = 229; p. 381 = 325; p. 382 = 326; p. 474 = 408. Quanto alla sostanza, sebbene non manchino qua e là [88] alcuni ampliamenti, per i temi su cui abbiamo concentrato l'attenzione le cose non mutano, giacché l'illustre storico si rifiuta di guardare nella direzione non gradita e quindi le pur interessanti aggiunte paiono esclusivamente riferirsi a questioni che non intacchino il nocciolo delle tesi predilette. Basti dire che tra le centinaia di volumi che segnala - belli, brutti e bruttissimi - tra i vari nuovi che annota, solo su uno il De Felice trova necessario esprimere pesanti apprezzamenti: il Black Sabbath. A Journey Through a Crime Against Humanity di R. Katz (p. 457), «inattendibile per la faziosa polemica contro i dirigenti dell'ebraismo romano!».

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Appunti nella persecuzione in Italia durante l'occupazione nazista (43)

Lo studio delle modalità con cui i tedeschi realizzarono i piani per la soluzione del problema ebraico in Italia durante il periodo (1943-45) dell'occupazione sul suolo italiano non si presenta ne facile, ne agevole.

Sin ora su tale problema, infatti, non si hanno che indagini parziali, le quali affrontano la questione soltanto in via incidentale oppure in maniera molto incompleta, limitandosi unicamente a qualche aspetto di tutta la vicenda. Come esempi di questa situazione si possono citare varie ed interessanti opere. La Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (Torino, 1961), ad esempio, che costituisce la più completa documentazione sulla comunità ebraica dal 1922 al 1945 sinora apparsa, affronta, per quanto ci interessa in questa sede, praticamente quasi solo l'esame dei rapporti che intercorsero tra fascisti e Governo italiano da un lato e nazisti e Reich tedesco dall'altro. Si tratta, evidentemente, di un problema di grande importanza: i contatti, le coincidenze, le pressioni e le interferenze tra il razzismo nazista ed il razzismo fascista sono un argomento che tocca da vicino la vita dell'ebraismo italiano e a tale questione è opportuno dedicarsi per [90] approfondirla e chiarirla. E tuttavia questa vicenda non concerne che in misura secondaria l'analisi del comportamento e della politica dei tedeschi durante il biennio 1943-45 contro gli israeliti che trovarono nella penisola.

Analogamente possiamo registrare vari lavori che esaminano l'atteggiamento della Chiesa cattolica verso gli ebrei italiani oppure verso i misfatti del razzismo tedesco nelle diverse fasi della sua azione. Sotto quest'ultimo profilo citiamo ad es., tra gli scritti apparsi recentemente su La Civiltà Cattolica, i seguenti saggi: Pio XII e gli ebrei di Roma, 1943-1944, di R. Leiber (Quaderno 2657, 4 marzo 1961), La Santa Sede contro le deportazioni degli ebrei della Slovacchia durante la II Guerra mondiale, di F. Cavalli (Quaderno 2665, 1 luglio 1961), La Santa Sede e gli ebrei della Romania durante la II Guerra mondiale, di A. Martini (Quaderno 2669, 2 settembre 1961), e «Il Vicario». Una tragedia cristiana?, di A. Martini (Quaderno 2710, 18 maggio 1963).

Ma di nuovo l'attenzione si concentra su un diverso tema: su ciò che la Chiesa intese fare con la sua azione (o inazione), su come i tedeschi consideravano, nel quadro della loro politica, il Vaticano, sugli aiuti che gli israeliti perseguitati ricevettero (o meno) dall'attività caritatevole della Santa Sede. Sfugge invece, anche in questo tipo di ricerca, ed è logico, l'indagine su come agirono nel complesso e nella pratica quotidiana i tedeschi nella caccia degli israeliti nel nostro paese.

43 Testo del rapporto presentato alla sezione sul terrore nazista del III Congresso internazionale di storia della Resistenza, svoltosi a Karlovy Vary, in Cecoslovacchia, dal 2 al 4 settembre 1963. In «Il movimento di Liberazione in Italia», n. 74, gennaio-marzo 1964.

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Infine sono stati scritti, anche da israeliti, numerosi e spesso pregevoli volumi memorialistici che riguardano i ricordi della vita partigiana e della clandestinità, la persecuzione e le traversie della deportazione, nei quali con molta efficacia viene ricostruito il clima tragico di quell'epoca e ove la funzione dell' occupante nazista appare con molta [91] evidenza, quantunque da un angolo visuale personale. Tra gli scritti di questo genere, opere di israeliti, segnaliamo: Otto ebrei (Roma, 1944?) e 16 ottobre 1943 (Milano, 1949) di Giacomo Debenedetti, Mi ha salvato la voce (Milano, 1960) di Emilio Jani, Se questo è un uomo (Torino, 1960) e La Tregua (Torino, 1963) di Primo Levi, Il fumo di Birkenau (Milano, 1957) di Liana Millu, Caccia all'uomo (Roma, 1946) di Luciano Morpurgo, San Vittore inferno nazifascista (Milano, 1945) di Roberto Mandel, Donne contro il mostro (Torino, 1946) di Luciana Nissim-Pelagia Levinska, Perché gli altri dimenticano (Milano, 1956) di Bruno Piazza, Questo povero corpo (Milano, 1946) di Giuliana Tedeschi. Ancora una volta, però, anche questi libri, per quanto ricchi di dati e di episodi preziosi per lo storico, non possono che dare una rappresentazione molto settoriale dell'attività antisemita dell'invasore tedesco.

In genere crediamo si possa affermare che la pubblicistica italiana sulla partecipazione dei nazisti alla persecuzione contro gli ebrei, ondeggia tra due poli: o si sofferma prevalentemente su taluni aspetti diplomatici (sulle discussioni, ad esempio, tra la linea che in proposito avrebbe voluto adottare il Governo della Repubblica Sociale italiana, quella che avrebbero preferito i più violenti antisemiti italiani e quella direttamente imposta da Berlino oppure sulle trattative che durante l'occupazione sarebbero avvenute intorno a Pio XII, oppure tende a puntualizzare determinati episodi particolarmente sanguinosi e gravi (i fatti di Meina, la «azione» del 16 ottobre a Roma, la tragedia della deportazione).

Ciò che, invece manca, è un'inchiesta che punti l'attenzione in primo luogo sui tedeschi, ne studi i fini non remoti ma immediati, le modalità con le quali volevano attuare i loro piani, la struttura organizzativa su cui si fondavano per realizzarli, ecc. [92]

Considerando dunque lo stadio attuale delle indagini e quelli che sarebbero i settori sui quali occorrerebbe soffermarsi, ne deriva conseguentemente che questa breve comunicazione non può intendersi che come una proposta di lavoro, come un insieme di prime indicazioni, come iniziale e problematica delimitazione dei compiti da svolgere. Partendo da questo punto di vista cercheremo, da una parte, di tratteggiare gli aspetti generali dei vari problemi, più che dilungarsi sui singoli episodi e, dall'altra, tenteremo di preferenza di riferire fatti ed avvenimenti sin qui quasi sconosciuti o di sottolineare, di quelli più noti, solo i lati maggiormente significativi.

Comunque, l'insufficienza delle ricerche di tipo prettamente diplomatico è riscontrabile non appena si cominci a considerare la situazione dell'Italia e degli ebrei che in Italia si trovavano al momento dell'armistizio tra il Governo Badoglio e gli Alleati, l'8 settembre 1943. Due elementi si impongono subito all'attenzione: in primo luogo che il Comando germanico immediatamente impartì ordini d'azione che scavalcavano ogni regola diplomatica ed ogni precedente convenzione con l'Italia; in secondo luogo che l'attività in Italia del Comando tedesco, per brutalità ed asprezza, perdette in complesso ed in generale ogni carattere che non fosse quello della pura e semplice conquista. Se trattative vi furono da parte di vari elementi o istituti con i germanici, esse si possono definire, più che contatti diplomatici, prima

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rapporti tra l'occupante spietato e crudele e la terra di conquista che cerca di salvaguardare penosamente i propri diritti, poi bassi intrighi e rivalità, infine sforzi da parte dei nazifascisti per prendere contatti al fine di procurarsi un alibi in vista della prossima sconfitta e concludere una resa alle migliori condizioni.

Queste osservazioni paiono necessarie anche per valu- [93] tare il grado di impreparazione politica in cui si venne a trovare il gruppo israelitico italiano alla data dell'8 settembre. Così come il Governo Badoglio aveva condotto e concluso le trattative di resa con grave inavvedutezza, corrispondentemente anche gli organi dirigenti dell'ebraismo italiano in larga misura fascistizzati e che non erano stati all'altezza del compito di sviluppare un'azione di qualche consistenza in favore dei loro amministrati durante i 45 giorni trascorsi dal 25 luglio, non seppero preordinare alcuna disposizione in vista della possibile occupazione tedesca. Nonostante nell'aprile-maggio precedente si fosse svolto un episodio significativo come la tragedia del ghetto di Varsavia, gli ebrei italiani erano nel complesso inconsapevoli delle gravissime conseguenze che avrebbe potuto avere per loro l'invasione nazista. In una qualche misura, all'ignoranza delle terribili persecuzioni che si stavano svolgendo in tutta l'Europa contro le comunità ebraiche, sopperì una sorta di istintiva coscienza circa i pericoli derivanti dall'occupazione germanica. E tuttavia la persecuzione antisemita sviluppata dai fascisti a partire dal 1938, con il suo carattere relativamente incruento, costituiva l'esempio, il modello unico che agli occhi degli israeliti italiani potesse assumere la persecuzione. Più palese invero fu il senso dell'invasione tedesca per i profughi israeliti, giunti in Italia dall'Austria, dalla Cecoslovacchia, dall'Ungheria e specialmente dalla Jugoslavia all'epoca dell'occupazione delle loro rispettive patrie. Sta di fatto però che nel complesso l'occupazione tedesca e l'inizio di una nuova fase della persecuzione colsero impreparati la massa degli ebrei italiani.

Occorte ancora aggiungere che la grandissima maggioranza degli israeliti che si trovavano in Italia - secondo i dati del Governo fascista erano nel 1938 circa 55.000, dei [94] quali 10.000 circa stranieri (44) - risiedeva in Roma e nel territorio a nord della capitale: ebbero quindi modo di soffrire pressoche tutti dell'azione tedesca, ed in gran parte, quelli abitanti a nord della «Linea Gotica», per più di un anno e mezzo.

Un dato di grande interesse per poter definire le direttive lungo le quali si sviluppò la politica germanica ed i risultati che essa conseguì si ricaverebbe conoscendo le cifre degli israeliti catturati dai nazifascisti mese per mese, periodo per periodo. Senza indugiare, in questa occasione, in un'analisi particolare, sembra possibile dedurre che un numero molto alto di vittime (che ammontarono per quanto riguarda la deportazione a 6885 su 7495 deportati. Cfr. De Felice, op. cit., p. 525) vada registrato nel quadrimestre settembre-dicembre 1943, e questo in diretta relazione con la condizione globale del paese e con l'orientamento politico-psicologico degli israeliti in quell'epoca. Risulta comunque confermata l'assoluta inconsistenza delle forze fasciste, le quali quando si furono in parte riorganizzate e poterono sviluppare più ampiamente la loro nefasta azione (specialmente pericolosa nel settore della delazione, dello spionaggio, del ricatto) non poterono comunque mai raggiungere i risultati ottenuti dai tedeschi con la loro attività diretta, di sorpresa e proditoria.

44 Cfr. De Felice, op. cit., p. 6-16.

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Infatti non appena occupato militarmente il paese, anzi contemporaneamente all'occupazione stessa, i germanici passarono all'immediata cattura e deportazione degli ebrei che potevano individuare. Senza che fosse stata emanata alcuna disposizione in proposito, di colpo, la condizione degli israeliti passò dal breve ritorno sulla strada dell'eguaglianza dei diritti, che si era potuto compiere durante il [95] Governo Badoglio dopo la discriminazione tipicamente fascista del 1938-1943, alla più feroce e tenace «caccia all'uomo».

In sostanza, risulta dallo svolgimento dei fatti che i tedeschi non considerarono necessario in Italia, sia per motivi generali (la situazione confusa del paese e la possibilità di rapide avanzate alleate), sia a causa delle caratteristiche della comunità ebraica in Italia (sua dispersione e scarsità numerica) adottare alcun provvedimento che predisponesse alla fase della deportazione e dello sterminio. Di conseguenza, senza che fossero state emanate ordinanze, ad esempio, sul «segno» speciale per gli ebrei, sul lavoro obbligatorio, sulla creazione dei ghetti, sul divieto di spostarsi da un territorio all'altro, ma sulla base delle leggi precedenti in atto al 25 luglio 1943 e, implicitamente, sullo sfondo politico ed ideologico del clima instaurato nel paese e dei sentimenti di vendetta e rivalsa dei fascisti repubblicani in via di riorganizzazione, i tedeschi iniziarono senza indugi la ricerca degli ebrei.

Tuttavia occorre precisare che le autorità germaniche, come denotano la sistematicità e la rapidità della loro azione, avevano indubbiamente ordini precisi e particolareggiati sulla politica da attuare nei confronti degli israeliti italiani. Tali ordini trovavano una loro giustificazione logica ed una loro effettuabilità pratica sostanzialmente in due elementi.

Da un punto di vista complessivo, i passi compiuti in Italia per la «soluzione finale» del problema ebraico sembrano direttamente riallacciarsi a quanto venne convenuto nella famosa conferenza di Gross-Wannsee del 20 gennaio 1942 che definì la formula per il definitivo completamento dei piani nazisti. In effetti, dunque, non c'è nulla di più semplice ad immaginarsi che una pressoche «automatica» disposizione nei comandi tedeschi per l'Italia [96] a considerare gli israeliti di questo paese alla stregua di quelli francesi, belgi, olandesi, jugoslavi (per non parlare di quelli dell'Europa orientale) allorché l'Italia da alleata divenne un paese ostile e nemico. Di qui scaturisce l'ipotesi che tra le tante misure divisate dai tedeschi quando si insediarono in Italia non potessero mancare, come dovevano dimostrare le vicende successive, quelle specifìche e minuziose, fondate su una lunga esperienza, contro gli ebrei (misure che dovevano essere agevolate dai contatti e dagli scambi amplissimi di informazioni svoltisi in precedenza su tali argomenti anche con la polizia fascista).

In secondo luogo occorre rilevare che il personale umano che si venne a trovare negli alti comandi tedeschi in Italia all'epoca dell'8 settembre ed ancor più quello che si venne concentrando nel paese via via che i nazisti dovevano abbandonare territori già conquistati, era del tutto preparato anche per diretta esperienza personale all'azione antisemitica, nella quale già altrove aveva avuto occasione di mettersi in triste evidenza. Basteranno alcuni nomi per convalidare questa asserzione. La direzione generale della polizia e delle SS fu assunta in Italia, nella prima quindicina di settembre, dal generale delle SS Karl Wolff, ex aiutante di campo di Himmler e suo agente di collegamento con Hitler; il Wolff, che già subì una condanna per complicità in esperimenti medici su cavie umane, è stato nuovamente rinviato a giudizio nel maggio 1963 per complicità nell'assassinio di ebrei in Italia e in Polonia. Il Comando del Servizio di Sicurezza (S.D.) fu attribuito

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al generale delle SS Wilhelm Harster, proveniente dall'Olanda, dove aveva presieduto alla deportazione degli ebrei olandesi. A Trieste, ancora nel mese di settembre, giunse quale comandante della polizia e delle SS Odilo Globocnik, che in precedenza s'era macchiato in Polonia d'ogni sorta di efferatezze. Am- [97] basciatore presso la Santa Sede era il perfetto diplomatico Ernest von Weizsäcker, uno degli eletti ai quali a suo tempo era stata premurosamente fatta pervenire copia del verbale delle decisioni della conferenza di Gross-Wannsee; molto probabilmente scopo principale della sua missione fu quello di lavorare per evitare che il Vaticano desse manifestazioni d'orientamento antinazista: il Weizsäcker, come è noto, fu particolarmente impegnato in occasione dell'azione del 16 ottobre 1943 a Roma. Capo della polizia germanica a Milano era il capitano T. Saevecke, che aveva avuto modo precedentemente di esperimentare le sue doti di antisemita in Tunisia, contro gli ebrei della locale comunità avanti di essere trasferito in Italia; lo SS Standartenführer Walther Rauff, del quale il Cile ha recentemente rifiutata l'estradizione per crimini contro gli ebrei, era capo del Servizio di sicurezza nell'Italia nord-occidentale.

Ma a fianco di questi personaggi, sui quali ci si è brevemente soffermati a titolo di esempio, se ne potrebbero ricordare molti altri, della medesima stoffa: da Dannecker a Kappler, a Sandberger, a Mälzer, a Wächter. E accanto a questi più alti comandanti non sarà inutile aggiungere che molti semplici militari ed ufficiali di grado inferiore erano, secondo le loro mansioni, analogamente addestrati nel massacro e nel saccheggio: ad esempio lo Sturmbannführer delle SS C. With e lo Standartenführer delle SAD. Allers che operarono a Trieste.

Tenendo presenti questo insieme di elementi - l'esistenza di direttive generali che si adattavano perfettamente al caso italiano e di uomini del tutto all'altezza di attuarle la macchina persecutoria nazista non poteva non mettersi in movimento con la dovuta regolarità, regolarità che purtroppo gli ebrei italiani nella grande maggioranza non avvertirono che dopo un certo periodo di tempo, incapaci di [98] credere, sia pure al quarto anno di una guerra feroce, che ciò avrebbe significato la loro eliminazione fisica in qualunque modo potesse realizzarsi, ma di preferenza attraverso il meccanismo della deportazione oltre frontiera e delle camere a gas.

Il criterio fondamentale in base al quale i tedeschi si mossero per attuare i loro piani fu il rapido e metodico subentrare alle autorità italiane in tutti i centri del potere ed in tutti gli organi dell'apparato statale e della vita pubblica: man mano che i tedeschi si assicuravano il controllo delle frontiere, delle prefetture, delle caserme, delle carceri, ovunque scattava contemporaneamente, a fianco ed in fusione con l'azione repressiva antifascista, antipartigiana ed antitaliana, pure l'opera di persecuzione antisemita.

Considerando ciò, molti atti che in un primo tempo poterono sembrare semplice banditismo militare e crudeltà di elementi incontrollati (ed in questo senso sono stati giudicati pure in seri lavori) si qualificano invece in termini molto peggiori: espressione di fredda determinazione all'assassinio ed alla strage implicita nei piani nazisti di purificazione razziale, messa in atto con la rapidità e la violenza tipiche dei momenti di grande tensione nelle operazioni militari. Negli omicidi compiuti contro ebrei italiani nell' autunno del 1943, i tedeschi agirono con la precipitazione causata dalla necessità di mettere riparo rapidamente al «tradimento» italiano: ma ciò che li spingeva era il puro e semplice ossequio agli indirizzi razziali da lungo tempo adottati.

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Ad esempio nella fase di assestamento delle truppe tedesche alle frontiere della Svizzera e della Francia, in sostituzione delle truppe italiane, i germanici non esitarono a «rastrellare» tutti gli israeliti con i quali si imbattevano procedendo ad esecuzioni arbitrarie. [99]

Il libro di Poliakov-Sabille, Gli ebrei sotto l'occupazione italiana (Milano, 1956) illustra abbastanza esaurientemente la tragica sorte degli ebrei in Francia nella zona d'occupazione italiana allorché all'8 settembre subentrarono i tedeschi (ivi p. 24 e segg.). Ma occorre aggiungere che un gruppo di ben novecento israeliti di varie nazionalità riuscì, seguendo i soldati italiani in ritirata, a giungere da St. Martin-Lantosque a Entraque, passando per il Colle delle Finestre. Questo gruppo di persone (uomini, donne, bambini) si sistemò precariamente nei due paesi della Val di Gesso (Cuneo) di Entraque e Valdieri. Pochi giorni dopo però, il 18 settembre, arrivò un distaccamento di tedeschi che operò un rastrellamento in tutto il territorio e catturò 493 israeliti, che vennero prima rinchiusi nella Caserma degli Alpini di Borgo S. Dalmazzo, da tempo adibita a campo di concentramento, e poi deportati. Essi, secondo una testimonianza, partiti da Borgo S. Dalmazzo il 21 novembre 1943, vennero diretti a Nizza e poi a Drancy e quindi fatti proseguire per Auschwitz. Subita una prima selezione (che riuscì particolarmente orribile perché i condannati per la scarsità di gas svennero solamente e quindi furono bruciati vivi), sembra che in totale non ne siano rimasti in vita al momento della liberazione che 25 (cir. Relazione supplettiva sui campi di concentramento di ebrei di Borgo S. Dalmazzo a cura del Sindaco del Comune, 12 giugno 1945, in possesso del C.D.E.C.) (45). (Inoltre sull'episodio si possono leggere i seguenti articoli: La storia di 900 ebrei, di F. Thorn, in Deportazione, anno I, n. 12, 22 settembre 1945; Le vicende degli ebrei di Cuneo, in Israel, 6 settembre 1945; Provvedimenti antiebraici, di R. Cavaglion, in La sentinella delle Alpi, anno V, n. 5, 31 luglio 1961). [100]

Altri episodi assai dolorosi causati dalla graduale occupazione tedesca dei posti di frontiera, si ebbero nella zona del Lago Maggiore, particolarmente adatta all'espatrio clandestino verso il territorio neutrale della Svizzera. A questo riguardo le indagini recentemente svolte dall'Associazione ex-deportati italiana, sul comportamento del comandante la polizia politica di Milano, Cap. Theo Saevecke, hanno gettato nuova luce sui foschi delitti verificatisi a Meina, Baveno ed altrove. Risulta infatti che i membri delle SS che uccisero a sangue freddo una trentina di ebrei in tali località il 22 settembre 1943, agirono dietro ordine diretto dei loro superiori di Milano. Tanto è vero che immediatamente dopo la cattura e sino a quando giunse l'ordine di uccisione, i rapporti tra i tedeschi e questi israeliti furono corretti: alcuni dei prigionieri avrebbero forse potuto fuggire, ma poiche si era fatto credere che il fermo era dovuto al sospetto che vi fossero tra loro delle spie, evitarono di scappare, non volendo quasi dare una conferma ai tedeschi dei loro sospetti! (cir. testimonianza Pombas, presso il C.D.E.C.). A questo proposito è opportuno aggiungere che le SS che compirono i misfatti erano da poco rientrati dall'Unione Sovietica ove già, per loro stessa dichiarazione, si erano macchiate di delitti ed atrocità (cir. testimonianze Ferri e Mazzucchelli, presso C.D.E.C.).

Mentre tragici episodi quali i due sopra citati si verificavano, in tutte le città, per le strade, sui treni, senza che ancora fosse stata emanata alcuna disposizione

45 Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano.

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ufficiale, i tedeschi passarono all'arresto di ogni ebreo che potevano raggiungere. Molte volte l'arresto è casuale: la persona fermata dai nazisti, non ancora munita di documenti di identità falsi, presenta ingenuamente, non potendone fare a meno, i documenti autentici e viene scoperta come ebrea; allora è immediatamente trattenuta e trasferita alle carceri in attesa [101] di essere deportata. In taluni casi amici o parenti di arrestati si recano presso le autorità germaniche a chiedere notizie dei catturati ed a loro volta non faranno più ritorno. Mentre vanno ricercando gli elenchi dei cittadini di religione ebraica elaborati dai fascisti sin dal 1938, i tedeschi non esitano dunque, nel frattempo, a colpire quanto più violentemente possono. Sono imposte qua e là delle taglie collettive, si «conquistano» le sinagoghe e gli uffici delle Comunità, avvengono arresti e uccisioni. E tutto questo, occorre ribadirlo, senza che sia stata divulgata legge o ingiunzione.

Per quanto riguarda le taglie, si possono citare, come esempi, tre casi. Ciò dimostra che quando le circostanze sembravano consigliarlo, i persecutori, nonostante l'esiguità dei gruppi ebraici italiani, non esitarono a porre in atto misure vessatorie già altrove sperimentate. Il più noto di tali fatti è quello del 26 settembre 1943 a Roma, allorché il maggiore delle SS Herbert Kappler comunicò al presidente della locale Comunità la richiesta di 50 Kg. d'oro. Le modalità con cui la somma venne chiesta, e specialmente il rastrellamento che doveva verificarsi ai danni degli ebrei della capitale pochi giorni dopo (16 ottobre), autorizzano a pensare che Roma fu la città italiana cui vennero applicati, per quanto riguarda il problema ebraico, i metodi più vicini a quelli impiegati nell'Europa orientale. A ciò i tedeschi furono indotti principalmente dall'esistenza di un quartiere ebraico, tipico e caratteristico, sviluppatosi sul luogo ove esisteva l'antico ghetto israelitico prima dell'emancipazione (su questa vicenda esiste una pubblicistica abbondante; si veda, ad esempio, quanto scrive il Reitlinger a pago 425-428 dell'opera La soluzione finale, Milano, 1962).

La taglia imposta alla Comunità d'Ancona ad opera [102] del locale Prefetto ammontava a L. 400.000. In questo caso, però, sembra che gli autori della vile richiesta siano stati i fascisti italiani piuttosto che i nazisti. La somma, che non fu raggiunta, sembra sia servita in parte per svincolare pegni nel locale Monte di Pietà, in parte venne elargita a persone che avevano sofferto dei bombardamenti ed in parte fu destinata agli stessi israeliti poveri. Tale episodio si verificò sicuramente prima del 6 ottobre 1943, giorno in cui gli uffici della Comunità vennero chiusi. Ma sulla vicenda occorrerebbero indagini specifiche per valutare le ripercussioni che ebbero sull'esistenza della Comunità anconitana da un lato i fortissimi bombardamenti anglo-americani, dall'altro la presenza, anche prima dell'8 settembre, di un grosso nucleo di truppe tedesche.

Una terza Comunità che subì il gravame d'una taglia fu quella di Asti, in Piemonte. Qui, da tempo era confinato un gran numero di israeliti stranieri, in maggioranza jugoslavi, fuggiti a suo tempo dalla Jugoslavia per evitare l'occupazione germanica. In una piccola città come quella piemontese, la presenza dei profughi non poteva passare inosservata, cosicche dopo l'armistizio gli antisemiti locali in combutta con i tedeschi decisero di passare ad un'azione vessatoria. Da essi, certamente prima del 10 dicembre, scaturì l'idea della taglia, che avrebbe dovuto essere di 300.000 lire da pagarsi in pochissimi giorni. Ma la Comunità astigiana non riuscì a raccogliere che la metà della somma richiesta ed i nazifascisti dovettero accontentarsene.

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La tragedia che a Roma seguì alla consegna della taglia (che venne integralmente pagata) ed il fatto che ove tale taglia non fu pagata per intero il comportamento nazista non fu diverso che in altre località, conferma ancora una volta che nel quadro della politica di sterminio l'imposizione di particolari tributi fu in Italia, come in altri paesi, [103] null'altro che una fase transitoria, di importanza molto relativa nell'ambito complessivo della direttiva dello sterminio fisico e della confisca dei beni ebraici.

Accanto all'esazione di queste somme, i nazisti procedevano gradualmente nel settembre-novembre all'occupazione delle sinagoghe, al saccheggio degli arredi, qualche volta alla loro distruzione, all'invasione degli edifici di proprietà delle Comunità, alla confisca di alloggi, beni e denari di singoli israeliti.

L'elenco completo di queste «gloriose» operazioni alle quali partecipavano in «fraterna unità di intenti» nazisti e fascisti, sarebbe monotono. In genere da luogo a luogo le differenze non appaiono nel complesso rilevanti, specie se considerate nell'arco dell'intero periodo della persecuzione. Ad Alessandria, ad esempio, le devastazioni subite dagli ebrei furono gravissime: occupazioni di quasi tutte le case dei privati, saccheggio completo dei due templi, distruzione dell'archivio della comunità e falò dei libri ebraici sulla pubblica piazza. Tuttavia risulta che gli israeliti più vecchi e malati poterono restare indisturbati nella città e non subirono la deportazione (cfr. la relazione di G. Pansa sulla Comunità di Alessandria presso il C.D.E.C.). Questa commistione di brutalità e di episodi di tolleranza si ripete in vario modo in ogni Comunità, e rispecchia, nel complesso, la condizione del paese: l'esistenza di una vigorosa opposizione ai tedeschi ed ai fascisti, l'intensità dell'opera clandestina di soccorso, che si realizzò pure all'interno dell'apparato statale, nei comuni, nelle prefetture, nei comandi di Carabinieri, nelle fabbriche e la mancanza d'un orientamento antisemitico nella popolazione. Tutto ciò rallentò ed intralciò l'attività nazifascista che tuttavia nell'insieme ebbe un tono ben definito e raggiunse pesanti risultati.

Quantunque episodi come quelli citati non rivelino [104] nulla di veramente nuovo sugli obiettivi del razzismo germanico, converrà soffermarsi su qualche vicenda particolare per due motivi. In primo luogo perchè da essi si può trarre una ulteriore conferma del carattere totalitario e radicale della politica nazista, che fino a pochi giorni prima del crollo, ormai inevitabile, non esitò a scatenarsi contro un debole, inerme e disperso gruppo ebraico. In secondo luogo perchè è giusto ricordare, pur nell'ambito di una breve comunicazione, il martirio della popolazione ebraica italiana, rievocando anche determinate vicende delle quali non vi sono che poche tracce nelle pubblicazioni finora apparse, e in specie ricordando come a soffrire della persecuzione nazista fossero soprattutto gli ebrei più poveri, che non avevano possibilità di comprarsi rapidamente documenti falsi, che non potevano pagarsi guide sicure per fuggire in Svizzera, che non avevano protettori e conoscenze influenti, che dovevano rinIanere nelle città in cerca di lavoro e d'un tozzo di pane.

Molti, moltissimi dei deportati, furono proprio israeliti che, lasciati nell'ignoranza dalle Autorità ufficiali ebraiche, timorosissime anche in Italia che la massa ebraica prendesse coscienza di quanto stava accadendo, continuarono a girovagare per Milano, per Roma, per Torino, nei luoghi ove erano conosciuti, spesso rivolgendosi sino all'ultimo alle Comunità in cerca d'un sussidio e d'un consiglio.

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A Milano il giorno 8 novembre 1943 fu compiuta da parte delle SS un'azione di sorpresa all'interno dell'edificio del tempio e della Comunità. Alla ore 9,30 del mattino due individui in borghese (che si rivelarono della Gestapo) suonarono alla porta; fu loro aperto credendo si trattasse di profughi venuti a chiedere un sussidio o a ritirare qualche documento. Dietro i due agenti in borghese irruppero invece numerose SS, guidate dal famigerato Koch, [105] che arrestarono una quindicina di persone che si trovavano negli uffici. Uno dei fermati, Lazar Araw, tentò di fuggire e venne ucciso con una rivoltellata. Condotti al comando dell'Hotel Regina, furono costretti a rivelare sotto le torture e le minacce ove si trovavano gli arredi sacri. Le SS si fecero allora accompagnare un'altra volta presso la Sinagoga per rintrascciare ove erano nascosti tappeti, argenterie, Bibbie, ecc. Dopo di che tutti gli arrestati vennero inviati in carcere in attesa della deportazione (cfr. testimonianza Bassi, presso il C.D.E.C.).

A Roma in tutto il periodo che intercorre tra la razzia dei 50 Kg. d'oro e l'azione del 16 ottobre, i tedeschi invasero a più riprese gli edifici pubblici ebraici (e tutto ciò non valse a convincere completamente gli ebrei del pericolo che correvano!). Secondo la relazione del presidente della Comunità romana Ugo Foà (reperibile presso il C.D.E.C.) i tedeschi il 29 settembre perquisirono gli uffici della C0munità, asportarono i registri, il materiale d'archivio e una somma di oltre due milioni di lire. Dal 30 settembre al 12 ottobre le vessazioni continuarono in tono minore, finchè il 13 ottobre furono saccheggiate le biblioteche, tra le più ricche d'Europa nel campo degli studi ebraici.

«lI furto eseguito con ogni cura da personale evidentemente specializzato fu consumato sotto la vigile direzione dei professori tedeschi in divisa di ufficiali e, data la mole ingente del materiale, vennero addirittura adoperati per impadronirsene due capaci carri ferroviari. In essi i libri furono deposti ordinatamente a strati. Fra strato e strato furono interposti dei fogli di carta ondulata... I carri, una volta colmati vennero accuratamente sigillati e spediti in Germania. Il personale della Comunità, che aveva assistito, senza aver modo di opporsi alla rapina, altro non potè fare se non registrare i numeri e la destinazione dei carri. Eccoli: [106] D R P I - München - 97970-C» (relazione Foà, p. 19).

Sulla data esatta e sulle forme che assunse a Torino la devastazione di quella Comunità mancano sinora descrizioni precise; tra l'altro occorre ricordare che il complesso degli edifici pubblici ebraici era staro seriamente danneggiato dai bombardamenti aerei del 20 novembre 1942. Ma proprio per l'atmosfera di caos e di abbandono che regnava nel tardo autunno 1943 su quelle povere cose, è possibile registrare episodi di saccheggio e vandalismo quali forse non si ebbero in alcun altro luogo. Per circa un mese infatti bande di nazifascisti in accordo con spie e delatori trafugarono con l'ausilio di autocarri tutto quanto era utilizzabile, concentrandolo presso il comando tedesco dell'Albergo Nazionale. Durante le scorrerie, elementi fascisti, agenti della Gestapo e delle SS pensarono di trarre da quel traffico, immediato e personale vantaggio, rivendendo a rigattieri locali quanto capitava loro nelle mani. Di conseguenza per parecchi mesi fu possibile vedere nella città esposti in vendita presso robivecchi ed antiquari di infimo rango, libri ebraici, rotoli di pergamena, «talet», ecc. Dei rotoli in pergamena della Bibbia vennero fatti paralumi e scarpe. Alcuni librai, particolarmente sensibili alla sorte degli ebrei, riuscirono anche ad acquistare e conservare una parte di tali oggetti che, dopo la guerra,

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poterono tornare in possesso della Comunità. Non sarà inutile segnalare tra i principali responsabili delle persecuzioni a Torino il tenente delle SS Dieter von Langen, figlio del Console germanico.

Alla luce di queste violenze su cose pubbliche, è agevole immaginarsi come nella situazione di generale sfacelo dello Stato seguita all'8 settembre, fosse facilissimo infierire contro i singoli tanto ad opera di forze «regolari», quanto ad opera di delatori, di delinquenti, di persone che avevano particolari «vendette» da compiere. [107]

Quantunque, come ancora vedremo e come già s'è sottolineato, oltre ai furti, alle razzie e alle confische pure gli arresti e le deportazioni incominciassero assai prima di ogni decreto ufficiale, sarà a questo punto opportuno riferire sintetioamente il contenuto dei provvedimenti antiebraici emanati dopo l'armistizio dalla Repubblica Sociale sotto controllo germanico. Tali provvedimenti in realtà furono pochissimi; ne diamo notizia in ordine cronologico.

La prima disposizione antiebraica appare nel manifesto programmatico adottato il 14 novembre 1943 dal Congresso di Verona del Partito fascista republicano; essa è inserita al punto 7 che dice: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Tale dichiarazione comporta evidentemente il trattamento riservato ai cittadini di paesi ostili e quindi, come minimo, il campo di concentramento. Infatti dopo due settimane viene diramata (in data 30 novembre) una circolare di polizia che pone in attuazione quanto è implicitamente contenuto nell'articolo del manifesto di Verona. Poichè questa ordinanza è stata la più crudele e feroce disposizione della persecuzione ebraica, non sarà inutile riprodurla integralmente. Il testo, che fu pubblicato in tutti i giornali dell'epoca (ad es. ne La Stampa di Torino del 1° dicembre 1943 - XXII) è il seguente:

«Roma, 30 novembre.

E' stata diramata a tutti i capi delle provincie, per l'immediata esecuzione la seguente ordinanza di polizia:

1 ) Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazione appartengano residenti nel territorio nazionale, devono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, devono essere sottoposti ad immediato sequestro in attesa di essere confiscati nello interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li desti

[108] nerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.

2) Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, devono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia». Come si vede i concetti espressi al punto 7 del manifesto di Verona sono

ampiamente e duramente confermati: anche gli ebrei di nazionalità non italiana, ma ad esempio neutrale (turca, svizzera, ecc.) sono destinati al campo di concentramento, che deve essere diverso da quello destinato a cittadini di nazionalità nemica non ebrei. I beni ebraici non vengono solo sequestrati, ma, confiscati, non potrannno essere restituiti e quindi si presume il perdurare d'un orrientamento d'antisemitismo anche dopo l'eventuale conclusione della guerra. In

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terzo luogo pure coloro che precedentemente avevano usufruito di talune agevolazioni come discendenti da matrimonio misto, sono sottoposti ad una particolare sorveglianza poliziesca che risulterà esiziale quando subentreranno i tedeschi.

In conseguenza della soprariportata ordinanza tutta la prassi di polizia subì conformi orientamenti: ad esempio, a partire dallo stesso mese di dicembre con appositi bandi furono offerte somme e ricompense da parte dei comandi tedeschi e fascisti a chi favorisse la cattura di ebrei (cfr. Epistolario Momigliano, p. 81, presso il C.D.E.C.); ancora, venne disposto l'obbligo di affiggere in ogni casa la lista degli inquilini: ciò impose agli ebrei o di cambiare nome o di cambiare casa, di violare, comunque, la legge (cfr. l'ordinanza del 22 dicembre 1943 a Roma in A. Tamaro, Due anni storia 1943-1945, voI. II, p. 247).

Il 4 gennaio un decreto legislativo del Duce disponeva la totale spoliazione degli israeliti dai loro beni. E' questa [109] la legge più lunga ed elaborata in materia ebraica tra tutte quelle emanate durante la Repubblica di Salò e ciò è comprensibile data l'importanza per i nazisti di procedere con ordine nella spartizione del bottino. Senza dilungarci nella esposizione delle confische degli alloggi e di quanto in essi contenuto, dei magazzini, delle industrie, ecc., per documentare la prassi della depredazione giudichiamo basti riportare il testo di una lettera inviata alla signora A. M. di Trieste dall'Agenzia della Banca Commerciale Italiana in data 2 gennaio 1945 (il documento originale si trova presso il C.D.E.C.):

«La Banca d'Italia di Trieste, ci comunica su richiesta del Comandante Supremo delle SS e della Polizia che i Vostri averi depositati presso il nostro Istituto sono stati sequestrati e, conseguentemente, sono passati in amministrazione della Sezione Finanziaria presso il Supremo Commissario nella zona di operazioni Litorale Adriatico. Portiamo quanto sopra a Vostra conoscenza e Vi porgiamo i nostri distinti saluti».

Infine il 18 aprile 1944 si hanno ancora due decreti per la riorganizzazione

burocratica degli istituti che dovevano occuparsi degli ebrei: in tale data furono creati la Direzione generale per la demografia, e un Ispettorato generale per la razza.

A questo punto pare opportuno, dopo aver sino a qui accennato essenzialmente ai modi con i quali i nazisti infieriranno sulle cose di proprietà ebraica, tentare di delineare i criteri adottati contro le persone, e cioè i criteri della deportazione e dello sterminio.

L'aspetto prevalente nelle operazioni tedesche di cattura degli ebrei consiste nel fatto che esse avvennero per lo più nell'illegalità, all'improvviso, per delazione, spesso contro persone anziane ed invalidi che non potevano fuggire e [110] con impiego vastissimo di uomini e di armi. In base a liste accuratamete preparate, squadre di militari quasi sempre miste di tedeschi e italiani si recavano alle prime luci dell'alba agli indirizzi ebraici indicati, trascinando via, dopo aver concesso pochi minuti per prepararsi, tutti quelli che trovavano: uomini, donne, bambini, vecchi. Inoltre la caccia si articolava nella ricerca dei nascondigli e dei rifugi ove gli israeliti avevano tentato di ripararsi, ponendo in gravissimi pericoli pure coloro che avevano aiutato o ospitato i fuggiaschi: nessun ostacolo, eccettuati la mancanza di forze sufficienti, il controllo istituito dai partigiani su certi territori e rincalzare delle avanzate alleate, tratteneva i nazisti dall'investire tutti i mezzi di cui

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disponevano in questa ricerca che si svolgeva ormai all'ombra della sconfitta imminente.

Un esempio, tra moltissimi, di questa attività può considerarsi l'irruzione nel Convento del Carmine di Firenze nella notte tra il 26 ed il 27 novembre 1943; tale irruzione, dovuta probabilmente a delazione, portò all'arresto ed alla deportazione di alcuni israeliti ivi nascosti.

Come è noto (Reitlinger, op. cit., p. 431) la prima comunità italiana che subì deportazioni su vasta scala fu quella di Trieste, anche perchè situata in un territorio incorporato dal 29 settembre 1943 nel Reich e divenuto Operationszone Adriatisches Kustenland sottoposto al Gauleiter Friedrich Rainer e al comandante delle SS e della polizia Globocnik. Gli ebrei triestini soffrirono duramente di tale regime: 131 appartamenti furono saccheggiati, vennero persino depredati i bagagli degli emigranti che erano depositati presso le Case di spedizione e rubate e trasferite nelle biblioteche di Vienna e Klagenfurt le collezioni librarie. Il 9 ottobre 1943 (giorno della solennità israelitica del Chippur) avvennero a Trieste e nel resto dell'Italia le prime deportazioni in grande stile, che continuarono ininterrottamente sino alla [111] fine di gennaio del 1944 allorché la Comunità triestina venne chiusa. Il 20 gennaio furono catturati settanta vecchi dalla Casa di riposo israelitica e trasferiti al campo di S. Saba e quindi ai campi di sterminio. Su 2500 ebrei triestini pare ne siano stati deportati un migliaio: ne ritornarono una ventina (sulle vicende della Comunità di Trieste dopo l'8 settembre, si veda, presso il C.D.E.C., la Relazione del Comitato della Comunità del Consiglio, Trieste, 1946).

Il pietoso caso dei vecchi deportati da Trieste induce a sottolineare come una delle operazioni nelle quali più insistettero i nazisti fu proprio la cattura dei vecchi, degli ammalati di mente, dei degenti negli ospizi, nei manicomi, negli ospedali: mentre infatti gli israeliti giovani e sani potevano più agevolmente fuggire e nascondersi, più complicata era la cosa per le persone pressochè immobilizzate dall'età o dalle malattie. Tra gli episodi di questo tipo ne segnaleremo due: quello della Comunità di Casale Monferrato (Piemonte) e quello della Comunità di Venezia.

A Casale, una piccolissima Comunità ove nel 1940 risulta si trovassero soltanto 79 persone, venne fatta circolare la voce che gli ebrei al di sopra dei 70 anni non sarebbero stati molestati: bastava si recassero a «registrarsi» presso il Commissariato di Pubblica Sicurezza. Vennero in tal modo compilati elenchi assai precisi e nel febbraio 1944 i tedeschi, tradendo ogni precedente promessa, passarono con un furgone a raccogliere quei poveri vecchi ebrei, molti dei quali in cattive condizioni di salute (cfr. Memoria Pansa-De Angeli, presso il C.D.E.C.).

Assai più drammatiche sono le vicissitudini dei vecchi e degli ammalati di Venezia per la caccia spietata che venne esercitata contro di loro. La Casa di Ricovero e la Casa di Cura di Marocco (presso Mestre) furono invase a diverse riprese e le persone in esse trovate, salvo pochissime, de- [112] portate. Sempre in Venezia fu istituita nell'ottobre 1944 una sezione per ebrei da avviare alla deportazione nella Sala di Custodia dell'Ospedale Civile, ove erano rinchiusi ammalati cronici, malati di mente, ecc. Il passaggio attraverso le vie ed i canali della città dei gruppi di questi infelici trascinati ai campi di sterminio ha lasciato una profonda impressione su tutta la popolazione che vi assistette: «Le SS avevano modi brutali, feroci, ed in un batter d'occhio portarono via tutti (22 persone) all'infuori di 8 o 9 ricoverati (tutte donne meno un uomo) assolutamente

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non trasportabili. Li sospingevano per il Campo di Ghetto coi calci dei fucili; un lungo, tragico corteo di gente sfinita dal dolore e dagli spaventi, con a capo la figura signorile del Rabbino cieco, dotto Ottolenghi, e la popolazione risvegliata di soprassalto piangeva di commozione e di rabbia. Nessuno della popolazione cristiana del Ghetto di Venezia, che era stato presente in quella tragica notte può averlo dimenticato. Di quest'ultimo gruppo prelevato, trattenuto per brevissimo tempo in prigione, non si ebbe mai più notizia. Sia di questi come degli altri 93 deportati nel dicembre'43 nessuno è ritornato» (sulle vicende degli ebrei veneziani cfr. le accurate note di Laura Fano Jacchia, presso il C.D.E.C., dalle quali è tratto il brano qui citato).

Sempre per diretto intervento tedesco fu compiuto il tentativo di deportare i bambini dell'orfanotrofio israelitico di Livorno, nell'aprile 1944. Questo crimine fortunatamente non giunse a compimento a causa del precipitare degli eventi bellici (cfr. Vicende dell'Orfanotrofio israelitico di Livorno dopo l'8 settembre, di Giuseppe Funaro, in Gli ebrei in Italia durante il fascismo, Quaderno n. 1, Torino, 1961).

Tra le azioni in grandi proporzioni, la più nota è la retata del 16 ottobre 1943 a Roma, durante la quale furono arrestati 1024 ebrei (dei quali soltanto 16 si salvarono). [113] Sempre a Roma, 75 ebrei furono inclusi tra i 335 fucilati alle Fosse Ardeatine come rappresaglia per l'attentato di via Rasella nel marzo 1944. (E' da notare che spesso tra i fucilati per rappresaglia vi furono israeliti che si trovavano nelle carceri in attesa della deportazione). Ma sugli episodi romani, come abbiamo già detto, non crediamo necessario soffermarci dal momento che sono largamente conosciuti.

Possiamo concludere queste brevi note sulla deportazione rilevando che i nazifascisti non rinunciarono ad alcun mezzo pur di arrestare il massimo numero possibile di ebrei. Essi ricorsero tanto alla persecuzione contro la singola persona, contro l'ebreo isolato sulla base degli elenchi forniti dai fascisti e della denuncia delatoria, quanto all'arresto dei nuclei di israeliti che potevano trovarsi ancora raccolti presso determinate istituzioni ebraiche parzialmente funzionanti, quanto al rastrellamento di quartieri tradizionalmente abitati da ebrei (a Trieste, a Venezia, a Roma). In questo complesso di operazioni i comandi tedeschi non lesinarono uomini e mezzi, in misura che appare addirittura enorme se si considera il larghissimo aiuto recato dai «camerati» fascisti. Ma tutte le fonti sono unanimi nel dichiarare che anche in Italia il comportamento dei tedeschi contro gli ebrei non fu eguagliato in ignominia da alcun altro.

Certo, non si possono dimenticare gli episodi di spionaggio effettuati da italiani contro altri italiani, per impadronirsi dei loro averi, per ricevere un compenso che magari era di 3000 lire, ne il collaborazionismo odioso, ne le nefande attività razziste dei fascisti. E tuttavia, in corrispondenza con il vastissimo movimento di resistenza sviluppatosi nel paese, a moltissimi ebrei occorse di trovare un aiuto presso ignoti ed anonimi, anche nelle prigioni e nei [114] luoghi di concentramento. Invece l'atteggiamento delle truppe, dei poliziotti, dei sorveglianti tedeschi era non solo rigidamente ossequiente alle leggi dell'antisemitismo hitleriano - le distinzioni tra l'attività delle SS e quella delle truppe regolari furono praticamente irrilevanti - ma non era alieno, come s'è visto, dall'indulgere a violenze private, al furto, alle sopraffazioni di singoli contro singoli. E' lungi dalle intenzioni dell'autore della presente comunicazione il desiderio di risvegliare odi di popolo contro popolo ed è con sincero rammarico che si devono

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scrivere parole di così rigida condanna. E tuttavia il panorama complessivo della presenza dei tedeschi nel nostro paese e della loro attività antiebraica ci pare non possa essere dipinto con tinte meno spietate. Qualora emergano notizie ed informazioni che attestino episodi di umanità verso gli ebrei tra i germanici in Italia, sarà con vera soddisfazione che li annoteremo e li terremo preziosi.

Ma quale era dunque la sorte degli ebrei una volta catturati? Il trasferimento degli ebrei ai campi di sterminio oltre il Brennero avveniva in

tre tempi: arresto e detenzione in carceri e luoghi di prigionia locali; trasferimento al campo di concentramento di Fossoli; viaggio verso i campi di sterminio fuori d'Italia (Ravensbrück, Auschwitz, Mauthausen, ecc.).

Per quanto riguarda la prima fase occorre rilevare che in pratica furono decine i luoghi in Italia ove gli ebrei venivano trattenuti per un tempo più o meno lungo non appena individuati ed arrestati. Di fatto, presso le carceri di molte città, le caserme, i campi di confino, ecc., vennero rapidamente istituite, dopo il 30 novembre 1943, sezioni speciali per accogliere gli israeliti e comunque tali luoghi vennero senza indugi adattati al nuovo genere di prigionieri. [115] Come è noto, dal Governo fascista erano stati creati da molti anni campi di confino per detenuti politici, per ebrei stranieri o per prigionieri di guerra; aggiungendo anche questo dato alle informazioni che possediamo, risulta che il numero dei posti di raccolta momentanea degli ebrei era assai alto, quantunque la cifra assoluta dei prigionieri fosse in certi casi molto piccola. Le carceri Nuove di Torino o di S. Vittore a Milano, di via Tasso a Roma o di Marassi a Genova, gli edifici - spesso alberghi o ville - ove la polizia germanica aveva sede, furono i luoghi nei quali gli ebrei passarono le prime ore o i primi tempi della loro prigionia. Dai campi provvisori e dalle carceri gli israeliti venivano trasferiti al campo di Fossoli (presso Carpi, in provincia di Modena), dove era organizzato periodicamente il trasporto ai campi di sterminio. I motivi per i quali i tedeschi scelsero Fossoli come centro di raccolta e smistamento paiono semplici: questo campo appariva relativamente ampio ed attrezzato (da tempo era adoperato per internarvi militari anglo-americani) ed inoltre era situato in comoda posizione dal punto di vista geografico e dei collegamenti ferroviari. Ma su tale campo ritorneremo ancora.

Interessa notare intanto che tra i centri di generica detenzione del tipo sopraccennato vi furono in Italia piccoli campi di concentramento veri e propri, i quali ebbero una specifica vicenda sino a quando non vennero abbandonati o i loro ospiti non vennero trasferiti oltre il Brennero. Anche di questo aspetto della persecuzione antisemita nazista non potremo che citare qualche episodio, che però potrà da un lato attestare la consistenza del fenomeno e dall'altro indurre ad avviare finalmente qualche organica e metodica ricerca.

Tra i campi ove già i fascisti avevano internato ebrei stranieri, che passarono dopo l'8 settembre sotto controllo [116] tedesco, segnaliamo anzitutto quello di Servigliano (in provincia di Ascoli Piceno) nel quale sembra fossero rinchiusi specialmente ebrei di nazionalità germanica. Dalle informazioni in nostro possesso non sembra che le autorità tedesche subentrate a quelle italiane abbiano fatto in tempo ad organizzare deportazioni da questo luogo verso il nord, eccetto che in un caso. Si tratta di 27 ebrei che fuggiti insieme a molti altri nella notte del 3 maggio 1944 grazie ad un bombardamento aereo alleato (probabilmente effettuato in accordo con le forze della resistenza della zona) che aveva danneggiato gli edifici del campo, vennero catturati durante un rastrellamento dai germanici ed inviati verso ignota

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destinazione su un autocarro. Le condizioni particolari del campo di Servigliano - in prossimità del fronte e con una vivace presenza nei dintorni di bande partigiane - sono dimostrate, tra l'altro, dall'assalto dei partigiani al presidio del campo dell'8 giugno 1944: il presidio venne disarmato e molti, ancora una volta, poterono fuggire.

A Mantova, per ordine della Questura, il 1° dicembre 1943 venne istituito un campo di concentramento per tutti gli ebrei che fossero stati scoperti. Tale campo era costituito dalla Casa di riposo israelitica ed il segretario della Comunità ebbe l'incarico di presiederne l'organizzazione. Nel dicembre 1943 i prigionieri erano 121 (47 uomini, 64 donne e 10 bambini). Poco dopo giunse anche qui l'ordine di rilasciare gli ebrei al disopra dei 70 anni e la vita lentamente cominciò ad assumere un ritmo di normalità. Però improvvisamente - e l'ordine venne certamente diramato dal Comando tedesco - fu decretata, il 5 aprile 1944, la deportazione di 42 internati sui 63 che erano rimasti: essi, rapidamente scelti in base alla prestanza fisica, vennero trasferiti in Alta Silesia e solo uno ha potuto fare ritorno. Da questo campo non avvennero altre deportazioni; nel mese [117] di luglio esso accolse 28 cittadini greci non ebrei. Nel suo piccolo questa vicenda ha qualcosa di analogo alla tragedia immane della Comunità e dei Judenräte dell'Europa orientale.

Nella zona di Parma furono creati due campi: ciò conferma che il decreto del 30 novembre 1943 era pienamente operante in tutte le provincie e che se esso non fosse stato attuato dal Governo fascista, i tedeschi avrebbero dovuto svolgere un ben più complesso lavoro. Questi ultimi, infatti, trovarono molto comodo utilizzare campi già impiantati dai fascisti e passare alla deportazione degli israeliti che vi trovavano già rinchiusi. I campi della provincia di Parma dei quali vogliamo fare menzione sono quello di Monticelli Terme, da dove gli ebrei furono trasferiti a Fossoli e quindi ai campi di sterminio assieme egli ebrei provenienti dall'altro campo di Castello degli Scipioni (presso Salsomaggiore). Anche a Monticelli giunse presto l'ordine provvisorio di rilasciare i vecchi al di sopra dei 70 anni, ordine che i tedeschi, convincendo con facilità i fascisti, in seguito annullarono, come abbiamo visto, in tutti i casi in cui ne ebbero possibilità.

Ma i campi più atroci si ebbero nell'Italia nord-orientale, nei territori cioè, come s'è segnalato, incorporati di fatto nel Reich. A Merano (Alto Adige), ed esempio, diversamente che in qualsiasi altra regione d'Italia, la popolazione del luogo ebbe un atteggiamento nel complesso di forte antisemitismo, quantunque ne mancasse qualsiasi causa specifica (gli ebrei meranesi erano in tutto 600 circa nel 1938) all'infuori della comunanza etnica e culturale con la Grande Germania. Qui gli israeliti venivano rinchiusi nella «Casa del Balilla», brutalmente interrogati, maltrattati e picchiati. Il 16 settembre 1943 un gruppo di 25 ebrei di Merano fu trasportato in automobile al campo di ster- [118] minio di Reichenau, presso Innsbruck, e quindi ai campi di morte in Polonia; tra essi è segnalato un solo superstite. Autori delle efferatezze particolarmente aspre sofferte dalla Comunità meranese furono il Gruppo Schindelholzer, specializzato in razzia e caccia agli ebrei, e il S.O.D. (Servizio di polizia tirolese), oltre naturalmente alle S.D., alle SS ed alla Gestapo.

Molto dura era pure la situazione al campo di Bolzano che costituiva una sorta di tappa nel viaggio da Fossoli verso la Polonia. A causa delle frequenti interruzioni nelle linee ferroviarie del Brennero per i bombardamenti aerei, la funzione di Bolzano risultò di grande rilievo per il «buon andamento» dei trasferimenti. Si

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segnalano anche casi di deportazione da Milano e da altri centri a Bolzano e in Polonia senza passare per Fossoli. La sorveglianza dei prigionieri era effettuata dai tedeschi in forme crudeli, specie rispetto alle condizioni dei campi in altre parti d'Italia. Si segnala, ad esempio, che due custodi tedesche erano chiamate da prigionieri «la tigre» e «la tigrina», con chiaro riferimento alle loro qualità... Una volta, ad esempio, condannarono per futilissimo motivo una prigioniera all'isolamento in una cella piena d'acqua. Fustigature, botte ed insulti erano all'ordine del giorno. Alcuni detenuti dementi provenienti dal manicomio di Mombello vennero strangolati pochi giorni dopo il loro arrivo. Il quadro generale del campo di Bolzano è estremamente triste, anche se in complesso le notizie che se ne hanno risultano scarse: il numero dei prigionieri che vennero uccisi sul posto è elevato; dunque in pratica, un campo di sterminio dove erano rinchiusi in permanenza almeno un migliaio di individui, mentre migliaia di altri risulta vi siano transitati.

A conclusione di questo elenco sommario e puramente indicativo delle località italiane ove vennero imprigionati [119] israeliti ad opera delle truppe tedesche, va ricordato il campo installato negli edifici della ex Pilatura del riso di San Saba presso Trieste. Anche S. Saba avrebbe dovuto essere solamente un luogo di detenzione provvisoria ed infatti moltissimi vennero da qui trasportati verso l'est. Ma, data l'ampiezza relativa del campo, considerando che secondo taluni calcoli le persone che vi vennero uccise furono almeno 2.000 (e. Schiffer, La risiera, in Trieste, n. 44, luglio-agosto '61), tenendo presente che ivi funzionava regolarmente un forno crematorio, si può concludere che ci si trova in presenza d'un campo di sterminio «classico», dotato di tutte le necessarie installazioni. Fucilazioni, torture, lavoro forzato, privazioni erano la regola fissa del campo, nel quale, come in quasi tutti quelli nei quali furono imprigionati gli israeliti, erano pure rinchiusi patrioti, renitenti alla leva, arrestati nei rastrellamenti e per rappresaglia, detenuti politici, ecc. E tutto questo non avveniva per caso; ancora una volta non ci si trova di fronte ad una inconsapevole barbarie e a misure improvvisate nel furore della lotta: «l'adattamento dei vecchi edifici alla nuova funzione è attuato con cura meticolosa e secondo un piano al quale non possiamo negare una sua razionalità, anche se rivela l'inumanità di chi lo concepì» (C. Schiffer, op. cit.).

Per quanto, come s'è visto, il passaggio per il campo di Fossoli non risulti sia avvenuto per tutti i deportati, esso è da considerarsi il campo di concentramento più grande che vi sia stato in Italia durante l'occupazione nazista. Era costituito da un vasto accampamento cintato da tre file di reticolati, all'interno del quale erano situate numerose baracche in legno e muratura: dal n. 1 al n. 10 erano destinate agli ebrei, le altre raccoglievano i «politici» ed i rastrellati per caso. Ogni baracca avrebbe dovuto contenere 60 persone, ma spesso erano 70-80. In mezzo al [120] campo v'era un canale e tutt'intorno parecchie torri di guardia, diverse delle quali munite di mitragliatrici.

I tedeschi assunsero il controllo del campo nel gennaio-febbraio 1944 e lo conservarono sino al momento della ritirata. Appena giunti ordinarono l'inizio delle deportazioni: il primo treno di ebrei catturati in Italia partì, secondo Primo Levi (Se questo è un uomo, pago 15), il 22 gennaio con 650 prigionieri. In maggio e giugno le deportazioni si susseguirono perchè il campo, contenendo circa 3000 prigionieri, dovè apparire sovraffollato. Alla fine di giugno, ad esempio, parti un convoglio di circa 700 ebrei (deposizione di Umberto Polacco, presso il C.D.E.C.). Sul campo di

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Fossoli il Retlinger (op. cit., pagg. 429-430) scrive cose interessanti ed importanti; ma ci sembra che descrivendo il regime interno interpreti ottimisticamente le parole di Primo Levi. Infatti il Levi venne portato via da Fossoli prima che i tedeschi ne prendessero pienamente possesso e prima che i fascisti si fossero riorganizzati. In seguito le condizioni peggiorarono notevolmente, sebbene non raggiungessero la gravità dei campi di sterminio d'oltr'alpe: oltre ad episodi d'uccisioni individuali, va ricordato come esempio della «vita» del campo il massacro di 68 detenuti politici, accusati d'aver complottato un'evasione, che avvenne il 12 luglio 1944.

Inoltre se tra gli interessati esisteva un clima di vera solidarietà e di reciproco aiuto ciò si deve all'alta percentuale di uomini di grande valore, di nobiltà d'animo, impegnati profondamente nella lotta antifascista dal punto di vista ideale (cfr. Enea Fergnani, Un uomo e tre numeri, Milano, 1955).

Come s'è constatato ben poche furono le differenze tra il comportamento tedesco verso gli ebrei delle altre parti d'Europa e verso gli italiani; quel poco che si può riscontrare [121] deriva dall'atmosfera creatasi nel paese e dal fatto che la guerra volgeva al termine, non certo dalle intenzioni naziste, che furono sempre freddamente ed astutamente calcolate come quando in ogni occasione si esortavano gli ebrei a portare con sè oro e gioielli e denaro ed indumenti per il viaggio; oppure a Fossoli si esortavano quelli che stavano per essere deportati a consegnare le monete italiane alle SS che le avrebbero restituite in marchi all'arrivo! (cfr. E. Jani, op. cit., pag. 71). Dove però ogni differenza scompare definitivamente accumunando tutti i martiri dell'oppressione nazista, è allorchè le porte dei carri vengono piombate ed incomincia il viaggio verso l'annientamento.

E' questo l'ultimo punto intorno al quale ci soffermeremo succintamente; a partire da questo momento la sorte dei deportati non è più nelle mani dei comandi tedeschi in Italia: essi hanno compiuto la loro opera e il resto tocca ai camerati dei campi di sterminio.

La descrizione dei pochi superstiti e dei pochi che poterono assistere al passaggio o alla sosta nelle stazioni dei treni dei deportati sono unanimi nel sottolineare l'orrore di tali trasporti: senza spazio, nella peggiore promisquità, senza mangiare, senza bere. I casi di morte durante il viaggio sono numerosi e così quelli di improvvisi squilibri mentali; allorché le porte del vagone si chiudono ogni residuo di speranza che ancora aveva albergato negli animi sembra scomparire di fronte all'atrocità dell'avventura che si sta attraversando ed in molti casi si fa strada una suprema rassegnazione.

Una testimonianza in possesso del C.D.E.C. afferma: « ...ai deportati dei primi due treni le sentinelle naziste permettevano che venissero consegnate cibarie ed acqua da parte del cav. Tagliati, del defunto cav. Villanova e del Capo-Gestione Ghisellini, nonchè da altri subalterni delle ferrovie e dai questurini italiani. Il terzo treno, transitato [122] alle 10-10,30 antim., era invece scortato da paracadutisti spietati, che non permettevano assolutamente di avvicinarsi al convoglio, le cui portiere erano chiuse senza alcun spitaglio... Gli arresti avevano avuto luogo alle 5 di mattina del giorno precedente, ed alle ore 6,30 gli arrestati erano già sui vagoni piombati che lasciavano Roma in giornata. Il carro era stivato di uomini, donne, bambini, ai quali non era stato dato da mangiare e da bere sin dal momento della piombatura dei carri. Nel vagone dove si trovava l'ing... si trovava già un cadavere di donna e altri tre cadaveri si trovavano nel convoglio».

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In un biglietto gettato dal treno alla stazione di Roma-Tiburtina è dato leggere, tra l'altro: «... Partiamo con fortezza d'animo ... Fatevi forza come ce la facciamo noi...». In un'altra missiva gettata da un deportato nei pressi di Brescia è scritto: «... E' il secondo giorno che mi trovo rinchiuso in un vagone bestiame con i miei e con altre 200 persone in un viaggio verso il campo di concentramento. Ho la prospettiva terribile di 8 giorni di viaggio per raggiungere Cracovia in Polonia. Ho il presentimento che questo viaggio sia per me e per i miei senza ritorno... Le sofferenze del carcere erano un paradiso in confronto a quanto andiamo incontro e, ti assicuro, invidio il galeotto... Sono ormai totalmente rassegnato e cosi mia mamma e mia sorella... Penso che la morte non è poi così terribile anche se affrontata con serena lucidità di mente, ma con piena rassegnazione. Il treno corre non troppo veloce, ma inesorabilmente verso i confini... ».

Queste scarne ed umili parole di due tra i tanti condannati a morte paiono degna epigrafe al triste periodo che qui si è rievocato per sommi capi, più che altro allo scopo di mettere in evidenza quanti temi di ricerca siano ancora inesplorati. Esse suonino anche per lo studioso: Non dimenticate! Ricordate!

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Ultime lettere di deportati ebrei (46)

La tragedia della deportazione delle comunità israelitiche ad opera dei nazifascisti durante la seconda guerra guerra mondiale ha, forse, quale aspetto più raccapricciante quello della sua gratuità. Come è già stato messo in rilievo molte volte, nulla lasciava prevedere che nell'Europa del secolo XX si potesse assistere ad un massacro di inermi tanto grande e tanto ingiustificato sia dal punto di vista di una qualsiasi ideologia, sia dal punto di vista della sicurezza politica o militare di coloro che le misero in pratica.

Questo dato di fatto - dell'inattendibilità della catastrofica prospettiva - non è però rilevante ed indimenticabile soltanto sotto il profilo giuridico e morale. Come molti documenti pongono in evidenza in maniera palese, l'atteggiamento normale di incredulità ed incomprensione, vivissimo tra la stragrande maggioranza degli israeliti, circa la terribile sorte che loro si stava preparando, ebbe quale conseguenza che la trappola della deportazione e dei campi di sterminio scattò cosi abilmente, cosi di sorpresa ed attraverso mistificazioni cosi abili che assai poco potè essere predisposto per evitare il peggio.

Certo può apparire poco utile, con il senno di poi, [124] tentare previsioni su quello che avrebbe potuto essere e non fu. Nondimento, a parte l'impegno, che ciascuno dovrebbe sentire, di trarre da quel passato ogni lezione, ogni insegnamento, che sia possibile derivare, pensiamo che, anche sotto l'angolo visuale dell'indagine storica, sia indispensabile ricostruire tutti i momenti che saldandosi l'uno con l'altro condussero alla «soluzione finale», tutte le condizioni, e anche gli orientamenti ideologici e psicologici, che agevolarono la manovra omicida rendendo vani gli appelli che sebbene pochi e disperati, vere voces clamantes in deserto, vi furono per tentare di mettere in guardia ed organizzare, finché si era ancora in tempo, fuga e difesa.

Questo ordine di problemi, sia pure secondo diverse sfumature e tendenze, ci pare di riscontrare, nella varietà e nella somiglianza di tanti altri fenomeni che si verificarono nell'Europa sotto il tallone nazista, più o meno in tuttti i paesi: in Polonia ed in Ungheria, in Olanda ed in Grecia, in Francia ed in Italia.

In particolare nel nostro paese, ove gli spostamenti forzati di popolazioni o di gruppi, praticamente, a memoria d'uomo ed a coscienza di popolo, erano pressoche sconosciuti, il decreto di deportazione suonò assurdo ed incomprensibile probabilmente assai più che altrove. Di conseguenza, nonostante la confusione generale in cui esso venne emanato, il rapido dilagare del movimento partigiano e nonostante che l'occupazione tedesca, in confronto con altri Stati, sia stata più

46 In Quaderni del Centro di studi sulla deportazione e l'internamento, n. 1, 1964.

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breve, grazie specialmente alla sorpresa iniziale, ebbe gravissime conseguenze, proporzionalmente non inferiori ai casi della Polonia o della Lituania.

Scopo di questa breve raccolta è di mettere in rilievo, attraverso la presentazione di alcuni documenti inediti, precisamente la vergogna dell'azione persecutaria verso per [125] sone impreparate, inermi e assolutamente non pericolose alla sicurezza del Reich. Finora infatti sono pressoche mancate, anche per la complessità tecnica d'un tale lavoro, documentazioni sulla persecuzione e sulla deportazione antisemite in italia che ponessero in evidenza quanto abbiamo affermato. Di quali generi sono piuttosto le pubblicazioni in materia che riguardano il nostro paese? Rinviando per una più ampia informazione bibliografica alla mia comunicazione al III Congresso di storia della Resistenza di Karlovy Vary Appunti sulla persecuzione antisemita in Italia durante l'occupazione nazista pubblicata sul n. 1 del 1964 della rivista Il Movimento di Liberazione in Italia, pensiamo che quanto è finora apparso sull'argomento possa essere reperito in quattro filoni di studi che più o meno direttamente interessano il nostro argomento.

1) Opere generali sulla guerra ed il nazismo. Tra queste possiamo ricordare perché di particolare attualità quelle sui rapporti tra Chiesa Cattolica ed israeliti nel periodo in questione. Recentemente, ad esempio, in relazione alla nota polemica sul dramma Il Vicario è stato edito un opuscolo abbastanza interessante di Joseph L. Lichten: A question of judgement: Pius XII and the Jews (National Catholic Welfare Conference, 1963, Washington. n. 35).

2) Volumi sulla storia della Resistenza. Ad esempio si possono citare i volumi

degli atti della prima conferenza internazionale di storia della Resistenza di Bruxelles (La Résistance européenne 1939-1945, Pergamon Press, Londra, 1960, p. 410) che contiene, tra l'altro, un importante lavoro sulla resistenza ebraica al nazismo di Philip Friedman e del secondo congresso di storia della Resistenza di Milano (La resistenza europea e gli alleati, Lerici, Milano, 1961, p. 579). In tale occasione si sollevarono per la prima volta [126] in Italia i problemi d'uno studio rigoroso della persecuzione razziale.

3) Lavori sulla storia contemporanea degli israeliti in Italia. Si vedano al riguardo, anche per le fonti bibliografìche, la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (Einaudi, Torino 1961, p. 697) ed i Quaderni Gli ebrei in italia durante il fascismo, editi nel 1961, 1962, 1963 che pur nella loro disorganicità sono una fonte piuttosto ricca d'informazione.

4) Rievocazioni memoralistiche, testimonianze e diari sulla deportazione. A

questo genere di lavori - ai quali per un certo verso ci paiono assimilabili gli studi di A. Devoto sulla Psicologia e psicopatologia del lager nazista in (Rivista di Psicologia sociale, anno XI, n. 2) e sugli Aspetti psicologici della Resistenza nei «Lager» nazisti (in Atti e Studi dell' Istituto Storico della Resistenza in Toscana, ottobre 1962) - appartiene una schiera notevolmente fitta di opere. Crediamo che basti rinviare per averne moltissimi e nobili esempi ed un ampio corredo bibliografìco alla recente raccolta antologica Notte sull'Europa (a cura di F. Etnasi ed R. Forti, 1963) edita dalla Federazione di Roma dell'Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti.

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Pensiamo che precisamente a questo ultimo tipo di documentazione possano ascriversi le lettere ed i biglietti di deportati e su deportati dei quali pubblichiamo il testo. Sono testi scabri e di valore informativo ineguale; ma circa il loro senso più autentico, a nostro avviso, paragonabili solo alle giustamente famose Lettere di condannati a morte della Resistenza europea raccolte da P. Malvezzi e G. Pirelli (Torino, Einaudi, 1963).) Si tratta, in altre parole, di dirette e immediate testimonianze che giungono dal cuore stesso della deportazione, che ragguagliano, e qui ci pare stia la loro validità storica, accanto allo altissimo [127] significato umano, in modo diretto, privo di retorica e semplice della semplicità dell'ora sublime ed atroce che i loro loro autori stanno attraversando, sugli ultimi pensieri delle vittime, su quanto esse vedevano accadere loro intorno, sul comportamento usato nei loro confronti da poliziotti, soldati ed aguzzini.

Dicevamo poco più sopra della difficoltà a reperire tali estremi messaggi. Per il modo frammentario con cui sono stati raccolti, per la scarsità di notizie sui loro autori, per l'ancora inesatta informazione che è stata elaborata sui luoghi ed i tempi della deportazione antisemitica, giudichiamo che il corredo di notizie, che pur sarebbe stato indispensabile fornire per una completa valutazione, risulterà assai lacunoso.

Nondimeno - pur consapevoli di tali carenze — crediamo non solo utile, ma indispensabile cominciare a rendere noti tali documenti finora rinchiusi negli archivi del C.D.E.C. Tra l'altro, come non di rado avviene per questo genere di fatiche, proprio dal pubblico dei lettori possono giungere ragguagli, critiche, appunti che permettano di attuare in un secondo tempo necessarie modifiche e correzioni e gli eventuali ampliamenti.

I

Il Sindaco del Comune di Canove di Roana, presso Vicenza, nel 1948 con molta cortesia recapitò al Comitato ricerche deportati ebrei istituito a Roma presso l'Unione delle Comunità Israelitiche, un pacco di cortispondenza rinvenuto nella cassaforte dell'Amministrazione comunale ed indirizzata ad ebrei stranieri internati in tale località durante la guerra e presumibilmente deportati dopo l'otto settembre 1943. Di tale corrispondenza, non consegnata per «l'irreperibilità dei destinatari» pubblichiamo una lettera che nella sua semplicità umanissimamente attesta il rapido disgregarsi, nel vortice della guerra e della persecuzione, di famiglie ed amicizie. [128] Il mittente, Herman Fritz scrive dalle carceri di Vicenza all'internata di guerra Gunter Redlich a Canove di Roana.

CARCERI GIUDIZIARIE DI VICENZA VICENZA, 10 - 9 - 43

Gentilissima Signora, Gli invio questa lettera per fada recapitare i saluti da Vicenza. Noi siamo

sempre in prigione e crediamo che la questura ci abbia dimenticati. Ed a voi come va in Canove? Ora la guerra è finita e perciò crediamo di non essere più per lungo tempo internati. E desidero una preghiera: che lei andasse dalla signora Clara e che mi mandasse subito i due vestiti e le camicie perchè ne ho tanto bisogno, e che mi conservi bene la bicicletta.

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Il pacco postale che la faccia BENE è che la mandi assicurato, se per caso avesse una scatola di lattea che me la mandi.

Mi raccomando vadi subito dalla signora Clara così in settimana ricevo il pacco, come se la passano quelli della casa bianca? La prego di dire che mi mandano la posta e quella di Arbisser.

Ci scrivi qualche volta. Saluti a lei e a sua madre.

FRITZ HERMANN AFF.MO (?) Von Arbisser

Scriva in italiano

II

(Corrispondenza dal Campo di Fossoli di Carpi)

Come è noto il campo di concentramento e per smistamento oltre frontiera, che ebbe maggiori dimensioni fu in Italia quello di Fossoli. In esso venivano rinchiusi prigionieri di ogni ripo: politici, arrestati per rappresaglia di guerra e razziali. Per la sua relativa grandezza anche l'organizzazione clandestina dei detenuti e l'aiuto dall'esterno risultano più ampi ed intensi che altrove. E' anche per tali ragioni che, attraverso il Parroco di Fossoli - che svolse una pia opera assistenziale - è stato possibile raccogliere un certo numero di biglietti e di lettere di deportati. La maggior parte - forzatamente brevi - sono scritti allo scopo di dare notizie ai propri congiunti della località ove si trova il mittente o di richiedere [129] aiuti e soccorsi. In genere la calligrafia nervosa e la carta usata per scrivere (miseri foglietti di notes, ecc.) denotano, assai più delle parole, la triste condizione della prigionia.

Ove non siano espressamente indicati, sono sconosciuti, i nomi dei mittenti e le date.

A)

Fossoli di Carpi, 30 - 1 - 44 Carissima mamma

mesi sono passati e non ho ricevuto niente da parte tua. Ho ricevuto un messaggio di Charlotte scritto in Agosto del l'anno scorso nel

quale dice che la tua salute sta bene. Risponde (?) subito onde avere tue notizie. Io sono internato ma sto bene. Tanti saluti a tutti e baci a te.

il tuo fedele figlio SAMY B)

Scrivere al Sig. Graziano di farsi consegnare dalla mia donna Edvige Lire 2000 (duemila) da farmisi pervenire gentilmente a mezzo vaglia postale, urgendomi per migliorare rancio. Grazie infinite

CARLO BASSANI Baracca 4 B - FOSSOLI

(Parente della Signora Alba) C)

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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Ultima lettera di Corinna Corinaldi in Segre, deportata da Fossoli il 22 febbraio 1944, al figlio Uberto.

16-2-44

Carissimo,

oggi non ho un gran che da raccontarti ma siccome la posta parte solo il mercoledl e il sabato, così ti scrivo lo stesso. Speriamo possa darti presto qualche notizia interessante e soddisfacente. La salute è buona, solo da due giorni ho un forte dolore intercostale a destra dove sono stata operata del lipoma. Suppongo siano i nervi che allora sono stati tagliati per staccarli che con l'umidità, qui ce n'è molta, si risentono e provocano un dolore nevralgico. Ma non è certo nulla di serio e non dubito passerà presto, specie quando potrò [130] vivere in altro clima. Qui ho ritrovato il maggiore di Tirano arrivato da pochi giorni da Milano. Mi ha chiesto di te. Il buon vecchio ingegnere è partito per un lungo viaggio, ma non sarà il caso di dirlo ai suoi amici. C'è ora anche il padre del giovane Alberto che ha viaggiato con te.

Non so se scriverò sabato; ad ogni modo ti dico anticipato un a riscriverti. Vi abbraccio tutti e tre.

Mamma D)

Suppliche di israeliti alle Autorità cattoliche Lettere al Parroco di Fossoli (?) e lettera al Vescovo di Carpi

e all'Arcivescovo di Modena. Molto Reverendo Padre,

Trovandosi in questo campo circa 500 ebrei, fra i quali molte donne, bambini, vecchi, ammalati e tutti in condizioni economiche veramente pietose, siamo a pregarvi di voler trasmettere al più presto possibile e tramite persone di assoluta fiducia la lettera qui acclusa a S. E. l'Arcivescovo Boetti, Cadinale di Genova. Sicuri che quanto per noi farete sarà altamente apprezzato dalla autorità ecclesiastica tutt'ora in fatica per alleviare il dolore di noi ebrei, vi anticipiamo i nostri ringraziamenti e le espressioni di tutta la nostra riconoscenza.

Gli ebrei internati

A S.E. il Vescovo di Carpi A S.E. l'Arcivescovo di Modena

Eccellenze Reverendissime Al paterno cuore di Chi regge le Diocesi vicinori, ci rivolgiamo, a nome e per

conto dei nostri compagni tutti, senza distinzione di razza e di Fede, che sono internati nel Campo di Concentramento di Fossoli di Carpi, per invocare patrocinio spirituale e materiale ausilio nelle nostre tristissime condizioni. Il pio Sacerdote che è latore di questo accorato appello, illustrerà alle E.V. in qual modo si possono più efficacemente far giungere i soccorsi che vecchi, donne, bambini, infermi, implorano alla umana solidarietà dei meno diseredati.

Noi siamo certi che non invano la nostra voce giungerà ai Pastori di anime, poiche la nostra personale esperienza ci ammaestra e conforta: mai come in questo momento la Chiesa ha adem-

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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[131] piuto alla missione che si proclama nella sublime Parola: «VENITE AD ME VOS OMNES QUI LABORATI ESTIS ET EGO REFICIAM VOS».

Vogliano le E.V. perdonarci l'ardire, conservarci la loro preziosa benevolenza e ricordarsi di noi nelle Loro preghiere.

Con riconoscente devozione profonda

Fossoli di Carpi, 19 - 2 - 1944 Il Rabbino capo di Modena Dr. Rodolfo Levi - il Rabbino di Gorizia Rabb. Aldo Orvieto - Avv. Paolo Levi - Dr. Gustavo Corinaldi - Dr. Giuseppe Muggia - Guido Melli - Cesare (?) Lonzana (?) - E. Donati

E)

Fossoli di Carpi, 28 - 5 - 44 Carissimo Angelo, ti faccio sapere che sono il nipote di Pacifico Spagnoletto

quello in cui mi chiamavi Negus. Nell'impossibilità di poter scrivere a Roma ti mando a chiedere un grande piacere se tu hai la bontà di mandarmi qualche soldo e se hai qualche cosa di scarto della tua biancheria perché ne sono senza.

Ringraziandoti di ciò che farai per me e sperando un giorno di poterti ringraziare di tutto cuore. Se potrai spedire manderai in questo indirizzo: (Sig.) Piattelli Settimio (Campo di Concentramento Fossoli di Carpi) (Campo vecchio) (Prov. di Modena).

Ti ringrazio e ti saluto con tutto il cuore. Piattelli Settimio

III (Dai treni, dai campi di sterminio).

Fino all'ultimo le povere vittime tentarono di informare della loro sorte parenti

ed amici. Dai vagoni piombati e dai carri bestiame in transito lungo la penisola venivano infatti lanciati drammatici, ultimi appelli che in più d'un caso, raccolti da pietosa mano, pervennero al giusto recapito. Sono spesso biglietti schematici, poco più d'una frase vergata rapidamente come quelle che si leggono sui muri d'una cella.

Pubblichiamo anche questi testi in ordine di tempo iniziando con tre messaggi lanciati da israeliti romani arrestati nella tragica- [132] mente famosa «azione» del 16 ottobre 1943. Poiche ci sembrano testimonianze di notevole rilievo pubblichiamo anche due lettere - una brevissima, d'accompagnamento, l'altra più ampia di vera e propria testimonianza, scritta nel 1958 - di osservatori diretti che assistettero nelle stazioni al passaggio dei treni della morte e che, come poterono, aiutarono gli infelici deportati. A) Lettera gettata da Lionello Alatri alla stazione di Roma-Tiburtina.

Lunedì mattina. Partiamo per la Germania io, mia moglie e mio suocero e Annita avvertite

nostro viaggiatore Mieli.

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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Date ogni fine mese lire 600 alla mia portiera e lire 250 a Irma cui rimborserete anche gas e luce.

Fate leggere la presente alla Sig.ra Ermelinda. Ignoro se la merce rimarrà requisita. Se potremo venderla ricordatevi che i prezzi' del 1° blocco devono essere

venduti proporzionalmente alla merce tipo. Se potete fare il cambio alla (parole ilIegibili) fatelo chiamando il Sig. Riccardo.

Partiamo con fortezza d'animo: certo la compagnia di mio suocero in quelle condizioni mi sgomenta.

Fatevi forza come ce la facciamo noi. Un abbraocio a tutti.

Lione

Dite al barone che Ettore e Elda e la sua cugina Lella è con noi. Dite a Riccardelli (?) rappresentante che moglie e figli stanno bene con noi.

Dite a Bucellato (?) che Vito a Via Flavia sta bene con noi. Avvertite via Po' n. 42 al portiere che l'Ingegnere sta bene con noi. Avvertite

portiere Via Villa Albani 12 sorella e cognata bene con noi. Avvertite pottiere Via Po 162 Lello e Silvia bene con noi. Avvertite portiere Via Vicenza 42 Pellicciaia sta con noi. Avvertite pottiere Corso Italia 106 Famiglia di Veroli bene con noi.

[133]

» » ( parole illegibili) Raoul bene con noi. » » Via Sicilia 154 (?) Clara bene con noi. Per umanità chiunque trovi la presente è pregato impostare la presente.

B) Lettera di accompagnamento d'un biglietto scritto su carta igienica e raccolto alla stazione di Padova. Il messaggio era indirizzato al . Sig. Sornaga presso la Ditta Prima di Roma. Seque una breve lettera di ringraziamento di tale Ditta.

MINISTERO DELLE COMUNICAZIONI FERROVIE DELLO STATO

Padova, 18 - 10 - 1943

Oggi è transitato per Padova un treno con della popolazione civile, e fra i tanti un bambino ha gettato questo biglietto che allego. Spero che .la presente vi arriverà. Cordiali saluti e auguri.

GIOCONDI GINO Via Tiziano-Aspetti, 17/3 PADOVA

AVVERTIRE A PRIMA NEGOZIO VIA NAZIONALE CHE LA MOGLIE E LA MADRE STANNO INSIEME CON I MIELI E DI-BAVE. SALUTI.

27 Ottobre Signor Gino Giocondi Via Tiziano - Aspetti, 17/3

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Guido VALABREGA Ebrei, fascismo, sionismo (1974)

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PADOVA

Abbiamo ricevuto la Vs/ pregiata del 18 c.m. con relativo allegato e Vi ringraziamo sentitamente per l'atto squisitamente cortese che non dimenticheremo. Cordialissimi saluti.

« P R I M A » p.p. speciale

C) Biglietto gettato dal treno dall'Ing. Tedeschi. Segue una testimonianza del Cav. Mario Tagliati che raccolse il messaggio. [134]

FERRARA Martedì 19 - 10

Prego caldamente avvertire l'Ing. Ermanno Tedeschi che è passato di qui in tradotta, suo fratello deportato in Germania. Spera essere lui solo - che avverta i miei cari a Roma.

L'Ing. Tedeschi avverte la famiglia che alle ore 16 del 19 - 10 è arrivato a Padova, e prosegue per l'estero - benedice la famiglia e prega fargIi avere ove sarà, a mezzo qualsiasi, le vostre notizie. RELAZIONE del Sig. Cav. MARIO TAGLIATI (anni 69) residente in

Ferrara Via G. Fabbri 24 - Ex capo gestione delle Ferrovie presso la stazione FF.SS. di Ferrara - 1° Capitano dei Bersaglieri in congedo, Pluridecorato.

Vide transitare per la Stazione di Ferrara nel settembre-ottobre (non ricorda la data precisa) del 1943 tre treni di deportazione a distanza di 24 ore circa uno dall'altro. Si sapeva con certezza che nei treni si trovavano esclusivamente deportati ebrei.

Ai deportati dei primi due treni le sentinelle naziste permettevano che venissero consegnate cibarie e acqua da parte del Cav. Tagliati, del defunto Cav. Villanova e del Capo gestione Ghisellini, nonche da altri subalterni delle Ferrovie e dai Questurini italiani.

Il terzo treno, transitato alle 10-10,30 antim. era invece scortato da paracadutisti germanici particolarmente spietati, che non permettevano assolutamente di avvicinarsi al convoglio, le cui portiere erano chiuse senza alcun spiraglio.

Il Cav. Tagliati vide un deportato (che risultò essere il povero Ing. Arrigo Tedeschi) fargli dei segni da dietro la grata fissa del penultimo vagone del convoglio, che era composto, come i precedenti, di una trentina o trentacinque vagoni.

Approfittando di un momentaneo allontanamento delle sentinelle, il Tagliati poteva avvicinarsi al vagone e sentire dalla viva voce dell'Ing. Tedeschi l'identità di quest'ultimo, fratello dell'Ing. Ermanno Tedeschi, ben conosciuto dai funzionari delle FF.SS. di Ferrara, nonche i seguenti particolari sulla sua deportazione e sulle pietose condizioni dei compagni di sventura.

Gli arresti avevano avuto luogo alle 5 di mattina del giorno precedente, ed alle ore 6,30 gli arrestati erano già sui vagoni piombati che lasciarono Roma in giornata. Il carro era stivato di

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[135] uomini, donne e bambini ai quali non era stato dato da mangiare e da bere sin dal momento della piombatura dei carri. Nel vagone dove si trovava l'Ing. A. Tedeschi si trovava già un cadavere di donna ed altri tre cadaveri si trovavano nei convogli.

Il Tedeschi faceva segno di voler gettare un biglietto il che riuscì a fare solo alla partenza del treno, quando le sei o otto sentinelle tedesche erano balzate sui predellini.

I disgraziati si lamentavano soprattutto per il disumano supplizio derivante dal dover vivere promiscuamente malgrado l'impossibilità di provvedere ai propri bisogni fisiologici se non in un angolo del carro stesso.

La notizia del transito da Ferrara del fratello dell'Ispettore Ing. Tedeschi è stata risaputa subito da tutto il personale della stazione, che ne fu profondamente impressionato e commosso.

Quanto sopra da me riferito all'Ing. Umberto Tedeschi, e da questo trascritto risponde alla dolorosa verità della tragedia della quale sono stato personalmente testimonio.

In fede F.to Mario Tagliati

FERRARA, 5 Aprile 1958 D) Lettera gettata da un vagone di deportati diretto in Polonia, oltre Brescia e indirizzata a una persona di Chivasso.

7 - 12 - 43 oltre Brescia Cara Lucia,

affido questo mio scritto alla bontà di qualcuno che vorrà imbucare. E' il secondo giorno che mi trovo rinchiuso in un vagone bestiame con i miei e

con altre 200 persone in viaggio verso il campo di concentramento. Ho la prospettiva terribile di 8 giorni di viaggio per raggiungere Cracovia in Polonia.

Ho il presentimento purtroppo che questo viaggio sia per me ed i miei senza ritorno, perché se non soccomberemo per la fame e per le fatiche cui verremo sottoposti non potremo resistere ai freddi terribili, scarsamente vestiti e calzati come ci troviamo. L'ultima nostra speranza è in Dio che purtroppo finora non ci ha aiutati, ma che pure continuiamo a pregare perché se manca il [136] conforto della fede in questo momento casi terribile, tanto vale farla finita senz'altro con la vita.

Le sofferenze del carcere erano un paradiso in confronto a quanto andiamo incontro ed io ti assicuro invidio anche il galeotto. Comunque ormai il destino è segnato e salvo un miràcolo non tornerò più a casa. Sono ormai totalmente rassegnato e così mia mamma e mia sorella (poverette). Non mi spaventerei neppure se dovessero fucilarmi tra un'ora...

Il destino non è stato certo molto favorevole con me e dopo avermi sottoposto a prove di per se stesse molto dure, ha voluto che per la nequizia degli uomini io fossi posto di fronte a quanto di più tremendo si possa immaginare. Mi piego con rassegnazione alla volontà del destino e di Dio, addolorato più che per me, per la mia mamma e per mia sorella, che pur avendo un morale elevatissimo e fatalistico come il mio, non meritavano una sorte casi tremenda. La vita finora non mi ha

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offerto molti piaceri e pur avendo incontrate molte difficoltà mi ero rassicurato che infine anche questa prova della vita avrebbe avuto un termine ed io avrei pure potuto godere le bellezze della vita.

Viceversa mi trovo qui a scrivere il mio testamento spirituale. Qui non abbiamo neppure più un nome, ma soltanto un numero, come gli animali. I giorni trascorsi in carcere non mi avevano affatto addolorato perché mi facevano fare una grande ed utile esperienza, ma ora... quasi piangerei la mia vita che a 23 anni viene posta al suo estremo limite, se non fosse invece che colla morte nel cuore devo tenere allegri e fare coraggio ai miei ed altri disgraziati che sono con me (persino vecchi 90enni). Penso anzi che la morte non è poi casi terribile anche se affrontata con piena lucidità di mente, ma con piena rassegnazione.

Il treno corre non troppo veloce ma inesorabile verso i confini. Cara Lucia godi la vita fin che puoi e più intensamente che puoi cerca di non avere rammarichi! Vedi che la morte può giungere quando meno te lo aspetti. Meglio non avere rammarichi; mai come adesso capisco la verità del carpe diem oraziano. Vedi come nella vita si mutano le idee ed i principi!

Ormai devo terminare questo breve scritto che ha poche probabilità di giungerti. Ti allego un breve appunto che deve servire da mio testamento pro-forma e che ti prego di gentilmente eseguire.

Salutami ancora una volta tutta Chivasso e gli amici e fai [137] sapere a tutti la nostra morte. Se avrò tempo ti aggiungerò anche un breve rigo per Giulio che ti prego di salutare con tutto il mio affetto dato che pur nel breve tempo della nostra amicizia ha saputo dimostrarmi di essere il mio migliore amico. A te mando il mio ultimo ed affettuoso saluto, ricordando le belle ore trascorse che hanno illuminato per un istante il grigiore della mia vita col loro raggio.

Addio, Lucia, addio... Mino

E) Biglietto di Renato Pace, deportato dalle carceri di Roma il 6 gennaio 1944, gettato dal treno a Bolzano. Segue lettera fatta pervenire alla famiglia per mezzo d'una guardia (e questo spiega il tono particolare del testo) che aveva accompagnato i prigionieri sino a Mauthausen. Il Pace per qualche tempo poté nascondere la sua identità di ebreo. La prima missiva è indirizzata al consodo dell'industriale presso il quale la vittima era impiegata.

Prego consegnare il presente al Signor Ernesto Giulìni Via Leonardo da Vinci, 70 BOLZANO Signor Ernesto Giulini Via Leonardo da Vinci, 70 BOLZANO

PregaVi, avvisare De Gitolami che il suo ragioniere Pace è passato da Bolzano

diretto in Germania per lavorare, tranquillizzino Mamma e tutti, che io sto ottimamente e perfettamente sereno. Stiano calmi e tranquilli sul mio conto.

Scusate e grazie. Pace Renato

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13 (?)-12 (?)-44 Carissimi,

Vi do nuovamente mie notizie, come sempre ottime. Siamo tutti nella località della Germania, migliore sotto ogni punto di vista, in prossimità di Vienna. Prima eravamo vicini a Monaco ma ora ci troviamo qui e stiamo molto bene. Il vitto è ottimo ed [138] abbondante ed il lavoro pochissimo. Anche il trattamento è molto buono. State tranquilli sul mio conto e speriamo di rivederci presto. Pensate che mangiamo burro, salame e formaggio. Beviamo tè continuamente. Mamma stia tranquilla e serena e non se la prenda. Al mio ritorno voglio trovarla tranquillissima. Non date retta a tante storie che si raccontano, perché sono tutte chiacchiere e nulla più.

Quindi calma e pazienza. Mi auguro che voi stiate bene e non soffriate troppo per quanto dovrete passare. Coraggio e forza d'animo.

Intanto io approfitto della occasione propizia per cercare d'imparare un po' di tedesco e presto potrò darmi delle arie in materia!

Non so ancora se potrò scrivervi ma comunque non ve la prendete. Salutissimi al Sig. Ernesto e famiglia. Se dovessero chiedergli informazioni sul

mio conto, dica pure che sono suo dipendente come ragioniere ma senza presentare i miei libretti. Scrivo male perché sono in posizione scomoda.

Vi mando il portafoglio e la penna e matita perché qui temo di perderle. State tranquilli e tanti baci a Mamma, Mino e Silvio (?). Saluti a tutti.

Renato (47)

47 L'autore della lettera, naturalmente (è quasi il caso tristemente di dire) non è tornato indietro. E tutta la durezza della condizione in cui si trovava è perfettamente racchiusa nella terz'ultima frase: «Vi mando il portafoglio...». Come essere più espliciti che con queste vibrate ed essenziali parole? Riconoscetemi e ricordatemi attraverso questi oggetti, esse ci dicono; attraverso questo inconsueto ed inspiegabile invio sappiate comprendere la realtà del campo di concentramento, disumana e distruggitrice.

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Aspetti della partecipazione di ebrei italiani alla seconda guerra mondiale (48)

1. La situazione degli ebrei in Italia

Secondo quanto hanno accertato tutti gli studi più recenti ed approfonditi la minoranza ebraica in Italia aveva raggiunto all'epoca della conquista del potere da parte dei fascisti un altissimo grado di assimilazione con il resto della popolazione. Tale assimilazione - nonostante non fossero mancati in passato e non mancassero anche intorno agli anni '30 spunti di antisemitismo qua e la nel paese presso ristretti circoli di estrema destra o di estrema conservazione cattolica - continuò in realtà a progredire anche durante la massima parte del periodo in cui il fascismo ebbe nelle sue mani le redini dello Stato.

In altre parole fino al 1937-38, fino a quando cioè l'alleanza con la Germania nazista non fu conclusa e perfezionata, le poche decine di migliaia di ebrei residenti in Italia - fossero di nazionalità italiana, fossero immigrati da altri paesi e con l'esclusione di piccolissimi gruppi di sionisti molto impegnati - non si distinsero di fatto nell'esistenza quotidiana, nell' esercizio delle professioni, nella [140] partecipazione alla vita dello Stato da tutti gli altri italiani appartenenti alla religione cattolica o ad altre religioni o senza religione.

La discriminazione antisemita e razziale cominciò dunque ad avere effetto ed a pesare grandemente a partire dal 1938. In seguito, con l'occupazione tedesca del paese dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, la persecuzione divenne estremamente dura e costò agli ebrei miseria, umiliazioni, deportazione e morte: ma, in verità, con l'8 settembre 1943 e fino all'aprile 1945 si apri una fase nuova per tutto il popolo italiano, che si schierò in blocco contro l'occupante tedesco e diede vita ad un imponente movimento di resistenza partigiana, che abbracciava uomini di ogni corrente politica, dal monarchico al comunista, dal cattolico all'israelita, movimento che aveva tra i suoi obiettivi anche quello di liberare l'Italia dalla macchia dell'antisemitismo e della persecuzione.

Queste schematiche informazioni sulla condizione dell'assimilazione in Italia paiono indispensabili per spiegare i modi con i quali gli israeliti italiani parteciparono prima alla lotta clandestina antifascista e poi, dal 1943 al 1945, alla battaglia armata contro i nazifascisti. Anche dai rapidissimi accenni alla situazione generale del paese e degli ebrei che vi abitavano che si sono qui fatti, crediamo risultino evidenti le cause per cui sino al 1938 è praticamente impossibile parlare di gruppi ebraici di opposizione autonoma al fascismo, e per cui se è possibile registrare una intensa partecipazione ebraica all'azione partigiana e militare contro 48 Questo lavoro, a quel che mi risulta. inedito, venne inviato nel gennaio 1964 al prof. M. Mushkat della «Union of 2nd World War Veterans» di Tel-Aviv che l'aveva richiesto per una pubblicazione sulla partecipazione degli israeliti alla seconda guerra mondiale. Il fatto che quello fosse il destinatario spero spieghi, da un lato, una certa enfasi nel definire sinteticamente qualche aspetto delle vicende italiane che presumevo non del tutto chiare agli eventuali lettori stranieti, e dall'altro, la tendenza a non insistere troppo nella demistificazione delle tesi del sionismo e la preferenza a riferirsi ai fatti...

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l'Asse in Italia, essa non assunse mai caratteri originari o particolari, ma appare sempre fusa intimamente con tutta l'opera resistenziale nel complesso. [141] 2. La partecipazione all'antifascismo prima del 1938

Per quanto non rientri precipuamente nel tema giudichiamo opportuno - per le evidenti connessioni storiche ricordare che numerosi furono gli israeliti italiani che nella segretezza all'interno del paese oppure dopo essere riparati all' estero presero parte - con grande coraggio e pagando di persona - all'attività dei partiti politici antifascisti costretti all'illegalità. In genere troviamo, anche in posizioni di responsabilità, numerosi israeliti o persone di origine israelita nel partito repubblicano, nel partito d'azione, nel partito socialista, nel partito comunista.

Inoltre è giusto ricordare che parecchi israeliti che durante la guerra presero parte alla lotta contro il nazifascismo erano uomini che provenivano dalle fìla dell'antifascismo militante. Va quindi tenuto presente anche questo dato per inquadrare il significato della presenza ebraica nelle formazioni partigiane, o tra le truppe impiegate sotto controllo alleato contro i tedeschi da parte del Governo italiano «del Sud» dopo l'8 settembre 1943.

Così mentre non mancarono israeliti che con totale mancanza di senso di responsabilità furono fascisti o fìlofascisti, si possono ricordare i nomi notissimi di Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Ugo Della Seta, Carlo Levi, Gino Luzzatto, Giuseppe Modigliani, Rodolfo Mondolfo, Mario Montagnana, Rita Montagnana, Carlo e Nello Rosselli, Emilio Sereni, Umberto Terracini, Claudio Treves quale modello di cittadini che non si piegarono mai e che furono d'esempio, o che tuttora sono, di coraggio e di fede nella causa della libertà.

Invero tutti questi nobili personaggi e altri che si potrebbero citare, poco o nulla ebbero di ebraico nella loro [142] attività che li distinguesse dai loro compagni. Si aprirebbe quindi a questo punto una discussione circa la legittimità di «estrapolare» dalla vicenda italiana di quegli anni una serie di individui che non volle mai essere considerata separata. In effetti l'opera d'un Mondolfo, d'un Montagnana, d'un Sereni o d'un Treves, obiettivamente considerata, pare possedere poco o nulla di caratteristicamente ebraico. Tuttavia - segnalato per amore di verità questo dato concreto che realmente esiste - noi non tenteremo di risolvere il problema che abbiamo registrato: la nostra sarà quindi soltanto una sorta di rassegna statistica e di enumerazione. Toccherà al lettore di queste pagine valutare, secondo la sua opinione, quale elemento rilevante o meno il fatto che ad esempio Nello Rosselli abbia partecipato ad un Convegno ebraico nel 1924 o che Umberto Terracini si sia talvolta interessato, anche recentemente, di questioni israelitiche. Per conto nostro pensiamo che su questo problema sia sufficiente aver messo nel giusto rilievo l'alto grado di assimilazione sotto tutti gli aspetti e quindi anche quello politico-sociale in cui si trovavano e si trovano gli ebrei italiani. 3. Gli ebrei italiani nelle forze armate alleate

Secondo un calcolo provvisorio ed impreciso il numero degli ebrei e delle persone di origine ebraica che presero parte alla guerra contro i nazifascisti si aggira, su una popolazione ebraica globale di circa 45.000 individui nel 1938, nel

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complesso, su 1500, dei quali 1000 nelle forze partigiane, nell'attività clandestina di propaganda, nell'aiuto a prigionieri alleati in fuga, nell'appoggio indiretto alla lotta [143]

Daremo qualche esempio di questo tipo. L'avv. Giulio Colombo di Torino agi in Val d'Aosta quale Comandante della

missione Cross O.O.S.S. dall'aprile del 1944 all'aprile 1945 come attesta una dichiarazione dell'Lt. Col. Erdwurm Graham del 2677th Regiment (Office of Strategic Services).

Bruno Fiorentini di Roma col grado di Capitano fu prima partigiano del Raggruppamento Monte Amiata, poi entrò nell'VIII Armata Britannica, infine fece parte dell'Esercito d'occupazione francese in Germania. Per la sua valorosa attività patriottica ha ricevuto la medaglia d'argento al valor militare con la seguente motivazione: «Fra i primi ad insorgere contro la dominazione tedesca, dimostrò subito meravigliose doti di organizzatore ed animatore. In un aspro e critico combattimento, caduto il comandante della formazione partigiana assumeva l'iniziativa del comando ed incitando con la parola e con l'esempio i dipendenti infondeva loro spirito combattivo e li trascinava, galvanizzati dal suo valore, alla vittoria. In seguito, in servizio di informazioni e di collegamento per un comando alleato, attraversava più volte il fronte operando, con mirabile audacia e con grande sprezzo del pericolo, nel cuore dello schieramento tedesco e portando sempre a termine con ottimi risultati tutti i rischiosissimi compiti affidatigli».

Ferruccio Rossi di Venezia, fuggi dal confino dove era rinchiuso per antifascismo nel 1944 per arruolarsi nelle truppe americane ed entrò a far parte come volontario dell'Edmongton Rt. canadese. In seguito quale tenente delle truppe alpine italiane divenne istruttore della Mountain School e divenne poi Capo della Missione militare italiana presso il comando francese a Rastatt nel Baden (Germania).

Giorgio Bemporad di Firenze quale partigiano della Brigata V. 2 Gruppo, di una Divisione Giustizia e Libertà [144] partigiana e 500 presso le Autorità Militari Alleate. I caduti furono circa 200. Tuttavia queste cifre vanno considerate con molta cautela perché sinora non è stato effettuato nessun conteggio preciso e quindi potrebbero variare anche in misura sensibile.

In quale modo gli ebrei entravano a far parte delle truppe alleate? Sostanzialmente in tre modi: 1) trovandosi all'estero e chiedendo di essere

arruolati come volontari; 2) passando le linee del fronte ed entrando a far parte dei servizi militari alleati, eventualmente dopo aver prestato precedentemente attività presso bande partigiane; 3) chiedendo di entrare a far parte dei servizi alleati e delle truppe italiane del Governo del Sud, dopo la liberazione, durante l'avanzata verso il nord del paese.

1) I casi del primo tipo sono piuttosto rari. Citeremo soltanto il più famoso, quello di Enzo Sereni, del kibbuz Ghivath Brenner, che chiese ed ottenne di essere arruolato tra i paracadutisti e che calatosi in Emilia venne catturato dai tedeschi e deportato a Dachau ove mori presumibilmente il 18 novembre 1944.

2) Assai numerosi sono gli esempi di passaggio dalle fìle partigiane a quelle degli eserciti regolari alleati. Si può anche aggiungere che in taluni casi israeliti partigiani entrarono in contatto con gli Alleati - per esempio in Piemonte, con le missioni in Francia e con le ambasciate in Svizzera - e vennero investiti di particolari

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responsabilità compiendo azioni complesse e delicate di collegamento tra gli Alleati ed i partigiani. Questi eroi, molti semplici e modestissimi, furono di fatto incorporati nelle forze alleate pur prestando servizio effettivo nell' ambito del movimento partigiano. [145] operante in Toscana entrò a far parte prima della 797 Water Transport Coy R.A.S.C. e poi del 1° Echelon HQ4, Royal Canadian Army Service Corps. Prese parte, tra l'altro, ai combattimenti per la liberazione di Firenze ed è giudicato dal suo comandante «Elemento serio e molto disciplinato. Meritevole del più alto elogio».

Non sono questi che quattro casi tra molti, e sicuramente ne esistono di più eccezionali e gloriosi ancora. Ma essi paiono significativi della spontaneità con la quale israeliti di ogni parte d'Italia e di ogni condizione sociale ed età (ma in maggioranza intellettuali o lavoratori manuali) si inseriscono negli eserciti alleati spontaneamente dalle fìla dei partigiani in cui si erano ritrovati.

3) Mentre numerosi sono i casi che si potrebbero ancora citare sull'adesione di

partigiani ed antifascisti di vecchia data alle bandiere alleate, si può dire manchino pressoché completamente le notizie statistiche sull'arruolamento dopo la liberazione di Napoli, e poi Roma e Firenze e Bologna d'israeliti nelle truppe liberatrici o nel ricostituito esercito italiano. Ciò è forse dovuto al fatto che tali atti, pur degni di menzione e valorosi, appaiono «più normali», meno avventurosi e, forse per tali cause, la documentazione è lacunosa. Tuttavia possiamo attestare che episodi del genere vi furono e questa memoria che ne facciamo suoni onorifica menzione di quegli israeliti che al momento in cui si ritrovavano liberi non pensarono solo a se stessi ed alla loro sistemazione, ma dedicarono sacrifici gravosi per la completa sconfitta della tirannide nazifascista ed il salvataggio dei fratelli ancora oppressi dalla persecuzione. [146] 4. Gli ebrei nella Resistenza

Il modo fondamentale con cui gli ebrei italiani parteciparono in modo attivo alla guerra antifascista fu prendendo parte alla lotta armata clandestina. Su tale tema esiste già una certa pubblicistica: articoli, libri, celebrazioni hanno in diverse occasioni ricordato questo o quel combattente partigiano, questo o quel gruppo di israeliti che presero parte alla campagna bellica conclusasi con l'insurrezione dell'aprile 1945.

In questa lotta, numerosi furono i caduti ebrei e parecchi di essi i decorati con le più alte onorificenze della Repubblica. Una serie di nomi da Emanuele Artom a Leone Ginzburg, da Mario Jacchia a Rita Rosani, da Franco Cesana a Giorgio Latis sono divenuti famosi in tutto il paese: ad essi sono dedicati vie e scuole. Oltre a questi eroi caduti per la causa della libertà, oltre ad altri ugualmente modesti e fulgidi nomi, forse meno noti, di caduti, esiste poi la schiera dei combattenti che tuttora vivono, ritornati alle umili occupazioni quotidiane e ai quali non è mai stata data la giusta attenzione, e che è doveroso invece ricordare con lo stesso affetto con cui si commemorano i loro compagni colpiti nella battaglia.

Ma anzirutto desideriamo ancora una volta sottolineare come anche nella Resistenza non è dato notare, in Italia, alcuna autonomia ebraica. In realtà non vi furono mai né nuclei, né distaccamenti, né organizzazioni di combattimento ebraici

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o composti prevalentemente da ebrei. Anzi, anche talune organizzazioni assistenziali (quali la Delegazione Assistenza Emigrati Ebrei o il Comitato Assistenziale Ebraico) durante la clandestinità poterono funzionare solo grazie al generoso aiuto in uomini e mezzi di non ebrei [147] che si posero in rischio della vita per aiutare gli israeliti fuggiaschi.

Esiste però un caso unico sul quale è bene richiamare l'attenzione ed è quello della IV Divisione alpina G.L. «Stellina» che venne fondata e sostenuta dall'israelita torinese Giulio Bolaffi. In tale raggruppamento partigiano non vi erano solo israeliti, ma il fatto che esso fosse stato creato e sia stato diretto da un ebreo può costituire in un certo qual modo un elemento che può considerarsi avviamento alla costituzione d'una banda partigiana israelitica. La Divisione «Stellina», collegata al partito d'Azione, operava in Val di Susa (Piemonte) e prese parte a numerosi scontri con i nazifascisti, opponendosi a rastrellamenti ed attuando frequenti azioni di disturbo e sabotaggio. Nell'aprile del 1945 essa agì in due direzioni: l'occupazione del colle del Moncenisio che doveva assicurare il rafforzamento dei collegamenti con la Francia e la liberazione di Susa e della bassa valle di Susa. Il suo comandante Giulio Bolaffi, che aveva per nome di battaglia quello di «Aldo Laghi» prese personalmente parte a molte azioni belliche e trattò nel marzo 1944 con il Comando tedesco di Torino lo scambio di alcuni prigionieri.

Nondimeno se il caso della Divisione «Stellina» fondata e sostenuta dal Bolaffi fu il più significativo, numerosi altri furono quelli in cui israeliti ebbero nella Resistenza e nella guida di bande partigiane posti di comando e di alta responsabilità, sia come comandanti militari, sia come elementi specializzati per le loro qualifiche di medico, di attivista politico, di organizzatore, ecc.

Tra i partigiani ebrei uccisi nella lotta e che ebbero posti di responsabilità e funzioni dirigenti segnaliamo sette esempi, scelti tra quelli, meno famosi e sui quali minore è la documentazione, tra quelli più semplici ed allo stesso [148] tempo più sublimi e rappresentativi; sono quelli offerti da Eugenio Calò, Franco Diena, Giuseppe e Paolo Diena, Mario Finzi, Davide Pugliese, Ermanno Vitale, dei quali esporremo in poche parole i dati biografici fondamentali.

Eugenio Calò. Nato a Pisa il 2 luglio 1906 da umile famiglia, dopo che ebbe la moglie e tre figli catturati dai tedeschi, si gettò nella lotta partigiana in Toscana organizzando una brigata nella Val di Chiana. Varie volte catturato, riuscì sempre a sfuggire ai nazifascisti grazie a falsi documenti e continuò ad operare salvando dalla prigionia e dalla deportazione intere famiglie. Il 2 luglio 1944 passa le linee del fronte e raggiunge le truppe alleate portando con se 20 prigionieri tedeschi. Poco dopo è incaricato dagli anglo-americani d'una nuova azione oltre il fronte; ma, a missione compiuta, venne scoperto, imprigionato e torturato. Fu sepolto vivo insieme ad altre 68 vittime che vennero fatte saltare con la dinamite. Alla sua memoria è stata concessa la medaglia d'oro al valor militare con la seguente motivazione: «Rispose pronto al grido della patria e pur sapendo moglie e figli catturati, antepose all'amore per la famiglia la fede profonda negli ideali supremi valori di libertà e giustizia. Organizzatore e animatore instancabile, pur menomato nel fisico, diede tutto se stesso al consolidamento dei Reparti partigiani, affrontando intrepido disagi gravissimi e rischi continui; combattente vice-comandante di Divisione partigiana, affermava doti altissime di coraggio e sprezzo del pericolo, che specialmente brillarono nell'attraversare le linee germaniche con un folto gruppo di prigionieri che stavano per essere liberati, e consegnarli alle avanzanti truppe

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alleate. Catturato durante un attacco di sorpresa, interrogato e seviziato ferocemente, conservò il più assoluto silenzio. Il nemico furente ne sotterrò il corpo [149] ancor vivo. Esempio fulgido di dedizione alla grandezza d'Italia». Franco Diena. Nato a Torino il 4 maggio 1925, aveva un fratello (Giorgio) ed una sorella (Marisa) pure impegnati nella lotta di liberazione. Faceva parte della IV Brigata Garibaldi e dopo aver preso parte a numerosissime azioni armate entrò in una squadra di «Arditi» impegnata in imprese particolarmente rischiose. A 19 anni, il 26 settembre 1944, dopo essere stato in precedenza già più volte ferito, non volle rinunciare a prender parte ad una «missione speciale» e cadde in un combattimento contro i fascisti a Pancalieri (Piemonte). Giuseppe e Paolo Diena. Padre e figlio, di Torino, entrambi medici, caddero il primo in un campo di concentramento germanico ed il secondo da eroico soldato allorché, attardatosi per prestare cure ai feriti venne circondato e ucciso in combattimento. Antifascisti da molto tempo - Giuseppe Diena era stato arrestato una prima volta nel 1942 – non cessarono mai di cospirare contro il fascismo all'interno del movimento Giustizia e Libertà. Sono due bellissime figure di scienziati e di studiosi che, nel momento della lotta e del sacrificio, rifiutarono di rinchiudersi nella pura ricerca e si impegnarono sino all'estremo sacrificio per la causa della libertà. Mario Finzi. Nato a Bologna il 15 luglio 1913, mori ad Auschwitz nel 1945. Musicista di sicuro avvenire, si dedicò, a partire dal 1938, all'assistenza agli ebrei profughi in Italia e perseguitati con grande ardore e capacità. Rapidamente l'opera assistenziale si innestò nella cospirazione politica tanto che subì un primo arresto nel maggio del 1943. Dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo, riprende la sua attività assistenziale che continua anche dopo [150] l'inizio dell'occupazione tedesca. Catturato a Bologna il 31 marzo 1944, deportato a Fossoli, scomparì in data imprecisata nel campo di sterminio polacco. Davide Pugliese. Nato a Genova il 12 aprile 1912, si era rifugiato nel 1943 con la famiglia in Svizzera. Ma ricevute le prime notizie sullo sviluppo del movimento partigiano torna clandestinamente in Italia per entrare a farvi parte. Commissario di guerra in una Brigata Matteotti cadde il 10 aprile 1945 in un'imboscata: ferito a morte riuscì a nascondere sotto un masso gli importanti documenti che aveva con se. Nell'ultima lettera scritta in Svizzera ai parenti prima di partire si legge, tra l'altro: «Se io solo mancherò all'appello il giorno della pace, ti prego di ricordarmi con bontà e di essere sereno pensando che sarò morto nella speranza che il mio sacrificio servirà per la buona causa alla quale oggi tendono tutte le fibre del mio spirito». Ermanno Vitale. Nato ad Alessandria (Piemonte) il 1° giugno 1922, era uno studente universitario quando, nel settembre 1943 si arruola nella 2a Divisione Autonoma Langhe. Nel 1944 passa alla 79a Brigata Garibaldi. Prese parte a molteplici fatti d'arme: al disarmo delle truppe germaniche che presidiavano un ponte, al sabotaggio d'un viadotto ferroviario, allo scontro con le truppe ausiliarie mongole del 4 febbraio 1945. Durante un rastrellamento, si pose alla testa d'un pugno di volontari votati alla morte per difendere la ritirata ai compagni presso il ponte di Perletto (Cuneo). Dopo aver resistito per tutta una mattina venne catturato

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insieme agli altri, dopo essere stato più volte ferito, da un gruppo di fascisti che si erano travestiti da partigiani. Fu fucilato insieme a 20 altri combattenti della libertà. Alla sua memoria è stata conferita la medaglia d'argento al valor militare. [151]

Come si vede dalle vicende individuali me abbiamo riportate, ci si trova in presenza d'una molteplicità di situazioni e di episodi che rispecchiano la varietà e la vivacità che contraddistinguono la storia del movimento di Resistenza in Italia: v'è il giovane che sceglie con slancio generoso il proprio posto a fianco di chi già si batte, v'è il militante antifascista che prende parte alla lotta armata come alla prosecuzione logica dell'azione politica clandestina, v'è la persona che, per un moto invincibile di indignazione e di protesta contro il nazifascismo, pur non avendo mai preso parte alla vita politica, si getta nel combattimento.

Questa ricchezza d'intenti e di motivi ideali ritroviamo identica pure nell'impegno dei combattenti partigiani ebrei che sono tuttora viventi e di alcuni dei quali crediamo utile segnalare qualche elemento biografico. Tra essi abbiamo scelto le figure di Alberto Aluf Medina, Lia Corinaldi, Mosé Di Segni, Raffaele Jona ed Ettore Pacifici.

Alberto Aluf Medina. Nato a Costantinopoli il 28 agosto 1890 e residente in

Italia (prima a Livorno e poi a Milano) da moltissimi anni, entra nel movimento partigiano sin dal settembre 1943 collegandosi alla Brigata Monte San Primo. Dopo aver preso parte a diverse azioni di guerra e sabotaggio è nominato Comandante di distaccamento ed inoltre interprete ufficiale. Per il suo eroismo riceve dalla Repubblica italiana due Croci al merito di guerra e dal Governo britannico un encomio solenne per aver aiutato a sfuggire ai tedeschi numerosissimi militari inglesi evasi dalla prigionia.

Lia Corinaldi. Nata a Torino nel 1904 è di professione insegnante. Dopo aver

svolto attività antifascista anche prima delle leggi razziali del 1938, con l'inizio della Resistenza entra in contatto con il partito comunista clandestino [152] e si impegna particolarmente nei «Gruppi di difesa della Donna», nell'organizzazione del servizio sanitario partigiano e nell'opera di collegamento all'interno della scuola e con gli intellettuali antifascisti. Durante tale attività è nominata nel 1944 membro del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola per il Piemonte. Moltissimi volantini e giornaletti illegali dedicati agli studenti ed ai loro insegnanti di Torino sono stati compilati da Lia Corinaldi.

Mosé Di Segni. Medico-chirurgo, di Roma, è nato il 10 gennaio 1903. Già sottoposto a speciale vigilanza politica dai fascisti, prende parte a tutte le azioni belliche della V Brigata Garibaldi «Ancona», ove prestava la sua opera quale ufficiale medico e direttore di sanità. Il Di Segni, che aveva fatto parte dopo il 1940 del Consiglio della Comunità israelitica di Roma, partecipò nella primavera del 1944 alla liberazione di alcuni ebrei detenuti in un campo di internamento presso Murcia (Marche). Egli ha ricevuto la medaglia d'argento al valor militare con la seguente motivazione: «Ufficiale medico dirigente il servizio sanitario di una Brigata partigiana, non esitava in piena mischia a portare la sua assistenza e le sue cure ai feriti caduti sul campo di battaglia. Durante l'infuriare di un combattimento, assunto il comando di un gruppo di valorosi, benche ferito, li trascinava con slancio al contrattacco del nemico che tentava l'avvolgimento, mutando in vittoria le sorti

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della giornata. Mirabile esempio di generosa abnegazione, di valore e di sprezzo del pericolo».

Raffaele Jona. Nato ad Ivrea (Piemonte) nel 1905. Ingegnere meccanico. Dal

settembre 1943 organizza bande partigiane del movimento Giustizia e Libertà; poi dal maggio 1944 inizia il servizio di collegamento tra il C.L.N. di Torino e le autorità alleate ed i rappresentanti del Governo [153] italiano in Svizzera. Assume anche l'incarico di Commissario per la Valle d'Aosta. Per conto delle organizzazioni ebraiche americane in Svizzera (Joint) utilizza i continui passaggi clandestini dall'Italia alla Svizzera (14 volte andò e tornò tra il maggio del 1944 e l'aprile 1945) per trasportare anche soccorsi finanziari e conforti di vario genere ad ebrei nascosti in Italia.

Ettore Pacifici. Nato a Firenze nel 1896 e abitante a Genova. Assume funzione di ufficiale addetto al comando presso la Divisione Mingo (Brigata Buranello) e, per il suo eroismo, ha ricevuto una croce al merito di guerra ed una promozione al grado di Colonnello con la seguente motivazione: «Esperto militare, volontario di una missione partigiana, organizzava e prendeva parte personalmente a varie operazioni vittoriose contro truppe tedesche, che provocano una violenta azione di repressione. Attaccata da una Divisione tedesca di S.S. rinforzata da mezzi corazzati, la Divisione partigiana sosteneva duri combattimenti, durati tutta una giornata, subendo perdite gravi e maggiormente gravi infliggendone, ma dovendo alla fine cedere di fronte alla preponderanza del nemico. Rimasto fino all'ultimo al suo posto di comando, ripiegava quando sopraffatto poteva sottrarsi alla cattura fortunosamente gettandosi da una parete scoscesa e riportando gravi ferite. Guarito organizzava nuove formazioni che nell'aprile insurrezionale del 1945 guidava nella marcia liberatrice. Ufficiale di esemplare dirittura morale, esperto, soldato ardimentoso, sempre animato da fede ed ideali purissimi, fu uno dei migliori uomini della sua Divisione alla quale prodigò mente, cuore, energie e sacrifici per la libertà della patria». [154] 5. Osservazioni conclusive

Lo sviluppo poderoso e l'azione intensissima conclusasi con l'insurrezione vittoriosa del movimento della Resistenza sono il dato più significativo e più importante della recente storia italiana. E' sulla base degli ideali della Resistenza e del patto unitario stipulato dagli italiani antifascisti nel corso della lotta armata, patto suggelato tra comunisti, socialisti, aderenti al movimento di Giustizia e Libertà republicani, liberali, democristiani e senza partito nel nome del martirio dei caduti, che nascerà la nuova Italia della Repubblica e della Costituzione democratica.

Alla Resistenza presero parte, spontaneamente e semplicemente cittadini di tutti gli strati sociali: operai e contadini, intellettuali e borghesi, militari e religiosi, cattolici e protestanti, italiani del nord ed italiani del sud. Nelle città, nei villaggi, nelle campagne, sui monti si organizzò sempre più efficacemente, contro l'occupante e contro i suoi servi fascisti, la grande forza del popolo che appoggiava i combattenti partigiani, li proteggeva e forniva loro viveri, che organizzava l'aiuto agli uomini politici perseguitati ed alle famiglie degli arrestati, che forniva carte di identità false e tessere annonarie a chiunque ne avesse necessità, che salvava i

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prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento, aiutava i militari ausiliari russi e di altre nazionalità a disertare le file tedesche e ad unirsi al movimento insurrezionale, stabiliva collegamenti e contatti con i paracadutisti alleati che si lanciavano nell'Italia del nord e con il Governo italiano legittimo.

Nell'ambito di questa situazione caratterizzata dalla ribellione unitaria e generale di tutto il popolo contro i nazifascisti, anchè gli israeliti, a differenza che in altri paesi, [155] trovarono in Italia, nella grande maggioranza dei cittadini, aiuti eroici e protezioni quasi miracolose. La caccia all'ebreo organizzata dai nazifascisti fu anche in Italia dura, sanguinosa e dolorosissima e costò la deportazione di circa 6000 persone su un totale di circa 35.000 ebrei che si trovavano ancora in Italia al momento dell'emanazione del decreto che istituiva per gli israeliti il campo di concentramento. Ma allo stesso tempo nei conventi o nelle carceri, negli sperduti casolari e nelle grandi città, gli israeliti trovarono mani generose e soccorevoli che molte volte li salvavano dalla cattura, dalle delazioni e dalla disperazione. In quella terribile e meravigliosa stagione accanto alla tortura, alla fucilazione, alla fame fiorì, la piùbella fraternità, e si ebbero i più splendidi esempi di mutuo fraterno appoggio. E' in questo quadro che va posta la partecipazione degli israeliti alla Resistenza e il loro pieno inserimento a fianco di tutti gli altri combattenti della libertà. Troviamo partigiani ebrei in tutte le formazioni: comuniste e socialiste, Giustizia e Libertà e autonome. Troviamo ebrei con gradi elevati e vi sono ebrei partigiani senza alcuna qualifica particolare. Vi sono partigiani ebrei giovani e vecchi, donne e uomini, di agiata condizione sociale oppure poveri.

In sostanza così come il travolgente movimento della Resistenza permise, dopo vent'anni di vergogna fascista, la rigenerazione dell'Italia, anche per l'ebraismo italiano, la partecipazione alla guerra partigiana di tanti e tanti, rappresentò il riscatto dalla miseria morale e dall'acquiescenza al fascismo in cui la Comunità israelitica si era compiaciuta prima della guerra. Anche in Italia vi furono, prima del 1943, casi tristissimi di collaborazionismo col fascismo da parte di ebrei e specie di dirigenti di Comunità. Ma il coraggio semplice e modesto dei combattenti israeliti e il sacrificio dei caduti hanno per sempre riscattato da quell'onta l'ebraismo italiano.

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Reazione sociale, razzismo, antifascismo: spunti di ricerca e discussione (49)

Gli echi destati dal processo Eichmann, su scala mondiale, e, su scala italiana, il Convegno della Federazione [157] Giovanile Ebraica del 1961 sugli Ebrei durante il fascismo, e la pubblicazione dei Quaderni del C.D.E.C. e della Storia del De Felice sono alcuni dei fattOri che maggiormente hanno contribuito a risvegliare sia tra gli studiosi e gli storici, sia in un più largo pubblico di persone genericamente interessate, una notevole curiosità ed una appassionata attenzione intorno alle vicende del razzismo fascista ed alle vicissitudini che gli israeliti dovettero subire dal 1938 al 1945 nel nostro paese.

49 In Gli ebrei in Italia durante il fascismo, n. 3, 1963. Mi sia permesso richiamare l'attenzione sul passo dell'introduzione della Storia del De Felice che mi ha spinto a scrivere questo intervento. A p. XXXII (ed. 1972) si legge: «A costo di rischiare di essere accusati di essere stati troppo tiepidi, e convinti che - al contrario - i fatti parlino da se nel modo più chiaro ed esplicito e ... antifascista, ci siamo unicamente preoccupati di ricostruire il meglio e il più chiaramente possibile fatti e circostanze e di vederli sempre solo nella loro realtà e nel loro momento. E ciò a costo - forse - di apparire a qualcuno ingenui, ottimisti, teneri verso il fascismo o singoli fascisti. Un caso specifico può valere d'esempio. E' stato recentemente scritto che 'La Nostra Bandiera' (rivista pubblicata a Torino dal maggio 1934 all'aprile 1938 da un gruppo di ebrei fascisti) 'fu uno dei casi più clamorosi di adesione e di sostegno al fascismo da parte d'israeliti italiani in quanto e israeliti e italiani' e, addirittura, che essa 'in quello che volle rappresentare può essere, in linea di principio, per molti aspetti accostata a quelle manifestazioni di collaborazionismo in grande stile che si ebbero nel ghetto di Varsavia con l'azione del Judenrat o a Budapest con l'attività del dottor R. Kastner'. Lungi da noi il voler entrare nel merito del collaborazionismo del Judenrat varsaviese e del dottor Kastner (in cui pure sarebbe opportuno entrare); non possiamo però non respingere nel modo più netto un parallelo che non solo si basa su due realtà, quella italiana prepersecuzione e quella polacca e ungherese degli anni della 'soluzione finale' nazista, assolutamente inconfondibili e in sede storica e in sede di mera valutazione morale di fatti e persone, ma che prescinde anche completamente da quella che era la situazione italiana in genere ed ebraica in particolare in cui naque, si sviluppò e morì 'La Nostra Bandiera'. Non ci pare proprio che partendo da simili premesse psicologiche si possa fare la storia della società italiana durante il fascismo; in tal modo ci si preclude - almeno a nostro avviso – la possibilità di comprendere veramente cosa fu, la di là delle sue conseguenze più evidenti e tragiche, la realtà vera ed intatta del fascismo». Per quanto lunga, la citazione mi sembra di grande importanza per valutare metodi ed orientamenti ideali, e meritava di essere riportata. A oltre dieci anni dall'apparizione di tale testo, per conto mio, continua a sussistere una curiosità non soddisfatta: che avrebbe detto l'illustre storico se fosse entrato nel merito del collaborazionismo del Judenrat varsaviese e del dottor Kastner «in cui pure sarebbe opportuno entrare»?

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Un notevole numero di libri, in particolare sulla Germania nazista, a partire dalle opere dello Shirer e del Reitlinger finalmente tradotte, ha inoltre fornito su quello che furono il razzismo germanico e la politica per la «soluzione finale» una base informativa e documentaria vasta ed alla portata di tutti.

Proprio da questo allargamento delle ricerche e delle discussioni su tali temi - allargamento che è naturalmente da giudicarsi un fenomeno del tutto positivo nel complesso – scaturiscono però per gli specialisti nuove responsabilità: si pone cioè l'esigenza di sviluppare un'azione culturale e pedagogica per impedire che manifestazioni d'agiografia e d'autocommiserazione fuori luogo stanchino e disorientino, per individuare gli errori d'interpretazione e d'impostazione che godano d'immeritata autorità, per incanalare, infine, lungo fìloni effettivamente validi le ulteriori ricerche ed i futuri approfondimenti, superando le tendenze dispersive.

Tenendo presente questa esigenza di definire, precisare e, se del caso, delimitare, giudichiamo opportuno formulare, sulla scorta delle pubblicazioni che in materia si sono [158] succedute in questi anni, alcune osservazioni, forse non troppo collegate tra loro dal punto di vista formale, su alcuni problemi intorno ai quali si è spesso discusso ma me forse non sono ancora stati sufficientemente chiariti. Sono problemi grossi, e quindi ci accontenteremo, in sostanza di sollevarli, più che di esaurirli; ma allo stesso tempo crediamo valga la pena cercare di centrarli al fine di evitare, per quanto possibile, che si possa sottovalutarli o addirittura non prenderli in considerazione.

In sostanza su due punti si vuole porre l'accento con queste note: in primo luogo sullo strettissimo e vitale legame che vi fu tanto per il fascismo, quanto per il nazismo, tra la politica di reazione e conservazione sociale, tra le aspirazioni espansionistiche e bellicistiche, da un lato, e la direttiva razzistica ed antisemita, dall'altro; in secondo luogo si vuol ribadire che il comportamento degli ebrei - prima comuni cittadini e poi vittime innocenti - fu sempre in larghissima misura determinato, sul piano politico e sociale e anche all'interno della Comunità, da motivazioni sociali e di classe.

Pare opportuno precisare con qualche appunto tali concetti, in verità molto noti, recando qualche nuova documentazione, perché probabilmente è solo lavorando in questa direzione che sarà possibile un giorno o l'altro arrivare ad una esauriente spiegazione del «mistero» della terribile persecuzione avvenuta durante l'ultima guerra. Considerando poi quanto ancora rimanga da fare in Italia per approfondire le traversie dell'ebraismo locale e avendo in mente che proprio a tale fine è edito questo Quaderno, crediamo pure possa essere giustificato il fatto che più che alla questione generale, sarà proprio alla vita, agli eroismi e alle debolezze degli ebrei italiani che dedicheremo la massima parte dello spazio che ci è concesso. [159]

Ma si tratta, comunque, di un insieme di questioni intrecciate tra loro poiche il dramma della persecuzione antisemita messa in atto dai nazisti e dai fascisti e culminata nei campi di concentramento, presenta precisamente due aspetti principali: per un verso la politica razziale dei persecutori, esplicatasi in tutti i settori della vita dello Stato e culminata nella violenza fisica e nella volontà di massacro, per l'altro la condizione inerme delle vittime, condizione che faceva si che la ribellione ai carnefici fosse del tutto inadeguata.

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Per quanto concerne lo studio del primo aspetto del problema, vale a dire l'essenza del razzismo nazi-fascista, le molte ed importanti ricerche finora condotte offrono già un'informazione amplissima sulle motivazioni che presiedettero ai piani di purificazione della razza e ai loro modi di attuazione. In particolare, per quel che riguarda la Germania, è ormai assodato che il razzismo si è affermato ed imposto nelle forme che tutti conoscono prevalentemente per l'esigenza di predominio schiavistico sui popoli che proveniva dall'interno della struttura capitalistica tedesca, anche se la brutalità e la ferocia, degne della borghesia ai suoi primordi, furono in parte mimetizzate da un pesante apparato ideologico me si fondava sulle più irrazionali tendenze del misticismo germanico.

A questo proposito un esempio eccezionalmente illuminante di tali fenomeni è offerto dal caso tristissimo degli zingari che meriterebbe, invero, di essere ricordato più diffusamente poiche la cifra di oltre 200.000 uccisi dai nazisti (su un totale di meno di un milione di persone) sembra sufficientemente alta per giustificare un'indagine apposita sulle vicissitudini di questo gruppo etnico durante l'ultimo conflitto. Occorre sottolineare me questa vicenda è [160] indicativa di come sin dagli inizi il razzismo tedesco, nonostante i paludamenti mistico-scientifici, non nascondesse che una spaventosa «esigenza d'ordine» e il timore che dalla mancanza di monolitismo e dall'insufficiente irregimentazione del popolo tedesco nascessero remore e intralci al funzionamento del meccanismo economico del paese. Da tale stato di cose (oltre che da altri fattori quali l'aspirazione a creare alcuni «capri espiatori» sui quali trasferire i risentimenti ed i timori di larghi strati popolari) scaturì il verdetto non solo per gli israeliti, ma per tutti i gruppi che come gli zingari potessero far presumere di nutrire intenzioni ostili all'«ordinamento gerarchico», verdetto che con il passare degli anni venne estendendosi e trasformandosi in condanna per sempre nuovi potenziali oppositori: per i comunisti e per gli slavi, per i malati di mente e per i sacerdoti non conformisti cattolici e protestanti.

Non sembra quindi inutile illustrare, attraverso la citazione di due documenti, come nel Reich hitleriano la questione degli zingari si ponesse immediatamente quale questione quasi soltanto economica, da risolvere, perciò, sul piano dell'efficienza tecnica e della buona amministrazione.

Il 1° luglio 1936 la polizia politica bavarese indirizzava ai Sigg. Comandanti del Campo di concentramento di Dachau una lettera che aveva per oggetto la lotta contro gli zingari e i mendicanti e nella quale si preannunciava, in relazione alle «azioni promosse dal ministero statale degli Interni», l'invio a Dachau per il 22 luglio di un centinaio di persone che dovevano essere «prese in consegna dal Comando del presidio». Da questo brevissimo e burocratico testo (50) risulta come le autorità tedesche, abbando- [161] nando ogni precauzione ideologica, avessero del tutto disumanato un problema di inserimento nello Stato di determinate categorie di cittadini riducendolo ad una schedatura e ad una catalogazione per mezzo d'uno strumento efficiente quale il campo di concentramento. Di conseguenza sembra lecito 50 Fornitomi gentilmente insieme al successivo e ad altri dalla signora Miriam Novitch, del kibbuz Lohamei Ha-Ghettaot, per mezzo del dotto Piero Malvezzi. Sull'argomento si veda la Comunicazione presentata dalla Novich al III Congresso di Storia della Resistenza (K. Vary 2-4 settembre 1963) dal titolo Contribution à l'étude du génocide des tziganes sous le régime nazi.

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affermare che tale lettera indica come sin dal 1936 il regime nazista avesse cominciato a «sistemare» determinati gruppi etnici secondo intendimenti dai quali erano completamente estranei i vecchi e generici concetti umanitari che spesso erano stati ancora stimati formalmente validi e utilizzabili per la loro politica aggressiva dei ceti imperialistici tedeschi tradizionali. Ma il secondo documento è anche più impressionante perché rivela come dietro la lettera del 1° luglio 1936, testè citata, esistesse un orientamento che convalida in pieno l'interpretazione che se ne è data.

I! 9 gennaio 1938 il Gauleiter dela Stiria, Portschy, in un memoriale indirizzato al dott. Lammers, ministro del Reich a Berlino, esponeva alcune tesi per la soluzione nazional-socialista della questione tzigana. Tra le altre asserzioni si dichiarava ivi che:

«gli argomenti in favore della sterilizzazione degli zingari possono in effetti essere tacitamente sviluppati sino al punto da arrivare, per mezzo della sola legge per la profilassi contro i progenitori affetti da malattie ereditarie, ad una lotta efficace contro l'accrescimento della popolazione zingara. Dobbiamo servirci arditamente e senza reticenze di tale legge. Tanto più che in questa maniera non si offrirà occasione alla stampa straniera di uscire in alti lamenti dal momento che si potrà sempre sostenere con pieno diritto che questa legge profilattica è valida anche per i cittadini del Reich tedesco. Allo stesso modo il principio democratico secondo cui i cittadini devono

[162] essere uguali di fronte alla legge, risulta pienamente rispettato. Conformemente al principio che in uno Stato di elevati costumi e in particolare nel terzo Reich, può vivere solo colui che lavora e produce, gli zingari dovranno essere sottoposti a un lavoro obbligatorio continuo e conforme alla loro natura». (Doc. NG - 845. Segnalato anche da L. Poliakov in Il Nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, 1955, pp. 345, che pubblica un altro passo del memoriale).

La questione ebraica, quindi, e le modalità per la sua soluzione, si situano,

come convalida la strage degli zingari, in un ambito dove esistono altre «questioni» ed altre analoghe «soluzioni». Se la consapevolezza di tale realtà viene meno, si corre il rischio di deformare e occultare parzialmente la stessa barbarie antisemita del nazismo, inserendo la presenza d'un autonomo tragico destino ebraico, mentre invece la storia passata e recente registra non pochi altri casi di minoranze perseguitate: l'hitlerismo non è stato che il più perfetto esecutore di tale tipo di infamie. (51)

Anche per il fascismo italiano, sebbene forse con minore larghezza di documentazione, si è in sostanza appurato che le concezioni razzistime ad un certo punto da esso adottate non avevano un contenuto ideologico sufficientemente 51 Nelle pagine di Marx si possono trovare spunti straordinariamente suggestivi per inquadrare le tribolazioni inflitte agli zingari, agli ebrei e agli slavi entro determinate contraddizioni ed esigenze che il nazismo si assunse il compito di livellare con alcuni provvedimenti amministrativi. Tra molti altri episodi, Marx ricorda che al tempo della regina Elisabetta «alcuni ricchi affittaiuoli della parrocchia hanno progettato un piano molto savio a mezzo del quale si può evitare ogni specie di disordine nell'esecuzione della legge; essi propongono di far costruire nella parrocchia una prigione. Ad ogni povero che non vorrà lasciarsi rinchiudere, si rifiuta l'assistenza. Si farà inoltre sapere nei dintorni che se qualche individuo vorrà prendere a nolo i poveri di questa parrocchia, dovrà presentare, entro un termine stabilito precedentemente, delle proposte suggelate indicanti il minor prezzo al quale vorrà sbarazzarcene» (C. Marx, L'origine del capitalismo, Roma, 1945, p. 20).

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autonomo per sostenersi da se, e che quindi per spiegarle occorre giudicarle come risultato di determinati [163] orientamenti di politica generale, servendo esse prima per masmerare la rapace aspirazione ad avere una popolazione «demografìcamente» forte ed atta ad intraprendere l'opera di «civilizzazione» imperialistica in Abissinia ed altrove e, secondariamente, a completare l'allineamento con le tesi sostenute dai camerati tedeschi con i quali ci si era alleati. Un esempio abbastanza significativo della confluenza tra razzismo e impostazioni teoriche generali di una determinata fase del fascismo si ha in quel bel concentrato di razzismo aggressivo e di politica demografica che fu la rivista Razza e civiltà, del Consiglio superiore e della Direzione generale per la demografìa e la razza presso il ministero dell'Interno, edita a partire dal 1940. Nel n. 3-4 (maggio-giugno 1940, e cioè contemporaneo all'entrata in guerra dell'Italia) tra moltissime altre «perle» si legge:

«Di colpo quella che pareva un'originale opposizione di Mussolini al freno borghese delle nascite, accettato dalle maggioranze come una necessità per la salvezza del companatico, si palesa per una verità di natura divina e politica. La non confessata ragione della decadenza numerica democratica, la ragione più vasta e più direttamente palpabile, appare durissima nella formazione degli eserciti». (Edgardo Sulis, Civiltà e vittoria dei nati, p. 281).

Poco più avanti, nell'articolo Il numero è anche qualità, Giuseppe Tallarico

usciva in affermazioni spartanamente stolte, ma, peraltro, chiarissime nel precisare i fini fascisti, come le seguenti: un'azione educatrice efficace si otterrebbe solo là ove esiste «un piccolo battaglione» sufficientemente compatto di figli da allevare; «un figlio unico fa del padre uno schiavo, i figli numerosi si fanno invece del padre un dominatore»; solo le famiglie numerose possono migliorare la razza, perché solamente esse nell'aureo «segreto del loro "numero" chiudono il mezzo più efficace di un tale miglioramento»; (pp. 288-89). [164]

Alcuni studiosi pare non credano all'esistenza del filone «demografìco» all'interno del razzismo fascista e non riescono a vedere il collegamento tra la politica cattolico-fascista contraria al controllo delle nascite, per la sanità della stirpe ecc., e il razzismo degli anni 1937 e seguenti. A questo proposito, quale documento di un certo peso perché del 1934, non giudico inutile riportare alcuni passi del volume di Ferdinando De Napoli Da Malthus a Mussolini, che mi sembrano degni di nota anche perché l'A. contemporaneamente alle asserzioni che qui sotto riportiamo, si schierava contro il razzismo antiebraico germanico, e non si accorgeva minimamente della contraddittorietà del suo discorso. Il volume è edito da Cappelli, Bologna.

«Che se la denatalità europea progredirà e continuerà la rivalità tra i popoli di razza bianca, questa, fra poco più di cinquanta anni, perderà il suo primato. E non varranno l'intelligenza ed i progressi della scienza a salvare l'Europa occidentale dalle invasioni di razze, le quali, se pure inferiori, sono più numerose perché più prolifiche» (p. 88). «Il Duce ha fatto squillare da un pezzo la sua campana, rilevando la fecondità dei negri dell'America, dei cinesi e dei russi ed ha concluso: "Coloro che vedono un po' più in là delle quotidiane

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contingenze... sono preoccupati"». (p. 159). «E' da augurarsi, quindi, che la classe dei ricchi si lavi dall'onta di vigliaccheria morale... e trovi... una maggiore comprensione della necessità demografica, che, oggi si impone... a tutti gli uomini di razza bianca... Altrimenti sarà fatale la decadenza, il regresso della civiltà e la morte, dando il predominio a razze poco evolute» (p. 188). «Il Pende in una sua recente conferenza, pronunciata a Nizza, ha confermato tale principio, dimostrando che le stirpi brune - la mediterranea, l'alpina e la dinarica – che vivono nel territorio che è bagnato dal grande bacino del Mediterraneo, fino all'Asia minore, hanno avuto sempre l'assoluto predominio biologico sulle bionde - nordica e baltica - le quali mai hanno potuto attecchire nelle suddette regioni, occupate dalle tre razze mediterranee» (p. 266).

[165]

Da dove tali concezioni provenissero e che cosa implicassero è, naturalmente, un lungo discorso a parte, che gioverà riprendere in altra oocasione. Per altro esse paiono confermare la tesi che per non precludersi la possibilità di un'indagine efficace pure sull'altro lato del dramma (la reazione delle vittime, cioè, in rapporto con le condizioni in cui si trovavano all'inizio della campagna razziale e come si opposero ai successivi provvedimenti, quali vie alternative di difesa si presentavano eventualmente loro di fronte, quali interventi vi furono o non vi furono in loro aiuto ecc.) o per non rischiare di smarrire sotto il coacervo degli episodi, degli intrighi, dei tentativi, delle polemiche, il nesso logico principale che collega tutti gli infiniti momenti della persecuzione antiebraica fascista, occorra anzitutto avere bene evidente quella connessione tra razzismo e reazione sociale che sottolineavamo sin dall'inizio. In caso contrario - vale a dire sottovalutando il fatto che il razzismo si incastona nel regime quale elemento perfettamente omogeneo a tutta un'ideologia e a tutta una prassi - c'è da chiedersi quanto successo possa avere qualsiasi tentativo di illustrare la storia degli ebrei italiani di tale epoca tanto più che pure la minoranza degli israeliti si muoveva nel ventennio mussoliniano secondo una dinamica di classe precisa, solo seguendo la quale si riesce a dare una risposta esauriente ad un gran numero di questioni: mentre è ancora da dimostrare che sottovalutandola si possa fare qualcosa di molto di verso dalla cronaca o dall' analisi valida solo per singoli episodi.

Un caso di insufficienza metodologica nell'esame del fenomeno dell'antisemitismo è dato dai due articoli di Renzo De Felice, comparsi su Il Nuovo Osservatore del 25 novembre (n. 19) e del 10 dicembre 1961 (n. 20). Questi scritti sono indubbiamente mossi da sentimenti nobilissimi [166] e del tutto condividibili e non è certo a questo che si possono muovere appunti. D'altro canto è da considerarsi pienamente valido anche il desiderio di rivolgere l'attenzione specificatamente al fatto antisemita, di ricercarne i moventi, le cause e gli scopi. Il punto più caratteristico e più discutibile di tali articoli consiste nella completa eliminazione di ogni riferimento al terreno da cui nasce l'antisemitismo, all'ambiente che lo prepara, alla mentalità e all'ideologia politica generale che lo diffonde. Oppure è forse un caso che gli attuali razzisti italiani si situino fondamentalmente in un arco che va dal Nuovo Meridiano di Almirante e Servello a Concretezza di Giulio Andreotti? (52) E' possibile parlare del Nuovo Meridiano senza ricordare almeno di sfuggita come esso sia, ad esempio, il giornale

52 Cfr. la serie di articoli di S. Vaselli sulla Comunità israelitica oggi in Italia nei nn. 6, 7, 8, 9 e 10 del 1961 che hanno provocato nel n. 13 (1961) una vibrata risposta di Dante Lattes.

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del «processo Parri» del 1953 e di dozzine di altre manovre analoghe, così da dare plasticamente l'idea di come l'antisemitismo sia non solo «una delle componenti del neo-fascismo», ma una menzogna accanto alle altre menzogne? E' possibile comprendere l'antisemitismo della rivista dell'on. Andreotti, riducendolo ad un affare «di costume» e dimenticando episodi quali il Governo Tambroni del 1960 e simpatie come quella per il caudillo Franco? (53) [167]

* * *

Un esame della dinamica sociale all'interno del gruppo degli israeliti italiani nell'epoca della dittatura fascista non può non partire dalla constatazione che l'Unione delle Comunità israelitiche italiane, l'organo rappresentativo ebraico sorto per regio decreto nel 1930, non rappresentava e non poteva rappresentare che in maniera molto parziale l'ebraismo locale. Sarebbe però molto lungo tracciare qui una storia delle origini di quell'istituto e ricostruire pienamente il significato che assume l'emanazione di tale legge. Ci si accontenti perciò della citazione di un brano di uno studio acuto, anche se rapido, sull'argomento pubblicato nel fascicolo ormai esaurito ed irreperibile Gli Ebrei in Italia durante il fascismo (Torino, 1961): si tratta del saggio di Amos Luzzatto La Comunità in Italia durante il fascismo. In esso si legge, a proposito dell'accoglienza che venne riservata al nuovo oppressivo decreto fascista:

« ... Sarebbe oltremodo interessante indagare circa le resistenze che in Italia, come in Libia e a Rodi, certe parti della popolazione ebraica (quelle meno abbienti e quindi non partecipi della direzione delle Comunità) opponevano più o meno in sordina a queste pressioni... E non potendosi l'opposizione manifestare attraverso i normali canali, dato il regime di dittatura vigente, ne derivava in conseguenza un progressivo decadimento della vita della Comunità, i cui compiti venivano sempre più limitati alla sfera burocratico-amministrativa, mentre quel tanto di vita associativa, assistenziale, politica, culturale, che una minoranza di volenterosi manteneva ancora, andava spostandosi sempre più verso associazioni ebraiche liberamente costituite... Queste righe non vogliono e non devono significare un'accusa di acquiescenza al fascismo da parte di quelle personalità che ebbero una parte di primo piano nella preparazione della Legge e nella guida della Comunità sotto il fascismo. Viceversa, vogliono senz'altro essere un atto di accusa di quel genere nei confronti della classe che si trovò in quell'epoca a capo della Comnnità; era una classe che, fino all'inizio della

[168]

53 Mi è sembrato opportuno richiamare l'attenzione sul breve saggio in due puntate del De Felice piuttosto che sulla sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Torino, 1961) perchè in esso, proprio a causa della mole minore, sono più facilmente afferrabili taluni elementi negativi di fondo che credo esistenti anche nella Storia. D'altro canto, per mettere esattamente in evidenza una determinata ipotesi che si aggira di continuo per alcune centinaia di pagine, occorrerebbe ben di più che questo succinto scritto. Si vogliano perciò gudicare le presenti osservazioni come un contributo ad una diversa interpretazione di alcuni temi affrontati dal De Felice. Per un giudizio complessivo sul lavoro del De Felice si confronti la mia recensione in Il Ponte del maggio 1962.

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campagna razziale, non aveva motivi di opposizione ad un regime che ne difendeva i privilegi; e questo spiega in parte come mai i cambiamenti strutturali e giuridici furono facili e rapidamente conseguiti...»

. Sottoscritti nella sostanza questi giudizi, desideriamo soltanto sottolineare

ancora che, in primo luogo, già a partire dal momento dell'entrata in vigore della legge dirigevano di fatto la Comunità ebraica israelita di determinate classi abbienti con dati orientamenti politici conservatori; in secondo luogo che lo Stato fascista vegliava perchè comunque lo spirito con cui la legge si doveva interpretare fosse quello in auge in tutto lo Stato italiano e in tutte le sue istituzioni. E che il decreto fascista sulle Comunità israelitiche avesse sollevato dubbi ed incertezze non solo negli spiriti innova tori e rivoluzionari, che anche allora esistevano seppure impossibilitati ad esprimere palesemente le loro opinioni, ma anche in mentalità semplicemente liberali è confermato dall'articolo di Arturo Carlo Jemolo sul numero del febbraio 1931 di Il Diritto ecclesiastico nel quale, in aperta polemica con Mario Falco, il quale era stato uno degli artefici della legge, si esponevano numerose critiche al contenuto del provvedimento.

Mi sembra valga la pena di riportare alcune osservazioni dello scritto assai coraggioso di Jemolo. A proposito dei poteri che il r.d. del 30 ottobre 1930 conferiva all'Unione delle Comunità e attraverso di essa allo Stato, nelle sfere delle attività culturali, spirituali, tradizionali, ecc., lo Jemolo asserisce (p. 74):

«Qualche norma del decreto trascende persino i compiti usuali di un legislatore nazionale, in quanto accenna a finalità che appaiono estranee ai fini dello Stato italiano e ad interessi che non sembra possano ad alcun titolo dirsi, neppure indirettamente, interessi statali».

[169]

Più avanti (p. 76) l'A. osserva con grande acutezza che «se il legislatore stabilisce che col verificarsi di dati presupposti l'israelita "perde il diritto a prestazioni di atti ed alla sepoltura nei cimiteri israelitici" - ciò sembra implicare che se quei presupposti non siansi verificati, egli abbia tale diritto». E nuovamente si possono intravvedere molte strade di ingerenza statale, nel caso di un individuo che si rivolga ai pubblici poteri per far rispettare determinati suoi pretesi diritti, con conseguenze particolarmente complicate nel caso si tratti di «prestazioni cultuaIi» o di esigenze culturali, delle quali assai difficile si presenta al giudice valutare la equipollenza economica.

Notando poi come nel decreto manchino norme sulle modalità della valutazione della condotta religiosa (la «regolare condotta religiosa» è requisito fondamentale per essere eleggibile alle cariche della Comunità, così è scritto nell'art. 9), nuovamente si profila l'eventualità di «una contestazione nella quale i giudici dello Stato debbono porsi e valutare in astratto quale sia la regolare condotta di un israelita, ed a giudicare se essa si riscontri in concreto: a discutere, ad es. della gravità di aver mangiato carni non macellate nel modo rituale!» (p. 77).

Queste ed altre deduzioni potevano sembrare nel 1931 puramente teoriche ed ipotetiche. Ma se si pensa a quanto avvenne negli anni successivi si può constatare piuttosto facilmente come il decreto del 1930, nel contesto della situazione generale del paese, orientata dal fascismo a spingere nell'isolamento il singolo e a porlo quindi in balìa della burocrazia e degli apparati di Governo, dovesse giocare una funzione non lieve nel permettere allo Stato il controllo sulla minoranza ebraica e

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nell'impedire contemporaneamente che gli israeliti potessero condurre e sviluppare una attività associativa degna di questo nome. [170]

Una sola osservazione a proposito del sistema elettorale con cui si sceglievano i dirigenti in ciascuna Comunità sembra sufficiente a dare una idea di come tali enti fossero in realtà scarsamente rappresentativi. L'art. 7 sancisce che «hanno diritto al voto per l'elezione dei membri del Consiglio tutti gli israeliti contribuenti che siano maggiori d'età ed abbiano compiuto il corso dell'istruzione obbligatoria». Ciò significa che sono esclusi dal voto: gli analfabeti, le donne, i non contribuenti (e cioè, per esempio, poichè la tassazione avveniva per famiglie, anche i figli maggiorenni che vivessero formalmente a carico del padre). Da un calcolo sommario risulta che rispetto al potenziale elettorato che si sarebbe avuto con un vero suffragio universale, aveva il diritto al voto meno del trenta per cento degli elettori. E la vischiosità di questa norma (tuttora vigente come il resto della legge, analogamente a tante altre disposizioni dell'epoca fascista) è così forte che nel dopoguerra si sono dovute superare molte remore per cercare di adottare nelle elezioni interne delle Comunità israelitiche i princìpi inseriti nella Costituzione repubblicana. Per fare ciò si è dovuto ricorrere ad abbastanza curiosi cavilli giuridici interpretati in diverse maniere nelle varie città, come ad esempio, di dichiarare contribuenti (e cioè aventi diritto al voto) tutti coloro che sono disposti a versare una modesta cifra simbolica! (Sulla questione elettorale nel complesso si vedano pure le utili note dell'avv. Guido Fubini nel suo articolo che appare in questo stesso Quaderno).

Da tali pressupposti derivano inevitabilmente la chiusura classista in cui agiva l'Unione delle Comunità, e quindi l'impossibilità non solo a provvedere alle esigenze determinate dalla persecuzione razziale, ma sinanco a prevederle. Un momento particolarmente drammatico ed importante per registrare tale stato di cose è il marzo 1938, epoca in cui [171] avviene il secondo congresso dell'Unione delle Comunità israelitiche, congresso che doveva essere l'ultimo che si tenne sotto il regime.

E' possibile seguire l'andamento e i risultati di tale congresso attraverso due giornali ebraici dell'epoca, i quali pur avendo tendenze diverse convalidano ambedue l'impressione della completa fascistizzazione cui era stata sottoposta l'Unione all'immediata vigilia delle leggi antisemite: l'ufficioso organo dell'Unione Israel e La Nostra Bandiera, organo degli ebrei fascisti. (54)

Per quanto riguarda l'Israel, che, nonostante i suoi legami con l'Unione, era coraggiosamente diretto da Dante Lattes, si può anzitutto dire che esso riesce a dare un panorama anche se assolutamente non completo, esattissimo, nel suo squallore, dei risultati a cui aveva portato la legge del 1930, panorama profeticamente intravisto anni prima dallo Jemolo, e al quale è utile accennare affìnchè meglio risalti l'atmosfera in cui avverrà il secondo congresso dell'Unione. Sin dai numeri del dicembre 1937 si susseguono regolarmente notizie e dati che indicano l'anormale andamento della vita delle varie Comunità.

Israel, 9 dicembre 1937: a Firenze viene chiuso il tempio di rito italiano e a Livorno il rappresentante del potere centrale dello Stato scioglie il Consiglio delle Comunità dimessosi «a causa della mancanza di comprensione dei doveri ebraici»

54 Su La Nostra Bandiera e il gruppo che essa rappresenta si veda lo scritto: «Prime notizie su La Nostra Bandiera» nel citato Gli ebrei in Italia... 1961, pp. 21-33.

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(l'articolo 9 del decreto 30 ottobre 1930 è già entrato in azione in pieno; non importa determinare chi avesse torto e chi avesse ragione: basti sottolineare che, come paventava lo Jemolo, lo Stato è chiamato a giudicare a suo arbitrio della condotta religiosa dei cittadini). Israel,

[172] 30 dicembre 1937: nella Comunità di Venezia, «da lunghi anni retta da commissari» avviene un caso ancor più clamoroso: si pone il veto da parte dell'Autorità a tenere conferenze culturali, ad esempio al rabbino Castelbolognesi che pure aveva parlato sul tema prefissosi «La famiglia in Israele») in altre città.

Seguono diversi numeri del giornale che trattano del Congresso e sui quali ritorneremo. Dopo il Congresso si procede in parecchie Comunità al rinnovo parziale o totale dei Consigli e sulle modalità di tali elezioni vengono forniti dati inequivocabiIi che ne rivelano il carattere assolutamente non democratico.

A Torino si ha un rinnovo parziale del Consiglio senza incidenti dal momento che «il Consiglio della Comunità aveva proposto, in sostituzione dei Consiglieri uscenti, una lista di tre nomi che venne fatta conoscere ai contribuenti con una circolare diramata il 20 maggio u.s.»! (Israel, 2 giugno 1938). A Pisa «domenica 29 ebbero luogo le ordinarie elezioni supplettive per rinnovamento parziale del Consiglio di questa Comunità a norma di legge. Non essendovi lotta, il concorso alle urne non fu molto notevole, ed alla unanimità dei voti riuscirono eletti i signori...» (Israel, 2 giugno 1938). A Milano il 12 giugno, «gli elettori hanno risposto all'appello loro rivolto e, soprattutto nel desiderio di esprimere con il loro voto amicizia e deferenza al presidente della Comunità (Federico Jarach, il cui mandato scadeva) si sono recati a votare in numero che ha superato di circa il cinquanta per cento quello delle precedenti elezioni» (Israel, 16-23 giugno). Ad Alessandria lo stesso numero del giornale informava che «i votanti furono, complessivamente 68 e, a prova del consenso riportato dal Consiglio, tutti tre i componenti scadenti furono rieletti all'unanimità». Seguono, in giugno, luglio e agosto, i risultati, che [173] non è il caso di riportare nella loro monotonia, delle elezioni a Parma, Padova, Modena, Vercelli e Casale, sempre con rielezioni unanimamente plebiscitarie.

In questa situazione così chiaramente delineata dal tipo di elezioni-burla che avvengono un poco dappertutto, accompagnate da soperchierie di vario tipo, è logico che il giornale sia costretto a stigmatizzare per quanto può lo svolgimento del Congresso, che è simbolicamente quasi il coronamento della pseudo-autonomia concessa dal fascismo agli israeliti. Anche se il settimanale non sottolinea che alcuni particolari, essi sembrano del tutto sufficienti a rappresentare il clima generale. Il 3 marzo 1930 l'Israel, in un trafiletto in preparazione del Congresso afferma che vi è una «manifesta tendenza della Unione a svolgere la sua attività "lontana dal mondo"»... « a poco più di 15 giorni dalla riunione del Congresso non si ha notizia che sia stata pubblicata una relazione sull'attività quinquennale dell'amministrazione che ha esaurito il suo compito»... «degli attuali quindici consiglieri soltanto sei furono eletti dal Congresso e nove sono stati nominati dal Consiglio nel corso di questi anni»... «un più sollecito e più vivace intervento dell'Unione in molte delle polemiche di questi anni... avrebbe potuto impedire certe scomposte manifestazioni da parte di singoli e di Comunità e, comunque avrebbe ridotto il valore delle manifestazioni stesse che non erano tali da avvantaggiare il prestigio dell'ebraismo italiano. Allo stesso modo, una maggiore chiarezza di atteggiamento e una più ferma linea direttiva, tempestivamente impartita alle Comunità, avrebbero più volte reso segnalati servizÌ». Se si tien conto che le

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«scomposte manifestazioni» alle quali si fa riferimento erano quelle dei fascisti israeliti di La Nostra Bandiera, risulta con la massima chiarezza il senso del discorso del giornale. [174]

Dopo un altro articolo in cui si ripete l'appello velato contro i «bandieristi» (Israel, 10 marzo 1938), il numero post-congressuale del 24 marzo, a commento dei risultati delle discussioni, dichiara che il Congresso «ha limitato i suoi lavori al minimo indispensabile, rinunciando a qualunque dibattito sui problemi di carattere particolare o generale interessanti la vita della Comunità e dell'Unione». Tutto si è ridotto ad una penosa lotta per la composizione del nuovo Consiglio tra i vecchi componenti, i loro oppositori ed i neutri. Ma in sostanza ben poche erano le differenze effettive tra gli uni e gli altri e se si pensa che di lì a pochi mesi sarebbe stato emanato il famoso Manifesto della razza, pare dimostrato in maniera quasi inoppugnabile a quale grado di inefficienza fosse ridotto l'organismo rappresentativo degli israeliti italiani.

A riprova della fascistizzazione a cui è costretta l'Unione delle Comunità con questo Congresso vi sono inoltre i commenti indicativi dei fascisti israeliti di La Nostra Bandiera. (55) Tale giornale così preannuncia (n. 5 anno V, marzo 1938) con l'articolo di fondo Il Congresso al 21 marzo, l'avvenimento: «E' dunque imminente la riunione del nostro massimo organo deliberativo, che rappresenterà una pietra miliare della vita dell'Ente istituito dal Regime per l'inquadramento e la rappresentanza degli italiani di religione ebraica». E alla fine dello scritto, dopo aver invocato «direttive precise, chiare, inequivocabili, da svolgersi con metodo e senza esitazioni ed eccezioni», preconizza nel seguente modo le [175] invocate direttive: «mantenere l'Unione e le Comunità nelle competenze fissate dalla legge e vivificarle con finalità e spirito prettamente fascisti» (in corsivo nel testo).

La cosa impressionante non è però aver pensato e pubblicato - nel marzo 1938 - tali spaventose argomentazioni. Assai peggio è il fatto che il numero successivo del giornale (n. 6, anno V, 31 marzo 1938) si dichiarò del tutto soddisfatto dell'andamento del Congresso. Infatti l'articolo di fondo Il secondo Congresso dell'Unione delle Comunità afferma:

«Ori abbia pattecipato ad ambedue queste assemblee [il primo ed il

secondò Congresso dell'Unione] non può non aver rilevato la loro grande differenza, anche se in questo secondo Congresso non vi sia stata, praticamente, discussione... Le recenti elezioni di Ancona, Firenze e Roma, e l'indirizzo da tempo seguito dalla Comunità di Torino [tutte città ove vi erano state clamorose affermazioni di elementi sicuramente fascisti nelle "elezioni" per i Consiglieri] per iniziativa del suo illustre e valoroso presidente S. E. il gen. Liuzzi, dovevano indubbiamente esercitare una salutare influenza rinnovatrice sull'Unione delle Comunità... Il Congresso, è evidente, ha fatto del suo meglio per creare una atmosfera di distensione e di equilibrio che permetta alla rappresentanza centrale di lavorare

55 Ringrazio la «Historical Society of Israel», ed in particolare il signor Daniel Carpi, e gli amici della Federazione giovanile ebraica d'Italia che mi hanno cortesemente procurato i microfilms di tre numeri de La Nostra Bandiera dai quaIi risulta che il giornale continuò ad uscire sino al 16 aprile 1938 e non cessò quindi le pubblicazioni ai primi di marzo (cfr. De Felice op. cit., p. 381, nota 1).

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profìcuamente per la nostra collettività ed in buon accordo con le Comunità locali».

E tanto per evitare che qualcuno possa dimenticare la reale situazione degli

israeliti italiani in quel momento e per porre in evidenza l'ipocrisia del tono mieIato di La Nostra Bandiera è opportuno segnalare che sullo stesso numero, a pagina 3, si annunciava il «cambio della guardia» e il «trapasso dei compiti» di Renzo Ravenna che lasciava la podesteria di Ferrara, per il trasparente motivo che il regime non poteva sopportare che un israelita, quantunque certamente fedele al regime, potesse occupare una carica [176] vistosa come quella di podestà di Ferrara all'inizio ufficiale della campagna antifascista. (56) «Il baratto dell'autonomia delle Comunità israelitiche, antica di secoli, assoggettate da allora al controllo prefettizio e ministeriale... contro l'obbligatorietà dell'iscrizione e la concessione, alle stesse Comunità del potere di imposizione fiscale» (57), baratto che fu «un'operazione redditizia per il fascismo che gli consentì di cancellare isole pericolose di [177] autonomia e di democrazia interna» (58) fu dunque pienamente consumato con l'entrata in vigore delle leggi razziali. E l'impotenza dell'Unione delle Comunità raggiunse il punto più basso proprio in quel drammatico momento dimostrandosi essa nè più nè meno che uno dei tanti organismi ed istituti completamente controllati dal fascismo dai quali ci si pote svincolare solo con l'insurrezione del popolo e con la catarsi della Resistenza. Anche la DELASEM (Delegazione

56 Dopo quanto abbiamo riportato intorno alla funzione nell'ebraismo italiano del Liuzzi, secondo l'opinione del suo giornale La Nostra Bandiera del 31 marzo, è giusto segnalare il suo «squagliamento» dalla presidenza della Comunità di Torino in occasione del rinnovo parziale del Consiglio. La Nostra Bandiera del 16 aprile (n. 7), infatti, annunzia candidamente che S. E. il generale e cav. di Gran Croce Guido Liuzzi non accetta di essere ridetto per «applicare il criterio fascista del periodico avvicendamento dei dirigenti» (!). E soggiunge: «La Sua presidenza e la Sua attività saranno ricordate da tutti ed è con rimpianto che non lo vedremo più nostro Capo». Poiché in realtà, nonostante la sua pochezza ideologica il Liuzzi fu uno degli artefici della smobilitazione dell'ebraismo ufficiale italiano di fronte al fascismo, si giudica opportuno citare la prima pagina di un suo scritto. Non si tratta dell'opuscolo Per il compimento del dovere ebraico nell'Italia fascista (Torino, maggio 1936, XIV), che pure sarebbe molto importante esaminare per le deformazioni e le «attualizzazioni» che ivi avvengono del pensiero ebraico tradizionale, ma del libretto Vittorio Emanuele III edito da Chiantore a Torino nel 1935 nella collana di monografie «Dal Risorgimento al Fascismo» diretta da Arturo Foà che gravitava pure lui intorno a La Nostra Bandiera. Come introduzione a tale volumetto viene riportata una «profezia» che consideriamo utile far conoscere quale documento indicativo dei gusti e delle tendenze del Liuzzi stesso.

PROFEZIA Il nuovo Re d'Italia nacque sotto i migliori auspici; alla nascita di Sua Maestà i pianeti si vedevano tutti in una sola parte del cielo come alla nascita di Umberto. Perciò Vittorio Emanuele sarà un vero uomo di Stato, saggio, energico e possente. Sotto il suo regno, l'Italia acquisterà nuovo splendore, vedrà ingrandirsi il suo territorio, aumentare la sua influenza politica, Sua Maestà avrà vita lunga, ed i nostri discendenti vedranno il suo giubileo d'oro nel 1950. (Profezia del bramino Manmath Bhatahacarij pubblicata dal giornale Mirtos di Calcutta il giorno dell'ascensione al trono di Vittorio Emanuele III) 57 Guido Fubini, in Resistenza, mensile, n. 1, gennaio 1962, p. 5. 58 Guido Fubini, articolo citato.

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Assistenza Emigrati) che si occupò di assistere in un primo tempo i profughi israeliti di passaggio in Italia e poi pure gli ebrei italiani durante la persecuzione fu un nuovo organismo fondato sì sotto gli auspici dell'Unione, ma che dimostra allo stesso tempo il totale esautoramento della Unione.

E' opportuno aprire qui una parentesi a proposito della DELASEM, giacchè intorno ad essa ed alla sua opera si sono risvegliati ultimamente contrasti di opinioni e discussioni, fatto alla lunga inevitabile se si considera che tale istituzione fu un intrico d'azione antifascista e collaborazionismo, di incapacità burocratica e d'eroismo, tipicamente derivante dalle peripezie della seconda guerra modiale, intrico che chiede con vigore di essere sciolto e valutato nelle sue varie e contradditorie componenti.

Tra l'altro si sente ripetere da più parti che sarebbe necessario scrivere una storia della DELASEM, dato che essa avrebbe svolto un'attività molteplice e assai intensa (cfr. Israel del 18 gennaio 1962, p. 6). Condividiamo pienamente tale voto. A patto però che si faccia della vera storia e non un'apologia più o meno fantasiosa. Tale storia dovrebbe tra l'altro esaminare problemi come: i rapporti finanziari tra DELASEM e i fascismo (e i motivi per cui il fascismo [178] concesse alla DELASEM particolari agevolazioni monetarie; evidentemente il fascismo, o meglio determinati fascisti, ne ricavavano qualcosa) (cfr. De Felice, op. cit., p. 297, 323, 480) e come: la posizione politica della DELASEM o meglio la posizione nettamente apolitica. Che cosa questo significasse e quali enormi responsabilità venissero assunte, risulta con chiarezza dal seguente brano di una testimonianza in mio possesso, testimonianza, peraltro, del tutto laudatoria della attività della DELASEM:

«E' mio dovere sottolineare, per ragioni di assoluta obiettività che mai la DELASEM, come organizzazione ebraica, svolse la sia pur minima attività politica, perché questa avrebbe contrastato in pieno con le sue finalità meramente filantropiche. Ciò non esclude affatto che ogni singolo componente avesse una visione ben chiara dei tremendi avvenimenti di quegli anni e che, per le nostre mansioni, venissimo a conoscenza dell'inumano e barbaro comportamento nazista quando quelle tragedie erano ancora ignorate dai più (la sottolineatura è mia - G. V.). Da ciò derivò logicamente una ancora maggiore avversione all'Asse, ma tutto questo, come ripeto, non influì mai sul nostro lavoro, che si svolse sempre serenamente, prescindendo in ogni circostanza dalle nostre opinioni politiche. Non si meravigli nessuno, date queste premesse, se il nostro lavoro, esaminato alla luce di avvenimenti successivi e con la mentalità di oggi, può quasi apparire una specie di collaborazionismo "ante litteram"».

Da questa testimonianza si deduce tra l'altro che, con molta probabilità, non

tutti i collaboratori della DELASEM (che erano molti dato che la delegazione aveva rappresentanze in 27 città italiane, jugoslave e albanesi) avevano la medesima conoscenza di quanto bolliva in pentola e le medesime responsabilità.

Sarebbe di grande interesse studiare inoltre certi drammatici episodi particolari, come quello a cui accenna una [179] Relazione dell'attività della "DELASEM" dopo l'8 settembre pure in mio possesso:

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«Dal 10 maggio anche Ceslav Kapciae, il vero nome era Aron Kasztersztein, (uno dei collaboratori) è stato arrestato in seguito a denuncia di due francesi (non ebrei) al soldo delle SS. L'attività di questi due ricattatori è continuata anche in seguito portando all'arresto di una ventina di profughi da loro conosciuti. Queste due spie si sono sempre dichiarate amiche di Schwam Stefan (che aveva collaborato nel Comitato) e che era caduto vitrima, a Milano, della sua imprudenza, facendosi arrestare durante il viaggio fatto in quella città insieme a P. Benedetto».

Infine occorrerebbe esaminare l'opera di certe persone di cui nessuno, per quel

che ci risulta, ha mai parlato, ad esempio del sopracitato Kasztersztein a proposito del quale una testimonianza dello Schwam, datata Roma 20 dicembre 1945 e intitolata Riassunto dell' attività di Padre Benedetto Maria OFM. Cap. e dei suoi collaboratori afferma i seguenti interessantissimi giudizi:

«Va reso omaggio, e a questo tengo soprattutto, a Aron Kasztersztein. Aron, ebreo polacco, comunista, autodidatta, fra noi quattro il più ignorante della situazione locale, era il nostro vero spiritus rector. Era lui che aveva le grandi idee. Noi eravamo i suoi esecutori. Dei buoni esecutori, si può dirlo senza falsa modestia. Ma niente altro. E se veramente il popolo ebraico è destinato a ridivenire un fattore autonomo del progresso mondiale, è perché possiede dei rappresentanti come Aron e degli amici come Padre Benedetto».

Va aggiunto e sottolineato che l'attività della DELASEM sembra acquistare

toni profondamente diversi a seconda dei periodi periodi, ad esempio prima o dopo l'8 settembre 1943, ed seconda delle personalità che successivamente ebbero una parte dominante nell'organizzazione. [180]

Nel complesso pare lecito ricavare anche dalla vicenda della DELASEM, la conclusione che pure per gli israeliti italiani, esattamente come per ogni altro italiano, non vi fu, in genere, la possibilità di organizzare un'efficace opposizione al fascismo e all'antisemitismo fascista che al di fuori delle istituzioni ufficiali e a volte contro l'apparato burocratico fascistizzato. (59) Ciò si potè constatare sia prima dell'8 settembre con l'azione, ad esempio, dell'ing. Israele Kalk e dei suoi collaboratori nel settore dell'aiuto ai profughi che giungevano in Italia da tutti i paesi via via occupati dai nazisti, sia dopo l'8 settembre con l'attività modesta, ma di grande rilievo ideale del Comitato di Assistenza ebraica (C.A.E.) e specialmente con l'adesione alla Resistenza armata di parecchie centinaia di ebrei.

Non ci soffermeremo qui sui dati del lavoro svolto dalla prima delle organizzazioni citate, che partita dall'assistenza in Milano ai bambini profughi, si estese rapidamente all'aiuto ai vecchi ed agli adulti, con fornitura di viveri, vestiario, denaro, sia nelle città ove essi vagavano raminghi senza mezzi e nella impossibilità di lavorare, sia nei campi per profughi istituiti in un secondo tempo dal governo italiano. Ci basta solo porre in rilievo come tale opera si svolgesse con spirito 59 Si potrebbe qui porre il quesito sui fermenti antifascisti esistenti all'interno di organismi fascisti o fascistizzati (Sindacati, G.U.F. e anche, tra l'altro, Comunità israelitiche). Pur riconoscendo che anche in tali istituzioni v'erano degli oppositori o se ne andavano formando, sembra difficile sostenere che l'azione antifascista non ricevesse la spinta decisiva e di fondo dalle organizazioni e dai partiti clandestini.

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antiburocratico, cercando di avvicinarsi ad ogni singolo individuo e sollecitando la collaborazione autonoma e nelle forme più democratiche possibili dei profughi stessi.

E' desiderio piuttosto mettere in evidenza alcune impostazioni polemiche che si manifestarono contro il conser- [181] vatorismo dell'Unione e delle Comunità, nel corso stesso dell'attività che venne esplicata. Una circolare del novembre 1940 diceva tra l'altro:

«Molti oblatori si domanderanno come mai la Comunità israelitica ufficiale (alla quale pervengono tutti i contributi obbligatori che dovrebbero essere utilizzati anche per scopi assistenziali) non provvede ad organizzare su larga base l'opera di protezione di tutti i profughi impossibilitati a proseguire nei paesi di definitiva destinazione. Ebbene: con sommo dispiacere ed amarezza tutti possono constatare che essa persiste a negare loro aiuto ed appoggio ed il risultato è che persone civili, che hanno conosciuto giorni migliori, sono costrette a vivere senza altra risorsa che l'accattonaggio».

E proseguiva affermando coraggiosamente:

«Interpretando il disappunto dei nostri oblatori (e se alcuno non è d'accordo con noi è pregato di comunicarcelo) e della maggior parte dei membri della Comunità, chiediamo le dimissioni di tutto il Consiglio attuale, perché possa lasciare il posto ad altri elementi attivi e capaci di affrontare e risolvere un problema di così grande ed urgente importanza. Nel formulare questa richiesta di dimissioni immediate, facciamo pure appello personale ai Sigg. Consiglieri a non voler subordinare l'interesse della collettività all'ambizione della carica che ricoprono, poiché il loro classico assenteismo porterà, fatalmente, alla disgregazione della nostra già decimata Comunità».

Di grande importanza è la circolare del gennaio 1942 di risposta ad un'altra

circolare diramata dalla DELASEM nella quale «l'attività della nostra opera viene messa in una luce non rispondente a realtà». Questo lungo documento (quattro fitte facciate di dattiloscritto ciclostilato) è, tra quanti ne ho reperiti, quello che rende edotti con più esattezza della reale situazione all'interno delle Comunità ebraiche e delle discussioni che in esse si svolgevano. Ne citeremo qualche periodo tra i più significativi: [182]

... «A scanso di equivoci precisiamo che non avversiamo affatto la Comunità come Ente avente tradizioni millenarie nella vita ebraica (siamo tutti membri della Comunità israelitica di Milano sin dalla sua fondazione). Le nostre critiche si rivolgono esclusivamente ai dirigenti che non hanno saputo risolvere il problema dei profughi... E l'Unione delle Comunità e la DELASEM cosa hanno fatto per illuminare il popolo ebraico su questo problema, senza dubbio il più importante all'ordine del giorno? Chi di voi ha ricevuto altre comunicazioni che non siano quelle riguardanti l'orario delle Ufficiature nel Tempio, il listino-prezzi delle azzime pasquali e gli aumenti delle tasse israelitiche?».

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E concludeva con queste parole d'ordine: «Meno apparenza e più sostanza!

Meno programmi e più opere. Meno parole e più fatti!». Nel giugno 1943, presentendo in Italia il mutamento dell'atmosfera politica,

parallelamente all'incalzare della guerra, si prende lo spunto, nella consueta circolare mensile, da una canzone tradizionale per esporre il discorso di un immaginario rabbino:

«Prenderei in tale occasione il mio posto sul pulpito e voltandomi,

anziché verso Oriente, verso il banco dove siedono gli illustri della Comunità come il Presidente, i Consiglieri, i Banchieri, gli Industriali, i proprietari immobiliari e di latifondi, i grossi commercianti, i professionisti di grido ed i ricchi ebrei in genere, terrei lo sguardo fisso su di loro e rivolgerei una breve, ma stringente allocuzione».

Ed un mese dopo, con la caduta del fascismo, la Mensa dei bambini (così si

definiva questa organizzazione) lanciava un appello che aveva il seguente inizio:

«In quest'ora di esultanza generale, mentre in seno alle vostre famiglie godete delle prospettive di un più luminoso avvenire, ascoltate ancora il grido che da anni vi abbiamo fatto pervenire attraverso i nostri periodici messaggi: non dimenticateci!».

[183]

Nell'agosto, poi, il discorso diveniva ancora più esplicito:

«Sono ormai passati e definitivamente i tempi in cui il requisito essenziale per un Presidente di Comunità era quello di essere una persona rappresentativa (generalmente capitano d'industria, principe del foro, ricco possidente ecc.) disposta a perdere una mezz'ora al mese per ascoltare il rapporto sugli affari correnti della Comunità fattogli dal Segretario convocato magari a domicilio dopo colazione, giusto nell'ora del caffè e del sigaro, e capace di fare bella figura durante l'annuale visita di omaggio alle Autorità cittadine. I requisiti per diventare Consiglieri della Comunità erano poi quelli di essere disposti a non manifestare la propria opinione e ad approvare incondizionatamente tutte le decisioni che venivano prese dal Presidente, per le quali essi generalmente non venivano nemmeno interpellati».

Infine l'ultima circolare della Mensa dei bambini è del tragico settembre 1943,

quando un bombardamento distrugge le sede in via Guicciardini 10. E le parole conclusive sono:

«In questi momenti particolarmente difficili, quando una bomba cieca

può in un istante demolire le nostre case, distruggere i nostri averi ed anche porre fine alla nostra vita, un esame sincero della nostra essenza s'impone a tutti. Ebbene, permettetemi di dichiararvi che noi valiamo non per quanto si legge nei nostri antichi libri o per quanto è scritto sulle facciate delle nostre moderne sinagoghe, ma unicamente per le nostre azioni e per la prontezza ad aiutare il prossimo».

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Naturalmente molto vi sarebbe ancora da aggiungere sull'azione della Mensa dei bambini e sul tipo di impegno morale e politico che presiedeva a tutto il lavoro. Chissà che una volta o l'altra non si possa riprendere il discorso ad esempio, sulla eccezionale personalità di quelli che la [184] ressero e sulla loro caratteristica formazione culturale che meriterebbero sicuramente di essere descritte con ampiezza.

Quanto alla storia della partecipazione ebraica alla Resistenza e dei suoi significati, essa è praticamente tutta da descrivere e le osservazioni che si formuleranno sono esclusivamente indicative.

Per l'impegno a delineare l'esigenza di rompere certi schemi del passato e ad indicare un'alternativa, è necessario anzitutto citare un brano del Programma del C.A.E. pubblicato a Castelletto Busca nell'estate del 1944 e redatto dall'avv. Bruno Segre di Torino. Esso dice:

«La mancanza fra gli italiani ebrei di qualsiasi intesa organizzata, la

assenza di collaborazione, di difesa preventiva, di concreta solidarietà hanno permesso che si moltiplicasse il numero delle vittime e le loro sofferenze e che si approfondisse il disagio dei superstiti, abbandonati a se stessi in condizioni spesso disperate.

Per ovviare, sia pure tardivamente, a questo disonorevole stato di cose - il cui peso cade su individui che per età, salute, povertà non poterono rifugiarsi all'estero - si è costituito il COMITATO DI ASSISTENZA EBRAICA. Sorto per iniziativa di elementi estranei al Consiglio direttivo della Comunità israelitica, si assume spontaneamente, tra gravi difficoltà, i compiti che sarebhero toccati alla responsabilità di questo. Al di fuori di ogni ideologia politica e di qualsiasi conformismo religioso, il Comitato intende svolgere un'opera unitaria di solidarietà, di resistenza, di emancipazione, di ricostruzione».

Più avanti venivano fissati sette punti programmatici che si sarebbe dovuto

tentare di realizzare immediatamente e sette la cui attuazione era rinviata a dopo la vittoria. Tra i primi vi erano: il soccorso ai detenuti in carcere, l'aiuto economico-morale ai bisognosi, la distribuzione di documenti di identità falsi, la raccolta di notizie sulla sorte [185] dei deportati, la segnalazione dei criminali di guerra, dei delatori, delle spie, ecc.

A proposito dell'impostazione di lavoro del C.A.E. vale la pena di segnalare che come il fallimento della classe dirigente ebraica d'Italia non fu che un riflesso del fallimento delle classi dirigenti dell'intero paese e della maggior parte degli Stati europei, così la ripresa che vi fu in tutta l'Europa con la Resistenza trova riscontri ed analogie, sia pure attraverso una propria particolare vicenda, anche nella situazione italiana, nello slancio nuovo che mosse i partiti antifascisti, nell'adesione che ad essi diedero nuovi strati di cittadini, nella formazione che si ebbe di nuove organizzazioni di lotta, tra le quali possiamo annoverare sinanco il minuscolo C.A.E. E come i partigiani italiani stringendo legami di solidarietà combattente con i partigiani dei popoli aggrediti dai monarco-fascisti, seppero riscattare le «pugnalate alla schiena» del Governo italiano, così il C.A.E., nel suo piccolo, diede una prova del desiderio di spazzare via tutto ciò che il fascismo aveva costituito, nel campo dei rapporti tra Stato e minoranza israelita, anche prima delle leggi razziali.

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A questo riguardo, a riprova di come il Comitato di Assistenza Ebraica fosse andato avanti con grande consapevolezza per ritrovare la strada onde sciogliersi dal velenoso «collaborazionismo» de La Nostra Bandiera, è il caso di ricordare come i suoi programmi e le sue direttive si modellassero - non sappiamo se per coincidenza o volutamente - su una linea assai simile a quella adottata da un'organizzazione ebraica della Resistenza francese, l'Union des Juifs pour la Résistance et l'Entr'aide (U.].R.E.). Leggendo gli appelli e le istruzioni dell'organizzazione d'oltralpe si nota infatti una convergenza d'obiettivi e di metodi [186] con quella italiana che sarebbe opportuno forse studiare più a fondo. (60)

Sempre a proposito della partecipazione degli israeliti [187] alla Resistenza, - ultima questione a cui deve porre attenzione chi voglia soffermarsi sull' emergere e il trasformarsi delle tendenze politiche degli ebrei italiani dal 1922 al 1945 - ancora merita di essere rilevata la forte presenza nella lotta armata e clandestina di giovani e giovanissimi. Mentre la generalità dei più anziani si attardava nello sperare una miracolosa via di uscita dagli artigli del nazifascismo, molti ragazzi, parecchi dei quali ancora liceali, ruppero gli indugi e spezzarono le barriere dell'antiassimilazionismo famigliare e delle opposizioni reazionarie dei dirigenti delle Comunità per unirsi alle lotte politiche antifasciste della clandestinità e poi alle bande dei «ribelli». Così la fittizia e obbligatoria solidarietà di classe all'interno dell'ebraismo che il fascismo era quasi riuscito a 60 Sull'U.J.R.E. si vedano i documenti pubblicati nel già citato Gli ebrei in Italia durante il fascismo n. 2 e più precisamente la documentazione intitolata Stampa clandestina degli israeliti francesi sotto l'occupazione nazista.

Concordiamo pienamente con coloro che sostengono, in opposizione alle tesi sioniste, che la storia degli israeliti italiani non ha molte connessioni con quella degli israeliti polacchi o ungheresi e che ne ha assai poche anche con quella degli israeliti francesi. Il problema però e del tutto diverso. E' il problema, per dirla con Ilja Ehrenburg, del «legame nato dall'antisemitismo. Se domani ad un pazzo qualsiasi saltasse in mente di dichiarare che tutte le persone dai capelli rossi o dal naso rincagnato sono da considerarsi fuori legge e debbono quindi essere sterminate, vedremmo sorgere una solidarietà naturale tra tutte le persone dai capelli rossi e dal naso rincagnato». E ancora precisa lo scrittore sovietico, e le sue osservazioni sembrano abbastanza pertinenti, che «in vari paesi dell'Europa orientale e sud-orientale, prima della guerra imperava il fascismo. Gli ebrei erano oggetto di persecuzione: basti ricordare la "guardia di ferro" o i pogrom della Polonia." Ma ecco che sotto la pressione dei popoli, con l'aiuto dell'esercito sovietico, i governatori fascisti caddero, fuggirono oltre oceano i signori che sognavano la resurrezione dell'ordine prebellico, tutti costoro metà liberali e metà persecutori d'ebrei» (in Pravda, numero 265, 1948).

Un'unica persecuzione, un'unica guerra aggressiva voluta e preparata dalle medesime classi e forze sociali, un unico immenso fronte, gli stessi medesimi alleati provocano analogie di situazioni e di destini. Così, per non accennare che alle cose più macroscopiche, gli stermini nei campi di concentramento di uomini di tante diverse nazionalità, non furono solo casi di «accostamento geografico». E se si arrivò alle fosse comuni di Auschwitz e di Dachau, è possibile presumere che vi fosse qualche altra cosa di comune che collegava tra loro i massacrati ebrei e non ebrei, anche prima di arrivare al Lager e che li contrapponeva ai loro massacratori. Qualcosa, cioè, che preesisteva all'ultima tappa. Fascismo e democrazia, Resistenza e collaborazionismo, reazione e rivoluzione furono dunque, pur in una grande varietà di «vie» anche termini europei, che di conseguenza interessarono con differenti sfumature ed accentuazioni pure gli ebrei dei singoli paesi, anche parecchio tempo prima del conflitto armato.

Ma non posso credere che Renzo De Felice abbia sentito davvero l'esigenza di rivolgermi i suoi strali su tali questioni a pago XXXVII dell'introduzione del suo volume. Mi pare giusto fargli credito ed immaginare che sia uscito nelle sue affermazioni più per compiacere qualche conoscente che per autonoma convinzione. Per quanto riguarda in particolare il dott. R. Kastner, probabilmente li più grande collaborazionista di religione israelitica della seconda guerra mondiale, rinvio a quanto ho scritto su tale caso in Movimento operaio e socialista, aprile-giugno 1962, p. 217.

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creare con le sue assurde persecuzioni, di fatto si spezzò ben presto: da un lato la maggioranza dei vecchi «oligarchi» portò a termine, con la fuga in Svizzera, il processo del proprio salvataggio personale iniziato nel 1937-38 con il trasferimento nelle Americhe, dall'altro la maggioranza dei meno abbienti e dei più antifascisti rimase in Italia, divenendo parte attiva del movimento partigiano o riuscendo a sussistere mantenendosi nella sua orbita. (61) E nuovi tipi di unità popolare si andarono creando - in forme più dinamiche e politicizzate nel quadro della Resistenza medesima.

Occorre aggiungere in conclusione che se all'indomani della liberazione, l'amministrazione interna delle Comunità [188] non ricevette quasi nessun impulso rinnovatore, ciò si dovette ad un insieme di fattori molto complesso, a cui accennerò solamente, e non all'inesistenza di opposizioni e tensioni interne. A parte l'incalcolabile vuoto determinatosi con la scomparsa dei deportati, degli emigrati, ecc., si deve notare che il peso, all'interno della minoranza israelitica, della media e grande borghesia, rimase proporzionalmente molto consistente: ciò ostacolò l'attività in campo ebraico delle forze più accesamente antifasciste e di conseguenza si rafforzò in parecchi antifascisti la tendenza a disinteressarsi di un ambiente comunitario potentemente influenzato dagli elementi conservatori che vi predominavano. Allo stesso tempo, la confusione creava dal problema palestinese e dalla successiva ricostituzione di uno Stato ebraico distolse dalla battaglia politica nel paese o allontanò dall'Italia diverse personalità antifasciste legate al sionismo. Infine, l'involuzione della situazione italiana dopo il 1945, agevolò la riconquista della direzione delle Comunità israelitiche ad opera dei gruppi di destra.

Senza tener conto anche di questo groviglio di questioni, pare lecito affermare che diviene molto difficile inquadrare con una certa esattezza i vari significati che ebbe l'adesione alla Resistenza da parte di una cifra parecchio elevata di ebrei. E' comunque cosa chiarissima che essa ha un senso storico di importanza enorme e che tutti i tentativi per sminuirla e porla in ombra in qualche modo sono abbastanza pericolosi per più di un motivo. Sono infatti gli ebrei che a qualunque titolo - siano essi religiosi, siano essi completamente assimilati - e in qualsivoglia partito o gruppo clandestino prima e formazione partigiana poi, parteciparono all'attività antifascista e in un secondo tempo alla Resistenza, che salvano l'onore dell'ebraismo italiano, non certo le pallide figure che lo amministrarono [189] durante il «ventennio» all'ombra del fascio e dello scudo di Savoia.

Chiunque aspiri a caricare di non si sa quali valori ideologici le fumisterie degli «amministratori» di Comunità degli anni 1930-1938, facendo scapitare lo slancio generoso e semplice, timido o coraggioso, consapevole o determinato da impossibilità di scelta, di coloro che ritrovarono dignità di uomini nell'antifascismo militante, chiunque, in base ad una precettistica da tavolino, voglia anteporre con artificiosi calcoli basati sulla partecipazione burocratica alla vita della Comunità, i rappresentanti «ufficiali» dell'ebraismo dell'epoca fascista, agli umili ed ai modesti

61 Un episodio curioso di che cosa significò la presenza di israeliti nella Resistenza e di come si esplicò, lo si può vedere leggendo le prime righe di un manifesto del Comitato di Liberazione Nazionale di Refrancore (Piemonte), in data 1° luglio 1945. Tale manifesto, un minuzioso rendiconto delle entrate e delle uscite sostenute dal C.L.N. locale per la sua attività patriottica nelle prime righe dichiara solennemente: «Dal periodo in cui venne costituito il C.L.N. di Refrancore a tutto il 30 giugno 1945, chi ha finanziato detto Comitato fu il Sig. Deangeli Rag. Arturo (ebreo)». Tale documento si trova presso il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

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che soffersero sempre del fascismo, come tutti gli antifascisti italiani, oltre che in maniera eccezionalmente pesante ad un certo punto, ebbene chi ragiona in questa maniera in sostanza, anche se magari per vocazione ideale, non è che al servizio di quei medesimi gruppi codini e retrivi.

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[190] Appunti sulle ricerche intorno all'antisemitismo nazifascista

nel decennio 1960-1970: a proposito del libro di Piero Malvezzi

Le voci del ghetto di Varsavia 1941-1942 (62)

Specialmente di fronte alle questioni della storia contemporanea, la probabilità che sugli indirizzi e le direttrici di lavoro dello studioso minaccino di influire in modo riduttivo ed in forme particolarmente marcate, le spinte, le esigenze e gli interessi immediati dell'ambiente in cui egli opera, è sempre stata, come è noto, forte e mai del tutto risolta. Se questo rischio è prevedibile in linea generale, tale eventualità - che il presente intervenga cioè ad incanalare o addirittura a censurare in qualche maniera il passato pare tanto più verosimile, nell'ambito delle ricerche sull'epoca della Resistenza, per un aspetto sconvolgente e complesso come la vicenda della persecuzione antisemita nazifascista. E non ci si intende qui riferire soltanto alle pressioni palesi ed occulte dei neonazisti e dei neofascisti che si intromettono oggi a tentare la mistificazione dei fatti così come ieri, con tutto un mostruoso apparato, avevano cercato di compiere i più atroci delitti valendosi dei metodi più nascosti e mimetizzati. Piuttosto, sollecitati dalla pubblicazione del volume di documenti di Piero Malvezzi, (63) quello che pare non inutile ribadire è che la pressione negativa che sovente abbiamo sentito urgere e riemergere, [191] ci sembra coinvolgere pure più sottili responsabilità e chiamare in causa persino ricercatori apparentemente autorevoli, case editrici prestigiose e gruppi politici degni di ogni rispetto: fatto questo che confermerebbe l'esigenza permanente d'un impegno morale meno slavato ed accademico del consueto.

Se si ripensa poi a come in Italia ci si è occupati della storia degli ebrei sotto il fascismo ed il nazismo, è necessario anzitutto partire dalla constatazione preliminare che, in generale, se si escludono alcune opere memorialistiche o letterarie di indubbio valore, le ricerche originali (ed anche le traduzioni che le hanno accompagnate) sono state, per circa un quindicennio a partire del 1945, singolarmente scarse, frammentarie e poco approfondite. Le cause di tale fenomeno, sono, presumibilmente, complicate e tutt'altro che superficiali, nondimeno sinteticamente si può notare come la coscienza antifascista dei larghi strati popolari, 62 In Il Movimento di Liberazione in Italia, n. 101, ottobre-dicembre 1970. 63 Piero Malvezzi, Le voci del ghetto di Varsavia 1941-1942, Bari, Laterza, 1970, p. 501.

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per un verso, un insieme di ingenuità e di comodità, per un altro, inducevano, a nostro avviso, a dare per conosciute e scontate molte cose tra cui le vicissitudini delle comunità ebraiche europee dal 1922 in poi. Da qui, pressoche senza accorgersene, una larga messe di imprecisioni, luoghi comuni e deformazioni che parve quasi diventare un inalienabile «patrimonio culturale» a tutto vantaggio, è indispensabile aggiungere, di chi dalle precisazioni e dagli approfondimenti non avrebbe certo ricavato gloria e splendore.

Fu soltanto intorno agli anni '60, in coincidenza con diversi grossi avvenimenti che scossero l'opinione pubblica italiana ed internazionale, che in effetti si andò registrando un inizio di inversione di tendenza e di ripensamenti e un desiderio di tornare con un minimo di puntualità oltre la rievocazione schematica e d'occasione per verificare in ma- [192] niere esatte e concrete come, ad esempio, gli israeliti in Italia erano stati perseguitati, depredati e deportati e dove e da chi. Si manifestò inoltre un interesse più specifico per accertare le traversie della comunità ebraica italiana nel suo insieme al di qua della data convenzionale del 1938, anno d'emanazione dei primi provvedimenti razziali fascisti, e per indagare sulla dinamica interna del gruppo ebraico in ciascuna delle sue componenti abbastanza complesse e varie.

Ad avviare questi intendimenti fu, tra l'altro - segno evidente di come contino le condizioni storiche e gli accadimenti politico-sociali - la cosidetta ondata delle svastiche, ovvero di dimostrazioni su scala europea e prevalentemente murali di neonazismo: ondata che rimise in movimento le forze della Resistenza e che, in particolare, scosse larghi strati di giovani spingendoli a riscoprire in forma autonoma e libera che cosa erano stati i regimi nazisti e fascisti. Per quanto riguarda il nostro paese, il fenomeno di ripresa nostalgica, per un verso, doveva trovare adeguata risposta in quell'iniziativa di lezioni, testimonianze e dibattiti sulla seconda guerra mondiale e sulla lotta partigiana che, partendo dal teatro Alfieri di Torino, avrebbe avuto poi largo seguito in tutta Italia e sarebbe approdato pure alla pubblicazione di vari pregevoli volumi di documentazione; per un altro, doveva coincidere con gli episodi di coraggiosa azione politica del luglio 1960, in relazione con il tentativo dell'on. F. Tambroni di costituire un governo sostenuto dall'estrema destra.

Un altro avvenimento, connesso in qualche maniera con il precedente, che provocò larga emozione ed impresse su scala mondiale un energico impulso - quantunque prevalentemente giornalistico - alle investigazioni sulla tragedia ebraica in Europa, fu il processo di Adolf Eichmann, uno dei capi nazisti maggiormente responsabili nella «soluzione [193] finale» della questione ebraica, che, rapito nel suo nascondiglio sud-americano da agenti segreti israeliani nella primavera del 1960, venne processato ed alla fine giustiziato in una cella del carcere di Ramleh, presso Tel-Aviv, il 31 maggio. E' vero che David Ben Gurion, allora primo ministro israeliano, nell'ordinare la cartura e nell'organizzare il clamoroso dibattimento aveva mire diverse da quella di pervenire ad un'azione giudiziaria o ad una ricostruzione storica rigorose: impegnato a stabilire solidi ed assai utili legami diplomatici ed economici tra lo Stato d'Israele e la Repubblica federale tedesca di Adenauer e di Globke ed assillato dall'imperativo sionista di imporre uno Stato-guida per l'intero ebraismo, la più importante personalità israeliana si guardò bene dal battersi perché fosse fatta pienamente luce, ad esempio, sull'estesa rete di omertà e complicità che aveva tanto favorito l'opera delittuosa dell'Eichmann.

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Di conseguenza, la signora Arendt, colei che più acutamente ha valutato il significato autentico dell'iniziativa di Ben Gurion, così poteva commentare l'impostazione della requisitoria del pubblico accusatore Gideon Hausner: «"In questo storico processo, al banco degli imputati non siede un individuo, e neppure il solo regime nazista, bensi l'antisemitismo nel corso di tutta la storia". Questa era la direttiva impartita da Ben Gurion, e Hausner vi si attenne fedelmente cominciando il suo discorso di apertura (che si protrasse per tre udienze) dal faraone e dalla decisione di Haman di "distruggerli, colpirli e farli sparire". Il pubblico ministero passò quindi a citare Ezechiele: "E quando io [il Signore] passai da te e ti vidi macchiato del tuo sangue, ti dissi: Nel tuo sangue vivi", spiegando che queste parole erano "l'imperativo di fronte a cui questa nazione si è trovata fin dal giorno in cui si è affacciata alla storia". Era cattiva storiografia e retorica a buon mercato; e quel [194] che è peggio, queste osservazioni erano in contrasto con l'idea stessa di processare Eichmann, poiche potevano far pensare che forse Eichmann era soltanto l'innocente esecuturo di un fato misterioso, o che magari l'antisemitismo era necessario per spianare quella "strada coperta di sangue" che il popolo ebraico doveva percorrere per compiere il suo destino». (64)

Comunque, riandando dopo circa dieci anni a quell'avvenimento ed inquadrandolo nella problematica politica di cui era espressione, senza più lasciarsi fuorviare dalle emozioni che allora l'accompagnarono, è abbastanza semplice trovarsi adesso d'accordo con la Arendt che, quasi sola a sfidare i reiterati anatemi degli ambienti sionisti, tentò di distinguere tra realtà giuridica e coscienza storica, tra il calcolo contingente dei dirigenti israeliani e l'esagitazione certo comprensibile, ma nondimeno sovente irrazionale e sempre fuorviante, di certi strati che avevano sofferto direttamente la persecuzione. Di contro, nel 1960, anche per le esigenze immediate dell'iniziativa antifascista, ci fu una spinta dominante a fare d'ogni erba un fascio in maniere spesso semplicistiche o francamente acritiche. Tra i volumi apparsi in quel periodo cogliendo lo spunto dal caso Eichmann (per la maggior parte mere rievocazioni cronachistiche), uno ci sembra emblematico: la pubblicazione a tamburo battente per i tipi della casa editrice Einaudi della relazione d'accusa del procuratore Hausner (Sei milioni di accusatori, Torino, 1961). E' vero che il saggio introduttivo di Alessandro Galante Garrone, premesso all'arringa, con assai maggiore finezza e forza di convinzione dello Hausner affrontava e risolveva alcuni dei numerosi interrogativi giu- [195] ridici e morali che la faccenda aveva sollevato. Tuttavia ci si può rendere conto della superficialità dei più registrando come persino un uomo di straordinario valore quale Galante Garrone non vide (o, per spirito generoso, non volle vedere) proprio l'ambito politico in cui il processo si svolgeva, i limiti rigorosi che Hausner ed il governo di Tel-Aviv si prefissero di non superare nell'indagine da loro stessi avviata, i vantaggi che volevano assicurarsi, gli elementi di confusione che allo stesso tempo venivano introducendo in contrapposizione ad una più equilibrata valutazione d'una intera epoca storica.

Il processo Eichmann, peraltro, connesso ai rigurgiti neonazisti e contemporaneo, in Italia, con il temerario esperimento Tambroni, smosse le acque e, al livello della ricerca non mancarono i frutti: tanto per citare quello forse più rilevante ricordiamo che nel 1961 si stampò la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice (Einaudi, 1961). Per quanto una rilettura di questa

64 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, 1964, p. 27.

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opera risulterebbe al presente di considerevole utilità anche ai fini di un più esatto giudizio della sua portata, qui interessa specialmente sottolineare quale funzione essa abbia esplicato nel campo delle indagini su questo settore storiografico: se abbia aperto prospettive o promosso piuttosto l'oscurarsi di orizzonti appena intravisti. .

Premesso che le vicende degli israeliti in Italia non rappresentano oggettivamente (per la scarsa consistenza numerica, ad esempio) che una piccola sezione della tragedia dell'antisemitismo nazifascista, è indubbio che, sotto il profilo soggettivo, inserendosi nel fervore del dibattito e della ripresa d'interesse da parte delle giovani generazioni del quale s'è accennato, lo studio di tali fatti rivestiva pur sempre un duplice significato. In primo luogo costituiva un contributo a meglio conoscere la storia del nostro paese [196] perché il problema delle idee intorno all'ebraismo e dei rapporti con la ristretta minoranza israelita era sempre un'occasione graffiante per verificare il comportamento di gruppi e movimenti assai più vasti (gli ambienti cattolici, le varie correnti del partito fascista ecc.). Secondariamente, cominciando ad approfondire tale tematica, si veniva costituendo anche una «base» metodologica e di approccio di notevole momento per avviare poi analisi originali e cioè non subalterne sull'intero ebraismo europeo nella tormenta della persecuzione: partendo infatti dalla comunità italiana, pur non sottovalutandone tutte le specifiche caratteristiche, non pare difficile intravvedere un cammino per uscire, su tutta la realtà dell'ebraismo, dalla pesante rete di provincialismo, e chiusure ereditata dalla grettezza dell'Italia ufficiale prebellica.

Non per caso, intorno agli anni sessanta, parecchi giovani e meno giovani, valendosi anche della posizione coraggiosa assunta dalla Federazione dei giovani ebrei italiani, cominciarono a tentare una lettura spregiudicata di come s'erano comportate le varie componenti ebraiche italiane sotto il fascismo, di come gli israeliti avevano partecipato alla vita politica, di come il fascismo era diventato antisemita, ecc. Ricordiamo, in proposito, a titolo esemplificativo i nomi di Alfredo Caro, Israele Kalk, Mario Lattes, Leo Levi, Amos Luzzatto, Guido Neppi Modona, Carlo L. Ottino, Sandro Sarti, Adolfo Scalpelli.

E' in questo contesto che apparve, sotto il patrocinio dell'Unione delle comunità istaelitiche italiane, con tempismo e cospicua risonanza pubblicitaria, la Storia del De Felice. (65) Essa, lungi dallo schiudere nuove prospettive, nell'assoluta rispettosità per l'establishment delle autorità

[197] comunitarie attentamente professata, ottenne il rapido risultato di dare l'impressione che tutto quello che c'era da dire fosse stato detto: ancora una volta lo scontato prevaleva e le interpretazioni più innovatrici, più impegnate ad uscire dalla morta gora del perbenismo, venivano messe fuori causa.

Ne, se ripensiamo ad un altro episodio che destò altissimi clamori e che, a distanza di anni ci pare abbia dato assai meno risultati nello scandagliare di quanto si poteva sperare, diremmo che in seguito la situazione venisse sostanzialmente trasformandosi. Ci riferiamo cioè alle polemiche avutesi anche tra noi con la rappresentazione de Il Vicario di Rolf Hochhuth, edito da FeltrineIIi nel 1964.

Sia per l'ermeticità di determinati archivi, sia per le complicità nel sostenersi a vicenda, quantunque di certo la scossa del Vicario abbia per lo meno contribuito a far maturare quello che si sarebbe chiamato dissenso cattolico, sul piano

65 Cfr. la testimonianza di Marco Cesarini in Storia Illustrata, n. 6, giugno 1961, n. 775.

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conoscitivo, a differenza di quanto si realizzò in paesi meno cattolici del nostro, non numerosi e comunque scarsamente incisivi furono i passi per indagare sul serio. Tra i più validi, probabilmente, furono gli articoli scritti da Ernesto Rossi sull'Astrolabio a partire dal gennaio 1966. Tipico comunque dello sforzo per ristabilire il silenzio può ricordarsi il dibattito sul comportamento della Chiesa cattolica verso gli israeliti che si tenne in quel torno di tempo a Milano al Centro culturale di S. Fedele: nel corso della manifestazione il vecchio dirigente sionista Raffaele Cantoni, rispettando in maniera quasi commovente il gioco delle parti tra le gerarchie cattoliche e i dirigenti della comunità ebraica, scese ancora una volta a difendere papa Pio XII, lasciando trasparentemente intravedere, benche in modo involontario, nelle autorità ebraiche, il medesimo atteggiamento di diplomazia, di attendismo, di cau- [198] tela contro il quale in concreto lo Hochhuth si era levato riferendosi alle autorità cattoliche.

A confondere ancor di più le acque ed a mescolare con le oscurità del passato gli intrighi del presente, si fecero inoltre avanti altri personaggi di qualche rilievo come l'ex-console di Israele a Milano Pinchas Lapid che, vuoi per esibizionismo, vuoi facendosi portavoce dell'intento del suo governo d'accaparrarsi le benevolenze vaticane nello scontro con gli Stati arabi, si impegnò parecchio per testimoniare in favore di Eugenio Pacelli. (66)

Piero Malvezzi si accinse dunque a raccogliere i materiali per il suo libro in una situazione dominata nel complesso da orientamenti quali quelli che abbiamo tentato di rievocare sottolineando solo gli aspetti che più da vicino si riferiscono alle ricerche sull'antisemitismo, ma non dimenticando come la posta in palio nella storia italiana fosse allora la cosidetta apertura a sinistra, ipotesi che rendeva incandescenti anche spunti che in altri momenti si sarebbero considerati di semplice disputa teorica.

E' indubbio che il Malvezzi, coautore con Giovanni Pirelli delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (Einaudi, 1954), si presentasse come persona altamente qualificata per affrontare il nuovo lavoro. Ed è indubbio, altresi, che tutta una serie di dati conoscitivi e di spinte tendenziali fossero già venuti a maturazione inducendo ad affrontare certi risvolti della persecuzione antisemita, quali appunto le posizioni assunte dagli israeliti nel corso della persecuzione stessa. Tra l'altro avevano visto la luce in quel periodo vari volumi che ad una lettura attenta già [199] fornivano indicazioni sintomatiche: in primo luogo la misconosciuta Storia di Joel Brand. 10.000 camion per un milione di ebrei di A. Weissberg (Feltrinelli, 1958) che rievoca la tragedia degli ebrei ungheresi deportati da Eichmann grazie anche all'appoggio del collaborazionista israelita Kastner, e poi il numero speciale sul ghetto di Varsavia della rivista Questioni (Lattes, 1959), Comandante ad Auschwitz (Einaudi, 1960), diario di R. Höss, comandante del famigerato campo di sterminio; l'antologia Ricorda cosa ti ha fatto Amalek (Einaudi, 1961) di Alberto Nirenstajn; Terezin, il ghetto modello di Eichmann di B. Murmelstein (Cappelli, 1961); Cronache del ghetto, un interessante volume quasi ignoto, di A. Rudnicki (Silva, 1961); I diari del ghetto di L. Weliczker e N. Szac-Wainkranc (Lerici, 1962); il saggio di P. Pardo sul processo Eichmann, il migliore forse di un giornalista italiano,

66 Cfr. Rosario F. Esposito, Processo al vicario, Editrice Saia, Torino, 1964. p. 153 e 203. Sul libro di P.E. Lapide, Roma e gli ebrei. L'azione del Vaticano a favore delle vittime del nazismo, Mondadori, Milano. 1967. cfr. la mia scheda sul n. 91 della rassegna Il Movimento di Liberazione in Italia.

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Processo al terzo Reich (Editori Riuniti 1962); Il disonore dell'uomo. Documenti sulle S.S. di R. Schnabel ed infine la fondamentale Soluzione finale di Gerald Reitlinger (Il Saggiatore, 1962). [Sembra di non conoscere Paul Rassinier, L'operazione «Vicario» -- il ruolo di Pio XII davanti alla storia, 1964. http://www.aaargh.com.mx/fran/livres6/PRvicarioit.pdf aaargh]

Nondimeno l'intento di esprimere una valutazione originale sulla questione del comportamento delle grandi comunità ebraiche dell'Europa orientale ed il desiderio di approfondire le vie che le vittime avevano avuto di fronte e le scelte che avevano tentato di compiere anche in rapporto alle loro condizioni economico-sociali di partenza, si scontravano con numerose specifiche contrarietà.

Senza voler tentare una ricostruzione completa della problematica teorica e delle difficoltà operative dinnanzi alle quali il Malvezzi si è trovato non si può, per prima cosa, sottovalutare la fatica che richiede lo stabilire rapporti di collaborazione con gli Istituti specializzati che si dedichino all'analisi delle varie fasi dello sterminio degli ebrei nella Europa nazista e che possiedono archivi pressochè indispen- [200] sabili. Ad esempio, abbastanza complicato è, ma specialmente era negli anni '60, l'accesso alla documentazione dell'Istituto storico ebraico di Varsavia, e ciò per un insieme di motivi in buona parte inerenti alle diffidenze ed ai risentimenti delle autorità della Polonia socialista nei confronti dell'Occidente e dei non pochi tentativi di interferenza verificatisi in particolare all'epoca della guerra fredda. Di segno contrario, ma anche più acute, le prevenzioni esistenti in centri di ricerca israeliani come il paragovernativo Yad Washem di Gerusalemme ed il Beit Lohamei HaGhettaot nel kibbuz omonimo nei pressi di Chaifa. Ed anche altri centri di documentazione ebraica fuori di Israele, per un processo consueto, ma non per questo meno discutibile, si sono venuti sempre più affiaccando - negli orientamenti restrittivi - ai centri israeliani tendendo a confondere ed a identificare via via più rigidamente e, operando una trasposizione del tutto meccanica e con risultati assai incerti, la tematica israelita del 1938-45 e le questioni israeliane quali sono venute acutizzandosi in questo dopoguerra e negli anni più recenti.

Frutto tipico delle rivalità, ispirate più da divergenze politico-ideologiche che da gelosie accademiche, è l'unico volume di cui in pratica si disponga che raccolga una parte degli importantissimi diari di Emanuel Ringelblum, l'eroico storico che nell'abisso del ghetto di Varsavia compi un lavoro di raccolta di memorie e documenti e di indagini storico-sociali di straordinario valore. Orbene la traduzione italiana (Sepolti a Varsavia, Mondadori, 1962), in sè parecchio scorretta ed affrettata, è ricavata da una traduzione inglese edita negli Stati Uniti già lacunosa e discussa: gli americani, a suo tempo, affermarono di non aver potuto accedere nei modi necessari agli originali in polacco ed in jiddish; dal canto loro, i polacchi ribatterono che si erano voluti inten- [201] zionalmente pubblicare dei materiali incompleti ed edulcorati. Tra tali considerazioni, per quanto l'accuratezza di osservatore del Ringelblum riesca a bucare la coltre caliginosa dei vari «tradimenti» linguistici, c'è effettivamente da chiedersi quanto il testo, che pur giustamente il Malvezzi consulta spesso, corrisponda all'originale o se ne allontani.

Invero nel libro del Malvezzi si avverte poi più volte la difficoltà di padroneggiare testi scrittti in polacco, ebraico o jiddish. Ad esempio, a parte il fatto che non si comprende perchè alcune testate di giornali siano tradotte in italiano ed altre vengano citate secondo la titolazione originale, non è esatto scrivere Negued Hazerem, ma andrebbe Neghed Hazerem. II giornale Lapidim non significa «La

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fiaccola», ma «Fiaccole». Le due parole kibbuz Menched (p. 138) non hanno significato: andava scritto Kibbuz Ameuchad (ovvero «Collettivo unificato», una delle grandi federazioni di colonie collettive in Palestina). Moaca (p. 139) sta per Moezà «<Consiglio»). Glud sta per gdud «gruppo») e gludium per gdudim «gruppi») (p. 147). Invece di Riszim Kibucit (p. 212) andava Reshimat kibbuzit «Lista» - elettorale - «kibbuzista»). I nomi delle organizzazioni collettive a p. 359 risultano incomprensibili; in verità essi sono Kibbuz Arzi', Kibbuz Ameuchad e Chever haKvuzot.

Tuttavia questi non sono che aspetti marginali. Il dato sostanziale è che Le voci del ghetto, dimostrazione efficace della capacità di raccogliere stimoli ed indicazioni ormai espliciti, praticamente redatto sin dal 1965, ha dovuto attendere parecchio prima che si offrisse la possibilità della sua pubblicazione; e ciò precisamente per l'argomento: aspro, anche se coraggioso, pienamente legittimo, ma controcorrente. Un'indagine che portasse in primo piano la ipotesi d'una accanita lotta di classe all'interno delle comunità ebraiche, verificando lo sbandamento politico ed ideologico [202] delle vittime di fronte alla persecuzione, le responsabilità precise che ricadevano sui dirigenti, l'esattezza delle impostazioni portate avanti in difficilissime condizioni dalle correnti minoritarie di estrema sinistra, contraddiceva infatti con il modo di pensare e di credere di troppi che per errata intuizione o amor di quieto vivere erano indotti a rifiutare ogni autentica revisione di tanti preconcetti. Giacchè il lavoro del Malvezzi - una ampia raccolta di testi della stampa clandestina pubblicati nel ghetto della capitale polacca accompagnati da una introduzione lunga ed accurata — proprio di tali assunti suona conferma. Sarebbe facile abbondare in citazioni al riguardo e quindi rinviamo alla lettura diretta degli articoli, delle cronache, dei commenti stampati alla macchia e fatti circolare in mezzo ai pericoli e qui diligentemente collezionati dal Malvezzi. Resta comunque il fatto che accanto ad altri intenti - informare sull'andamento del conflitto, tentare di diffondere un pò di coraggio, lanciare prospettive a lunga scadenza sulla futura Polonia democratica o sull'immigrazione in Palestina — quello dominante (nè, ci pare, potrebbe essere altrimenti) è la continua, insistente polemica contro le marchiane insufficienze dello Judenrat, il Consiglio ebraico istituito dai nazisti per controllare dall'interno e per interposta persona i perseguitati, contro gli scandalosi protezionismi a vantaggio dei più ricchi o a danno dei più poveri, contro la piaga dei collaborazionisti e dei criminali che la orrenda situazione del ghetto incancrenisce sempre più.

Se di questo genere sono le indicazioni che obiettivamente scaturiscono dal volume del Malvezzi, non desta stupore, alla luce del quadro globale della realtà italiana che s'è cercato di tratteggiare, se si sono manifestate pressioni per frustrare quell'indagine, per tacere e passare oltre. E tutto ciò anche se nello stesso torno di tempo (1963-1965) nello [203] Stato d'Israele gli studi sui ghetti durante la seconda guerra mondiale, sulle organizzazioni di base e spontanee che in essi si riscontrano (Comitati di caseggiato a Varsavia, ad esempio), sullo Judenrat, la polizia ebraica e le altre organizzazioni collaborazioniste, proseguivano con vivacità e volontà di approfondimento.

Come mai adesso Le voci del ghetto è finalmente uscito? Se c'è un qualche nesso tra grandi e piccoli fatti, se è lecito registrare un collegamento tra la storia della persecuzione e i volumi che con rapido ritmo e in maniere sempre più puntigliose vengono al presente ad informare sulle origini del movimento sionistico, sulla struttura sociologica delle grandi masse ebraiche dell'Europa orientale tra le

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due guerre, sulle caratteristiche dei gruppi dirigenti che si trovano alla loro guida, pensiamo che almeno in parte si possa rispondere all'interrogativo rifacendosi al 1967, allo schok della guerra dei «sei giorni».

Se si prova a domandarsi che cosa il 1967 abbia significato in rapporto con i temi sui quali ci siamo soffermati, si noterà come da un lato, nello Stato d'Israele, si sia creato un clima che doveva portare anche alla pubblicazione, con propositi di rivalutazione, del diario del presidente collaborazionista dello Judenrat di Varsavia, Adam Czerniakov, largamente giudicato sino allora nel modo più negativo. Ciò con il palese intento di favorire in questo scottante campo di studi un cambiamento di tendenza che risultasse consono con le accentuazioni ideologiche in atto nel paese e che puntasse a restaurare a posteriori l'ordine e l'autorità all'interno del ghetto.

Nel resto del mondo, d'altro lato, ed anche in Italia, sempre a partire dal 1967, si accentuava una controspinta che permetteva il sorgere d'una maggiore spregiudicatezza e pure lo sblocco d'un'opera come quella del Malvezzi. In [204] Le voci del ghetto, infatti, con una nettezza ed un'intensità mai raggiunte in altri libri apparsi nel nostro paese, senza ovviamente venir meno d'un ette nella condanna della perfidia nazista, si evidenzia il grande e severo tema della lotta di classe nel ghetto: di ricchi che continuano ad essere ricchi e dei poveri che precipitano nella più infame miseria, dei collaborazionisti e dei burocrati odiosi che vendono i loro fratelli, della inane, ma sublime volontà di resistere tra i pochi veramente consapevoli, della partecipazione popolare alla grande discussione sulla vita e sulla morte.

Il discorso, in verità appena abbozzato dalla documentazione antologica curata dal Malvezzi, proseguirà ora? Alla domanda è lecito - crediamo - dare una risposta affermativa: crediamo che siano maturate le condizioni per una ripresa ed un rilancio nuovo di queste ricerche sia fuori d'Italia, sia in Italia, tanto sulla catastrofe dell'ebraismo europeo, quanto sulle vicende degli israeliti in Italia nell'ultimo cinquantennio. E la carica contestataria che con tanta irruenza ha agitato le Università investendo istituzioni consacrate ed abbattendo luoghi comuni, potrà compiere una piccola, ma non irrilevante azione meritoria promuovendo in qualche giovane il desiderio di riallacciarsi alle notazioni, agli accenni, agli spunti dei quali s'è data qualche notizia allo scopo di avviare in questo campo, dove se ne verifichi la necessità, una vera e propria rifondazione. (67)

D'altro canto abbandonarsi all'ottimismo e sperare che non sia più necessario far ricorso a tutte le energie razio- [205] nali disponibili, appare eccessivo e fuori luogo: nel momento attuale, infatti, non mancano neppure torbidi rigurgiti, esercitazioni per recuperi nostalgici e minacce di rivalutazioni razziste. Le gerarchie dirigenti che tanto fermamente hanno tenuto in piedi sino adesso remore e steccati di ogni tipo, che hanno impedito di approfondire e di guardare la verità in faccia, hanno anche la precisa responsabilità dei fenomeni più recenti di smarrimento dei significati resistenziali, del balenante ribaltamento delle colpe che consuetamente si rivolgerebbe a danno dei soliti capri espiatori (i più deboli, gli ingenui, gli illusi), dei ritorni di fiamma antisemitiche tendono a crescere sugli equivoci della pigrizia che non si sono voluti disperdere, uniti agli inganni del conservatorismo di destra e dell'avventurismo di sinistra. 67 Non esistono in Italia, ad esempio, studi completi e convincenti sulla comunità ebraica di Roma, la principale nel nostro paese nè, tantomeno, sul momento culminante della sua storia recente, ovvero la deportazione del 16 ottobre 1943 e sul comportamento del suo gruppo dirigente in tale circostanza. Cfr. Robert Katz, Black Sabbath. The Politics of Assimilation, Mac Millan, 1969.

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Precisamente allo scopo di dare a ciascuno il suo, in sede storica come in sede politica, non pare si possano indicare altre armi che la serietà ed il rigore.

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Parte II

Vicissitudini dell'ebraismo europeo [209]

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A mo' d'introduzione: gli ebrei e gli Alleati nella seconda guerra mondiale (68)

Tra i molti aspetti del rapporto istituitosi tra israeliti ed Alleati durante la seconda guerra mondiale, desidero brevemente soffermarmi su di un lato del problema per più motivi di grande rilievo: si tratta di rievocare l'atteggiamento adottato dai gruppi che erano alla testa delle Comunità ebraiche nei vari paesi europei, poiche di fatto su tali gruppi gravò l'enorme responsabilità di dirigere i loro amministrati nel periodo in cui più violente infuriarono le persecuzioni antisemite nazifasciste e di organizzare il salvataggio anche prendendo contatto con gli Alleati.

Se si osserva lo svolgimento degli avvenimenti paese per paese, si nota subito che, per una determinata dinamica sociale, gli orientamenti dei ceti dominanti in ogni singolo Stato si riflettono con grande fedeltà nell'orientamento del nucleo dirigente la Comunità ebraica ivi esistente. Per la loro composizione di classe e per la difficoltà che ha una piccola minoranza legata essenzialmente da vincoli culturali o religiosi ad esprimere posizioni politiche o ideologiche divergenti da quelle dominanti, gli organismi rappresentativi ebraici si adeguano totalmente agli indirizzi prevalenti dei vari paesi. Così mentre in Francia, Gran Bretagna, [210] Belgio, Olanda, l'atmosfera esistente nelle Comunità israelitiche era nel 1939 di tipo liberale-democratico-parlamentare, come quella del luogo ove operavano, negli Stati fascisti (Germania e Italia) o semi-fascisti (Ungheria o Polonia) le Comunità israelitiche accentuarono gli aspetti burocratici ed autoritari della loro attività, da un lato offuscando i sentimenti antifascisti degli strati ebraici più popolari e avviandoli impreparati verso la catastrofe e dall'altro combattendo aspramente tutti i tentativi dei gruppi ebraici progressisti per organizzare l'autodifesa in collegamento con i vari movimenti europei di Resistenza.

Questo andamento ebbe risultati clamorosi ad esempio in Polonia, ove la Comunità ebraica era particolarmente numerosa. Qui, nel 1939, a causa delle prevenzioni diffuse da molto tempo dai dirigenti reazionari delle Comunità israelitiche, un notevole numero di ebrei, al momento della divisione del territorio polacco tra Germania nazista ed Unione Sovietica, scelse di rimanere nella zona occupata dalle truppe tedesche, votandosi casi, incoscientemente, ma ineluttabilmente, ai campi di sterminio. Sempre in Polonia, durante la tragica agonia del ghetto di Varsavia, vi fu il comportamento, ormai unanimemente

68 Intervento al II Congresso internazionale per la storia della Resistenza europea svoltosi a Milano nel marzo 1961 sul tema «La Resistenza europea e gli Alleati». E' stato pubblicato nel volume degli Atti, La Resistenza europea e gli Alleati, Lerici, 1962.

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giudicato di palese collaborazionismo, del Judenrat, episodio che dimostra come, per una tragica scala discendente, l'adesione a tesi reazionarie e di estrema conservazione di prima della guerra si trasformasse in ultimo in aperto collaborazionismo con il tedesco.

A questo punto occorre mettere in guardia dal cadere in schematismi anche se il presente brevissimo intervento, proprio perché molto succinto non può non dare un'impressione di genericità. Tuttavia, prescindendo da ogni approfondimento a causa delle limitazioni imposte dal tempo ristretto, sia concesso sostenere che è possibile rilevare [211] Comunità per Comunità, le direttive assunte da ogni singolo gruppo dirigente. Tali direttive sono perfettamente individuabili e ricostruibili, anche al di sotto dei mascheramenti ideologici e delle mimetizzazioni più o meno occasionali imposte dalle circostanze nei territori governati dai fascisti. Intendiamo riferirci come esempio ad un altro episodio famoso, a quello di Rudolf Kastner nella Budapest del 1944, personaggio che, per una serie di vicende si trovò a dover assumere gravissime incombenze e che nonostante militasse formalmente in un partito a tendenza socialdemocratica, secondo le dichiarazioni di Eichmann «avrebbe potuto essere un ottimo ufficiale delle S.S.» (dichiarazione riportata dal quotidiano israeliano Kol Haam del 28 novembre 1960).

All'interno dei gruppi ebraici si scatenò dunque, nei paesi controllati dai nazisti, una polemica assai aspra: gli ebrei antifascisti si schieravano per la Resistenza come tutto il resto della popolazione antifascista; gli ebrei, più conservatori, più chiusi, che da lunghi anni avevano accettato di seguire la politica fascista rimasero legati sino all'ultimo a tale posizione.

Ciò in Italia, per un complesso di ragioni sociali, economiche e storiche lo si vide benissimo, a partire dal sorgere del fascismo, nel 1922, sino al 1939-40, cioè anche dopo l'inizio ufficiale delle persecuzioni razziali, sino all'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Non solo i gruppi dirigenti ebraici operarono d'accordo con il fascismo (ciò era in una certa misura inevitabile), ma non fecero nulla o quasi per mettere in guardia la inerme e impreparata massa ebraica contro gli imminenti terribili pericoli come se ogni «allarmismo», ogni richiamo alla realtà fosse considerato più dannoso e pericoloso della stessa azione antisemita dei fascisti.

Così mentre nel 1931 veniva decretata una legge per [212] l'istituzione delle «Unione delle Comunità Israelitiche Italiane» tendente ad imbrigliare ogni possibilità d'autonomia per il gruppo ebraico, sono segnalabili molti episodi che dimostrano il comportamento equivoco tenuto verso il governo fascista da molti dirigenti ebrei: ad esempio nel 1935 una missione ebraica venne inviata in Gran Bretagna per fare delle pressioni contro l'applicazione delle Sanzioni nei confronti dell'Italia che conduceva la guerra imperialistica in Abissinia; in seguito, conclusosi il conflitto, venne inviata una commissione composta da eminenti personalità ebraiche nella colonia al fine di «fascistizzare» gli ebrei colà residenti. Degna di nota è anche la posizione adottata in quegli anni dagli ebrei revisionisti (sionisti di estrema destra), che avevano acquistato per l'appoggio del regime una grande influenza: essi svolsero un'intensa propaganda affinché l'Italia fascista subentrasse alla Gran Bretagna nell'amministrazione del Mandato sulla Palestina. I revisionisti operavano in quegli anni (1934-1938) in accordo con il noto giornale La Nostra Bandiera, attorno al quale, con il sostegno dichiarato del regime mussoliniano, si raccoglievano i peggiori ebrei fascisti con lo scopo di «conquistare»

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e fascistizzare le Comunità israelitiche italiane ufficialmente ed in misura più intensa di quanto non fossero già.

Naturalmente accanto a questi episodi vergognosi e rattristanti ne sono registrabili molti altri che dimostrano come in molti ebrei italiani, cosi come in molti italiani cattolici o protestanti o senza religione, albergassero profondi sentimenti antifascisti ed un desiderio di ribellione e di lotta contro l'infame regime mussoliniano. Tra i tanti che militarono nei vari partiti clandestini, ne ricorderò uno solo, il martire partigiano Emanuele Artom, perché il suo vigoroso comportamento di chiara critica al fascismo si manifestò molto prima dell'inizio delle persecuzioni razziali e [213] perché egli dimostrò con la sua azione e la sua parola che i dirigenti della Comunità di Torino, ove egli abitava, avrebbero potuto, se lo avessero voluto, assumere un atteggiamento meno ambiguo, più dignitoso, in una parola di non collaborazione con i fascisti. Comunque anche a causa della diseducazione politica praticata per tanti anni dalla maggioranza dei dirigenti delle Comunità israelitiche italiane, quando si sviluppò il movimento della Resistenza non vi fu in Italia nessun gruppo partigiano che vi partecipasse in quanto composto da ebrei. Gli ebrei italiani si inserirono nelle varie formazioni partigiane (G. L., Matteotti, Garibaldi) individualmente su di un piano di piena ugualianza, senza che si prospettasse la esigenza d'alcuna separazione o suddivisione. Invero mentre un notevole numero di ebrei per lo più facoltosi aveva potuto riparare in Svizzera, il nucleo ebraico italiano, abbandonato dai suoi dirigenti, si orientò istintivamente verso il movimento partigiano e trovò fraterno aiuto e difesa oltre che nei reparti partigiani veri e propri, anche in quel vastissimo movimento popolare di rivolta contro i fascisti ed i tedeschi che si sviluppò nell'Italia occupata: l'aiuto prestato agli ebrei perseguitati dai poveri contadini delle sperdute vallate, dai preti delle città e dai parroci dei villaggi, da intellettuali e da operai, è una delle pagine più gloriose della Resistenza italiana e non è esagerato affermare che questo patto di solidarietà, suggelato dal sangue dei fucilati, dei deportati e dei torturati è stato una delle pietre su cui l'Italia attuale ha potuto ricostruirsi.

Di contro, come è stato esattamente rilevato dalla relazione del Prof. Venturi, è possibile registrare il fallimento della classe dirigente italiana anche nel piccolo settore dell'ebraismo italiano; come i quadri dello Stato e dell'Esercito si dimostreranno totalmente incapaci all'epoca del [214] l'armistizio (8 settembre 1943) a trattare con gli Alleati, così anche i dirigenti della Comunità israelitica diedero gravi prove di imprevidenza, impreparazione e di visione inadeguata della realtà.

Il problema dei rapporti tra ebrei ed Alleati, è ancora in pratica tutto da studiare ed analizzare. Indubbiamente essi furono densi di incomprensioni e di errori cosichè ben poco venne fatto per interrompere il massacro. Tuttavia anche di fronte alla strage senza pari degli ebrei sotto il regime di Hitler, dobbiamo conservare tutto il nostro sangue freddo di studiosi: per ricordare e vendicare i morti — per evitare che mai più certi fatti possano verificarsi, è necessario adoperare tutti i mezzi di indagine storica, ricercare i documenti, analizzare ogni avvenimento, raddoppiando l'attenzione e raffrenando i nostri sentimenti. E' questa l'unica maniera per inquadrare le cose; ogni abbandono al genericismo, ogni tendenza a raccogliere elementi diversi e contrastanti in un'unica cornice, non può che allontanarci dal sentiero dell'indagine seria e costruttiva.

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Stampa clandestina e contrasti sociali nel ghetto di Varsavia durante la seconda guerra mondiale (69)

Sulla scorta di alcune interessanti raccolte di studi edite recentemente (70) abbiamo avuto occasione di venire a conoscere con una certa precisione, il modo con cui si ponevano alcuni problemi di esistenza e di lotta per gli ebrei rinchiusi dai nazisti nel ghetto di Varsavia. Ci sembra che possa essere utile anche per il pubblico progressista italiano in particolare, riassumere le notizie sugli aspetti più caratteristici dell'azione svolta a mezzo stampa dai gruppi più avanzati e socialisti tra le oltre 400.000 persone imprigionate nel quartiere ebraico della capitale polacca. A quindici anni dalla distruzione del ghetto sembra infatti possibile e doveroso tentare di descrivere con maggiore precisione la vicenda ed è da ritenere che pure il socialista italiano possa avere una sincera e commossa curiosità di sapere qualche cosa dell'attività clandestina condotta dai compagni ebrei di Varsavia e del tipo di lotta di classe in cui si trovarono impegnati. Va poi anche ricordato che l'esame su questo grosso gruppo sociale è per parecchi motivi esemplare di quanto capitò in altri ghetti e città più piccole e che perciò la conoscenza che si può avere di esso illuminerà tutta una tragedia assai più ampia.

E' indispensabile riassumere in qualche riga come si era andata determinando la situazione in quegli anni. [216] Nell'estate del 1940 i nazisti erano riusciti a completare il piano di concentrazione in Varsavia di quasi mezzo milione di ebrei polacchi; da allora in poi incominciarono le deportazioni nei campi di sterminio che ridussero via via la popolazione, già decimata dalla fame e dalle malattie, a circa 50.000 individui all'inizio del 1943. Nel gennaio di tale anno, allorchè, deciso il trasferimento delle fabbriche belliche in cui gli ebrei del ghetto erano obbligati a lavorare, si comprese che la «chiusura» del ghetto stesso era ormai prossima, scoppiò la rivolta accanita degli ultimi superstiti da lungo tempo preparata. Nell'aprile, con la totale distruzione del quartiere ebraico, si conclude la storia del ghetto di Varsavia.

Ciò che si desidera esaminare è, perciò la vita che si svolge per due anni dentro alla lunga cerchia di mura pressoché invalicabile: vita organizzata giacché esisteva

69 In Problemi del socialismo, n. 2, febbraio 1959. 70 Yad-Washem Studies on the European ]ewish Catastrophe and Resistance - I-II Jerusalem - 1957 - 1958, edited by Benzion Dinur and Shaul Esh.

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una autorità ebraica convalidata dai nazisti, il Judenrat (Consiglio ebraico), che riceveva gli ordini e si preoccupava di attuarli, imponeva e riscuoteva tasse, disponeva di un corpo di polizia composto da ebrei ecc., esistevano le grosse industrie di materiale militare ed armi di cui si è già accennato, esistevano partiti e movimenti organizzati per la resistenza all'oppressione che pubblicavano giornali clandestini e facevano riunioni nascoste ed incitavano le masse inebetite dalle privazioni e disperate a tener moralmente duro ed a sforzarsi di non perdere la loro dignità umana.

Noi, però, tralasceremo di rievocare la rivolta conclusiva, giacchè il discorso diverrebbe eccessivamente esteso; ci accontenteremo, invece, di seguire la polemica politica e sociale condotta nel periodo '40-'42 dalle correnti di sinistra, sulla base specialmente del saggio di Joseph Kermish «On the Underground Press in the Warsaw Ghetto» che compare nel primo fascicolo degli Studi citati. [217]

Ma prima di venire a parlare del materiale documentario su cui si può oggi ricostruire una storia del ghetto di Varsavia è interessante ricordare la via per la quale si è venuti in possesso di tale documentazione indispensabile. La fonte principale da dove si attinge attualmente è l'«archivio segreto» istituito a partire dal novembre 1940 all'interno del ghetto stesso, e ritrovato miracolosamente intatto, dal dott. Emanuele Ringelblum. Il Ringelblum, storico insigne ucciso dai tedeschi a soli 44 anni in un rifugio sotterraneo, che aveva già composto opere di valore come «La storia degli ebrei di Varsavia» e «Gli ebrei polacchi nella insurrezione di Kosciuzko nel 1794», dopo essere riuscito a scappare con l'aiuto del movimento di resistenza dal campo di concentramento di Treblinka, si era rifugiato appunto nel ghetto di Varsavia, dove immediatamente si era accinto ad un grande lavoro di ricerca e di archiviazione di documenti, memorie, diari, lettere che potessero illuminare i posteri sulle condizioni del ghetto in quel periodo.

Gli Archivi Ringelblum, dal nome del loro fondatore e direttore, costituiscono così una imponente raccolta di documenti dell'autorità tedesca e del Judenrat, di dozzine di diari e giornali clandestini, di centinaia di rapporti e testimonianze personali, il tutto composto si può dire nel momento stesso della catastrofe; in tal modo quello che era il più grande centro ebraico europeo ci ha lasciato la. più completa testimonianza dell'esistenza ebraica sotto la persecuzione e dei sovrumani sforzi per sfuggirvi.

E passiamo a scorrere i principali fogli illegali che circolavano a centinaia di copie nel ghetto medesimo. La stampa clandestina era di intonazione prevalentemente socialista e quindi, a causa di questa impostazione ideologica, quando se ne offriva l'occasione non esitava a [218] prendere posizione contro le dolorose differenziazioni di classe e le discriminazioni sociali tra gli ebrei, mettendo in evidenza il tragico contrasto tra la lussuosa maniera di vivere di una piccola minoranza e lo stadio di inedia in cui si dibatteva la maggioranza della gente.

Le correnti socialiste che diffondevano la maggior quantità di materiale si possono far risalire a tre: i sionisti-socialisti (e particolarmente i movimenti giovanili), gli aderenti al Bund ed i comunisti.

Le pubblicazioni del primo tipo avevano specialmente lo scopo di rivolgersi all'animo dei lettori per rincuorarlo e per dare loro una guida spirituale ed intellettuale. Tipico di questo atteggiamento è la esortazione del «Yunge Gvardye» «<Giovane Guardia») a non dimenticare la propria educazione anche mentre si

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conduceva l'attività partigiana. Secondo gli stessi indirizzi, volti a contrastare la depressione morale e lo smarrimento, erano le parole d'ordine di «Plomienie» «Fiaccole»), organo dell'Hashomer Hazair ed «El Al» «Verso l'alto»). Un altro cospicuo numero di pubblicazioni era edito dal movimento sionista «Poalei Zion Smol» «Operai di Sion di sinistra») alla testa del quale troviamo Mordechai Tennenbaum e Izchak Zuckerman. I titoli di alcuni dei loro bollettini sono «Proletarisher Gedank» («Pensiero proletario»), «Yugent Ruf» («Grido della gioventù»), «Awangarda Mlodziezy» («Giovane A v a n g u a r d i a», in polacco), «Nasze Hasla» («Parole nostre», pure stampato in polacco) ecc.

Numerosi sono i giornali bundisti, tanto che non è possibile citarli tutti. Vale la pena di ricordare che, con tutta probabilità, la stampa di questa tendenza fu l'unica, tra gli ebrei, a non interrompersi completamente per la durata dell'intera guerra: infatti anche durante i bombardamenti del 1939, nonostante l'interruzione dell'energia elet- [219] trica, continuò ad uscire il «Folks Tzaitung» («Giornale del popolo»); in seguito comparvero le riviste mensili e settimanali «Bollettino», «Der Vekker» («L'animatore»), «Di Yugent Shtimme» («La voce della gioventù»), «Der Glok» («La campana»), «Za Nasza i Wasza Wolnosc» («Per la nostra e la vostra liberà») ecc. L'ultimo numero del «Bollettino», organo ufficiale del partito, comparve nell'aprile del 1943, immediatamente prima dello scoppio della rivolta. Ma già nel febbraio del 1944 viene diffuso nella parte «ariana» della città il giornale bundista in lingua polacca «Wewnetrzny Biuletyn Bundu» («Bollettino interno del Bund»).

L'organo dei comunisti era il settimanale «M o r g e n F r a i » («Alba della libertà»). Questo giornale, nel dicembre del 1941, divenne quotidiano e, fondamentalmente, diffondeva le notizie captate per radio. Il 10 dicembre 1942 diede pure l'annunzio della creazione del Partito del lavoro polacco.

Altri mensili erano «Zagiew» («La fiaccola»), portavoce di un gruppo di ebrei assimilazionisti, «Przeglad Marksistowski» («Rivista marxista»), edita dai trotskisti e «Ghetto Podzienne» («Il ghetto sotteraneo») che era pubblicato irregolarmente dagli ebrei membri del partito socialista polacco.

Logicamente in molta parte tutti questi fogli erano dedicati a descrivere lo sviluppo delle operazioni belliche, all'esame dei rapporti tra ebrei, polacchi e tedeschi, alla descrizione della attività di ciascun raggruppamento politico, alla denuncia delle atrocità naziste, a tener alto il morale delle masse indicando i sintomi della inevitabile sconfitta germanica. Ognuno di questi punti meriterebbe di essere studiato. Tuttavia riteniamo valga la pena di accennare ad un problema, meno descritto finora, ma che risulta essere [220] di primo piano attraverso le pagine di queste pubblicazioni: gli antagonismi di classe tra gli ebrei stessi all'interno del ghetto.

La lotta di classe nasceva dal fatto che, se da un lato la guerra aveva prodotto una enorme distruzione di ricchezze, era, per altro, rimasto uno strato, sia pure più sottile, delle antiche classi benestanti. Inoltre era emerso un nuovo ceto di speculatori, contrabbandieri e truffatori che aveva acquistato benessere e potenza dai traffici illegali sia con ebrei che con tedeschi; ad essi si aggiungeva una corte di informatori, ricattatori, depravati che viveva per mezzo di un lavoro degno degli sciacalli.

Chi soffriva maggiormente erano il gran numero degli indigenti, privati di ogni possibilità di far valere diritti e gli esiliati ed i profughi di altri territori che si accalcavano in attesa di un sussidio intorno alle sinagoghe, agli edifici pubblici ed

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agli ospizi di carità. Moltissimi bambini furono trovati morti per le strade, mentre gli orfani aumentavano continuamente. La mancanza di cibo era tale che non solo si divorarono topi e gatti, ma sono anche accertati casi di cannibalismo. Insomma la mortalità era salita, nel 1941, al 40 %.

Su tutto ciò era sovrapposto il Judenrat che si appoggiava con strette relazioni ai gruppi facoltosi ed era da essi sfruttato per ottenere favori e per essere esentati dalle deportazioni.

La stampa progressista clandestina aveva perciò molti motivi per scagliarsi contro la tragica contraddizione tra fame e sazietà, tra vita e morte.

Una delle prime misure che i socialisti chiedevano era la requisizione dei night clubs, delle case da gioco e dei locali di divertimento per fame locali atti ad alleviare un poco la terribile congestione negli alloggi dei quartieri po- [221] veri. «Der Bullentin» del dicembre '41, riprendendo un articolo di un giornale clandestino polacco intitolato «La danza della morte», scriveva: «Nelle strade si possono vedere scheletri vi venti coperti di cenci fianco a fianco con ricchi ebrei che pagano 29 zloti per una tazza di caffè o per un bicchiere di vino in un elegante locale. Nel dancing «Meril» si è svolta non molto tempo fa una competizione di danze: il prezzo più alto era 1900 zloti. Cinquanta coppie presero parte alla competizione. La danza dei fantasmi, in verità!».

Ed il comportamento della incosciente minoranza privilegiata, arricchitasi alle spalle degli altri ebrei, era tanto più vergognoso inquantochè favoriva la politica nazista di portare la divisione tra gli stessi perseguitati. I nazisti, per di più, si giovavano di tali sperperi per nascondere alla parte «ariana» di Varsavia la reale situazione esistente all'interno del ghetto; per ottenere ciò essi, ad esempio, fotografavano e diffondevano i manifesti che annunziavano i festeggiamenti per il carnevale.

Particolarmente violenta era la critica rivolta dalla stampa clandestina contro il sistema di tassazione instaurato dal Judenrat, sistema che agevolava apertamente i pochi possessori di grandi somme, giacchè era basato sulle tasse indirette. La «Y u g e n t Shtimme» del settembre 1941 attaccava decisamente i metodi di imposte calcolati in base alle tessere del pane. Il «Der Vekker» usando i dati statistici pubblicati dal bollettino ufficiale del Judenrat dava le seguenti cifre circa i proventi che tenevano in piedi il Consiglio ebraico:

tassazione diretta 805.000 zloti; contributi di trasferimento 412.000 zloti; quote per ospedali ed epidemie 900.000 zloti; tassa sulle carte annonarie 4.567.000 zloti. [222]

Dal che si vede chiaramente quale peso avesse l'imposta sulle tessere per il cibo pagata dalla grande massa dei poveri. Proteste analoghe levava il «Proletarisher Gedank» del febbraio '42.

Gli elementi poveri soffrivano duramente anche per il cattivo funzionamento del modo di distribuzione dei generi tesserati. «Il razionamento dei generi alimentari è una palese ingiustizia - scriveva il Bollettino nel gennaio del '41. - Secondo i tagliandi gli ebrei dovrebbero ritirare le loro razioni (metà della razione data ai non ebrei). Ma passano settimane senza che le razioni vengano distribuite o perchè i tedeschi non danno il permesso di trasportarle o perchè carogne polacche

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ed ebraiche fanno con esse ogni tipo di traffici che causano l'esaurimento fisico delle masse ebraiche».

Su tali penose questioni «Der Glok» scriveva nel giugno 1942: «Questa banda di sciacalli che parla così bugiardamente sui bimbi ebrei e sulle afflizioni ebraiche, sta rubando e succhiando il sangue delle masse del ghetto di Varsavia».

Il primo maggio 1941 «Morgen-frai» scriveva, rivolgendosi agli sfruttatori: «Voi siete nostri nemici, voi siete dallo stesso lato dei nostri mortali avversari. Noi non possiamo che disprezzarvi ed odiarvi».

«Quando verrà il gran giorno della resa dei conti, essi dovranno dare il resoconto per tutti i loro atti di ingiustizia ed oppresione verso i poveri, per il volgare egoismo dei ricchi ebrei nell'ora terribile della distruzione e specialmente per aver fatto così poco per salvare le masse ebraiche di Varsavia della morte», questo era il discorso ricorrente nei vari giornali progressisti clandestini di tutte le tendenze. Ed il loro sdegno era davvero sacrosanto perchè ogni opera di beneficienza, fondata in realtà sulla pura e sem- [223] plice elemosina, era piena di ingiustizia: non si deve giudicare corrotto e vizioso il sistema di aiuto che ricava le elargizioni ai poveri con una tassa che agisce proprio sulle carte annonarie che sono l'unico bene che gli stessi poveri da beneficare possiedono?

Da quanto si è accennato e dal molto che resterebbe da dire cvedo che si possa trarre la conclusione che lo scopo principale che i dirigenti del Judenrat si ponevano era quello di mantenere «calme» le masse, di lasciarle nella ignoranza del destino che le attendeva e di posporre al mantenimento dell' «ordine» e dalla quiete i tentativi di salvataggio. E la massa del popolo adempì disciplinata alla ingiunzione di morire. Toccava ai movimenti politici di opposizione, con alla testa i diversi gruppi socialisti, dare dimostrazione al mondo che era possibile superare discordie e difficoltà enormi e offrire un esempio di cosciente coraggio che doveva stupire gli stessi nazisti.

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Un diario clandestino Notes from the Warsaw Ghetto (71)

Il libro Notes from the Warsaw Ghetto di Emmanuel Ringelblum, edito da J.Sloan, (McGraw-Hill Book Company, Inc., New York, 1958) è la più ampia raccolta finora pubblicata negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale dei diari di E. Ringelblum, l'organizzatore principale degli archivi segreti del Ghetto di Varsavia. Si tratta cioè della traduzione in inglese di tutto quanto è apparso di questo autore in Polonia ed il presente testo, pur non essendo ancora l'edizione completa dei suoi ultimi scritti, permette di formarsi un'opinione sufficientemente precisa del grande storico assassinato dai nazisti, offrendo la possibilità di studiare un materiale assai più ricco e suggestivo dei brani isolati e degli estratti che sono comparsi in questi anni qua e là. Questa ampiezza - gli appunti partono dal gennaio 1940 ed arrivano al dicembre 1942 - consente dunque una maggiore comprensione, sia dell'opera letteraria del Ringelblum, sia della vicenda del ghetto: cospicuo è quindi il merito di Jacob Sloan che ha sentito la necessità di uscire dalla raccolta commemorativa di tipo antologico per sforzarsi di offrire qualcosa di molto vicino al documento storico vero e proprio, al documento in base al quale è possibile ricostruire gli avvenimenti passati. E' vero che una ricognizione e una descrizione esauriente di quanto è [225] stato pazientemente ed eroicamente raccolto negli archivi clandestini mancano tuttora, ma è già un grosso progresso poter prendere visione del più importante lavoro personale di colui che fu l'animatore ed il coordinatore di quella impresa straordinaria.

Mi sembra, d'altra parte, cosa evidente che pure in Italia sarebbe utile approfondire gli studi in questo settore e passare dal vago e dal generico al documentato. Giova a questo proposito ricordare lo strano destino che pare debba avere il volume Ricorda cosa ti ha fatto Amalek di A. Nirenstajn (ed. Einaudi). Esso infatti, invece di risvegliare più acute curiosità e spingere all'approfondimento, invece di svolgere azione lievitante, viene di solito considerato l'ultima parola sull'argomento, non quindi come un ragguardevole lavoro esemplificativo quale è in realtà, ma come uno studio conclusivo, che ha appianato i dubbi e risolto le incertezze. Ora, se indubbi sono alcuni meriti del volume, d'altra parte permane l'esigenza di completare le ricerche sulla storia delle persecuzioni antisemite naziste ed in special modo su quello che ne è forse l'episodio più significativo, cioè sulla storia della creazione, della rivolta e della distruzione del ghetto di Varsavia.

71 In Il Movimento di Liberazione in Italia, n. 56, luglio-settembre 1959.

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In verità in altri paesi, ad esempio in Polonia o in Israele, gli studi in questo campo sono, per ovvi motivi, piuttosto avanzati. Il metodo di lavoro si è specializzato e le indagini vengono condotte con notevole sistematicità. Ciò non toglie che ancora molto vi sia da fare e che anche da noi si possa uscire dall'informazione convenzionale per recare un contributo alla soluzione di alcuni almeno dei problemi ancora controversi o non approfonditi. Come anche il recente Convegno storiografìco sulla Resistenza di Genova ha dimostrato, nonostante le molte difficoltà, in Italia si sono fatti seri progressi, rispetto ad altre nazioni, [226] nello studio dell'opposizione al fascismo; se si intensificassero queste indagini anche per quanto riguarda le vicende dell'antifascismo e dell'antinazismo al di fuori del nostro paese, si potrebbe certamente collaborare in maniera apprezzabile ed originale al rinvigorimento generale di tali ricerche.

Mi sia dunque concesso considerare l'appello che esce dalle pagine di Ricorda cosa ti ha fatto Amalek per quello che veramente vuoi significare: si risvegli !'interessamento di chi non sa oppure ha dimenticato, si dedichi a più accurati studi chi già possiede una certa conoscenza in materia. (72)

Quali sono gli argomenti che ricorrono più frequentemente negli appunti vergati dal Ringelblum rapidamente, ma con l'intuito dello storico di professione? Credo che nel complesso sia possibile individuarne alcuni, che divengono in realtà altrettanti filoni da estendere e precisare, altrettante indicazioni e suggerimenti in torno a questioni che il testimone Ringelblum ha ritenuto meritevoli di essere proposte all'attenzione dei posteri.

Sostanzialmente, lo studioso polacco si occupa dell'intrecciarsi dei rapporti tra gli esseri umani sottoposti alla nuova e terribile condizione di prigionia nel ghetto: rapporti tra Ebrei, Polacchi e Tedeschi, tra perseguitato e persecutore, tra collaborazionisti e resistenti, tra delinquenti e uomini incorruttibili, tra ebreo ricco ed ebreo povero, tra sazio ed affamato, tra massa spinta all'inania e alla disperazione e dirigenti calmi e sicuri di sé. Lo scrittore che va annotando gli appunti è affascinato dall'enorme varietà di tipi e figure che si dibattono tra le mura del ghetto sotto la stretta nazista e che cercano tutte le vie e tutti i mezzi [227] - eroici o ingegnosi o abietti - per salvare la vita; con note concise e penetranti è proprio questo agitarsi per la sopravvivenza che l'A. vuoi cogliere e far risaltare. Così, mentre per un verso il Ringelblum annota tutti gli avvenimenti, tutti i sintomi, tutte le voci misteriose e contradditorie che indicano le tragiche tappe del procedere verso la catastrofe (la brutalità dei nazisti diviene sempre più aspra, i provvedimenti contro i perseguitati sempre più drastici), d'altro canto egli riporta i pensieri, i discorsi, i motti di spirito di questa povera umanità, tentando di individuarne la psicologia, studiandone le reazioni ed il comportamento.

Il pensiero sottinteso dello storico Ringelblum doveva essere all'incirca questo: è indispensabile tramandare ogni informazione, ogni dato che possa domani dimostrarsi utile a ricostruire questo periodo di terrore e di morte. Con questa prospettiva, ad esempio, vengono seguiti minuziosamente lo sgomento ed il travaglio che piombano su migliaia di famiglie allorché si comincia a diffondere la notizia che gli ebrei verranno raccolti in un apposito quartiere. Subito gli abitanti delle vie poste in prossimità dei confini ancora imprecisi del ghetto futuro indicono collette per procurarsi i mezzi onde corrompere i tedeschi e indurli a spostare più in

72 Sulla parabola ideale, invero squallida, dell'A. del libro qui citato, dr. Enzo Enriqnez Agnoletti nel Ponte, n. 2-3, 28-II - 31-III, 1973.

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là il limite di demarcazione. Poi comincia la fatica di trovare un nuovo alloggio o di riuscire a cambiare il proprio con quello di qualche «ariano» costretto ad abbandonare il suo situato entro il ghetto: vi sono degli «ariani» che speculano spaventosamente sulla scarsità di appartamenti nel ghetto per procurarsene di molto migliori nei quartieri «liberi». Infine, la Commissione alloggi ebraica nominata dai nazisti complica ulteriormente le cose e aiuta ben poco ad appianare il caos originato da questa trasmigrazione di decine di migliaia di persone, molte radicate da anni e anni nel loro quartiere, altre addirittura profughe dalla provincia, [228] ancora più sbandate e sofferenti, senza riparo adatto nei duri inverni del nord. Ora queste contese intorno all'alloggio non sono viste in maniera fine a se stessa. Al contrario il Ringelblum vi si sofferma perché attraverso lo studio di ciascun problema ci si può rendere conto del modo di pensare e di agire, nel turbine della guerra e delle persecuzioni, dei timidi borghesi gettati improvvisamente sul lastrico; rimanere senza casa è fenomeno tipico, che è giusto prendere in considerazione per ricomporre un ambiente e far rivivere un'atmosfera.

In questa e nelle altre vicende risplende con chiarezza la posizione ideologica del Ringelblum alla quale mi sembra opportuno accennare brevemente. Ci troviamo di fronte ad una personalità profondamente vicina alle masse popolari, sensibile alle loro aspirazioni e alle loro sofferenze. Egli non aveva alcuna stima per le autorità ufficiali ebraiche, incapaci di comprendere le esigenze popolari e impegnate con troppo accanimento a proteggere la piccola cerchia dei loro parenti ed amici; aveva piuttosto una certa simpatia per i «re dei ghetti» o almeno per alcuni tra essi, cioè per quegli strani personaggi, a volte di umilissima origine, che con traffici, borsa nera e banditismo riuscivano a organizzare una loro «corte» e a dominare effettivamente la vita pubblica della società del ghetto. Grazie a questi individui, degni di una «corte dei miracoli», il contrabbando assunse proporzioni ragguardevoli e garantì l'importazione di derrate alimentari e di medicinali nel ghetto affamato. Tali «monarchi», per la loro indole popolaresca e la loro stravaganza, non di rado avevano un atteggiamento più generoso, meno formalistico e in definitiva più schietto dello stesso Judenrat. La posizione equilibrata ed aperta del Ringelblum trova una conferma nel giudizio che egli esprime sugli Ebrei convertiti, i quali non sono affatto risparmiati dai nazisti e [229] vengono avviati ben presto anch'essi al ghetto. L'estensore delle note, "non simpatizza certo per costoro, chiusi in una loro altezzosità e in una sorta di orgoglio e di sentimento di superiorità nei confronti degli altri Ebrei, dai quali si sforzano di distinguersi; ma cerca di comprendere pietosamente la loro condizione psicologica particolarmente difficile e impreveduta.

E' però fondamentalmente su due questioni che il Ringelblum ritorna di continuo, dimostrando chiaramente di ritenerle della massima importanza; esse sono il problema dei rapporti tra i Polacchi non ebrei ed i Polacchi ebrei e il problema dei rapporti tra la popolazione ebraica e i dirigenti ebrei del ghetto di Varsavia nominati dai nazisti per mantenere regolata e ben ordinata l'amministrazione di quella comunità di quasi mezzo milione di abitanti.

Purtroppo ci manca una conoscenza sufficiente dei rapporti tra la minoranza ebraica ed il resto del popolo polacco antecedentemente alla guerra, informazione, questa, che non doveva mancare al Ringelblum giacché di fatto vi fa spesso riferimento, poiche gli sviluppi del periodo 1939-45 si svolgono sulla base di una determinata situazione preesistente.

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Comunque, è desiderio dell'A. mettere in chiaro come l'atteggiamento dei Polacchi non fosse omogeneo: a seconda dei luoghi e dell'epoca e delle persone, diverso fu il sentimento verso gli Ebrei, ne vi fu sempre e solo dell'antisemitismo da parte della popolazione polacca; tale stato d'animo dipese piuttosto da una serie di fattori storici, dall'educazione e dalla condotta tenuta nel passato dagli stessi Ebrei. Il Ringelblum, insomma, si sente moralmente impegnato a scoprire le possibilità di un'unione di tutta la gente polacca, prescindendo dalla fede religiosa di ognuno, contro l'invasore nazista. Odi secolari, nazionalismo, super- [230] stizione ostacolano questa necessaria unificazione, ma, ciononostante, è possibile trovare sintomi ed episodi concreti che dimostrano come l'idea di questo superiore dovere andasse facendosi strada: «... 25 agosto 1940: Ho sentito che quando Posen fu conquistata e gli Ebrei scacciati, la popolazione polacca si accompagnò ad essi, specialmente ai vecchi, con le lacrime agli occhi. A Lodz, invece, e in altri luoghi non vi fu segno di alcuna simpatia da parte dei Polacchi verso gli Ebrei quando vennero rinchiusi nel ghetto... Ottobre 1941: Stampa illegale polacca viene distribuita nel ghetto un poco alla volta. Coloro che la importano sono in parte poliziotti polacchi, spazzini... Gennaio 1942: Le vittorie russe a Mozhaisk e a Kholm hanno prodotto per le strade il detto: "Ebrei, non temete! Polacchi, gioite! Tedeschi, fate le valigie! "». Questi veloci e frammentari appunti sono palesemente tesi ad inquadrare le nuove relazioni di solidarietà che troppo lentamente, ahimé, vanno sorgendo, pur nel permanere di tragiche e penose incomprensioni.

V'è poi l'altra questione: lo scontro tra la mentalità ed il modo d'agire delle autorità ebraiche scelte dai nazisti (essenzialmente si tratta del Judenrat o Consiglio ebraico) e i sentimenti delle centinaia di migliaia di esseri umani a loro sottoposti e languenti nella miseria più nera.

E' questa - del «governo ebraico» nei ghetti dell'Europa orientale sotto il tallone nazista - una questione molto dibattuta, ma tutt'altro che effettivamente risolta, e che meriterebbe perciò una lunga disamina. (73) [231]

Per quanto concerne il Judenrat di Varsavia, sembra accertato che esso si comportò molto male, allineandosi al collaborazionismo, favorendo i facoltosi ed innerendo sui meno difesi. Ritengo che anche questo aspetto della situazione sia legato alle condizioni sociali dell' anteguerra, perché deriva abbastanza direttamente da interessi di classe da lungo tempo costituiti, ed è assai significativo che il Ringelblum in ciò sia perfettamente d'accordo con le critiche rivolte al Judenrat dai gruppi di sinistra. Il Ringelblum riporta la seguente battuta che bene sintetizza il sentimento comune: «Horowitz (Hitler) chiese al Governatore Generale (Hans Frank) che cosa avesse fatto contro gli ebrei. Il Governatore menzionò una serie di calamità che aveva inflitte, ma nessuna era sufficiente per Horowitz. Alla fine il 73 Di recente è sorta una polemica in Israele a proposito del libro Kovno ebraica nella sua distruzione scritto da L. Garfonkel, membro del «Consiglio degli Anziani» di tale città (così si chiamava il Judenrat locale). Nel recensire questo volume sul quotidiano Kol Haam del 4 aprile 1959, S. Amram afferma tra l'altro: «Alla popolazione del ghetto furano imposte in ogni tempo due condizioni: da un lato di dover lavorare a favore dello sforzo bellico tedesco conseguente all'attacco contro l'URSS e di dover svolgere un'attività economica per automantenersi e dall'altro di dover subire l'invio ai luoghi di sterminio. La costituzione del «Consiglio degli Anziani» (Judenrat) fu espressione obiettiva e soggettiva di tali condizioni. E tutte le questioni morali e di coscienza delle quali racconta Garfonkel nel libro e derivanti da tale situazione sono soltanto manifestazione di quelle medesime contraddizioni che egli e gli altri membri della rappresentanza ufficiale del ghetto di Kovno conobbero senza volerle ammettere. Contraddizioni sgorganti dall'obbiettiva collaborazione con la politica nazista».

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Governatore incominciò ad enumerare dieci provvedimenti: "Primo - disse - ho impiantato una Organizzazione sociale ebraica di Mutuo soccorso". "E' sufficiente - rispose Horowitz - voi non avete bisogno d'altro"».

Nel dicembre 1941 Ringelblum scriveva: «Sulle porte di diversi appartamenti vi sono i cartelli di varie organizzazioni germaniche che si sono appropriate dei locali per i loro Ebrei. In genere i Tedeschi intervengono costantemente per Ebrei particolari. Tra l'altro questi provvedimenti sono efficaci». Espressiva descrizione questa, alla quale molte altre se ne potrebbero aggiungere, dei contatti istituitisi tra nazisti ed Ebrei collaborazionisti, contatti che minarono [232] le possibilità di costituire una posizione unitaria nella massa ebraica contro gli sterminatori e di promuovere una rivolta generale, e favorirono la diffusione della rassegnazione, dell'attesismo, dello sfacelo spirituale.

Confrontando le note del Ringelblum con altro materiale tratto dagli archivi clandestini ed in particolare con quanto pubblicato sulla stampa illegale dei movimenti antifascisti, (74) ritengo si possa intuire un rapporto tra le insofferenze che dividono Polacchi non ebrei da Polacchi ebrei e la totale disarmonia esistente tra Ebrei amministrati ed Ebrei amministratori. Come in tutti i paesi sconvolti dalle lotte partigiane e dalle repressioni naziste, anche in Polonia, anche in quel crogiolo di passioni che era il ghetto di Varsavia, si giudicava che il mondo che alla fine sarebbe uscito dalla tormenta nazista non avrebbe più potuto essere uguale a quello di prima della guerra, che la lotta per l'uguaglianza tra Ebrei e non Ebrei coincideva praticamente con la lotta contro gli elementi reazionari ebrei e non ebrei, incapaci, ad avviso delle stesse minoranze borghesi più avanzate, di operare quella profonda rigenerazione democratica della società e della classe dirigente polacca delle quali l'aggressione nazista aveva messo a nudo il completo disfacimento.

Disgraziatamente, nel ghetto solo una elite, di cui si contano sulla punta delle dita coloro che scamparono, ebbe il tempo e la possibilità materiale di arrivare ad una chiara coscienza di ciò. Tuttavia i diari di Ringe1blum sono autorevolissima testimonianza che sentimenti di questo genere serpeggiavano fitti tra le masse ed illuminarono il cammino di coloro che presero le armi nella disperata insurrezione.

74 Su questo argomento si veda la nostra recensione «Stampa clandestina e contrasti sociali nel ghetto di Varsavia durante la seconda guerra mondiale» in Problemi del Socialismo, n. 2. febbraio 1959.

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Gli erranti sulla via della morte (75)

L'occasione del ventesimo anniversario dell'insurrezione del ghetto di Varsavia (aprile-maggio 1943) ha offerto lo spunto per avviare, accanto ad alcune celebrazioni commemorative, uno sforzo di ricerca più approfondito e storicamente più valido sui vari e complessi problemi collegati a tale glorioso episodio. Così, mentre da più parti viene segnalata la preparazione di volumi ad opera di specialisti su questi argomenti, non solo importanti in se stessi, ma pure emblematici e rappresentativi di tutta una situazione, appare utile tentare di annotare talune delle tendenze più interessanti che si sono andate delineando in questa primavera in due occasioni: al convegno di Roma della Federazione giovanile ebraica d'Italia (19-21 aprile) e al ciclo di conferenze organizzate a Torino con la partecipazione di Alessandro Galante Garrone, Franco Venturi, Corrado Vivanti, Enzo Collotti e Mario Lattes. La necessità di una ricerca obiettiva

La discussione al raduno ebraico, felicemente riuscito quantunque non siano mancati in esso certi squilibri spesso riscontrabili in attività giovanili, si è giovata di diverse relazioni pregevoli e ricche di informazioni: citeremo per [234] tutte quella di Leone Paserman su «Gli ebrei in Polonia prima del massacro» che ha fornito molti dati sulla consistenza statistica e sulla struttura e la vita sociale della comunità israelita in Polonia, quale si era venuta formando attraverso i molti decenni della sua esistenza.

Per altro, nell'insieme, il convegno più che raggiungere risultati precisi o indicare un'unanimità di opinioni intorno a determinati giudizi, ha rivelato, e questo è stato forse il risultato più positivo, uno scompenso, un'incertezza, un malessere nei modi di valutare la tragica vicenda, e nel tentativo di trarne un insegnamento. Il fatto che più d'un intervento si chiedesse se le vie lungo le quali il dibattito si articolava fossero quelle «della letteratura» o quelle «della storia» indica come i problemi della necessità della ricerca obiettiva e dell'obbligo di sganciarsi da ogni tentazione astrattamente encomiastica fossero vivi e quindi come una consapevolezza fosse presente, aliena dalle concessioni alla retorica ed alla superficialità, più interessata invece alla verifica e alla tensione critica.

In altre parole, sebbene frammista ad idee preconcette di tipo nazionalistico o volontaristico, emergeva sovente la necessità di inquadrare il fatto storico secondo criteri effettivamente validi, sceverando il mito dalla realtà.

75 In Rinascita, settimanale, 13 luglio 1963.

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Questa intenzione di puntare al superamento di ogni schematismo e di recuperare nella sua validità essenziale il senso della distruzione ed il significato della rivolta del ghetto, si è manifestata a Torino con evidenza anche maggiore. Ma, a proposito delle conferenze torinesi è giusto segnalare, per inciso, che esse hanno nuovamente confermato come questa città, in apparenza così neocapitalisticamente indifferente, sappia risvegliarsi dal letargo al rombo cullante dei motori Fiat non appena vengono organizzate iniziative serie, ben preparate, impegnate. Infatti, allo stesso tempo [235] che al Teatro Alfieri sono regolarmente continuate le lezioni e le testimonianze sulla storia italiana contemporanea - la guerra partigiana e la deportazione, la repubblica di Salò e l'insurrezione d'aprile - felice prosecuzione dell'oramai famoso ciclo del 1960, si sono sempre e facilmente trovate altre centinaia di persone appassionatamente attente ai temi severi della tragedia perpetuata dai tedeschi nell'Est europeo.

Queste aspirazioni si sono vivacemente manifestate, oltre che nell'interesse con cui le relazioni venivano ascoltate, nei dibattiti che ad esse seguivano, i quali hanno posto in luce alcuni specifici temi che sotto diverse angolazioni sono tornati ad impegnare pubblico e oratori nelle varie serate: le cause che spinsero i tedeschi a quegli apparentemente illogici e insensati massacri, i collegamenti, i contrasti e le incomprensioni che caratterizzarono i rapporti tra israeliti e popolazione «ariana», tra ebrei e alleati, tra i vari gruppi politici antifascisti formatisi nel paese, infine le ragioni obiettive e soggettive che indussero un nucleo ebraico di mezzo milione di persone a Varsavia e di alcuni milioni in Polonia ad andare alla morte «come un gregge». In specie è proprio su quest'ultimo doloroso argomento che la meditazione s'è soffermata: sul «mistero» della ineluttabilità della fine, sull'incapacità a ribellarsi in massa, sul fenomeno del collaborazionismo ebraico, sul comportamento equivoco del Judenrat, il consiglio rappresentativo ebraico impiantato dalle autorità naziste nei ghetti, affinchè attraverso lo schermo dell'«autoamministrazione», più agevolmente potesse compiersi, secondo tappe accuratamente stabilite, l'opera di deportazione e sterminio.

Ma, a tale riguardo, occorre dire, sebbene anche nel nostro paese siano state pubblicate opere le quali, in maniera forse indiretta, forniscono molte notizie, che un [236] gran numero di persone è parso restio a credere che le cose si siano svolte in tal modo e che i nazisti abbiano saputo avvalersi tanto abilmente dell'ignoranza generale ingannando fino all'ultimo moltissimi, abbiano stroncato sistematicamente in altri ogni facoltà di resistenza, sicchè solo un manipolo potè infine realizzare una qualche opposizione organizzata. D'altro canto precisamente questo iniziale e comprensibile rifiuto a conoscere la pesantezza della realtà, è sintomatica conferma di come i metodi della Ghestapo avessero possibilità di risultare efficaci e di sorprendere e scardinare i vari tentativi di sfuggire alla sorte comune.

Per altro, accanto a tali incertezze, oggi è dato registrare che cresciuta la consapevolezza delle tattiche tortuose e subdole del nazismo, l'intenzione di rendersi conto di tutto e di fare tesoro dell'esperienza passata sembra farsi strada con nuovo vigore. I giovani ebrei a Roma ed il pubblico di Torino hanno confermato questa esigenza d'approfondimento e di autocritica coraggiosa, la quale, inoltre, non sembra limitarsi alla volontà di meglio conoscere soltanto le traversie del ghetto varsaviese.

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Degno di nota è poi il fatto che queste opinioni maggiormente coraggiose, siano del tutto omogenee con gli orientamenti degli studi più rigorosi e recenti che vanno sviluppandosi anche in altri paesi sulle vicende dei gruppi ebraici principali - quelli dell'Europa orientale - durante la guerra. In tali lavori, infatti, è dato notare precisamente un grande sforzo per definire, attraverso ricostruzioni ed indagini su documenti l'atteggiamento ed i comportamenti degli israeliti e in particolare di quelli che avevano le responsabilità principali nell'amministrazione delle varie comunità.

Un esempio di questi interessi lo si può avere dalla lettura di due volumi editi di recente nello Stato di Israele: [237] Gli erranti sulle vie della morte (Hato'im bedarchei hamavet), di Nathan Eck (edizione Yad Washem, Gerusalemme, 1960, p. 271) e Cammino di un Judenrat (Darchòshel Judenrat), di Nachman Blumenthal (edizione Yad Washem, Gerusalemme, 1962, p. 561).

Il primo è una raccolta di memorie scritta da un anziano dirigente sionista polacco che riuscì sopravvivere ai pericoli continui e ai disagi di quegli anni trasferendosi clandestinamente da un ghetto all'altro, via via che in ciascuna località giungeva l'ordine della «azione finale». Egli ebbe in tal modo occasione di seguire gli sviluppi della situazione in diverse delle maggiori comunità israelitiche o per diretta conoscenza (Lodz, Varsavia, Cestochova, Bendin) o attraverso i contatti e le conversazioni con profughi da altre città incontrati durante le sue peregrinazioni. Inoltre come insegnante e uomo politico, lo Eck ebbe occasione di conoscere personalmente parecchie delle figure più significative apparse alla ribalta della storia ebraica in Polonia in quell'epoca: figure eroiche e gloriose come lo storico Emanuel Ringelblum e il poeta Izchak Katznelson e i combattenti della resistenza, oppure figure discusse e dall'attività controversa come il presidente del Judenrat di Varsavia, Adam Cerniakov, o come Chaim Rumkovsky, nominato dai nazisti capo del ghetto di Lodz.

Salvatosi dopo molte peripezie, Nathan Eck fornisce dunque una testimonianza di prima mano e attendibile sullo svolgimento delle deportazioni città per città, quartiere per quartiere, descrivendo con precisa osservazione il compotamento degli israeliti sino all'ultima ora.

Invero il volume è stato molto discusso in Israele, e di tali polemiche sarà opportuno dare ragguagli una volta o l'altra; v'è infatti chi ha voluto vedervi un tentativo di sollevare parzialmente gli amministratori ebrei da alcune loro [238] colpe con l'affermazione che altro essi non potevano fare se non tentare di salvaguardare l'ordine, magari passivamente, magari accettando di inviare, in attesa della liberazione, a poco a poco i loro assistiti alla deportazione, anche se palesemente il momento della liberazione rischiava di giungere troppo tardi. Secondo questi polemisti, in sostanza, lo Eck non condannerebbe abbastanza nettamente l'immorale e vano proposito dei dirigenti dei vari Judenräte di salvarsi con il collaborazionismo, offrendo cioè una efficiente e poco costosa mano d'opera assai utile ai nazisti per importanti lavori nelle industrie direttamente interessate allo sforzo bellico. La posizione di chiusura classista dei dirigenti ebrei e la loro incapacità di comprendere la inarrestabilità della furia dei nazisti, da un lato, il settarismo dei movimenti sionisti che non sarebbero riusciti ad allacciare abbastanza rapidamente contatti per una azione comune antifascista con le forze della resistenza polacche, dall'altro, sarebbero state alcune delle cause del mancato

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tentativo di uscire dalla trappola dei ghetti - dopo essersi finalmente resi conto che essi appunto altro non erano che una trappola - per gettarsi in tutti i modi alla macchia, alla lotta. La comunità di Cestochova

In queste argomentazioni v'è indubbiamente del vero, ma per il lettore poco esperto di quei problemi e di quelle condizioni, il libro dello Eck (edito, come l'altro, dall'istituto israeliano che ufficialmente si occupa a livello statale del ricordo e della commemorazione dei sei milioni di martiri) è comunque, grazie alla sua sincerità, una fonte assai ricca di dati e notizie. [239]

Lo Eck, ad esempio, fortunosamente giunto al ghetto di Cestochova dopo essere sfuggito alle stragi di Varsavia, riporta questo illuminante episodio: «Quali sono dunque i motivi della grande fortuna di Cestochova, dove ogni limitazione è attuata in maniera tanto leggera? - domandai, e la risposta fu - Qui abbiamo stabilito dall'inizio determinati rapporti con i tedeschi e siamo riusciti a metterci d'accordo con loro... - Tale opinione veniva manifestata da molti ebrei, alcuni dei quali mi raccontavano molti particolari la mi esattezza non potei controllare. Così mi raccontarono tra l'altro che uno dei tedeschi con i quali gli ebrei di Cestochova avevano stabilito buone relazioni era cognato di Himmler: egli era stato conquistato per mezzo di regali...» (pag. 80). Nondimeno, dopo pochi giorni doveva essere la fine anche per quella comunità considerata tra le più grandi e importanti della intera Polonia.

Degno di nota è che l'atteggiamento di incomprensione della realtà dilagava a Cestochoca in tutti gli strati sociali della popolazione ebraica che usufruiva d'una buona organizzazione interna diversamente dal caos esistente nella capitale e dal regime terroristico-paternalistico instaurato dalla amministrazione ebraica, ad esempio, a Lodz. Tale stato di cose è confermato dallo Eck che rivela come a Cestochova fosse in apparenza possibile ai lavoratori esprimere ufficialmente le loro rivendicazioni: «A fianco del Consiglio c'era a Cestochova una commissione che veniva chiamata Consiglio degli Operai. Quest'ultimo era formato dai rappresentanti dei partiti operai ebraici che esistevano prima della guerra: Poalei Zion, Bund, Haitachdùt. Costoro dovevano vigilare che i lavoratori non venissero oppressi, che il Consiglio della Comunità desse loro le razioni dovute e a tempo opportuno, che la cucina [240] operaia ricevesse i viveri in quantità sufficiente ecc.» (pag. 83).

Comunque l'Autore non può negare una terribile uniformità sostanziale di destino ovunque gli capitasse di giungere, nonostante gli sforzi psicologici immani delle povere vittime alla ricerca di «varianti» e di «eccezioni» dei piani della soluzione finale. Poche righe dalla comunità di Bendin rendono evidente la condizione generale di catastrofe: «Scrivemmo ai compagni di Bendin che temevamo un'espulsione da Cestochova e per questo chiedevamo di passare nella loro' città. La risposta fu: no! Essi ci sconsigliavano di raggiungerli perché a Bendin non v'erano che cattiveria, amarezze, oppressione, sovraffollamento, miseria ed infine anche di là espellono gli ebrei. Solo un ebreo tra quelli, i tedeschi disgraziatamente non deportano ed è un peccato: il capo del consiglio ebraico della zona, Monik Merin. Queste parole su Merin ci impressionarono. Tutto il tempo avevamo sentito parlare delle sue grandi imprese, a Varsavia correvano su di lui

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addirittura delle leggende: che egli è ben visto dai tedeschi, che ha su di loro una grande influenza e che sa ottenere favori di tutti i generi per gli ebrei» (p. 89).

Il quadro di altre comunità nella «varietà» delle tattiche naziste e nella labilità di quei calcoli che su tali differenze si basavano non è quindi meno sconsolante. Ed il risultato finale appare sempre il medesimo. Ecco un impressionante confronto tra le fasi della deportazione a Varsavia, a Lublino e a Cestochova: « A Varsavia portavano via gli ebrei ogni giorno, per intere settimane: ma quelli che non venivano scoperti e non erano catturati, ricevettero in seguito il permesso di rimanere, per qualche tempo, nelle loro case. Diversamente si svolgevano le cose a Lublino: là i tedeschi ripulivano una strada dopo [241] l'altra e i pochi ebrei rimasti vennero concentrati in un unico luogo. Venne vietato di tornare nelle loro case, poiche le strade rastrellate erano immediatamente dichiarate al di fuori dei confini del ghetto ed era quasi impossibile ripararvisi. Analogamente si svilupparono le cose a Cestochova. Le vie di Krotka, Wilson e Garibaldi che ancora al mattino erano piene di ebrei, poco dopo ne furono vuote. La domanda che sorse quindi fu: quali strade verranno dopo? Secondo le regole del "metodo e dell'ordine" tedeschi il turno sarebbe dovuto toccare alle vie adiacenti a quelle sopra menzionate e ne derivava che alle strade dal lato opposto del ghetto era concesso ancora un poco di tempo. Se questo calcolo era giusto ci sarebbe stato ancora il tempo di predisporre qualcosa nella nostra strada, quantunque non fosse per nulla chiaro che cosa vi potesse essere da preparare» (pag. 105).

Sfiducia per il movimento partigiano in formazione e scarsa capacità di pensare in concreto a vie di salvezza resero la situazione nelle piccole e nelle grandi comunità ebraiche della Polonia similarmente tragica ed anche di ciò v'è una eco precisa ed insistente nel libro dello Eck (cfr. pp. 181 e 184).

Su questa problematica, essendone oramai noti i caratteri generali, la ricerca è avviata da tempo e si vanno ora studiando oltre alle condizioni sociali d'insieme degli ebrei polacchi sotto il nazismo, anche la loro stratificazione di classe e l'influenza che la situazione di quasi fascismo esistente in Polonia prima del conflitto ebbe sul gruppo ebraico che venne spinto a rinchiudersi sempre di più in se stesso ed all'interno del quale ebbero buon gioco le forze più retrive, legate alla reazione che dilagava nel paese, più conservatrici e politicamente più inette. A questo tipo di indagini reca un contributo di grande rilievo [242] il secondo volume che abbiamo citato. In breve, esso consiste in una raccolta di documenti ufficiali del Judenrat di Bialistok (naturalmente salvatisi dalle distruzioni della guerra e reperiti in modo quanto mai avventuroso): nella prima parte dell'opera sono riuniti un blocco di verbali delle riunioni tenute da quel consesso; nella seconda troviamo invece un buon numero di documenti resi noti al pubblico, come avvisi, proclami, ordinanze ecc. A tale documentazione è premessa un'acuta introduzione critico storico-fìlologica del curatore Nachman Blumenthal. Il valore del lavoro è evidente: si tratta del fatto che questa è la prima volta che in base a documenti dell'epoca, presentati con ordine scientifìco, si può cominciare a constatare direttamente quale fosse l'attività delle «istituzioni ufficiali» ebraiche nella Polonia occupata e le direttive secondo le quali essa si svolgeva.

Tralasciando di commentare le pur interessantissime osservazioni sul linguaggio e sullo stile letterario di questi testi (ad esempio sull'influsso di concetti derivati dalla lingua russa, sul permanere, in quell'epoca assurda, d'un modo d'espressione tratto dai tradizionali avvisi normalmente diffusi nelle comunità ebraiche ecc.), appare utile riportare alcuni dei giudizi politici più impegnati

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espressi dal Blumenthal. Egli, ad esempio, a p. XVIII rileva che: «abbiamo di fronte a noi dei documenti d'un ufficio amministrativo istituito dai tedeschi per realizzare le loro medesime intenzioni, così come era stabilito nell'ordinanza di due anni prima del novembre del 1939, emanata da Frank il comandante del Governatorato generale, riguardante la formazione dei Judenräte. E quantunque Bialistok non fosse stata incorporata nel Governatorato, ma annessa alla Prussia orientale, ciononostante il compito del Judenrat era ivi lo stesso che nel Governatorato generale: [243] vale a dire servire la politica germanica. Dunque, sia che il Judenrat si richiami direttamente nei suoi annunzi ad un ordine della autorità, sia che non lo faccia, dando l'impressione di agire autonomamente, non v'è alcuna differenza: tutte le ordinanze sono scritte per ordine dei tedeschi ed eseguivano il loro volere direttamente o indirettamente» (Il corsivo è dell'autore). Gli assassini sono ancora tra noi

E poco più avanti soggiunge: «In breve, il Judenrat adatta anche il suo stile agli ordini dei superiori. Persino i nomi delle sezioni particolari della polizia ebraica sono presi dal tedesco: "Yiddisher Kriminaldienst" (Servizio criminale ebraico - Kripo!)» (pagina XXII).

Ed in fine vale ancora la pena di riportare alcune notazioni d'insieme: «La tattica di Barash risulta sotto certi aspetti molto simile a quella di due altri dirigenti del Judenrat: Monik (Moshè) Merin della Slesia superiore e Mordechai Chaim Rumkovsky di Lodz; anche costoro affermavano che era possibile salvare gli ebrei dallo sterminio totale per mezzo del lavoro». «E man mano che la fiducia nella strada intrappresa si rafforzava, in quei tre diveniva minore la sorveglianza sulla scelta dei mezzi per raggiungere l'obiettivo: consegnare ai tedeschi i beni ebraici, obbligare gli ebrei ad un lavoro forzato quasi senza cibo e senza salario, consegnare nelle mani dei tedeschi ebrei "nocivi" e improduttivi; tutto questo diviene lecito e giusto perchè favorisce il raggiungimento del loro scopo. E via via che la mèta diviene più importante nelle condizioni che divengono sempre più difficili, così diminuisce sempre di più l'attenzione alla questione morale della scelta [244] dei mezzi: chiunque osi pensare diversamente viene considerato un elemento pericoloso perchè mette a rischio la intera comunità e quindi viene perseguitato. Lo scopo superiore - secondo i loro sentimenti e le loro aperte dichiarazioni - giustifica i metodi». (pp. XXXVI - XXVII). In conclusione, attraverso i testi che il BIumenthal sottopone in lettura, la parabola delle comunità ebraiche dell'Europa orientale comincia ad acquistare un'interiore dinamica. Il «mistero» svanisce e la logica ferrea dei rapporti di forza e dell'impreparazione, della imprevidenza e dell'incapacità borghese e della debolezza delle forze più a sinistra acquista un'evidenza abbagliante: alla luce di questo lavoro (e di molti altri che su altri aspetti di quelle vicende si potrebbero segnalare) le tesi interpretative basate sul presunto «demonismo» dei nazisti o sulla pura fatalità della persecuzione vengono irrimediabilmente sconfitte.

Di questi giorni sono le notizie giunte dallo Stato d'Israele di un processo per collaborazionismo contro l'ex capo della polizia del ghetto di Bendin. Uno dei testi chiamati a deporre, autore d'un libro di memorie, ha dichiarato che egli nel suo libro ha voluto porre in rilievo solamente le atrocità tedesche «perchè non desiderava

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esporre in pubblico le nostre colpe». Gli assassini viene dunque confermato, sono ancora tra noi...

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Janusz Korczak, e gli ebrei di Polonia dell' inizio del secolo *

* Una decina d'anni fa ebbi occasione di presentare ad una casa editrice milanese e di discuterne a lungo un progetto di traduzione. Si trattava del libro Janusz Korczak della scrittrice polacca Hanna Mortkowicz-Olczakowa di cui avevo letto la versione in ebraico (Chaiei Janusz Korczak, Tel-Aviv 1961) che mi aveva molto colpito per i caratteri di immediatezza e genuinità. Il progetto andò abbastanza avanti perché il testo venne tradotto in italiano e preparai anche una sorta d'introduzione d'una dozzina di cartelle: ma esso non fu mai dato alle stampe. Quali le cause del fallimento?

Puramente in via d'ipotesi, è lecito dire che, a parte i bastoni nelle ruote che il solito ignoto può aver gettato, due potrebbero essere stati i motivi che hanno agito da remota. Per un verso, il contenuto stesso del volume, sovente allusivo ad un personaggio e ad un ambiente parecchio remoti (la Polonia degli inizi del secolo). forse si prestava oggettivamente poco ad essere recepito in modo adeguato dal pubblico del nostro paese; per un altro, i problemi affrontati - un nuovo modo di essere degli educatori, in sostanza - risultavano assai in anticipo rispetto ai temi della contestazione studentesca che si sarebbero cominciati ad affermare solo verso il 1968.

Hanno un senso queste valutazioni? Grazie all'attuale occasione, diventa imperatamente possibile verificare la validità o meno di quel progetto sfumato riproponendo con il breve scritto che avrebbe dovuto fungere da presentazione per il lettore italiano, alcuni passi della seconda parte di quel libretto abbastanza fortunosamente recuperati.

* * *

Janusz Korczak, pseudonimo di Henrik Goldshmit, pedagogo polacco, nato nel

1879. Medico, nelle dimosttazioni di strada del 1905 soccorte i lavoratori feriti negli scontri con la polizia. Dopo la prima guerra mondiale crea l'orfanotrofio La Nostra Casa con l'appoggio delle organizzazioni sindacali. Organizza le istituzioni per l'infanzia più povera all'interno della comunità ebraica di Varsavia. Contemporaneamente scrive articoli, libri di fiabe, volumi di pedagogia, collabora a

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rubriche radiofoniche. Imprigionato dopo l'invasione nazista nel ghetto della capitale con altre centinaia di migliaia di israeliti, rifiuta di salvarsi e dirige anche in quelle condizioni un centro per l'infanzia abbandonata. Nel 1943, a oltre sessant'anni, ricevuto insieme ai suoi protetti l'ordine di deportazione, fu visto avviarsi al luogo di concentramento guidando per l'ultima volta la lunga fila dei bambini a lui affidati, lindi e con i vestiti dei giorni di festa, quasi come li conducesse ad una delle consuete passeggiate.

Da noi, avanti della cronaca, avanti della storia, si è diffusa sull'insurrezione e la distruzione del ghetto di Varsavia nella seconda guerra mondiale, la leggenda. Questo, crediamo, per due motivi fondamentali. [246]

In primo luogo per la scarsa conoscenza della realtà polacca in genere e della storia della minoranza israelitica in Polonia in particolare. Quanti erano, infatti, all'indomani della caduta del fascismo, coloro che conoscevano qualcosa della cultura polacca di quell'epoca, delle vicende e delle lotte tra le correnti politiche e sociali, del significato che in Polonia assunse l'occupazione nazista crudelissimamente sovrappostasi ad una determinata situazione sociologica? E' vero, l'eco delle immani sofferenze di quel popolo contro il quale Hitler voleva si procedesse, conclusa la campagna militare del '39, con una mai affievolita energia, (76) della sua eroica battaglia antifascista è risuonata ben presto e non poteva essere altrimenti, in tutto il mondo. Tuttavia, proprio per la mancanza di esauriente e precisa documentazione, solo negli ultimi anni si è finalmente cominciato, grazie ad un complesso di cause concomitanti, a colmare in qualche modo la non lieve lacuna.

Secondariamente a coloro che avveniva di affacciarsi con il pensiero sull'abisso del ghetto di Varsavia, che si distinse essenzialmente dagli altri ghetti che sorsero numerosi nel paese soltanto per la grandezza del suo dramma, spesso mancava, e giustificatamente, ogni volontà e desiderio di ripercorrere tappa per tappa quel doloroso calvario di una moltitudine di uomini, donne, bambini: il ricordo troppo cocente del conflitto e dei suoi orrori spingeva a ram- [247] mentare il più fugacemente o meglio il più indistintamente possibile, quella vicenda. Non solo, ma la diffusa sensazione che non di rapida e sommaria esecuzione, quantunque, in proporzioni massicce, si trattasse, ma d'una macchinosa e complicata operazione, piena di angosce ed inani speranze, piena di travagli e inutili tentativi di trovare scampo, densa d'un indistinto, ma tenace sforzo di gruppi e di ceti, spesso in concorrenza, in polemica e in dissidio gli uni contro gli altri per sottrarsi al comune destino, incalzava, quasi ci trovasse spettatori d'un sogno non solamente terrificante, ma assurdo ed incomprensibile, a concentrare prevalentemente l'attenzione su determinati e isolati episodi, rilevanti o meno che fossero. In breve la leggenda del ghetto di Varsavia e della sua rivolta ha rischiato di sostituirsi nella coscienza popolare, alla storia, invece che sottolinearne gli elementi essenziali, e di deformarla.

Ma se a poca distanza dagli avvenimenti è stato pressochè impossibile descrivere metodicamente la vicenda, rifiutarsi di accingersi a ciò a vent'anni di distanza, quando i rischi delle alterazioni divengono troppo pesanti rendendo

76 G. Reitlinger, The SS alibi of a Nation, 1922-1945, Londra, 1956, p. 125-126.

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sempre più difficile alle nuove generazioni l'acquisizione dell'esperienza dei padri, costituisce qualche cosa che s'avvicina alla colpevolezza o che ne ha, comunque, l'amaro sapore. Tanto più che l'unica esortazione lasciataci in testamento da coloro che laggiù sono morti è racchiusa nelle due parole: sappiate, riferite.

Oggi s'è detto, i fatti, almeno quelli principali, sono conosciuti e conoscibili: tutti possono infatti disporre, ad esempio, della notevole opera del Reitlinger La Soluzione finale, che descrivendo tutto lo sviluppo del tentativo nazista di sterminio degli israeliti, dedica numerose pagine alla Polonia e a Varsavia. Nondimeno riportare alcune [248] cifre ed alcuni dati riepilogativi non soltanto può riuscire utile, bensì risulta, nel ventesimo anniversario della rivolta del ghetto, doverosa commemorazione.

La minoranza israelita in Polonia ammontava nel 1939, secondo i calcoli più meditati, a circa 3 milioni e 200 mila persone su una popolazione polacca complessiva di 35 milioni di individui. Alla fine della guerra, direttamente per cause belliche, erano morti 6 milioni di polacchi e tra questi da 2 milioni e 350 mila a 2 milioni e 600 mila ebrei. Nel quadro dell'operazione di raccolta metodica degli israeliti polacchi e di sterminio (il quale in sostanza iniziò in grandi proporzioni nella primavera del 1942) quasi 500 mila israeliti vennero gradualmente concentrati nel ghetto di Varsavia, un quartiere che comprendeva inizialmente 1.500 edifici su un area di 400 ettari, suddivisi in circa 100 isolati urbani e all'interno della quale era situato nel Medio Evo l'antico ghetto. Dal 15 novembre 1940, giorno della completa chiusura del ghetto, al 26 maggio 1943, data in cui Jürgen Stroop Gruppenführer delle SS e comandante delle operazioni per l'eliminazione del ghetto scriveva nel rapporto al suo superiore: «A parte otto fabbricati - alloggiamenti della polizia, ospedale, alloggiamenti delle sentinelle alle fabbriche, l'ex ghetto è interamente distrutto», in questi due anni e mezzo, è racchiusa la tragedia degli israeliti varsaviesi.

Cosa avvenne nella capitale polacca in tale periodo? Quante migliaia o centinaia o decine del mezzo milione di prigionieri riuscirono a fuggire alla sistematica deportazione, sopravvissero ai campi di concentramento veri e propri in cui venivano trasferiti, si salvarono tra i partigiani o nascondendosi in altre parti della città? Sinora nessun calcolo del genere risulta sia stato fatto: a Varsavia tra perseguitati e persecutori vi fu, è vero, una guerra aperta [249] e feroce durata 30 mesi, ma l'esercito degli indifesi non aveva piastrine di riconoscimento; non solo non aveva armi, ma ad esso non rimasero nemmeno registri anagrafìci o elenchi di prigionieri. Proprio a causa della assoluta disparità tra gli uni e gli altri siamo costretti a calcolare le vittime in Polonia con un'approssimazione dell'ordine delle centinaia di migliaia: alla metodicità tipicamente germanica nel registrare e calcolare, ben presto i persecutori sostituirono l'ansia del delinquente di far sparire ad ogni costo e nella maniera più completa le tracce della colpa.

Anche per questi motivi è sembrato giusto contribuire all'approfondimento della ricerca storica intorno a tale episodio della seconda guerra mondiale offrendo, accanto alle descrizioni generali ancora imperfette, quantunque numerosissime che sono state sinora elaborate, la ricostruzione d'una vicenda singola ed esemplare, la narrazione cioè della vita d'un uomo scomparso nella deportazione, ma che conosciuto da molti e apparso per un momento alla testa dei suoi piccoli protetti tra due fila di poliziotti per le vie della capitale, si è trasformato in un'immagine poetica più che in un ricordo reale, in figura simbolica oltre che in esempio eroico. E' quindi

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pensando ai molti casi simili a quello di Janusz Korczak, noti ed ignoti, grandi e mediocri, che s'è volentieri accettata la segnalazione per ricordare anche in Italia, attraverso l'assassinio del singolo, il delitto commesso contro tutta l'umanità.

La condizione degli israeliti non era in Polonia, negli anni che precedettero l'occupazione tedesca, ne prospera ne brillante. Al contrario, specie dopo la morte di Pilsudski nel 1935, con l'intensificarsi del processo di fascistizzazione dello Stato, con il crescere delle pressioni dei circoli e dei movimenti nazionalistici di estrema destra, una pesante ondata d'anticomunismo e d'antisemitismo feroci [250] andò turbando sempre più la vita del paese. Il disagio economico generale sempre più esteso, l'esistenza di gruppi sempre più vasti di disoccupati, di contadini in miseria, di commercianti sull'orlo del fallimento spinsero con crescente decisione gli uomini del Governo a tentare d'indirizzare lo scontento popolare contro il capro espiatorio rappresentato dagli israeliti. Quindi, nonostante l'azione umanitaria e l'opera chiarifìcatrice delle forze di sinistra, gli anni 1935-39 furono per i polacchi israeliti nel complesso tristi ed infelici.

Questa situazione di grave instabilità, alla quale nelle indagini storiche non sempre si è dato il giusto rilievo, pesò, con tutta probabilità, in maniera notevole su quello che doveva poi essere il comportamento degli ebrei nell'epoca ancora più buia della persecuzione nazista: le forti correnti emigratorie, la difficoltà con cui gli uomini più aperti e consapevoli della Comunità riuscivano a farsi ascoltare, le tendenze sionistiche che predisponevano psicologicamente molti all'evasione dalla realtà quotidiana, l'aspirazione ad assimilarsi ai ceti borghesi diffusa in larghi strati di tutte le categorie, l'insufficienza ideologica e politica del Bund, la Lega generale dei lavoratori ebrei di tendenza socialista, a prevedere il corso delle cose, tutti questi sono elementi che inducono a raffigurarsi una collettività in crisi di profonda transizione anche se il numero dei suoi membri era elevato ed anche se si giovava d'una notevole quantità di istituzioni, organizzazioni ed attività assistenziali e culturali.

In sostanza, in mezzo ad un persistente disinteresse politico e ad una grande varietà di posizioni intermedie e di sfumature, due sembrano essere le correnti prevalenti nel gruppo ebraico polacco dell'anteguerra, correnti che traggono la loro forza e la loro consistenza precisamente [251] dalla congiuntura politica e sociale in cui si trovava l'intero paese; queste correnti saranno pure quelle che predomineranno a lungo all'interno dei cancelli del ghetto. Da una parte vi erano coloro che in tutti i modi, con l'attaccamento ai precetti religiosi, con il sionismo, con l'isolamento volontario si sforzavano di mantenere chiusa e ben salda in se stessa la comunità ebraica; di fronte al progresso incalzante che batteva alle porte pure della Polonia per certi aspetti ancora feudale, di fronte all'evoluzione inevitabile delle strutture e dei modi di vita tradizionali, di fronte ai pericoli del dinamismo espansionistico dei nazisti si volevano stringere le fila anche a costo di serrare gli occhi: la Comunità ebraica era tutto, nulla v'era da «importare dall'esterno». E' vero, sia nell'ambiente ortodosso, sia all'interno del movimento sionistico si trovavano molti elementi aperti, v'erano larghe possibilità di assestarsi ideologicamente su posizioni d'equilibrio e non di chiusura: la tragedia fu che i più disposti al dialogo ed alla collaborazione con lo schieramento progressista erano una inascoltata minoranza, che costoro non riuscirono a stabilire un collegamento organico con la massa ebraica ed a trarla dall'atteggiamento di pericolosa spoliticizzazione e dall'individualistica tendenza ad «arrangiarsi».

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Un quadro impressionante di questa realtà è quello descritto da M. Lenski nel suo libro La vita degli ebrei nel ghetto di Varsavia (Gerusalemme). Il Lenski, medico di professione, uno dei pochi superstiti che è giunto a portare diretta testimonianza di ciò che ha visto e che ha descritto la sua tremenda esperienza con la nitidezza di chi è abituato all'analisi scientifica, scrive tra l'altro queste note che illustrano con immediatezza la condizione spirituale della popolazione ebraica di Varsavia nei mesi che precedettero la creazione del ghetto. «Poco tempo dopo l'occupazione [252] nazista di Varsavia alla fine del 1939 incominciarono a correre tra gli ebrei di Varsavia voci secondo le quali l'amministrazione germanica aveva deciso di rinchiudere gli israeliti tra le mura di un ghetto. Raccontarono che era già stata preparata una lista delle strade che dovevano delimitarlo; tale lista correva di mano in mano. Quando mi fecero conoscere tale lista pensai tra me che doveva esserci qualche sbaglio; non potevo credere che i tedeschi avrebbero concesso agli ebrei uno spazio così grande. Gli ebrei che abitavano nelle vie che secondo tale documento erano fuori dal ghetto, cominciarono a pensare di procurarsi un'abitazione nella circoscrizione del ghetto medesimo; tuttavia passò una settimana, due settimane, e nessuna ordinanza venne pubblicata. Narravano che il Consiglio della Comunità aveva ottenuto di rinviare la chiusura: quanta verità vi fosse in tali voci mi è difficile dirlo. A poco a poco si incominciò a disinteressarsi della questione del ghetto poiche non vi era alcun sintomo che ci si stesse preparando ad istituirlo. Nel frattempo cominciarono a giungere a Varsavia profughi che erano stati espulsi o fuggivano da altre città: Wloclawek, Kalisz, Lodz, ecc. I racconti di questi profughi destavano serie preoccupazioni in tutti coloro che li ascoltavano: le espulsioni dalle città annesse al Reich giunsero del tutto improvvisamente...». «I profughi dalle città sopra citate giunsero a Varsavia in epoche diverse dell'inverno 1939-40. Le città di Lodz, Kalisz e Wloclawek furono congiunte al Reich immediatamente dopo l'invasione tedesca; da ciò è possibile arguire che la chiusura degli ebrei in tali luoghi precedette quella in Varsavia o in altre città che non erano state unite al Reich ma che erano rimaste nella più ristretta circoscrizione che venne chiamata Gouvernement e che era sotto il potere di Prank. Gli ebrei di Varsavia nella loro assoluta maggioranza sia della classe ricca e media, sia [253] degli strati più poveri, nutrirono nei loro cuori sentimenti d'ottimismo; essi credevano che all'interno del Gouvernement i tedeschi non avrebbero avuto intenzione di fare azioni antisemite come nelle zone integrate al Reich. Con tutta tranquillità gli israeliti cominciarono a ricercare fonti di mantenimento nuove e ad abituarsi ai nuovi sistemi di vita; con forza essi cacciarono dai loro cervelli il pensiero della possibilità di una espulsione da Varsavia. Invero già nel 1939 erano giunte informazioni da Lublino sulle persecuzioni attuate dai nazisti e sulla costruzione in corso di grandi baracche. «I nazisti ci cacceranno da Varsavia a Lublino e ci faranno abitare in quelle baracche», mi disse una donna che aveva ricevuto notizie dai suoi parenti in quella città. E però i timori si dispersero in fretta quando si venne a sapere che le baracche erano arredate con buon gusto secondo le esigenze della tecnica moderna con acqua calda e fredda in ogni stanza. Immediatamente comprendemmo che quelle baracche non potevano servire per gli ebrei di Varsavia e che erano destinate ad essere adibite per altri usi: la questione dell'espulsione venne dimenticata e si cessò dal pensarvi» (pag. 40-42).

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Di contro anche la seconda corrente, quella assimilazionistica non riuscì ad elaborare rapidamente una direttiva d'azione capace di indirizzare la massa popolare: le difficoltà della lotta clandestina, il sabotaggio dei traditori e dei collaborazionisti, la posizione pavida e raggelante delle autorità ebraiche riconosciute dai tedeschi (il famoso Judenrat), la tecnica raffinata dei persecutori, resero estremamente difficile anche agli assimilati, molti dei quali ebrei solo di nome in quanto battezzati al cristianesimo, molti dei quali non fusi ai gruppi politici di ispirazione internazionalistica e di sinistra, bensì inseriti nella corrotta società padronale polacca, tanto il pensare ad organizzare un'autodifesa, quanto il passaggio alla difesa attiva vera e propria. [254]

Lo storico Bernard Mark, esponente dell'Istituto Storico ebraico di Varsavia nel volume L'Insurrection du ghetto de Varsovie (Parigi, 1955) così descrive tale stato di cose: «Per annientare più facilmente il ghetto i tedeschi istituirono un Consiglio ebraico a loro devoto: il Judenrat, composto da grandi commercianti, industriali membri del partito Sanacja e di quello conservatore e ne fecero presidente l'ingegner Adam Czerniakow. La politica fiscale del Judenrat ne rivela il carattere di classe: il sistema d'imposte era pro capite secondo lo slogan demagogico «alle gleich», tutti eguali, sistema che rifiutava di prendere in considerazione le entrate di ciascun contribuente: l'imposta era calcolata secondo la tessera del pane vale a dire singolarmente. I proprietari di immobili e gli inquilini, il direttore di fabbrica e l'operaio, il grande trafficante ed il disoccupato che moriva di fame sopportavano uniformemente le stesse tasse... Il Judenrat fu uno strumento d'oppressione di classe e d'oppressione nazionale: eseguiva ciecamente gli ordini dell'occupante... un gran numero dei suoi membri s'arricchirono... nello stesso tempo il celebre scrittore e pedagogo Janusz Korzack vedeva respinta la domanda che gli avrebbe permesso d'ottenere due pasti gratuiti al giorno. Compito degli hitleriani e dei loro servitori era d'isolare completamente la popolazione del ghetto e di separarla totalmente dalla popolazione polacca. Tale obiettivo non fu raggiunto che parzialmente. Certo dai due lati della muraglia gli elementi reazionari applaudivano al tentativo. Tra gli ebrei i gruppetti dei Rumkowsky, dei Ganzwaich, i sionisti revisionisti ed i capi ortodossi consideravano utile questo isolamento: esso avrebbe permesso, dicevano, di preservare la gioventù da ogni influenza rivoluzionaria. I reazionari polacchi, d'altro canto, erano al settimo cielo. Essi che nel 1933 avevano creato il sinistro campo di [255] concentramento di Kartuska-Bereza, una vera anticipazione dei campi di lenta morte, essi che avevano aderito alla nazional-democrazia e nel 1937 avevano fondato il Campo di unione nazionale, potente apparato di terrore e di provocazione il cui programma non era che un accomodamento secondo il gusto polacco dei piatti che uscivano dalla cucina nazista, questi reazionari polacchi non poterono che applaudire alla creazione del ghetto» (cfr. p. 16-20).

Da questa dura realtà così difficile e drammatica, oltre che, evidentemente dalla violenza spietata delle persecuzioni, scaturì il carattere di ineluttabilità di cui vediamo ben presto colorarsi la deportazione. Anche dalla lentezza con cui le persone politicamente, ideologicamente e moralmente più qualificate riescono ad emergere e a divenire i veri rappresentanti dello spirito popolare, deriva quell'atmosfera di plumbeo terrore, quel gelo che promana dalla convinzione dell'inutilità di ogni sforzo per uscire dal gorgo implacabile, quello spezzarsi di pur forti animi nella caccia ad un pezzo di pane e nel fango della lotta per far si che fosse

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il vicino ad essere il deportato di turno. Evidentemente quell'arte nazista di distruggere ciò che di meglio v'è nell'uomo col seminare apatia e indifferenza tra i compagni di sventura, ebbe a Varsavia, nel ghetto, ampia estrinsecazione: anche di questo sadismo rimarrà ricordo per mille anni.

Proprio perché tale è stata la situazione è giusto ricordare che se alla fine i nazisti sconfissero militarmente il ghetto, il ghetto, questo cumulo miserando di stracci, ebbe in ultimo vittoria, dal punto di vista spirituale, sui nazisti, i quali fallirono nel tentativo di dominarne totalmente lo spirito ribelle. Intanto alcuni fattori politici di carattere generale cominciarono ad acquistare vigore, ad incidere sulla tracotanza germanica e a rincuorare le vittime. Ne citeremo due. [256]

Il primo fu l'entrata in guerra, a fianco degli alleati, dell'Unione Sovietica in seguito all'attacco hitleriano del 22 giugno 1941. Nonostante le sconfitte iniziali sovietiche, la sensazione d'un fronte in movimento a poche centinaia di chilometri, dell'existenza precisa d'una possibilità di liberazione diretta, del crearsi d'un fronte antifascista unitario e quindi d'un venir meno di incertezze e pregiudiziali interne, si diffuse rapidamente e con risultato positivo. A testimonianza di ciò v'è l'autorevole parola dello storico Emmanuel Ringelblum che dall'interno del ghetto, in data 11 luglio 1941 poteva così descrivere sul suo diario l'orientarsi dell'opinione pubblica: «La popolazione confida nella vittoria finale dei sovietici e di tutti gli alleati in generale. La resistenza opposta dall'esercito sovietico riempie la popolazione ebraica di ammirato stupore. Ora che i russi resistono da sette settimane, di giorno in giorno cresce la convinzione che alla fine ci libereranno dall'occupazione tedesca». (77)

Il secondo avvenimento di rilievo fu la ricostituzione nel gennaio 1942 del partito comunista (partito operaio polacco - PPR) grazie al superamento d'una lunga e complessa crisi nei rapporti tra sovietici e comunisti polacchi che aveva impedito a questi ultimi d'esplicare tutta la loro potenziale forza politica. La formazione del P.P.R. ebbe nel ghetto notevole risonanza non solo dal punto di vista psicologico agevolando il dialogo tra le diverse correnti e tendenze, ma anche dal punto di vista concreto e militare: «Di conseguenza - scrive in proposito Izchak Zukerman, uno dei dirigenti del movimento di resistenza clandestino i compagni del P.P.R. all'interno del ghetto presero nelle loro mani l'iniziativa e con assai più successo che tra i [257] polacchi, di creare un fronte antifascista». (78) Da tale momento, sia pure attraverso lunghe discussioni e confronti d'opinione e sforzi organizzativi, la via dell'insurrezione armata era aperta: nelle strade e nelle case del ghetto continuava la sofferenza, le deportazioni incrudelivano vieppiù, il rischio d'un fallimento finale degli immensi sacrifici per organizzare la rivolta permaneva; ma in conclusione lo scontro armato finale fu conseguenza logica dell'intensa ed estenuante attività di coordinamento e chiarificazione compiuta per anni dal movimento di resistenza.

La resistenza ebraica a Varsavia però non si esplicò esclusivamente sul piano militare ed in quello strettamente politico: è necessario almeno ricordare altri settori nei quali si svilupparono seri tentativi per dare vita ad una realtà alternativa, ad un potere di fatto che si contrapponesse sia all'occupante tedesco, sia all'amministrazione ebraica ufficiale ad esso asservita. Secondo questo angolo

77 Emmanuel Ringelblum, Sepolti a Varsavia. Milano, 1962, p. 201. 78 I. Zukerman, La rivolta degli ebrei, in Seler Milhamot Haghettaot, Tel-Aviv, 1954, p. 112.

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visuale sono da considerarsi, ad esempio, il movimento dei Consigli di caseggiato, sorto spontaneamente sulla base dei gruppi di difesa antiaerea istituiti dal governo e divenuto un importante strumento di mutuo soccorso. L'atmosfera che regnava in questi Consigli è limpidamente rappresentata dal seguente episodio descritto da uno che faceva parte di tali nuclei. «Dopo la festa di Shavuot i tedeschi richiesero che fosse loro assegnato un certo numero di uomini per lavorare, secondo le loro parole, nel campo di Dazviza. Dalla direzione del Judenrat in via Grzybowska 24 giunse l'ordine ai Consigli di caseggiato di scegliere tra gli inquilini per lo meno un uomo di ciascuna casa da inviare a tale campo. I membri del nostro Consiglio si radunarono per [258] un'immediata seduta ed il presidente espose la questione in tutta la sua gravità. Secondo l'ordine era nostro dovere consegnare un uomo con abiti da lavoro, cibo ed una certa quantità di denaro; era stato perfino segnalato il nome dell'uomo che avremmo dovuto inviare: un individuo di età giovane, non del tutto in possesso delle sue facoltà mentali. Tuttavia i membri del nostro Consiglio non accettarono di consegnare un uomo nelle mani dei tedeschi: quelli del Judenrat che avevano emanato l'ordinanza erano stati convinti molto in fretta dagli occupanti; ma noi prendemmo la decisione che era proibito consegnare un ebreo nelle mani degli assassini anche se questa era una persona debole di cervello. Nel protocollo della riunione fu scritto che tutti i presenti avevano deciso di respingere all'unanimità la richiesta delle Autorità e se queste Autorità non si fossero trovate d'accordo con la nostra decisione esse stesse avrebbero dovuto mettere in atto il loro comando. Ci rifiutammo di collaborare con i nazisti e secondo le notizie che ci giunsero anche i Consigli di caseggiato dei dintorni presero una decisione, analoga». (79)

Oltre ai Consigli di caseggiato furono strumenti di resistenza particolarmente efficaci l'organizzazione delle cucine comuni popolari, che fornivano un indispensabile aiuto a molti indigenti, il lavoro del gruppo Onegh Shabbat che, diretto dal Ringelblum archiviò un'imponente raccolta di documenti e testimonianze sulle vicende del ghetto, e l'attività culturale e ricreativa per la quale si impegnarono numerosissimi intellettuali e artisti.

In questo ambito infine va vista anche l'azione educativa, nella quale vediamo impegnarsi pure l'eminente [259] pedagogo Janusz Korczak della cui vita questo libro tratta. Nel ghetto vi erano decine di scuole, mimetizzate in vari modi e concernenti diversi livelli e rami di studio; era questa una piccola e dispersa ma tenace prosecuzione della multiforme opera pedagogica in cui si era impegnato l'ebraismo varsaviese avanti della guerra. Ci si dibatteva tra i divieti rigorosissimi in materia dei tedeschi e l'incapacità del Judenrat, ma si riuscì (a metà del 1940) ad arrivare a circa un terzo dei 100 mila bambini residenti nel ghetto e necessitanti assistenza scolastica. Va segnalato che molti maestri perirono eroicamente come Korczak e, ad esempio, si possono ricordare i nomi di Janovski, Dobronvski, Goldberg, Kominski, Ester Berenholtz, Sonia Papierbuch. Di conseguenza viene da chiedersi quale fosse dunque il segreto del «vecchio dottore» la cui parola ed il suo insegnamento sono rimasti vivissimi in Polonia ed in tutti coloro che l'hanno conosciuto lasciando un ricordo incancellabile ed un particolare rimpianto. Egli come spiega la Mortkowicz-Olczakowa, non fu solamente un educatore rivoluzionario in tempi d'oscurantismo, non fu solamente il

79 Zadok Florman, Sui Consigli di caseggiato nel ghetto di Varsavia, in «Iediot Beit Lohamei Heghettaot», settembte 1956, n. 4-5, p. 34.

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fondatore del primo istituto in Polonia e forse d'Europa che educò i bambini in un'atmosfera di libertà, di autogoverno; fu una di quelle personalità dal superiore equilibrio che seppero conciliare in una più elevata unità tutti quegli elementi positivi che si trovavano dispersi nelle due schiere nelle quali gli israeliti polacchi si suddividevano. Korczak riconobbe la carica d'entusiasmo esistente nei movimenti giovanili sionistici, ma rifiutò il loro fanatismo; fu profondamente polacco ma non ripudiò mai, specialmente nei tempi oscuri, il patrimonio culturale dell'ebraismo; fu un uomo di sinistra ma seppe sviluppare la sua attività in maniera tale da poterla sostenere a lungo anche legalmente; non venne mai a compromessi con le proprie idee; [260] ebbe larghissime doti intellettuali e come pochi fu vicino al popolo. Questa carica umanitaria, questo indomabile slancio, la sua energia apparentemente inesauribile, l'estrema dolcezza del tratto: ecco ciò che hanno fatto del pedagogo israelita polacco una figura nella quale si possono riconoscere i resistenti di ogni paese.

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Testimonianze su Korczak (80) Nel dopoguerra

Nel cortile della casa di via Krochmalna i bambini furono allineati in tante file con la signorina Stefania in testa, in attesa del suo arrivo. Alcuni tra loro ricordavano benissimo la sua allegria ed il suo sorriso, mentre per i nuovi egli faceva ormai parte della leggenda. Due dottori passarono il cancello esterno ed entrarono nel cortile. Il dottor Eliasberg, un uomo impulsivo e pieno di vita, baciò la signorina Stefania sulle guance. Il dottor Goldshmit, invece, un po' calvo e con la barba che incominciava ad ingiallire, avanzò pian piano. Non era alto e la sua figura non faceva impressione. Non disse nulla.

I bambini che già tremavano per l'emozione e la tensione, rimasero delusi ed intimoriti. Ma allora, era proprio lui «l'uomo»? Colui che era cosi buono, cosi stimato... colui che aspettavano tanto... Rimase fermo, strinse la mano alla signorina Stefania e la guardò. Attraverso gli occhiali brillò lo sguardo dei suoi occhi azzurri velati da una rete di piccole vene sottili. E allora quegli occhi e quelle labbra sorrisero di un sorriso buono e triste.

In quel momento tutti i bambini seppero che era lui «il signor dottore», il più buono ed il più caro di tutti al mondo. [262]

*

Il posto che gli era stato riservato tra le due camerate, una celletta a vetri, gli sembrò piccolo. Il dottore si trasferi allora in una piccola e stretta stanza nel solaio dove poteva scrivere e pensare più liberamente, lontano dalla presenza continua dei bambini.

I passeri venivano alla sua finestra: lui ordinò di aprire un piccolo buco nella finestra esterna: faceva scivolare del becchime tra le due finestre per vedere i passeri che venivano a mangiare. Amava in special modo questi uccelli, preferendoli alle rondini alle quali attribuiva una certa rapacità, e persino alle colombe. Osservando i suoi piccoli ospiti fece importanti riflessioni sul comportamento isolato e sulla socievolezza degli uccelli e degli uomini. Ma da quella finestra Korczak spaziava ora 80 Da Chaiei Janusz Korczak (Vita di Janusz Kotczak) di Hanna Mortkowicz-Olczakowa, Tel-Aviv, 1961. I sottotitoli sono del curatore.

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su orizzonti ben più vasti e non soltanto sui passeri. In uno dei suoi bellissimi articoli apparsi sul periodico Szkola specjalna (La scuola speciale), scrisse che i bambini hanno una strana nostalgia per ogni finestra aperta, per ogni cancello, per ogni uscita verso il mondo. Forte delle sue osservazioni e delle sue esperienze stabili che il bambino si avvicina alla finestra aperta senza pregiudizi e con testardaggine, anche se è a lui proibito, e cerca la luce e gli ampi spazi. Anche a Korczak accaddero cose nuove: quella finestra nel solaio dell'orfanotrofio apri davanti a lui orizzonti lontani e schiuse al suo pensiero nuovi concetti per molte opere.

Votatosi al riserbo, l'intenzione cedette di fronte alla realtà: la guerra aveva allargato i limiti angusti, il nuovo Stato richiedeva obblighi assai più vasti ed una partecipazione più vivace alla vita sociale. Persino nel piccolo mondo della casa di via Krochmalna le giornate passavano più velocemente, più ricche di novità e di lavoro. La tenuta di Goclaw, presso la villa Rozyczk, che era stata donata a loro [263] nel 1921 da Massimiliano Kon, era ormai diventata la sede fissa per le vacanze estive dei ragazzi.

In quei giorni, col ritorno di Marina Falska in Polonia, si stava costruendo un nuovo orfanotrofio «La nostra casa», destinato agli orfani degli operai polacchi. Dopo un periodo prolungato di preparazione venne fondato, nell'autunno 1919, un collegio per l'infanzia a Pruszkow, in cui entrarono 50 orfani di lavoratori. Dirigevano questo istituto Korczak e la Falska. Nel contempo Korczak prese ad interessarsi a tutte le organizzazioni giovanili: scuole, opere educative e di assistenza. Dopo qualche hanno ebbe infatti ad osservare con grande soddisfazione nella prefazione della seconda edizione di Come amare i bambini, il crescente sviluppo dell'assistenza all'infanzia da parte di organismi pubblici con orfanotrofi, circoli di cultura, colonie estive, mutue per malattie ecc. Anche i movimenti di giovani esploratori e le leghe sportive e per l'educazione fisica risvegliavano la sua simpatia. E' da immaginare quanto grande fosse la gioia di questo uomo pieno di buona volontà, di iniziative e riformatore sociale al vedere ciò: «Durante la occupazione, suddito e non cittadino, non potevo pensare senza preoccupazione che con la venuta al mondo dei bambini dovevano pur nascere contemporaneamente istituzioni adatte per loro: scuole, ospedali e tutto ciò che possa creare delle condizioni per un livello di vita civile. Chissa, forse ci troviamo alla vigilia di nuove leggi ispirate alla eugenetica e ad una politica della popolazione» (Da Come amare i bambini). Korczak sosteneva ora che l'organizzazione di utili iniziative ed il loro sviluppo e la determinazione di giuste direttive fossero soprattutto un affare del singolo cittadino e dipendessero dal senso di responsabilità dell'uomo comune che lavora e produce.

Per alcuni anni, dopo il suo ritorno in patria, Korc- [264] zak continuò a lavorare come ufficiale medico: dapprima in un ospedale per malattie infettive a Lodz dove erano stati raccolti pazienti infermi di dissenteria, poi in un altro, sempre per malattie contagiose, a Kamionk. Oltre a ciò diresse due orfanotrofi: quello di via Krochmalna e quello di Pruszkow. Pubblicò poi due grossi volumi sui problemi dell'educazione. Nel '19 iniziò un ciclo di conferenze bisettimanali all'Istituto di Pedagogia speciale ed anche alla Università di Wolna Wszechnica. Partecipava con regolarità alla pubblicazione di Szkola specjalna e scriveva articoli, conversazioni di carattere politico e racconti anche sulla rivista W Sloncu. In questo periodo iniziò pure la consulenza quale esperto di questioni educative presso il tribunale locale. Per un certo tempo lavorò per un'organizzazione sanitaria come lettore di riviste tedesche e francesi. Ogni tentativo di costruzione di

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nuove forme di vita sociale lo interessava e tra questi il movimento cooperativistico. Su questo problema scrisse un magnifico racconto, pieno di humour, dal titolo «La bancarotta del piccolo Jak». Si tratta dell'avventura d'un ragazzo che fonda una cooperativa, un racconto scherzosamente definito dall'autore «all'americana e finanziario».

In questo modo, attraverso l'attività pratica e l'osservazione, Korczak riesce a stabilire un contatto con la problematica della società in tutti i suoi aspetti politici e sociali. Nel libro Corti senza vergogna egli dice a questo proposito in tono umoristico: «pensavate voi che fossi già un uomo finito? Soltanto istituto, bambini, orfani? E che del resto non mi interessassi più? Scusatemi. lo so ciò che succede al mondo. Lo vedo. E oltre a ciò leggo ogni giorno il Kurierek. Lo leggo dal principio alla fine. Io so, io so. Guai a chi si rinchiude. Sono informato dall'a alla zeta». [265]

Negli anni che seguirono la guerra tentò due volte di fare il punto, attraverso una specie di rendiconto letterario, della situazione e delle nuove idee che si andavano formando. Il primo tentativo risale ad un gruppo di articoli per bambini intitolato «Che cosa succede al mondo» che venne pubblicato tra il 1919-1920 sul bisettimanale W Sloncu. Quel periodo in cui «gli uomini cessarono di combattersi ed incominciarono a litigare» gli forni dell'ottimo materiale di divulgazione e popolarizzazione. In brevi articoli, scritti nel particolare linguaggio adatto alla mentalità ed alla comprenssione dei giovani, Korczak mostra tutto il suo estro artistico e psicologico. Avvenimenti come la conferenza della pace, le elezioni, il parlamento ed un grande numero di altre complicate questioni politiche furono raccontate con semplicità ed umorismo, con scherzosa ingenuità. Questo fu un altro tentativo per far passare attraverso il filtro della mente infantile l'essenziale dei vari fatti politici e di adattamento dell'opera d'arte alla vita spirituale del bimbo. Fu questo il primo passo di quell'opera che vedrà il suo seguito nel libro Il re Mattia I. Qui lo scrittore espone tutta una serie di pesanti problemi di carattere politico-sociale dove le lotte intestine, le aspirazioni, le leggi vengono ritratte con naturalezza mista ad una sottile allegria: tale libro si potrebbe classificare tra la parodia ed il racconto utopistico.

Alcuni anni dopo, durante una notte di S. Silvestro, in piena solitudine, venne formulata una nuova concesione della realtà, satirica e paradossale. Korczak che sapeva spiegare ai giovani con modestia e sincerità le complesse differenze tra i partiti e le evoluzioni parlamentaristiche, impresta la sua voce ad altri personaggi: la vira di ogni giorno in Polonia, come si presentava allora, fu espressa per mezzo di dialoghi; cosi egli poteva far conoscere la vi- [266] sione del mondo secondo le interpretazioni di numerosi uomini comuni, oscuri, coraggiosi e paurosi. I dialoghi Corti senza vergogna sui massoni e gli ebrei, sulle modifiche da apportare all'agricoltura, alla vita culturale e al commercio, sulle malversazioni della burocrazia, sulla letteratura e sull'amore nacquero tutti all'insegna dello spirito di osservazione e di una forte accentuazione del grottesco. Il mondo degli uomini semplici, i loro limitati orizzonti, i bassi ed abietti istinti che esistono in loro vengono qua scoperti attraverso lo specchio deformante della loro mentalità, fino a provocare un riso di compassione. Korczak fa capolino da un angolo nascosto, gioca sulle sfumature, schernisce, ma non aggiunge ai dialoghi alcuna interpretazione.

A questo punto si giunge ad una questione caratteristica specialmente nella prospettiva del tempo e data l'esigenza spirituale odierna che impone una scelta

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ideologica rispetto al biasimo ed alla lode. Dopo averlo seguito per tanto tempo, ci accorgiamo che Korczak, l'acuto osservatore, il pedagogo, il riformatore, si astiene dal prendere posizione e non indica chiaramente ciò che è male e ciò che è bene: le sue profonde considerazioni sui problemi del mondo sono infatti piene di comprensione ed illuminate da un sorriso di conciliazione.

Quando, con enorme emozione, scrisse sulla bellissima festa del Primo Maggio, spiegando ai bambni il significato della bandiera rossa, dell'inno rivoluzionario e del nuovo regime, non pote non aggiungere con obiettività:

«Ma al mondo ci sarà sempre uno che dirà: a me non piace, per me la cosa non va bene. Non vuole? Pazienza! Chi non vuole non deve essere obbligato a volere. I lavoratori sono la maggioranza ovunque e se lo vorranno, festeggeranno sempre il Primo Maggio». [267] Nelle sue descrizioni limpide e schematiche, nei suoi sunti snelli e plastici, in ogni situazione, parli di idee, di politica, di concetti, di partiti, Korczak vede sempre anche l'uomo che ha una volontà diversa da quella generale e gli concede sempre il diritto di parola. Nella sua grande umiltà e meticolosità morale, partendo dalla libertà di criticare ogni definizione, Korczak non si sente il coraggio d'imporre nessuna ideologia, nessuna costrizione, nessuna definizione dogmatica. Agisce sulle tendenze dei suoi discepoli aggirando il problema: sono l'atmosfera di moralità e le leggi della nobiltà dei fatti che devono spingerli alle decisioni della vita. Pieno di rispetto per le opinioni modeste, egli espone la varia problematica della vita con una visione ingenua o satirica ed attende che il lettore faccia la sua scelta.

Nel benedire i suo ragazzi quando questi stavano per affrontare il lungo cammino che si chiama vita, disse: «Non vi abbiamo dato Dio perché lo dovete scoprire in voi con lo sforzo della solitudine. Non vi abbiamo dato patria perchè la dovete scoprire attraverso l'opera del vostro cuore e del vostro pensiero. Non vi abbiamo dato l'amore del prossimo perchè non c'è amore senza perdono e il perdono è sinonimo di fatica e tormento, peso questo che ciascun uomo deve sostenere con le proprie mani. Una sola cosa vi abbiamo dato: il desiderio di una vita migliore che oggi non c'è, ma che ci sarà, una vita nella verità e nella giustizia. Forse questo desiderio vi condurrà a Dio, alla patria ed all'amore» (W Sloncu, 1919).

*

La strada che conduce a Dio, alla patria ed all'amore predicata da Korczak ai suoi discepoli era, nello stesso tempo, anche la sua ed egli vi s'incamminò nonostante tutti i tormenti e i dolori. Questa è la sorte di coloro che [268] sperimentano le loro prescrizioni per primi, avanti di averle insegnate. Ma tentativi non furono facili, nè gli diedero alcuna gioia. Il breve periodo di grande entusiasmo, di ampi programmi legati al ritmo generale di ricostruzione, si scontrò nuovamente con fatti ed avvenimenti tragici per un uomo fiero, cosi pieno di sentimento e di sensibilità come Korczak.

Anzitutto cominciò ad oscurarsi l'orizzonte dei rapporti tra polacchi ed ebrei: gli anni della guerra russo-polacca furono caratterizzati da atti di volenza contro gli israeliti e diedero via libera ai sentimenti antisemiti della borghesia. Il pogrom di Lwow ed il campo separato per i soldati ebrei a Jablona, nel 1920, sono i fatti più famosi d'un'atmosfera soffocante.

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Personalmente Korczak non si trovò in quegli incidenti e non fu coinvolto dai sentimenti che scatenarono. Continuò ad avere contatti ed a collaborare in pieno accordo con la parte migliore della società polacca e si adoprò sempre in egual misura sia per il bimbo ebreo, sia per quello polacco. Nonostante il separatismo si facesse sempre più marcato, grazie allo spirito d'iniziativa di Marina Falska, preparò in quei giorni la colonia estiva di Goclaw: queste colonie erano comuni ai bambini ebrei orfani di via Krochmalna e polacchi di Pruszkow, con l'intendimento di creare un incontro tra loro e di abbattere le barriere dei preconcetti e l'estraneità.

Il racconto La cicatrice, che venne scritto alcuni anni dopo, confermò con quale caparbietà ed amarezza Korczak si accingeva a combattere l'isolazionismo e l'odio razziale, in nome dei valori umani e dell'onore della scuola polacca. Il commosso manifesto dei bambini dell'orfanotrofio ai bambini polacchi, apparso in W Sloncu testimonia, come cento testi, sulla condizione dei suoi alunni in quell'epoca. Piaz- [269] zate, botte, insulti e scherno facevano parte dell'amara realtà degli orfani ebrei. Korczak era pieno di tristezza nel considerare il destino dei suoi piccoli Joske e Surele.

Non c'è da stupirsi se rispose, con un sorriso amaro ed infinitamente malinconico, ad un'assistente impaurita del fatto che i bambini della colonia potessero annegare nel fiume, con questo paradosso: «Di che si preoccupa? Che affoghino? E non è forse questa la soluzione migliore per risolvere la situazione dell'orfano ebreo?». «La nostra casa»

Poco dopo il ritorno di Korczak nel 1919, Marina Falska tornò in Polonia da Kiev. Ricevette dapprima l'incarico di dirigere un orfanotrofio fondato dall'associazione «Kolo Polek» che era presieduta da Klawerowa, ma lo lasciò subito. Falska ne fu allontanata dall'ideologia reazionaria della congrega e dallo spirito di ipocrisia e di servilismo che vi regnava. Fu poi nominata, assieme a Maria Podwysolka, ispettrice presso l'uffìcio di assistenza sociale: ma anche questo lavoro si rivelò difficile per una donna non sposata e privo di ogni prospettiva per il disordine che regnava negli organismi da controllare e per i pessimi rapporti esistenti alloro interno.

I ricordi della casa di via Bogutowska erano ancora troppo forti e la prospettiva di continuare un lavoro in collaborazione era troppo avvincente perchè Marina Falska e Korzak non tentassero di rinnovarla in Polonia in nuove condizioni.

Korczak si entusiasmò al progetto. Un orfanotrofio nuovo che venisse costruito ed organizzato sulle basi delle esperienze passate, poteva costituire il terzo stadio del suo [270] lavoro in questo campo e diventare una realizzazione in forma migliore di tutti i sogni che ancora non aveva attuato. Questa volta l'organizzazione non fu facile come per l'orfanotrofio di via Krochmalna; il nuovo istituto non si rivolse ai ricchi, rifiutò le loro donazioni e la loro protezione: si rivolse invece ai sindacati. I lavoratori furono, questa volta, i protettori del nuovo orfanotrofio ed il senso di responsabilità che era loro proprio si rivelò subito fin dalle prime difficoltà attraverso l'iniziativa e gli sforzi di uomini attivi e di buona volontà. Secondo quanto era scritto sui primi numeri del Giornale della «Nostra casa», l'istituto di Pruszkow

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veniva fondato per i figli degli operai, con gli sforzi, il modesto apporto e la partecipazione amichevole degli operai.

Nel periodo difficile successivo alla guerra, questo appoggio non era certo abbondante. Specialmente perchè i patetici appelli rivolti al pubblico alla ricerca di aiuti, non erano stati ascoltati. Cosi non vi furono nè assemblee, nè festeggiamenti per l'atto di fondazione: tutto ciò avvenne dopo; per ora si lavorava da un letto all'altro, da un secchio all'altro, da un ragazzo all'altro...

Spettò ai sindacati di decidere chi sarebbe entrato nell'asilo. Con ponderatezza e sforzi intensi e con la migliore buona volontà, i candidati furono ricercati nelle cantine, nei solai e negli sporchi cortili di Wola e Powisla. Giovani ed entusiaste assistenti giungevano nelle abitazioni, esaminavano le condizioni di esistenza, indagavano, facevano domande. Il dottore sorvegliava, chiedeva, scherzava e conversava su questioni professionali cosi come sui vari tipi di giochi, sul sapore delle caramelle e su tutto ciò che sarebbe avvenuto nella nuova casa. Nel novembre '19 cinquanta ragazzi entrarono ad abitare in una casa di media dimensione, affittata da certi Pawlowski in via Cedrowa, [271] a Pruszkow, tutti provenienti dal quartiere operaio più povero di Varsavia. Fu un inizio duro, di fame e di miseria. Ma anche nell'orfanotrofio israelitico di via Krochmalna, nonostante l'esperienza e la capacità organizzativa di Stefania Wilczynska e l'aiuto d'una commissione di personalità, gli anni del periodo post-bellico furono contrassegnati dalle privazioni e dal freddo.

Sul giornale interno del collegio del materiale interessantissimo rivela in palma di mano la giornata piena di fatica, le condizioni di vita ed il metodo educativo. Fin dal primo momento furono rese note a quei bambini, strappati alla miseria, le preoccupazioni dei grandi. Korczak raccontava loro con serietà e semplicità come venissero aiutati da istituzioni e da privati: «Quando nella nostra casa non c'era ancora nessuno, quando non c'erano letti, tavoli, spazzole o catinelle, diversi uomini ci aiutavano a raccogliere tutto ciò. Uno dice: lo so dove si possono avere i letti; andate là, vi daranno volentieri i letti. Un altro dice: scriverò una lettera perchè vi vendano legna da ardere a basso prezzo. E un terzo: andate presto in quella casa potrete avere farina per i vostri bambini. E un quarto ancora: ho un amico in un ufficio telefonerò e forse vi potrà dare del combustibile. Ognuno ha consigliato ed aiutato di buon animo. Qualcuno si è messo persino in coda per ricevere pane e patate, poi senza neppure scaldarsi un poco a casa nostra, è tornato a mettersi in coda per ottenere qualcosa per noi».

I bambini avevano ormai imparato ad esprimere gratitudine per i buoni amici della loro Casa. E casi apprendevano che era loro dovere partecipare al lavoro comune senza capricci e lamentele. «Quando i bambini vennero alla 'Nostro casa' - scrive Marina Falska, nel giornale dell'istituto - non vi erano nè tavole, nè panche, nè luce elet- [272] trica, poca legna, poco pane e poco cibo. Non c'era un armadio, nè un posto dove appendere gli abiti o sistemare la roba. I grandi erano costretti a lavorare duramente». Nella ressa, nella necessità continua di pulire e di ordinare, nacquero i turni e gli impegni: i bambini dovevano aiutare i grandi, rinunciare agli svaghi e persino al pane in favore della collettività tutto per il bene della «Casa»...: «Ancora due problemi abbiamo; il primo: non possiamo comprare carbone, e il secondo: di nuovo occorrono patate. Le patate costano care e noi non ne abbiamo nessuna scorta. La cosa mi preoccupa e poi per il carbone ne occorrerebbe a vagoni. Per il momento le stufe funzionano, ma non so se riceveremo di che alimentarle quando

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avremo bruciato la riserva. Dobbiamo imparare a risparmiare se non vogliamo rimanere, poi, davanti a sacchi vuoti ed a stufe fredde».

E cosi cominciò il risparmio: scrupoloso, pianificato. Per anni non comparve nel bilancio della «Nostra casa» alcuna somma destinata ai divertimenti, a materiali per lavori personali, alla carta, al gioco... Il pane era scarso e quando venne dato un'unica volta al mattino il piccolo Janek K. fece un profondo inchino alla sua fetta che poi baciò con trasporto (dal giornale dell'istituto del 17-4-1921 ). Nella casa erano in troppi e le officine, le aule di lavoro e di ricreazione si trovavano nelle scale e nei solai... La tristezza si fece presto sentire: i ragazzi furono presi dalla nostalgia di casa, per la povertà e le preoccupazioni della loro famiglia. Il peso dei ricordi era troppo grande per le gracili spalle dei bambini; gli istinti cattivi, le brutte abitudini ereditate, le paure e le depressioni si fecero presto sentire.

Ed ecco che in quelle difficili condizioni si apri la lotta contro il furto e la bugia, le risse e gli scambi di pugni e gli insulti, con il solo aiuto del giornale, del [273] tribunale interno, di citazioni ad esempio o di biasimo.

Tutto scaturiva dalla necessità immediata con semplicità. Per esempio, le richieste ed il rancore che i bambini mostravano nei confronti della direzione e dei loro compagni etano una cosa che esigeva un aperto chiarimento. «Bisogna attaccare un foglio - disse il dottore - e ognuno che abbia qualcosa da chiedere o di cui lamentarsi, segnerà il suo problema; di sera, quando nella casa regnerà la calma, sarà bene riunirsi con serenità e chiarire ogni esigenza, spiegare, domandare come sono andate le cose. Bisogna che tutto ciò che verrà detto sia messo per iscritto...». Marina sedeva di notte per esaminare tutte le lamentele e tutte le richieste traendone articoli per il giornale. Intanto il dottore studiava, dava consigli, scriveva... Poichè prestava ancora servizio come medico militare giungeva a Pruszkow solo due volte alla settimana, ma il meglio dei suoi pensieri, della sua attenzione e della sua iniziativa era dedicato ai bambini di via Krochmalna e di via Cedrova.

Questo nuovo centro allargò enormemente l'area delle sue premure e della sua osservanzione: in un modo molto interessante si andavano mischiando due mondi, due ambienti diversi come la povertà polacca e quella ebraica. Il fatto di poter svolgere la sua opera in un campo cosi vasto, non chiuso nell'ambito di un solo ambiente etnico o religioso, rese Korczak completamente felice.

Il maestro e lo studioso

Un giorno Korczak arrivò in ritardo ad una conferenza tenuta all'Istituto di pedagogia speciale. Era molto stanco e si scusò dicendo che era stato occupato in un lavoro molto importante ed eccezionalmente impegnativo. [274]

E quale è questo lavoro? - chiesero gli astanti. - Seppero cosl che per alcune ore era stato a scernere i fazzoletti usati dei suoi bambini: li osservava e leggeva in essi alcune verità nuove sui suoi educandi. «Quale magnifico biglietto da visita è un fazzoletto cosi tenuto!», diceva con un largo sorriso di comprensione. In un'altra occasione aveva parlato per delle ore, ad un uomo al quale non importavano minimamente certi argomenti, sul controllo dei denti da latte dei bambini e le loro cure.

Questi esempi potrebbero sembrare delle amenità e invece sono dati caratteristici della personalità di Korczak e del suo metodo di lavoro. Poco prima

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della sua morte, quando ormai era stato iniziato il rastrellamento del ghetto, egli scrisse il suo ultimo articolo per il Giornale dell'orfanotrofio intitolato «Perchè io stesso ritiro i piatti sporchi dai tavoli?». In questo scritto si trovano alcune considerazioni dedotte dall'osservazione del modo personale con cui i bambini mangiano, come sporcano e sciupano le stoviglie. Di qui egli traeva deduzioni scientifiche e faceva commenti sulla vita in comune. In un articolo dal titolo «L'educatore ambizioso» Korczak sostiene: «Prima di ordinare ad un bambino di pulire per terra, è necessario averlo fatto più volte noi stessi: bisogna saper strizzare lo straccio, bisogna conoscere tutti i segreti del materasso...»

Poichè non ammetteva la routine della teoria e poichè dava un valore particolare all'esperimento, egli si impegnava e costringeva a controllare ogni manifestazione della vita, persino quelle alle quali, generalmente, nessuno presta soverchia attenzione. Sempre egli volle personificare con ostinazione la figura dello studioso e del ricercatore intransigente, documentato. Verso la fine, disse, per la prima volta: «Il mio cervello è fatto per l'indagine non per [275] inventare. Ricercare per rendersi conto? No. Cercare per trovare, per arrivare all'origine delle cose? Neppure. Forse indagare per giungere ancora ad altre questioni e poi ad altre ed altre ... Io interrogo la gente (bambini e vecchi) sui fatti loro, sugli avvenimenti, sul loro destino. Non è che io sia preso dall' ambizione di dar delle risposte, anzi voglio passare ad altre domande e non certo sullo stesso argomento. . .» (dal Diario).

Fabre, lo scienziato tanto ammirato da Korczak che si era entusiasmato alla lettura delle sue opere entomologiche, era un semplice maestro che per anni interi svolse delle ricerche con infinita pazienza sulla vita degli insetti, senza aver ricevuto alcuna preparazione scientifica adatta. Korczak indicò a tutti gli educatori di essere i Fabre dei bambini. Lui stesso osservò il volo delle rondini per ben vent'anni per poter dedurre dal loro comportamento qualcosa riguardo ai ragazzi. Con la differenza che lui aveva una cultura medica, intellettuale e pratica e lunghi anni di esperienza.

«Se la medicina è una scienza della distinzione anche la pedagogia deve saper fare un'esatta diagnosi educativa, basata sulla comprensione della sintomatologia: guardare, rendersi conto, saper collegare i fatti e trarre le conseguenze...». Egli stimava in particolar modo l'esperienza concreta e l'osservazione in opposizione all'eccessiva sicurezza dei dogmatici ed allo schematismo senza vita. Dava importanza al lavoro di ricerca e di analisi ininterrotta e fu d'esempio in questo lavoro d'osservatore e d'indagatore umile e pieno di dedizione. Ammetteva con sinceritài propri errori e non si compiaceva a lungo delle sue scoperte, ma passava dalle certezze raggiunte ad altri interrogativi creativi. «Non vi sarà mai una teoria esatta e assoluta, nè alcuna che sia eterna. L'oggi non sarà mai [276] altro che un passaggio conclusivo dalle esperienze odierne ad una conclusione più ampia di domani... A volte io rimando, dimentico, cerco di evitare o mi esimo; a volte disprezzo o mi smentisco: tutto ciò però nei confronti di una teoria, ma quasi mai nei confronti di me stesso», scrive Korczak. «L'esperienza è infatti il mio passato, la mia vita, l'insieme di tutte le mie impressioni soggettive, il ricordo dei miei insuccessi, delle delusioni, delle sconfitte, delle vittorie e dei successi, dei miei sentimenti positivi o negativi». Oppure: «il tuo errore dimostra quale ostacolo siano per un pensiero obiettivo ed indipendente, tutti i preconcetti, i programmi, i presupposti aprioristici».

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Ai bambini ed ai suoi lettori, Korczak raccomandava di seguire l'esempio di Pasteur, lo studioso e scopritore, e di imitare la sua fertile costanza nel lavoro e negli esperimenti. Studiava le biografie di molti scienziati e ricercatori, interessandosi alle loro scoperte: ogni giorno consultava testi di letteratura medica o psicologica in parecchie lingue. Diceva che quando non avesse potuto leggere almeno un poco prima di dormire, aveva l'impressione di non essersi lavato. Nel Curriculum vitae del luglio 1924, scrive: «La conoscenza professionale della medicina fu approfondita dalla statistica (la statistica ha dato l'impostazione logica, la valutazione obiettiva dei fatti). Giacchè ho potuto pesare e misurare i bambini ogni settimana per venticinque anni, sono in possesso d'una raccolta di diagrammi di grande valore, di profili sullo sviluppo dell'infante nell'età scolastica e nell'adolescenza».

Il signor dottore controllava ogni cosa di persona. Per anni misurò e pesò i fanciulli, ne segnò con cura la crescita e le variazioni che essa aveva nei vari periodi: «il momento della pesatura, al sabato, è un momento di intensa emozione», disse nel Diario. Durante l'estate so- [277] leva pesare per scopi particolari alcuni bambini sia al mattino, sia alla sera dicendo: «Duecento prove al giorno servono per calmare i nervi...». «Ecco il mio lavoro scientifico - scrive Korczak nel Diario -: curve del peso, profili dello sviluppo, indici della creatività, prognosi dell'evoluzione somatica e psichica. Quante sono le speranze! Ma quali saranno i risultati? E se non ve ne fossero del tutto?».

Oltre a tutti questi dati si accumulavano nei cassetti taccuini e quaderni zeppi di altro materiale: rendiconti ed annotazioni sulle sue osservazioni. Questo perché egli dava importanza soprattutto all'annotazione, al documento. «Dalle annotazioni si può fare il bilancio di una vita, - dice in un opuscolo dal titolo Momenti educativi - nelle annotazioni sono nascosti i semi dai quali spunteranno il prato e il bosco, vi sono le gocce che faranno la sorgente». In questo opuscolo ci viene dato un esempio di acuta osservazione psicologica su un gruppo di bambini che giocano in un giardino e persino la proposta di un programma dettagliato per l'osservazione dei bambini ad uso degli studenti del seminario. Vi troviamo annotazioni sull'osservazione compiuta di notte su un bambino che Korczak aveva scelto per alcune sue caratteristiche: la cura con la quale egli lo seguì per alcune settimane costantemente ci mostra con quale meticolosità e pazienza, con quale precisione ed onestà si ponesse a quel lavoro.

I controlli si dividevano armonicamente tra la sintomatologia fisica e quella psichica: qui le varie inclinazioni di scrittore e di medico si fondono perfettamente. Per lui l'orfanotrofio è un campo di ricerca gigantesco, multiforme: da una parte la «clinica pedagogica», dall'altra l'attenzione rivolta alle prime sensazioni e reazioni di un organismo vivente e del suo intelletto. Lo scrittore osserva il movi- [278] mento e la forma, segue le parole con intuizione penetrante e con la sensibilità d'un artista; il dottore, invece, avverte con il tatto il polso che pulsa sotto la pelle, scoprendo i segreti della respirazione, i cambiamenti ed i ritardi nel processo dello sviluppo e della crescita. Davanti ad un orizzonte tanto grande di situazioni, il filosofo-educatore sostiene che: «Non soltanto nella psicologia bisogna cercare la risoluzione di certi problemi, ma anche nei libri di medicina, di sociologia, di etnologia, di poesia, di criminologia, nei libri di preghiere e in tutti i libri di studio». Come psicologo ammette: «Sperimentare significa soffrire» e si riferiva alle dolorose contraddizioni della vita e del pensiero. Ma come umorista dirà sorridendo: «Ho contato le macchie d'inchiostro e la sporcizia nei quaderni, le

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lettere scritte bene e quanto spetta al calzolaio per la riparazione delle suole..." (Pedagogia divertente).

E' interessante osservare in Korczak il rapporto tra la teoria scientifica e l'esperimento primitivo ed indipendente. Quando lui dichiara, esagerando a bella posta, che un libro in due volumi sulla lavatura dei panni e sulle lavandaie gli può insegnare di più della psicoanalisi, che la cucina esige più intelligenza e più spirito d'iniziativa d'un laboratorio batteriologico; quando dice di preferire come educatrice una vecchia vedova piuttosto che Charlotte Büler e che è meglio affidare un bambino alle cure di una donna che per cinque anni ha allevato galline piuttosto che ad una colta e diplomata, si sente nelle sue parole una rivolta contro l'autorità professorale ed i giudizi preconcetti derivanti da un'eccessiva sicurezza: Korczak è decisamente partigiano di verità nuove e rinnovantesi continuamente in nome di nuovi esperimenti: «io non so nulla» è il suo motto e sorridendo ripeteva la barzelletta che circolava quando era militare: «questa non è un'Università, qui bi- sogna pensare». [279]

Casi se la prendeva con le tabelle di crescita, con i tempi di sviluppo, con la dittatura dell'orologio e della bilancia circa i sonni e le diete dei bambini. Nel suo ultimo libro Pedagogia divertente, Korczak si permette un tono di critica parlando della medicina e dei metodi di guarigione. Ciononostante traspaiono nelle sue note e nei suoi commenti l'ansia della ricerca e la dirittura morale dello studioso. Non esiste rendiconto che sia per lui abbastanza preciso... Vuole scrivere un libro sul sonno dei bambini, sulla notte dell'orfanotrofio, un grosso volume... Sul problema del foot-ball, che è molto attuale, dice di voler dedicare «un'opera di cinque tomi» e di questi uno in tiero alla psicologia di tale gioco: egli ammette la sua ignoranza nei riguardi di questo sport in quanto era già troppo grande quando il calcio si era affermato, ma tuttavia riaffermava l'importanza della funzione svolta dalle nuove scoperte nel campo della ricerca scientifica. Per esempio: una cinepresa usata per eternare la scena di un dormitorio che si sveglia; questo sarebbe un film scientifico di molteplice uso. «In futuro l'educatore sarà anche uno stenografo ed un cineoperatore. E il microfono? E la radio? E gli esperimenti di Pavlov che fecero epoca? E lo stesso giardiniere che ottiene per mezzo di incroci o di particolari condizionamenti le rose senza spine e le pere nel deserto?» (dal Diario). Un aneddoto

Ventitrè allievi si riunirono per ascoltare la sua prima conferenza all'Istituto di pedagogia speciale. L'oratore era atteso con grande interesse. Si era nel 1919. Korczak arrivò vestito da ufficiale recando con se un piccolo bambino. [280] Avverti subito che la lezione si sarebbe tenuta nella sala Roentgen e invitò colà gli allievi sorpresi. Il bambino si attaccava alla mano del dottore, spaventato da tutta quella gente e dal buio ove veniva portato. E quando gli venne ordinato di spogliarsi e di mettersi in quell'oscurità davanti alla strana macchina che sembrava una lampada si spaventò e tremò ancora di più. Ora tutti potevano vedere attraverso lo schermo chiaro il cuore del bambino pulsare vertiginosamente, gonfiarsi e restringersi per l'ansia e per la respirazione affannosa, con un tremito veloce e impetuoso. Nel silenzio Korczak disse sottovoce:

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«Guardate bene e ricordate. Quando voi siete nervosi e stanchi, quando i bambini diventano noiosi e vi fanno perdere le staffe, quando siete arrabbiati e gridate, quando, andando in collera, volete punirli, ricordate: cosi si presenta il cuore di un bimbo, cosi egli reagisce...».

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[281]

Per l'anniversario dell'insurrezione: la relazione di Antek (81)

Il 19 aprile si celebra l'anniversario della gloriosa insurrezione del ghetto di Varsavia contro gli assassini nazisti, avvenuta nel 1943. Mentre in Israele si sta svolgendo lo storico processo contro Eichmann, uno dei responsabili principali per la realizzazione della «soluzione finale della questione ebraica», riteniamo opportuno contribuire ad un alIargamento della conoscenza di tali vicende pubblicando, preceduta da una nota informativa, la seguente interessante testimonianza.

L'autore di questo scritto, Izchak Zukerman, (soprannominato durante la

Resistenza Antek), ha avuto una parte di notevole rilievo nell'organizzazione della rivolta del ghetto di Varsavia del 1943 e nella guida della resistenza ebraica in Polonia durante l'occupazione nazista.

Nato il 13 gennaio 1915 a Vilna, Antek è stato membro fin da ragazzo del movimento giovanile ebraico progressista Hechaluz, entrando a far parte della direzione centrale di tale organizzazione alla vigilia della seconda guerra mondiale. Nel corso del conflitto si trasferi a Varsavia, da dove venne spesso inviato in missioni assai lontane dalle mura del ghetto della capitale. Ad esempio prese parte alla prima azione di lotta che l'Organizzazione ebraica combattente concertò a Cracovia per il 22 dicembre 1942, in accordo con la Gwardia Ludova. In questa impresa Antek, [282] uno dei pochi che si salvarono, rimase ferito ad una gamba. Tornato a Varsavia ed assunti incarichi della massima responsabilità (curò, tra l'altro, dal marzo al luglio 1942 la pubblicazione del giornale clandestino del suo movimento Iediot, [Informazioni] ed in seguito fu scelto quale vice comandante dell'organizzazione ebraica combattente) venne inviato, agli inizi del 1943, nella parte «ariana» della città per dirigere, dopo l'arresto di Ariè Wilner (Jurek) il centro cospirativo che era stato colà impiantato per raccogliere armi, aiutare dall'esterno coloro che si trovavano chiusi nel ghetto ed istituire rapporti di collaborazione con le altre formazioni partigiane polacche.

81 In Mondo Operaio, n. 3, marzo 1961.

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Prima, durante e dopo l'insurrezione del ghetto, Antek ebbe quindi modo di rendersi conto in maniera approfondita dei problemi e delle difficoltà che si dovevano superare per stabilire accordi con i capi della resistenza polacca ed in specie con l'Armia Krajowa, dipendente dal governo in esilio a Londra, che aveva tendenze nazionaliste e chiaramente antisemite. Zukerman continuò comunque anche dopo la distruzione del ghetto nell'attività clandestina per cercare di salvare i pochi superstiti che vagavano qua e là e per inserirli nel movimento partigiano. A metà del 1934 egli era uno dei cinque dirigenti centrali del Consiglio ebraico nazionale, che aveva l'incarico di far pervenire agli ebrei polacchi aiuti finanziari inviati dalla Palestina e dalla Gran Bretagna e trasportati segretamente in Polonia. Nel 1944 organizzò la partecipazione ebraica all'insurrezione di Varsavia.

Dopo la guerra Zukerman, immigrato in Palestina nel 1947, è entrato a far parte della colonia collettiva Lohamei Haghettaot (in italiano: Combattenti dei Ghetti) fondata da reduci della lotta partigiana. E' una colonia nei pressi di Chaifa dove sono stati istituiti un archivio ed un museo [283] storico sulle persecuzioni naziste. In tale «kibbuz» egli ha lavorato in un primo tempo come trattorista; poi è passato all'attività pubblicistica presso la Casa editrice centrale del movimento ed ha curato, insieme ad altri, la pubblicazione d'un importante antologia sul martirio ebraico in Europa (Sefer milchamot Haghettaot - Libro della guerra dei ghetti, Tel-Aviv, 1954) da cui è tratto questo suo saggio. Izchak Zukerman è un attivo militante del partito sionista-socialista Achdùt Avodà, che lo ha presentato candidato nelle ultime elezioni parlamentari.

Nel trattare certi aspetti delle vicende della seconda guerra mondiale, c'è di fatto, nel nostro Paese, una timidezza diffusa che impedisce di trarne una precisa «morale storica» (il che, tra l'altro, è un fenomeno assai pericoloso perché una maggiore informazione su tali questioni può contribuire in misura notevole ad evitare il ritorno a certi errori ed a certe debolezze che in passato si scontarono a caro prezzo). Così, ad esempio, sull'episodio tragicamente tipico del ghetto di Varsavia ci si è accontentati finora di pubblicare alcuni diari, documenti e testimonianze e, pur essendovi la consapevolezza che occorre una spiegazione ed un'interpretazione di tale materiale, si esita ad andare più avanti, ad integrarlo con gli opportuni commenti, ad esaminare tutti gli aspetti e tutte le implicazioni del problema.

Infatti dopo il libro di A. Nirenstajn (Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, ed Einaudi), nel quale, per vero dire, la raccolta antologica è completata da un commento che può considerarsi modesto avvio ad un'interpretazione critica, operata anche per mezzo d'una scelta di testi secondo principi ideologici e non meramente «obiettivistici», abbiamo letto il fascicolo speciale della rivista torinese «Questioni», che ricade nella tendenza al «disimpegno» e nell'accentuazione del momento sentimentale e del rifiuto a [284] rispondere ai mille quesiti che scaturiscono da un avvenimento quale la distruzione del ghetto di Varsavia.

Senza dubbio la lettura dei documenti pubblicati in tale rivista ed altrove è impressionante, ma a parte il fatto che non è molto difficile mettere insieme simili raccolte, si sente sempre di più un senso d'insoddisfazione e di vuoto causato dalla mancanza di ormai indispensabili chiarificazioni che colleghino organicamente le notizie frammentarie che da anni si stanno accumulando. Se su qualcuno la rievocazione generica fa ancora una certa presa, a mio giudizio è grave sottovalutazione ritenere che le giovani generazioni possano essere soddisfatte da

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commemorazioni sostanzialmente esornative, cioè non storiche e non scientifiche, anche se si valgono d'alcuni documenti tedeschi e di qualche parte dei diari di Ringelblum, di testimonianze isolate e d'alcuni rapporti incompleti dei movimenti clandestini.

Il fenomeno di disimpegno a cui ho accennato, va affrontato, secondo me, coraggiosamente perché esso non è in realtà che una sorta di pigrizia, di provincialismo, di desiderio di seguire una moda letteraria di superficialità, di pavidità a seguire vie nuove. Difatti, in altri Paesi dove non esistono condizioni specialmente favorevoli, si è andati abbastanza avanti nel campo dello studio della persecuzione razziale nazifascista: precisamente come modello di questo genere d'indagine ha valore il saggio dello Zukerman e la sua pubblicazione aspira ad essere esortazione perché si formi un gusto per il profondo, il contraddittorio, il non «verniciato».

Prima di lasciare la parola allo Zukerman occorre ancora avvertire che queste pagine sono state pubblicate nello Stato d'Israele nel 1954 e che hanno origine dalla relazione orale fatta dall'A. ai compagni di partito appena giunto [285] in Palestina. Esse quindi non vanno ritenute l'ultima parola sull'argomento, bensi un semplice, anche se autorevole contributo allo sforzo generale di ricerca, contributo al quale s'affiancano e seguono altre importanti prese di posizione. Tuttavia per la limpidezza e la cautela nell'esposizione riteniamo valga la pena d'essere offerto in lettura al pubblico italiano. Infatti, pur trovandosi espressa nello scritto di Zukerman una interpretazione delle vicende ben precisa secondo l'atteggiamento ideologico sionista-socialista, essa, quale frutto del ripensamento d'una personalità equilibrata e profondamente onesta, non indispone mai, anche se si leggono affermazioni nette e discutibili.

Ormai sono pressoche assodate le gravi responsabilità della borghesia ebraica, che dominava la comunità israelitica polacca, nell'abbandonare la massa di cittadini da essa amministrati completamente impreparata di fronte alla catastrofe imminente (tale dominio degli strati di ebrei ricchi sugli ebrei poveri non vi fu solo in Polonia: nei Paesi capitalisti esso è oggi saldo come ieri e sempre con pessimi risultati). E' cominciata perciò ad emergere l'esigenza di esaminare attentamente tale fenomeno sociale ed è per questo che lo Zukerman ha ritenuto opportuno concentrare l'attenzione sull'atteggiamento dei vari gruppi che compongono lo schieramento di sinistra, specialmente per quanto concerne le proposte strategiche e tattiche da adottare nell'opera di resistenza.

Non è il caso d'affrontare qui questa problematica, la questione, cioè, delle diverse vie che si sarebbero potute seguire e dei risultati che si ottennero operando nella direzione che venne in realtà stabilita. Desidero solo rilevare come la trattazione dello Zukerman solleva di fatto il quesito su quale validità avesse l'impostazione di lotta che avrebbero attuata i perseguitati razziali del partito comuni- [286] sta e degli altri partiti socialisti più conseguenti se essi fossero stati in maggioranza, impostazione centrata sull'uscita in massa dai ghetti e sull'arruolamento nelle file dei partigiani, prima della chiusura ermetica dei cancelli, quando il numero degli uomini validi per il combattimento era ancora assai alto. In definitiva il valore più alto dello scritto dello Zukerman, consiste proprio nell'aprire con grande accortezza una discussione su tali interrogativi.

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La rivolta degli Ebrei

Avevamo una sensazione generica: si avvicina la rovina. Forse è la catastrofe. Riuscivamo però ad immaginare che questa tempesta avrebbe coinvolto milioni di ebrei, giovani ebrei, bambini ebrei, e distrutto dalle fondamenta centri profondamente radicati alla terra d'Europa, costruiti con lo sforzo di generazioni, riducendoli a cenere su cenere? Non sapemmo misurare l'abisso. Le nuvole oscuravano il cielo e la cosa ci sembrò naturale e logica: verrà una tempesta e passerà, la tempesta farà dei danni e poi scomparirà e la vita ebraica fiorirà di nuovo anche nell'Europa orientale, anche a Varsavia, anche nella cittadina ebraica; vi sarà una continuazione alla generazione che si avvia al declino. Non comprendemmo che ci trovavamo di fronte ad una svolta storica tragica, quale non si era mai data, non comprendemmo che ci stavano trascinando verso il fondo di gradino in gradino, non sentimmo che venivamo costretti ad adattarci, che ci portavano in basso, sempre più in basso, sino a sprofondare.

Ci obbligarono a portare il bracciale bianco e azzurro: obbedimmo. Crearono il ghetto: vi entrammo. Sorse il campo di concentramento: non ci opponemmo, costruimmo [287] Treblinka con le nostre mani. Ci portarono ai vagoni piom- bati: vi salimmo. Non chiedemmo altro che un po' d'acqua prima della morte e ci affrettammo per essere i primi ad entrare nelle camere a gas. E chi comprese dal principio che dal bracciale bianco-azzurro, dallo «schande-band», v'era una linea diretta fino a Treblinka?

Incominciarono da piccole cose e ci abituammo. Ci vergognavamo di dover togliere il cappello di fronte agli ufficiali tedeschi, ma lo facemmo; ci ribellavamo dentro di noi quando il tedesco ci spingeva al lavoro a Seim e a Dinasi, ma andammo a lavorare; imparammo a non mangiare, a morire di tifo e ad essere strangolati dalla fame. Ci adattammo. V'è una forza che impedisce di vedere la realtà quale è.

Nel 1939 non comprendemmo, non credemmo, per mancanza di informazione e per la volontà di non vedere: la popolazione ebraica non voleva sapere. Se avessimo visto, se avessimo compreso, se avessimo potuto far girare indietro la ruota della storia all'anno 1939, si sarebbe dovuto dire: rivolta immediata! Infatti avremmo avuto molta più forza e molti più giovani con noi, molta più prontezza e sensibilità umana; molto più coraggio e più armi e più armati e più speranza. Bisognava dire: rivolta! Giacché infatti nelle più popolose strade ebraiche v'erano dei movimenti organizzati, che avevano innalzato la bandiera della liberazione nazionale e sociale, che avevano educato generazioni di giovani e che avrebbero potuto schierarsi contro il pericolo. Ed invece accogliemmo la vita cosi come veniva. E dopo ogni perdita dicevamo tra noi: «Soltanto continuare ! Fin qui siamo arrivati, l'importante è andar avanti !». Accettammo il buono ed il cattivo, benedicemmo la vita così quale essa era, così come ci era concessa, come l'invasore ce la dava. [288]

L'opinione pubblica ebraica ed i movimenti di massa non seppero presagire la catastrofe che si avvicinava. V'era un'organizzazione con una grande tradizione, il «Bund», (82) ma essa si dimostrò incapace di prevedere la rovina. Un «Bund» che

82 Con questa abbreviazione viene di solito chiamata la «Lega generale dei lavoratori ebrei», associazione politica ebraica di tendenza socialista che è stata di grande importanza nella storia del

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presagisce la catastrofe dell'ebraismo nella diaspora non è «Bund». Il «Bund» credeva in un domani migliore, nell'esistenza dell'ebraismo nella diaspora, ad una letteratura jidish nella diaspora, in una gioventù ebraica nella diaspora. Come poteva presentire la catastrofe? Esisteva un movimento comunista: giovani e ragazze abituati alla lotta. Tutto il loro slancio era indirizzato verso il gran giorno che sorgerà per i popoli e per il popolo ebraico tra essi. Potevano costoro presentire la catastrofe?

Io non conosco movimento diverso, all'infuori di quello pionieristico che ebbe il coraggio di vedere le cose come stavano, la realtà ebraica come essa era. Questo coraggio era la sostanza della nostra educazione nella diaspora, presso la sede del movimento, nell'«Hechaluz», (83) nell'organizzazione giovanile: studiare con la massima attenzione i cambiamenti nell'ordine costituito ebraico e non ebraico.

Questa era la tradizione del simbolo e di tutto il movimento: quantunque non si potesse misurare la profondità dell'abisso, ci si preparava al peggio, non al meglio.

L'orientamento generale e gli stati d'animo diffusi in Polonia in quei giorni non poco influirono in senso negativo sul cammino e sull'azione dei movimenti ebraici, sulla loro politica e sulla loro lotta. L'Europa è desolata, il nemico è nei pressi di Mosca e di Leningrado, la grande [289] Francia è caduta, i Balcani sono stati conquistati; le forze della resistenza isolate, lontane migliaia di chilometri da ogni fronte, lontane da ogni speranza, attendono il giorno che deve venire, credono nella vittoria. Giorno per giorno resistenti vengono uccisi, giorno per giorno scompaiono gli uomini migliori e la clandestinità polacca attende.

Noi dicemmo: crediamo nella vittoria, crediamo nella sconfitta tedesca. Sappiamo che v'è una forza nella resistenza e che noi siamo una parte di tale forza che si estende da Narvik ai Balcani, da Mosca a Marsiglia, noi ci consideriamo come soldati del terzo fronte; il fronte della resistenza. Però noi temiamo che dovremo combattere per primi, che la sorte degli ebrei si deciderà prima che si scacci il nemico, che la guerra degli ebrei non si inserisca nella guerra del mondo assoggettato, che la resistenza ebraica non si inserisca nella lotta della resistenza mondiale, e che questa differenza sarà sufficiente per permettere la nostra sconfitta prima che si levino in piedi negli altri popoli le forze della libertà. Bisogna, perciò, preparare tutto anche per il caso di una guerra da isolati, per una guerra nell'isolamento, giacchè abbiamo visto, calcolato e compreso: noi ci avviciniamo alla catastrofe.

E nell'organizzazione della nostra guerra, ci scontrammo nel muro di ostacoli cui ho accennato all'inizio. Nel ghetto v'erano molte difficoltà ed impedimenti; esistevano strati e gruppi diversi con posizioni contrastanti: quelli che ostacolavano spinti dal male e quelli che ostacolavano pur essendo guidati da ideali, e avendo cuore puro e rette intenzioni. V'era una parte che collaborò con i tedeschi: la polizia ebraica, il Judenrat, (84) l'istituto che soprannominarono

movimento operaio dell'Europa orientale. (Si veda in proposito Alle origini del «socialismo ebraico» - «Il movimento operaio e socialista in Liguria» n. 2-3, 1960). 83 Letteralmente, Il pioniere, organizzazione giovanile sionista. 84 Judenrat: Consiglio ebraico, era l'organismo rappresentativo degli ebrei di Varsavia. Sorse nel 1939 per ordine di R. Heydrich e svolse obiettivamente un'azione collaborazionista.

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[290] «Cenestka», (85) e gli altri ancora. Non sono sicuri che tutte le persone che erano in tali istituzioni furono dei traditori e che tutti gli uomini che in esse lavoravano si interessassero esclusivamente del loro proprio tornaconto e nemmeno sono sicuro che tutti coloro che prestarono la loro collaborazione avessero nel loro cuore delle intenzioni inique. Ma dal punto di vista obiettivo, tutte quelle istituzioni furono strumenti di tradimento, che, nelle mani dei tedeschi, aiutarono a trasportare gli ebrei nei campi di sterminio, verso la morte. Il Judenrat era la testa: eseguiva gli ordini, li met- teva in pratica, riceveva le ordinanze tedesche; la polizia ebraica era la mano che agiva: spingeva gli ebrei al lavoro, li caricava sui vagoni, nei treni dello sterminio, aiutava nella liquidazione dei ghetti. Non è mia intenzione affermare che la polizia ed il Judenrat erano come il «Cenestka», l'organizzazione di Ganzwaich, raggruppamento di agenti della Ghestapo palesi e mascherati, che si erano messi al servizio ed al comando del nemico di loro volontà per cupidigia di guadagno e per gli istinti più bassi. Il Judenrat e la polizia si opponevano ad ogni attività pubblica, combatterono contro ogni manifestazione di opposizione. Dopo la notte del 18 aprile Cerniakov (86) convocò i capi della resistenza ebraica per dichiarare che l'attività della resistenza avvicinava la distruzione degli ebrei e per richiedere di cessarla: non pubblicare giornali, non radunarsi, arrestare l'attività educativa. La polizia ed il Judenrat frenarono, dapprima, ogni azione, in un secondo tempo divennero traditori della causa ebraica.

Però questi non erano gli unici ostacoli esistenti nel ghetto. Vi erano degli oppositori idealisti, uomini puri che [291] per diversi motivi si opposero alla lotta ebraica. Alcuni fondarono la loro opposizione sotto l'aspetto della politica generale, altri da un punto di vista storico, altri con motivi religiosi.

Il rappresentante degli oppositori per motivi di politica generale potrebbe essere - per chiamarlo col suo nome - Ozgiech. (87) Egli non disse: «Non combatteremo», ma «Combattano i polacchi. Quanto a noi, per ora, no». Egli diceva che le avversità e le sofferenze non toccavano solo gli ebrei, ma anche tutta l'altra popolazione. La nostra lotta sarebbe riuscita, secondo lui, soltanto se si fosse unita in contemporaneità d'azione con la resistenza non ebraica e solo se la resistenza non ebraica fosse stata pronta ad iniziare la battaglia insieme a noi. E poiche la resistenza polacca non riteneva opportuno adattarsi alle necessità della resistenza ebraica, toccava a noi adattarci ai presunti interessi dei polacchi. In riunioni comuni sentimmo Ozgiech sostenere: «Noi siamo una parte del mondo combattente, una parte della resistenza armata. Perché vi allarmate per l'uccisione degli ebrei di Vilna? Forse non sapete quante decine di migliaia di polacchi si trovano ad Auschwitz e nei campi di concentramento intorno a Lublino? Quanti polacchi vengono uccisi ogni giorno in Polonia? E' un'unica guerra per tutti gli oppressi: quando giungerà l'ora l'operaio polacco e l'operaio ebreo combatteranno fianco a fianco».

Vi erano anche coloro che spiegavano storicamente la loro opposizione. La persona che nella maniera più chiara esprimeva questa tendenza era lo storico dotto Izchak Shiper. Egli riteneva che vi fossero due correnti valide nella sto-

85 Dalla parola polacca tredici, si riferisce al n. 13 di via Lezcno dove tale organizzazione spionistica-affaristica aveva sede. 86 Capo del Judenrat. Si suicidò nel 1942. 87 Maurizio Ozgiech dirigente del Bund. Fu ucciso nel carcere di Varsavia mentre tentava di fuggire dalla Polonia.

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[292] ria ebraica; quella della lotta e del combattimento e quella che riceve la sentenza piegando il capo. Vi sarebbero cioè delle epoche nelle quali il popolo non può e non deve combattere. Shiper confrontò i periodi della storia ebraica e si convinse che nelle condizioni in cui ci trovavamo, se avessimo iniziato a lottare, non avremmo che rischiato di perdere tutte le possibilità di salvezza. E quando giunsero i giorni dello sterminio credette essere meglio accettare la sentenza e lasciare che 70 mila ebrei andassero a Treblinka piuttosto che fossero 500 mila a dover andare; bisognava salvare ciò che si poteva, anche se sapevamo che coloro che venivano portati via, erano condotti alla morte. Ciò non significava assolutamente che si dovessero aiutare i tedeschi allo sterminio. Semplicemente egli credeva che non si avesse il diritto morale di mettere in pericolo mezzo milione di ebrei varsaviesi e milioni di ebrei polacchi dal momento che era convinto che il Moloch si ritenesse soddisfatto di 70 o 100 mila ebrei in tutto. Questi discorsi ascoltammo da lui non solo in conversazioni private, ma anche in più vasti consessi.

Esistevano pure quelli che fondavano la loro opposizione ad agire su principi religiosi; uno che rappresentava questa corrente era il rabbino Zisha Fridman il quale diceva: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto! Non abbiamo diritto di mettere in pericolo vite ebraiche; poiché c'è una responsabilità collettiva di tutti gli ebrei nei confronti del nemico non abbiamo il diritto di alzare la mano contro i germanici e causare, di conseguenza, la rovina di centinaia di migliaia di ebrei».

Gli oppositori per motivi spirituali non contrastavano in effetti che a parole; i collaborazionisti, invece, si opponevano con i fatti e la polemica con loro si trasformò in seguito in lotta armata. [293]

Tuttavia non vi erano solo ostacoli esterni; esistevano impedimenti spirituali interni in ogni ebreo, nello stesso movimento pionieristico, in ogni pioniere.

Gli impedimenti sorgevano anzitutto dalla responsabilità collettiva che pesava su ogni decisione. Tra queste difficoltà spirituali è possibile ricordare l'incapacità a valutarsi esattamente: il movimento pionieristico non comprese la sua forza. Nel ghetto c'erano partiti politici, dirigenti ed oratori, esisteva una vita pubblica e noi dell'Hechaluz vedemmo il nostro posto in un solo settore, nell'attività educativa tra la giovane generazione. Quando constatammo che i partiti non adempivano ai loro compiti non osammo dire che noi eravamo il partito, il movimento, l'organizzazione, che eravamo la forza politica, la forza di combattimento. Molti ebrei caddero prima che noi giungessimo alla conclusione che il nostro movimento avrebbe dovuto, ad un certo punto, non essendovi altra alternativa, prendere il posto di partiti e di personalità e dire: «Noi». Questa fu una grande difficoltà spirituale.

Si presentava pure un'altra difficoltà obiettiva: non avevamo armi e ci mancava la preparazione militare, Non si pensi che il nostro primo esperimento di costruire un'organizzazione combattente (non è importante il nome con cui allora si chiamò) si facesse solo nel 1942, quando ci giunsero le prime notizie di Vilna e da Chelmno. La prima organizzazione combattente sorse nel 1941, lo stesso giorno che scoppiò la guerra sovietico-tedesca. Avevamo fiducia e sicurezza: fra qualche giorno l'esercito rosso attraverserà il confine polacco e noi prenderemo il nostro posto in questa guerra. Ma anche paventavamo gravi pericoli: il tedesco durante la ritirata compirà delle stragi; ci difenderemo!

Passarono però i giorni e le settimane e l'esercito

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[294] tedesco marciava su Stalingrado e Mosca e tra noi che non avevamo armi sorse una piccola forza di difesa di qualche decina d'uomini. Ma un esercito privo di armi è come un essere miserabile, che marcisce e va sfasciandosi. Questi ostacoli erano legati l'uno all'altro e non si può distinguere tra di loro, essi erano collegati e si intrecciavano influenzandosi reciprocamente.

La discussione nel ghetto non era soltanto se combattere o no. Esisteva anche la questione: quale tipo di guerra vi deve essere e dove si dovrà svolgere? Dovremo scegliere il luogo secondo principi di strategia militare? Fisseremo le nostre posizioni dove le condizioni obiettive permettano d'infliggere al nemico un grave colpo e dove si possa garantire in qualche modo la salvezza per le squadre combattenti oppure sceglieremo il teatro della guerra secondo motivi ebraico-nazionali?

Ho ricordato in precedenza il primo tentativo di creare una organizzazione combattente. Questo tentativo non riusci: all'esterno, sull'orizzonte non v'era la minima scintilla di speranza, il minimo barlume di guerra e di vittoria per una distanza di migliaia di chilometri dal ghetto di Varsavia; all'interno mancavano le armi e si era privi di addestramento militare. Anche i fattori che avevano spinto a fondare l'organizzazione andarono scomparendo. E tuttavia già quattro mesi dopo l'inizio delle ostilità tra Germania ed Unione Sovietica, intervennero nuovi elementi, si manifestarono e si svilupparono nuove forze motrici. Le notizie che ci giungevano da Vilna e da Chelmno, dall'oriente e dall'occidente annunziavano rovine e distruzioni ed allora tentammo di creare un fronte unico di tutti coloro che erano capaci di manifestare opposizione. Facemmo delle riunioni. Ma non riuscimmo. Ho ricordato la posizione del «Bund»: esso considerava il ghetto come un [295] settore, una parte, un anello nella resistenza generale po- lacca.

Nello stesso periodo, nella primavera del 1942, si costitui in Polonia una nuova forza: il PPR (88) in sostituzione del vecchio partito comunista. Esso si gettò nell'azione dopo che la guerra era entrata in una nuova fase e l'Unione Sovietica era stata attaccata. Il principio del PPR era: combattere i tedeschi in ogni luogo ed in ogni momento. L'amicizia con l'URSS e la partecipazione concreta alla lotta dell'esercito rosso si fondono dunque con la vittoria della causa polacca, la sorte della Polonia diviene dipendente dalla sorte dell'Unione Sovietica e dalla sorte dell'esercito rosso. Di conseguenza i compagni ebrei del PPR all'interno del ghetto presero nelle loro mani l'iniziativa, e con assai più successo che tra i polacchi, di creare un fronte anti-fascista. Associati in questa impresa erano: il «Poalei Zion smol», il «Poalei Zion - Z.S.», il «Dron» e l'«Hashomer Hazair» (89); il Bund e gli altri sionisti non parteciparono. Noi avevamo chiesto un fronte vasto e democratico, ma consideravamo con cautela il blocco antifascista e polemizzavamo al suo interno. PPR significava: aiuto alla Russia So- vietica, organizzazione degli ebrei dal ghetto per unirsi al movimento partigiano. Noi dicevamo: il movimento partigiano polacco è sul suo territorio, mentre invece il movimento partigiano ebraico si troverebbe fuori del ghetto e se noi sottrarremo dalle mura deI ghetto le nostre forze migliori chi combatterà all'interno del ghetto stesso? Siamo forse autorizzati ad abbandonare il ghetto a se stesso privandolo della forza dei giovani, della forza dei combat-

88 «Partito polacco dei lavoratori». 89 Partiti e movimenti ebraici di varie tendenze, ma tutti della corrente sionista-socialista.

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[296] tenti? La gioventù ebraica che si è educata in queste strade strette, nella sinagoga, nella scuola, nell'atmosfera popolare di questi luoghi, il cui destino è legato a quello del popolo tutto, non ha dunque un suo posto nel ghetto? Dovremmo abbandonare i nostri genitori, i nostri figli, quelli che tra noi sono più deboli, i luoghi dove siamo cresciuti? Li abbandoneremo allo sterminio senza possibilità di difesa per andare dove la guerra offre maggiori prospettive di salvezza, dove la lotta ci darà maggiori possibilità di vita, di vittoria, in collegamento con i non ebrei?

Dopo un lungo periodo di lotta ideologica nelle fila del Blocco antifascista, si decise di fondare un'organizzazione militare dipendente dal Blocco, avente la sua base e la sua zona d'azione all'interno del ghetto. Alla testa di questa organizzazione fu posto Mordechai Tenenbaum che era giunto allora da Vilna a Varsavia e che era il nostro rappresentante militare.

Volevamo un'organizzazione di combattenti ebrei indipendente, che non ricevesse ordini dalla resistenza ufficiale polacca, ordini derivanti da una politica attendista e d'inattività, bensì che li ricevesse dall'interno del ghetto, che avesse un ebreo come comandante ed ebrei per combattenti i quali stabilissero loro il momento di combattimento e l'istanza politica dei quali fosse ebraica. II posto di guerra doveva essere tra le mura del ghetto. Eravamo convinti che in questa maniera non avremmo rimpicciolito il nostro compito nella lotta complessiva della resistenza. Infatti mi sembra che la rivolta dei ghetti ha rivelato meglio la partecipazione ebraica alla resistenza e le caratteristiche ebraiche di questa lotta, della lotta condotta da ebrei aII'interno della resistenza polacca, quantunque il numero dei combattenti nei ghetti fosse piccolo; comunque nei ghetti non vi era altra forza combattente oltre a

[297] quella ebraica. Il succo della resistenza ebraica era nei ghetti.

L'Hechaluz era tra i combattenti l'elemento di punta, quello che decideva e trascinava dietro di se. L'Hechaluz non era l'unica forza combattente, ne in Polonia, ne nel ghetto, ma era l'unico, spesso nell'isolamento, che richiedeva con grande energia una guerra ebraica, sotto bandiera ebraica e comando ebraico.

II Blocco antifascista non tenne duro: si sfasciò avanti la prima operazione di sterminio. Il 28 luglio 1942 i movimenti pionieristici «Dror», «Hashomer Hazair» e «Akiba» (90) decisero la creazione di una organizzazione combattente. Dopo il primo rastrellamento tedesco ottenemmo l'adesione del «Bund», dei partiti sionisti e del PPR e decidemmo: guerra!

E di qui incominciò la discussione: quando combattere? E' possibile decidere che si combatterà, ma rinviando l'inizio della lotta si rischia di arrivare al punto che non vi è più spazio per essa. Infatti quando si concluse la prima fase della strage, non era rimasto di mezzo milione di ebrei versaviesi che 50-55 mila persone. Ed allora si pose la domanda: se di nuovo verranno a prendere gli ebrei, per inviarli a TrebIinka, se di nuovo verranno portati via dal ghetto, combatteremo o no? E continuarono le discussioni, accanite discussioni. Eravamo confusi, ma sapevamo quale era la maniera con cui ci avevano distrutti: avevano incominciato con la deportazione di migliaia di ebrei ed erano arrivati a deportarne decine di migliaia. Quindi dicemmo: non concederemo nemmeno più un ebreo! Ci dicevamo tra di noi: occorre essere responsabili! Noi ci stiamo caricando della responsabilità storica della sorte degli ebrei!

90 Movimento giovanile ebraico religioso.

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[298] Se il 18 gennaio non fossimo stati sorpresi dai tedeschi e se avessimo potuto

radunare con urgenza il Consiglio Nazionale e la Commissione d'emergenza quando il ghetto di Varsavia fu attaccato dall'esercito e dalle SS e chiedere il parere della nostra Commissione politica, non sarebbe esistita a Varsavia la rivolta di gennaio.

Ma capitò un miracolo, gli uomini dell'Hechaluz e le squadre appostate non poterono mettersi in collegamento con la Commissione politica. Le squadre d'attacco, sia dell'Hechaluz che del «Dror» (nelle quali erano pure inseriti compagni del «Gordonia»), che dell'«Hashomer Hazair» non poterono stabilire un contatto neppure tra di loro, e tuttavia lo stesso giorno ognuno decise di fronte a se stesso: combattere!

La rivolta del gennaio preparò e stabilì quella d'aprile. Se non avessimo avuto quell'inizio, se non ci fossimo assunti quella responsabilità una prima volta, se non avessimo preso l'abitudine al fatto che era possibile uccidere dei tedeschi, che era possibile vincerli, non saremmo arrivati alla rivolta d'aprile. Dopo la rivolta di gennaio tacque ogni voce d'opposizione. Era necessario imparare dall'esperienza ed il movimento Hechaluz fu in questo determinante per i suoi istinti sani, per la forza umana che era in esso, per il suo rispetto per l'uomo. Fu il movimento Hechaluz che decise: guerra e sia quel che sia!

Nella rivolta di gennaio si scelsero le vie di lotta, si usarono cioè due tattiche che imparammo per il futuro. Una prima squadra aveva combattuto per le strade della città. Questo aveva avuto una eco ed aveva fatto un'impressione enorme: s'era creata la leggenda della rivolta di gennaio. La gente era rimasta sorpresa: e non solo gli ebrei o i polacchi di Varsavia. Tutta la Polonia narrava episodi sui carri armati degli ebrei e sulle migliaia di com-

[299] battenti ebrei. In realtà parteciparono a tale scontro faccia a faccia coi tedeschi tutti i nostri uomini, eccetto Mordechai Anilevic (91); inoltre l'armamento della squadra si rese inservibile.

L'altra squadra aveva usato diverso metodo di combattimento: il metodo partigiano. Chi come noi conosceva i nascondigli, i tetti, le cantine, i vicoli, i collegamenti esistenti tra le strade? Potevamo attraversare tutto il ghetto di Varsavia di strada in strada senza uscire allo scoperto attraverso sotto-passaggi, cantine e soffitte; avevamo fatto irruzioni nelle case anche prima di allora. In conclusione nella giornata iniziale avemmo uno dei nostri ferito e uccidemmo alcuni tedeschi, inoltre ci provvedemmo di armi (pistole, bombe a mano e fucili) e di esperienza.

Il giorno dopo rafforzammo la seconda squadra; vi fu un nuovo scontro e una nuova vittoria: nemmeno un ferito da parte nostra. Piombammo sui tedeschi con abilità molto maggiore. Questa tattica salvaguardava gli uomini, ci procurava armi e - cosa fondamentale - ci dimostrava che il tedesco era di carne e ossa come un uomo qualsiasi. E antecedentemente questo non lo si sapeva. Era bastato che comparisse un tedesco nel ghetto perche la popolazione ebraica cominciasse a fuggire ed i polacchi a picchiare. Adesso si rivelava che un ebreo armato è più forte di un tedesco: perche ha un ideale, perche ha di che combattere, mentre il tedesco non è che un assassino ed un predone; un assassino ed un predone non andrà in un posto dove c'è da rischiare la vita. Fino a che poteva far bottino senza pericolo, entrare nelle case, uccidere bambini, saccheggiare,

91 Comandante dell'Organizzazione ebraica combattente. Era membro dell'Hashomer Hazair (La giovane guardia, movimento giovanile sionista). Morì l'8 maggio 1943 nel bunker del comando centrale, in via Mila 18. Aveva 24 anni.

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[300] ebbene lo faceva, ma quando sentì, nell'entrare in una cantina, che non era possibile essere sicuri di uscirne, o, quando entrò in una casa ebraica, che poteva scontrarsi con dei partigiani, smise di fare scorrerie.

E così come noi al momento della prima incursione non eravamo pronti a difenderci, analogamente anche i tedeschi non erano preparati dal punto di vista psicologico al cambiamento manifestatosi nella popolazione ebraica e nei combattenti ebrei. Si sviluppò la paura e i tedeschi furono costretti a studiare se la guerra contro gli ebrei del ghetto di Varsavia non avrebbe suscitato anche una guerra contro i polacchi. In ciò essi sbagliarono, tuttavia temevano che nella misura in cui la rivolta si fosse ampliata - ed erano convinti che noi avessimo molti più uomini ed armi di quanti ne avevamo in verità - si sarebbero risvegliati pure i quartieri polacchi. Questa situazione li obbligò in gennaio ad interrompere di portare via gli ebrei dal ghetto a forza ed a cercare di farli uscire pacificamente. Ci trovammo allora di fronte ad una realtà nuova: i tedeschi rifiutano la guerra aperta con gli ebrei; nasceva di qui un grandissimo pericolo per l'insurrezione, è duro infatti, combattere quando c'è una possibilità d'illusione, quando il nemico riesce a mimetizzare i suoi piani, a generare confusione e tu accogli l'imbroglio come possibile verità.

In quel periodo fu inviato nel ghetto presso la Ghestapo, l'imprenditore industriale Tebens, (92) il tedesco in borghese, e venne posto a capo del ghetto; egli doveva dimostrare che i tedeschi non portavano via gli ebrei per ucciderli, ma per avviarli nei due campi di concentramento di Poniatov e Trawniki. Quindi incominciarono a trasferire

[301] gli ebrei non con la forza, ma tramite manifestini e propaganda diffusi sia da tedeschi che da ebrei. E un' altra volta gli ebrei superstiti vollero illudersi, nonostante sapessero che il ghetto di Varsavia sarebbe stato completamente distrutto, che presto sarebbero stati distrutti anche i campi di concentramento, che gli ebrei di Trawniki e Poniatov sarebbero vissuti solo alcuni mesi in più, che anche il destino di Trawniki e Poniatov era di distruzione. Conoscevamo bene che la differenza tra Varsavia ed i campi consisteva in pochi mesi di esistenza. Gli ebrei del ghetto di Varsavia potevano organizzarsi ed insorgere, ma era dubbio se vi sarebbe stato il tempo di preparare la rivolta anche a Poniatov e a Trawniki; si pose perciò una domanda decisiva: abbiamo il diritto di accorciare delle vite ebraiche di tre, cinque, sei mesi? E la decisione fu: sì!

Poiche s'era chiarito che avevamo il diritto di prendere quella decisione, incominciammo a combattere. La popolazione ebraica non solo non ebbe paura di noi, in quei giorni dopo la rivolta di gennaio, non solo incominciò a stimare la nostra forza, ma anche incominciò a mostrare verso di noi una grande simpatia. Noi eravamo una fonte di sollievo per l'animo ebraico durante la catastrofe; e come quando si era in precedenza creduto di salvarsi e di evitare il peggio, così ora la popolazione ebraica voleva rassicurarsi credendo nella nostra forza e che noi l'avremmo potuta salvare. In altre parole con la rivolta di gennaio avevamo già operato una volta il salvataggio.

Prima di iniziare la rivolta, stabilimmo di compiere certe determinate azioni per garantirci alle spalle. Ci rendevamo conto che durante la prima deportazione nessuna altra forza esterna ci aveva danneggiati tanto quanto quell'istituzione che

92 Rappresentante tipico di quegli industriali che si giovarono delle possibilità offerte dai nazisti per far prosperare i loro affari. Vive libero nella Repubblica federale tedesca.

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aveva nome polizia ebraica; se non avessimo ripulito l'atmosfera del ghetto, se non avessimo

[302] eliminato con la forza tutti coloro che potevano recarci danno non vi sarebbe stata rivolta. Nel ghetto non c'era posto per due elementi contrastanti tanto decisamente: avrebbero comandato il Judenrat e la polizia o avrebbe comandato l'Organizzazione Ebraica Combattente. Decidemmo quindi di fare giustizia degli uomini del Judenrat e della polizia. Piombavamo in pieno giorno sugli ebrei appartenenti alla Ghestapo e uccidevamo chi non si nascondeva cosicché chi non cadeva morto era costretto a fuggire. Potemmo di conseguenza imporre al Judenrat di darei ascolto: fissammo un grande contributo finanziario a favore dell'OEC da pagarsi assolutamente entro tre giorni da parte del Judenrat e delle sue organizzazioni. Per la data stabilita il contributo arrivò ed il Judenrat ci pregò soltanto di cancellare dai motivi che avevamo esposti per ottenere la somma quello che descriveva come movente che ci aveva spinto ad agire l'avere il Judenrat collaborato con i tedeschi. Da quel momento comprendemmmo che il Judenrat non avrebbe più avuto capacità di decisione nel ghetto.

Dopo aver purificato l'aria fummo certi che un compagno dell'Organizzazione Combattente poteva andarsene da solo per le strade del ghetto, mentre i germanici furono costretti, nel periodo gennaio-aprile, ad andare sempre in gruppo: essi chiamavano il ghetto «Messico». Non c'era più coprifuoco, come s'era avuto dagli inizi dell'occupazione nazista, spezzammo regole ed abitudini, evademmo oltre le mura. V'era necessità di denaro perche bisognava mantenere i combattenti e intraprendemmo quindi molte azioni, che ci procacciarono milioni di zloty e in ciascuna di tali imprese avevamo un solo precetto morale: il combattente non opera per il suo salvataggio, non per elevare il suo livello di vita, ma per mantenersi e per procurarsi delle

[303] armi; imponemmo tasse alla classe dei più ricchi, che avevano accumulato capitali durante la guerra collaborando con i tedeschi nel settore economico. Ci rivolgemmo ai fornai e dicemmo loro: abbiamo un esercito popolare e il popolo deve sostenerlo. Essi ci aiutarono volentieri benedicendoci .

Avevamo ancora in quei giorni una questione da risolvere: nelle vie della città comparvero bande di combattenti irregolari. In tali gruppi c'erano degli uomini che non avevano trovato posto nell'Organizzazione Combattente e che tuttavia erano intenzionati a combattere; vi erano però anche quelli desiderosi di sfruttare l'occasione del «Messico» per arricchirsi con la forza e che facevano delle requisizioni nelle case ebraiche in nome dell'OEC. Intraprendemmo un'azione metodica contro tali bande e le eliminammo o con le trattative o con la forza. I migliori, coloro che erano spinti da un movente ideale, li arruolammo nelle nostre squadre.

L'Organizzazione Ebraica Combattente era composta da 24 gruppi d'assalto, suddivisi secondo partiti o movimenti giovanili. Avevamo deciso in questo senso perche avevamo pensato che l'Organizzazione doveva essere basata su unità militari all'interno delle quali la coesione tra gli uomini doveva essere stretta e la fiducia reciproca grandissima. Di conseguenza uomini che avevano ricevuto un'educazione comune dall'inizio della guerra, che avevano vissuto insieme e che si conoscevano profondamente, avrebbero dovuto combattere con maggiore sicurezza. Se avessimo creato l'Organizzazione nel giro di alcuni anni, può darsi che l'avremmo costruita su diverse basi; il tempo invece era limitato, sapevamo che se nella squadra non fosse

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esistita la fiducia tra comandante e combattenti, la squadra non avrebbe combattuto. Perciò vedemmo nel le

[304] game proveniente dal movimento giovanile un pregio militare.

Tuttavia non si deve concludere da questo che ciascuna delle squadre fosse costituita da uomini di un solo colore politico. Vi erano anche delle squadre miste.

II fondamento dell'OEC erano i «collettivi». Avevamo dovuto constatare che non vi sarebbe stata squadra combattente se i suoi membri non fossero stati radunati in un solo luogo; la rivolta di gennaio ci aveva insegnato che i combattenti che non erano radunati in un solo posto non avevano combattuto, sebbene fossero provvisti di armi. Avevano combattuto quelli di via Zamenhof 56 e 58 e di via Mila 34 e 63 che erano membri delle «comuni» dell'Hechaluz. Da allora tutti i combattenti vissero insieme nei «collettivi».

Le nostre armi erano: rivoltelle (per ogni uomo una rivoltella), alcuni fucili, un fucile mitragliatore, mine (nascoste in cinque o sei posti) bombe di nostra fabbricazione con alto potere esplosivo, bottiglie Molotov, bombe a mano polacche e tedesche per la difesa e l'attacco. Oltre a ciò avevamo un'altra arma: una grande idea e una grande fede in essa; vedevamo l'idea della rivolta come l'idea centrale della nostra vita, non potevamo prendere in considerazione di avere il diritto di vivere e sopravvivere sulla terra dopo la eliminazione dei cinquecentomila ebrei di Varsavia e di altre centinaia di migliaia in altre regioni se non nel caso si vivesse in nome della rivolta. E tutto, il buono ed il cattivo, ogni passo, ogni pensiero, ogni azione esaminammo da un solo punto di vista: rivolta o non rivolta. E quando verrà il giorno di studiare gli errori che commettemmo, dirò: è quasi certo che avremmo potuto portare fuori dal ghetto di Varsavia molti più combattenti di quanti ne sottraemmo, ma temevamo d'ogni via di ritirata, teme-

[305] vamo di ciò che offriva al pensiero ed al cuore dell'uomo la speranza di potersi salvare anche senza combattere. Solo per tale motivo non preparammo in tempo automobili e uomini che potessero fare da guida nelle fogne. Fu forse questo un grave errore da parte nostra, ma esso si giustifica nelle condizioni di quei giorni. Temevamo di perdere il momento opportuno, che qualcosa ci attardasse spingendoci a pensare: ci si prepara, ma non si combatterà. Temevamo che la nostra sorte fosse Treblinka e non la rivolta. Fu dunque per tutto ciò che ci sobbarcammo della responsabilità storica e non permettemmo di andare a Poniatov e Trawniki; senza ebrei nel ghetto non ci sarebbe stata rivolta.

V'era un tale spirito nel movimento pionieristico e nelle nostre organizzazioni giovanili che dicevamo: rivolta; e pensavamo: rivolta; e vivevamo solo per la rivolta. Sapevamo che Israele sarebbe sopravissuta e che la morte dà un senso e un contenuto ad una vita infelice. Sapevamo perfettamente; per la vita e per coloro che sono di là dal mare, per loro e per noi, per il loro ed il nostro onore, per il seguito che verrà, per le generazioni future: rivolta! Varsavia fu un simbolo, ma Varsavia non fu un caso isolato della guerra ebraica. In essa la battaglia fu palese e raggiunse gli estremi della violenza, tuttavia non solo nel ghetto di Varsavia si combattè. Prima e dopo Varsavia vi furono rivolte e tentativi di rivolte: a Cestochow e a Bialistok, a Bendin e a Vilna, a Cracovia e in decine di cittadine e di campi la gioventù ebraica combattè. Non sempre la lotta si mostrò alla luce del sole. Ci furono dei luoghi dove chi conquistò il potere del ghetto non fu l'Organizzazione Combattente contro la Ghestapo e il Judenrat, ma dove capitò il contrario e l'Organizzazione combattente fu sconfitta. Vi furono dei luoghi dove non i

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[306] collaborazionisti, ma i partigiani furono obbligati ad abbandonare il ghetto. Non di meno se si ricorderà la rivolta degli ebrei della diaspora, si avrà memoria anche di quei ragazzi di Cestochow che insorsero contro i tedeschi, ma le loro rivoltelle non spararono ed allora si gettarono contro i nemici con i denti e furono tutti assassinati. Se come risonanza questi fatti non raggiunsero la rivolta di Varsavia, pure come dimostrazione di forza d'animo e di fede e di coraggio, essi sono alla pari con la vicenda del ghetto di Varsavia.

La rivolta di Varsavia fu una rivolta nell'isolamento, tuttavia non fu la più dura. Vi sono state rivolte ancora più aspre e l'hanno dimostrato gli uomini di Treblinka e di Sobibor; può dunque esserci rivolta anche all'inferno perché gli ebrei riuscirono a ribellarsi a Treblinka ed a Sobibor e nelle camere a gas, e anche se tardi, anche se come ultimo desiderio, anche se dopo il massacro di milioni. Questi uomini hanno dimostrato per noi che l'uomo può combattere nel caos e nell'abisso.

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Echi del processo Eichmann nella pubblicistica italiana (93) Il processo Eichmann, mentre scriviamo, è in pieno svolgimento e non è

quindi ancora possibile raccogliere gli elementi sufficienti per delineare un bilancio esauriente di questo storico procedimento penale. Comunque è per tutti evidente che, accantonate le discussioni sulla legittimità dello Stato d'Israele a giudicare il supercriminale di guerra e sui vantaggi politici che il giovane Stato ha ricavato o intende ricavare da tutta la questione, l'interesse si accentra sulle argomentazioni e sulle rivelazioni della Pubblica accusa mentre tutto lascia presumere che le repliche della difesa continueranno a svilupparsi su una linea essenzialmente formalistica. Questa legittima e doverosa attenzione è diretta, almeno da parte degli storici e dei politici più preparati, non tanto alla personalità dell'individuo, ormai rilevante solamente dal punto di vista psichiatrico, quanto all'organizzazione nazista che lo ha prodotto e di cui è stato membro eminente, ai metodi con cui tale organizzazione agiva, agli scopi che si prefigeva, ai vari stadi costitutivi e di degenerazione da essa attraversati.

Ripensando alla storia delle persecuzioni, la volontà d'indagine tende inelutabilmente a puntarsi pure su altri due elementi che paiono decisivi per una sua esatta comprensione. Da un lato v'è il problema dell'atteggiamento

[308] adottato dalle democrazie oceidentali verso la politica razziale hitleriana ed in particolare della posizione assunta dai governi britannico e statunitense. Dall'altro v'è il problema del comportamento degli ebrei perseguitati, del modo con cui essi risposero agli attacchi nazisti, modo che si diversificò a seconda del peso dei vari strati sociali che componevano le comunità ebraiche europee, forti di milioni di persone, ma che ebbe delle costanti comuni dal momento che ben determinanti nuclei dirigenti, eccetto che nell'Unione Sovietica, erano regolarmente alla loro testa.

Ma in verità in sede di processo Eichmann, è abbastanza naturale che la Pubblica accusa non punti i suoi strali su questi aspetti; l'imputato principe del processo di Gerusalemme è infatti il regime nazista e le debolezze delle democrazie occidentali, per quanto colpevoli, così come le imprevidenze ed i collaborazionismi dei capi delle comunità ebraiche, non possono non rimanere sullo sfondo. E tuttavia, se una prima impressione si può ricavare dall'andamento del dibattito, dalle figure dei testimoni che sono stati scelti e dal tipo della loro deposizione, è quella della oautela con cui vengono chiamati in causa altri criminali legati a filo

93 In Il Movimento di Liberazione in Italia, n. 63, aprile-giugno 1961.

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doppio con Eichmann e tuttora in libertà, quasi una tacità intesa fosse intercorsa tra Bonn e Tel-Aviv al fine di non nominare i corresponsabiIi dei crimini hitleriani, tuttora in circolazione e riveriti nella Repubblica federale tedesca, che con cautela e «senza schiamazzi». Di conseguenza la rievocazione delle atrocità della seconda guerra mondiale sembra per molti aspetti indirizzata, più che a fornire una documentazione storica schiacciante ed inoppugnabile della barbarie di un regime, ad edificare un monumento barocco del martirologio ebraico in chiave acriticamente sionistica. Comunque pur senza quella chiarezza che sarebbe auspicabiIe nella denuncia esatta dei relitti nazisti tuttora

[309] attivi, la condanna degli errori del passato e la ripugnanza verso coloro che osassero in qualche modo riprendere la strada del nazismo hitleriano, si fa sentire ogni giorno più forte e già corre voce, che Adenauer sarà costretto per lo meno a disfarsi dell'ex gerarca nazista Globke, ora sottosegretario nel suo ministero, come già fece per Oberländer. Benchè il ritorno all'attualità del problema ebraico abbia favorito non solo la ripresa di scrupolose ricerche, ma anche il rilancio di deformazioni storiche di tutti i generi (desidero qui solo ricordare, quale esempio, come anche nel pregevole e documentato articolo di D. Carpi suI problema ebraico in Italia pubblicato nella Rivista di studi politici internazionali del gennaio-marzo di quest'anno, vi sia qualche imprecisione: i rapporti strettissimi di amicizia fra il regime fascista di Mussolini ed il movimento giovanile sionista e fascista Betar non sono infatti un caso di collaborazione tra fascisti ed israeliti, ma semplicemente di fraternità di spiriti tra fascisti italiani e fascisti di religione ebraica) una vigorosa ripresa morale è dunque in atto tra tutti i popoli che soffrirono soto il tallone tedesco, i quali si ribellano alle tendenze conformistiche che esortano a dimenticare. Ciò è indubbiamente anche merito della stampa delle correnti politiche resistenziali che sta svolgendo un'opera di illuminazione e di chiarificazione assai utile. Ad esempio basti ricordare, per quanto riguarda il nostro paese, i reportage dell'Avanti ! sugli elementi neo-nazisti annidati nell'ambasciata tedesca a Roma e sulle connivenze che agevolarono i passaggi clandestini dall'Italia dei criminali nazisti in fuga oppure i servizi dallo Stato di Israele di Rubens Tedeschi su l'Unità, che con equilibrio ed acume esaminano ed approfondiscono i retroscena delle vicende fugacemente delineate dai testimoni al processo.

Gli articoli ed i servizi comparsi in Italia in occasione

[310] di questo processo offrono perciò un materiale assai vasto e rappresentativo, adatto per analizzare quali siano gli atteggiamenti delle varie correnti politiche verso un avvenimento così significativo, che cosa si tenti di dire o di tacere al pubblico, quali siano i temi che all'opinione pubblica più interessano. Ma accanto alle pubblicazioni di tipo giornalistico occorre aggiungere che il processo Eichmann è stato pure lo stimolo per dare alle stampe numerosi volumi divulgati intorno alla figura di Eichmann, al suo operato e alla cattura.

In un certo senso, questi libri tendono a completare il quadro forzatamente sommario e simbolico che viene traceiato nella sala del tribunale di Gerusalemme; l'opinione pubblica ha modo di prendere coscienza più esattamente dell'entourage di Eichmann, di coloro che lo comandavano e dei suoi sottoposti, di come l'ambiente politico internazionale reagì venendo a conoscere i piani di sterminio e la loro metodica attuazione e delle vie tentate dalle comunità ebraiche per tentare di

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sfuggire alla strage incombente. E' opportuno dire che i libri sinora editi in Italia (94) non sono lavori ponderosi o elaborati con cure particolari; si tratta per lo più della traduzione di opere per molti versi occasionali, in genere quindi molto facilmente accessibili ed inoltre di basso costo. Ma, in particolare, merita di essere rilevato che proprio tali volumi, consapevolmente modesti, senza pretese, ma seriamente documentati, sono molto adatti a dare un'informazione immediata, rapida e storicamente valida al grande pubblico desideroso di esaurienti chiarimenti intorno al pro-

[311] cesso Eichmann, ma che non ha però tempo di dedicarsi a lunghe letture ed è stordito dai rotocalchi, dalla televisione o malamente informato, come la maggior parte degli studenti delle nostre scuole. Solo da questa diffusione di massa di notizie e cognizioni si può, peraltro, sperare di avviare un rinnovamento degli interessi generali e la formazione, nel gran numero, di individui desiderosi d'approfondire i problemi e pronti a dedicarsi a lavori originali e a studi specializzati.

Pur nell'impostazione comune che abbiamo delineato, tra i libri che esamineremo brevemente il più rigoroso appare senz'altro quello degli Editori Riuniti, traduzione di un volume curato dal Poliakov, il ben noto animatore del Centre de Documentation juive contemporaine di Parigi. Esso consta di due sezioni; una lucida parte introduttiva dovuta alla penna di Joseph Billig che analizza in forma intelligentemente problematica il sorgere, in quell'abisso di terrore e miseria che fu il III Reich, d'un apparato per la soluzione finale del problema ebraico nel quale Eichmann fu una delle personalità dominanti, ed una raccolta di documenti accentrati intorno ad Eichmann e all'attività criminosa del suo macabro ufficio. Il valore del volume è perciò anzitutto quello di offrire una raccolta di testi inopugnabili, tremendamente significativi ed eloquenti nella loro gelida forma burocratica.

Gli altri quattro libri trattano del caso Eichmann in forma discorsiva; essi infatti, traendo lo spunto dalle romanzesche circostanze del suo arresto cercano di ricostruirne la vita magari attraverso l'espediente del flash back, inserendo tuttavia molto opportunamente nel testo della narrazione documenti originali completi o in estratti. E' questo il caso di Ecco le prove: Adolf Eichmann, il più popolare tra i volumi che segnaliamo giacchè grazie alla

[312] forma tipografica dimessa ed al prezzo modesto ha potuto godere come il pocket book da cui è stato tradotto, di larga diffusione anche attraverso le edicole. E' la descrizione della vita di Eichmann e delle sue incredibili avventure in un tono che si avvicina a quello del racconto drammatico. Dopo due brevi capitoli sulla traduzione di Eichmann in Israele e sulla sua cattura in terra Argentina, v'è la ricostruzione delle campagna persecutoria antiebraica dei nazisti dai suoi inizi, prima ancora che Hitler salisse al potere, come punto del programma del partito nazionalsocialista, alla prima esperienza di strage collettiva in Polonia nel 1939, fino all'attuazione scientifica della «soluzione finale». Un conciso epilogo richiama alla situazione con temporanea e riassume i motivi per cui si sono rievocate le tragedie di guerra. E anche se le parole del libro non sono del tutto esplicite nell'indicare i rischi nascosti nel presente, l'appello morale a conclusione di molte pagine

94 Dossier Eichmann. Editori Riuniti 1961. Ecco le prove: Adolf Eichmann, di H. Zeiger, Cino Del Duca edit., 1960. Il ministro della morte, di K. Reynolds, Bompiani 1961. E' lui, Eichmann, di M. Pearlman, Arnoldo Mondadori editore, 1961. Io sono Adolf Eichmann, di H. Ludwigg, Sugar editore, 1961.

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terrificanti è serio ed impegnativo: «C'è un senso: queste cose accadono e esse sono un documento di ciò che gli uomini possono farsi l'un l'altro».

Più simili tra loro sono i restanti volumi, i quali vertono essenzialmente sulla minuziosa ricerca condotta dai servizi segreti israeliani per scoprire Eichmann, sulla sua figura ed infine si diffondono sull'incidente diplomatico tra lo Stato d'Israele e l'Argentina. Tutte queste opere sono di buon livello (ma la più storicamente fondata è quella del Reynolds) e pur non giovandosi di documenti originali nè fornendo indicazioni molto nuove permettono al lettore di farsi un'idea abbastanza esatta della vicenda.

Uno dei problemi più scottanti e che continua in esse a riaffìorare è quello del collaborazionismo ebraico incentrato intorno allo sconcertante personaggio Rudolf Kastner: «Tutto il problema dei diversi negoziati con Eichmann fu

[313] risollevato nel 1955. Un vecchio di nome Malchiel Greenwald stampò una circolare che inviò ad alcune centinaia di persone in Israele. In essa accusava il dotto Israel Kastner di aver collaborato coi nazisti e lo faceva direttamente responsabile della morte di migliaia di ebrei. Kastner - che nel frattempo era divenuto uno stimatissimo avvocato e giornalista - sporse querela per diffamazione. Il processo si protrasse per alcune settimane e fu condotto davanti al giudice Benjamin Halevi. Kastner rimase sul banco dei testimoni per tutte le 16 sedute, difendendosi vigorosamente. Molti sopravvissuti alla deportazione dall'Ungheria attestarono che Kastner non li aveva mai messi in guardia contro il destino che li aspettava, sicche essi non avevano mai tentato di resistere e di fuggire» (Reynolds, op. cit., pag. 228). Dalle parole del Reynolds, non sembra quindi un caso che proprio lo stesso giudice Halevi sia stato nuovamente chiamato a far parte della corte giudicante contro Eichmann.

Su tale evento il Pearlman è meno chiaro; egli definisce Kastner «una tragica figura» (op. cit., pag. 50) e sostiene che egli venne ucciso a Tel-Aviv nel 1955 da un fanatico, mentre rimane aperta l'ipotesi che ad eliminarlo siano stati i servizi di sicurezza israeliani, trattandosi di persona che sapeva troppo sui retroscena del movimento sionista. (95)

Un'altra fra le molte tragedie, non meno impressionante di quella di Kastner, è descritta dal Reynolds a proposito di Adolf Boehm, dirigente della Comunità israelitica di Vienna: «Notai Adolf Boehm che sedeva in un angolo della stanza e lo guardai: ma egli teneva gli occhi fissi su Eichmann ed evitò il mio sguardo. Fu l'ultima volta

[314] che vedemmo Boehm. Pochi giorni dopo - avendo perso completamente la ragione - fu inviato in un manicomio. Aveva avuto l'impressione, collaborando con Eichmann, di tradire il suo popolo e fu indubbiamente questo senso di colpa e di rimorso a farlo uscire di senno» (op. cit., pag. 113).

Un ultimo punto su cui desidero soffermarmi in questa sommaria rassegna, compare tanto nelle deposizioni del criminale di guerra Dieter Wisliceny (riportate sia in Io Sono Adolf Eichmann, a pag. 142, sia in Ecco le prove: Adolf Eichmann, a pag. 149) quanto nel saggio di Joseph Billig introduttivo al Dossier Eichmann: è il problema delle divergenze che specie negli ultimi tempi gli alti gerarchi nazisti ebbero tra loro nel condurre la politica di genocidio. A questo proposito il Billig

95 Nell'esame dell'Affare Kastner rimane insuperato il libro di A. Weissberg: La storia di Joel Brand, edito nel 1958 dall'editore Feltrinelli e a suo tempo rimasto quasi ignorato.

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osserva: «La divergenza che, dal 1945 in poi, traspariva nel problema ebraico, tra le posizioni del RSHA e quelle del Reichsführer (che tuttavia poneva, con tutto il suo zelo, la sua autorità al servizio di quegli obiettivi che il RSHA si era prefissi, perchè il Führer li aveva fatti suoi), si manifestò in modo netto durante il crollo del III Reich. In quest'ultimo periodo della «soluzione finale», Eichmann rimase il solo a sostenere l'operazione iniziata alla fine del 1941. La personalità del suo immediato superiore, Müller, capo del IV Dipartimento, resta nell'ombra, a giudicare dai documenti. Con l'avvicinarsi della disfatta, il furore di Eichmann nello intensificare l'invio di ebrei nelle camere a gas raddoppiò. Dal canto suo Himmler architettava invece dei nuovi piani, ancora più assurdi dei piani economici. Egli era convinto che la sua indiscussa capacità di organizzare con sistemi polizieschi il popolo tedesco potèsse essere apprezzata anche dagli alleati occidentali; e sperava che avessero visto in lui l'uomo capace di consegnare loro, come ad una nuova

[315] potenza amica, una Germania ancora forte e ben diretta. Perchè questo avvenisse era però necessario in primo luogo, se non cancellare le traccie della persecuzione antiebraica, per lo meno smettere di perseguitare gli ebrei» (op. cit., pagg. 40 - 41).

Su tutto ciò non sembra inutile ricordare che anche nell'Unione Sovietica, sulla base di molti documenti catturati ai nazisti, si stanno intraprendendo studi assai accurati, e mi permetto di segnalare qui anche perchè di facile reperimento, a titolo di esempio, l'articolo Himmler's Secret Plan di L. Bezymensky, pubblicato recentemente nella rivista sovietica in lingua inglese International Affairs (1961, n. 3, pagg. 72 - 77).

Tornando ai cinque volumi su Eichmann, il giudizio complessivo è dunque, considerando i fini che si propongono, positivo: essi raggiungono il loro scopo divulgando con dignità, mantenendosi all'altezza della tragedia che sfiorano.

Un unico appunto mi permetterei di fare circa la scelta delle fotografie inserite in alcuni di essi. Mi sembra che gli editori non si siano impegnati a ricercarne di inedite per l'Italia, ed è un peccato, giacchè specialmente nella Republica democratica tedesca ed in Polonia esistono ricchissimi archivi con centinaia di fotografie - non meno significative di quelle che vengono troppo spesso ripubblicate - che varrebbe quindi la pena di porre in circolazione.

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Per il quarantesimo del Birobijan sovietico (96) Quarant'anni fa, esattamente il 30 settembre 1931, il Presidium del Comitato

esecutivo centrale pan-russo adottava una deliberazione solenne e di notevole importanza per gli israeliti dell'Unione Sovietica: avviare alla fase di attuazione le precedenti disposizioni intorno alla creazione di un'unità amministrativa-territoriale nazionale ebraica nell'area del Birobijan situata nell'Estremo Oriente sovietico.

Poiché oggi si è tornato a parlare con insistenza della popolazione ebraica dell'Urss - tra l'altro talune fonti degne di fede prevedono che nel 1971 vi sarà un'immigrazione di israeliti sovietici nello Stato di Israele di circa 30.000 unità - e poiche taluni segni lasciano presumere che non sia da escludere da parte delle autorità sovietiche una ripresa d'interesse per l'Evreiskaia avtonomaia oblast, istituita appunto in quella lontana regione, non pare inutile una breve scheda di informazione storica su come sorse e si sia sviluppato quell'esperimento davvero rivoluzionario. Ciò anche perche, di fronte alle numerose deformazioni ed esagerazioni che corrono su tali problemi, qualche dato documentario costituisca prima testimonianza intorno a quello che è stato l'autentico decorso degli eventi.

In verità il discorso sul Birobijan potrebbe a prima vista apparire troppo riduttivo considerando l'ampiezza del [317] dibattito sulla condizione degli ebrei svoltosi prima nella Russia zarista e poi nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; e in effetti, lasciando da parte le tesi e le proposte reazionarie, autocratiche ed antisemite delle correnti conservatrici, tutto il periodo che precede la rivoluzione d'ottobre vede, ad opera di gruppi e partiti liberali, socialisti-rivoluzionari e socialdemocratici non poche prese di posizione nei confronti della cospicua minoranza ebraica, così come sulla questione delle minoranze nazionali e religiose in genere. Tuttavia, un'analisi di cosa abbia significato la formazione del Birobijan ha una sua precisa rilevanza, specie tenendo presente, da un lato, il desiderio di verifiche quanto più precise possibile, anche se limitate, e, dall'altro, che sul Birobijan lo scritto più valido apparso in Italia resta probabilmente quello del 1935 di I. Kalk sul secondo volume di Le vie d'Italia e del mondo (p. 1.283). Il riferimento alla Russia di prima del 1917 non è, comunque,

96 In Astrolabio, n. 17, 29 agosto 1971.

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pleonastico; è utile, invece, per entrare meglio in argomento dal momento che qua e la già allora si avvertiva tra le masse ebraiche delle piccole e grandi città una tendenza al rifiuto di modi di vita da ghetto prevalenti ed all'insediamento agricolo in territori non adeguatamente sfruttati. Con la rivoluzione poi, cioè con il trionfo degli ideali del lavoro produttivo, della eliminazione delle attività parassitarie e della costruzione d'una economia socialista, sia in forme spontanee, sia con piani sistematici, la spinta alla creazione di aziende contadine ebraiche di tipo cooperativo e concentrate in determinate zone (Ucraina, Crimea, Bielorussia) venne ampiamente recepita ed esaltata con energia.

Due organizzazioni erano allora specialmente preposte al coordinamento di questo tipo di esigenze: il Komziet (sigla di Comitato per la sistemazione agricola dei lavora-

[318] tori ebrei presso il Presidium del Soviet delle nazionalità dell'Urss) e l'Oziet (sigla di Società per la sistemazione agricola dei lavoratori ebrei dell'Urss). Il primo ente, fondato nel 1924, aveva il compito appunto di promuovere ed organizzare gli insediamenti di israeliti, ma con l'estendersi della sua attività oltre ad istituire vari sedi periferiche (in Bielorussia vi fu, per esempio, il Bielkomziet ecc.), venne interessandosi anche dell'inserimento di lavoratori ebrei nell'industria. Quanto all'Oziet, sorto nel 1925 e pure esso molto ramificato in numerose sezioni con aderenti ebrei e non ebrei, esso si impegnava a sostenere la opera del Komziet attraverso la sollecitazione delle varie istituzioni, il raggruppamento delle forze e la raccolta di aiuti sia nell'Urss, sia all'estero. Sarebbe certo non privo di interesse scendere nei particolari dell'attività che tali organismi condussero anche prima che si profilasse all'orizonte il progetto del Birobijan: ricorderemo, ad esempio, che verso il 1925-26 erano all'odine del giorno piani per il trasferimento all'attività agricola di 100.000 famiglie israelite (circa mezzo millione di persone), famiglie che non avrebbero dovuto essere disperse nel vastissimo territorio dell'Urss, bensì, in concomitanza con i dibattiti circa l'opportunità di concedere l'autonomia territoriale al nucleo ebraico, raggruppate in determinate aree (si accennava alla Crimea) in vista della costruzione d'una Repubblica ebraica sovietica. Comunque, per restare 'al tema che ci siamo preposti, il primo passo ufficiale tendente ad agganciare la crescita civile della popolazione ebraica al Birobijan, nel quadro del grandioso sommovimento trasformatore avviato dal potere sovietico, si può far risalire all'aprile 1927, allorche il Komziet decise di inviare una spedizione scentifica in quella remota località che si sarebbe poi definita Birobijan aJ10 scopo di verificare le pro-

[319] spettive d'una immigrazione ebraica da impegnare prevalentemente nell'agricoltura.

Per quanto sia da precisare che occorrerebbe approfondire come sia sorta l'idea, abbastanza peregrina, di prendere in considerazione per la colonizzazione ebraioo anche l'Estremo Oriente, è nondimeno possibile, in linea generale e tenendo conto delle questioni che l'Urss nel complesso si trovava di fronte, individuare alcuni moventi di fondo che spiegano le cause dell'insolito interessamento. In sintesi: all'intento di non deludere il desiderio d'un proprio territorio vivo in molti lavoratori israeliti s'unì il proposito d'orientare gli spostamenti umani e le trasformazioni strutturali in modo tale che ne derivasse un consolidamento del regime sovietico; al progetto di utilizzare l'ansia colonizzatoria per mettere a frutto zone incolte o vergini, s'accompagnò l'esigenza politico-militare di rafforzare la presenza nei lontani e quasi deserti territori asiatici per i quali sino al 1922 i

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sovietici avevano aspramente combattuto contro gli interventisti europei e giapponesi. E' da questo insieme di cause, indubbiamente complesso, che scaturisce e si concreta la proposta del Birobijan.

Seguendo il lavoro che la missione scientifica del Komziet condusse per circa 50 giorni alla metà del 1927, si renderebbe necessario aprire qui un'altra lunga parentesi; vale a dire che cadrebbe opportuno dare una descrizione geografioa dei luoghi da essa investigati in lungo ed in largo: della condizione climatica e della loro orografia, dei loro fiumi e laghi e delle loro risorse naturali. Tuttavia, anche al fine di mantenere in primo piano il risvolto politico e sociale, ci si permetterà, pure su tali aspetti, solo la elencazione concisa di qualche dato. Anzitutto il nome: Birobijan è termine derivato dall'appellativo di due grandi fiumi, Bira e Bijan, che attraversano una parte della Sibe-

[320] ria Orientale ed ufficialmente è soltanto denominazione della sua città principale. Si tratta d'un'area che si estende per circa 36.000 kmq., delimitata a nord-est dalla Provincia di Kabarovsk e a nord-ovest dal Territorio dell'Amur. Tutta la lunga e sinuosa frontiera meridionale segue praticamente il corso dell' Amur e coincide con il confine statale della Repubblica popolare cinese (Manciuria). Di clima freddo e continentale, grazie all'abbondanza delle precipitazioni e all'esistenza di parecchi corsi d'acqua è zona con flora rigogliosa (taiga), contraddistinta dalle fitte foreste. Assai scarsamente popolata, specie alcuni decenni or sono vi sono stati individuati abbondanti giacimenti minerari: ferro, carbone, metalli preziosi, grafite, gesso.

Un insienre di elementi, dunque, alquanto contraddittori: da un lato il fascino d'una natura selvaggia e piena di ricchezze che lasciano in travvedere straordinarie possibi: lità di sfruttamento, dall'altro le durissime fatiche per impadronirsene (gli sbalzi termici, le paludi, gli insetti fastidiosi); per un verso la libertà di prospettive che ha qualsiasi impresa colonizzatoria ai suoi inizi, per un altro la lontananza dai centri urbani tradizionali, ben conosciuti e carichi di attrattive. Da tutto ciò si comprende agevolmente come questa proposta dovesse subito destare speranze, critiche, discussioni e divergenze di valutazione che si sono protratte sino ai nostri giorni, aggrovigliandosi poi, con il passare degli anni, con tutte le esigenze e le tensioni difficili e complicate che l'Unione Sovietica s'è trovata ad affrontare nel corso della sua storia.

Il dibattito, piuttosto vivace e prolungatosi in varie riprese, una volta conosciuto il responso favorevole della commissione scientifica, coinvolse principalmente tre enti: il Komziet, l'Oziet e la Jevsekzia (la Sezione ebraica del Pcb): erano infatti chiare per tutti questi organismi le dif-

[321] ferenti alternative che si profilavano a seconda si fosse accettato di cogliere l'ipotesi del Birobijan, caldeggiata dalle autorità centrali (tra le quali merita ricordare M. I. Kalinin presidente dal 1919 del Presidium del Comitaro esecutivo centrale panrusso, che seguì sempre con interesse l'attività del Komziet) o invece si decidesse di respingerla. Specie per le pressioni della Jevsekzia, la scelta fu in favore del Birobijan, anche se, attraverso una sorta di compromesso di fatto realizzatosi nel tempo, non venne mai escluso che parallelamente continuassero iniziative di insediamenti ebraici nelle campagne di altre parti dell'Urss (e, innanzitutto in Crimea). In pratica dunque, una deliberazione del Komziet del 17 gennaio 1928 stabiliva due precise direttrici di lavoro: sollecitare la Commissione statale per l'emigrazione e gli altri organi del potere sovietico affinché il terrirorio in questione venisse destinato all'immigrazione ebraica e si stanziassero i mezzi materiali e

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finanziari al riguardo e volgere tutte le energie disponibili del Komziet stesso per passare alla fase concreta. A proposito di questo secondo punto merita ricordare l'iniziativa propagandistica in favore del Birobijan che si incominciò ad intraprendere a partire dal secondo congresso dei contadini ebrei avvenuto alla fine di quello stesso mese a Minsk e il conseguente inizio dei primi trasferimenti (circa 200 famiglie alla fine dell'anno).

Anche se le incertezze non erano affatto venute meno (si tenga presente che proprio in quel torno di tempo giungevano dalla Palestina in Crimea alcuni gruppi di «pionieri» israeliti che avevano abbandonato la Russia verso il 1918 e che delusi per la impossibilità di avviare autentici esperimenti socialisti nella Terra dei Padri, si impegnavano a creare collettivi agricoli nel paese natale), la richiesta ufficiale del Komziet seguiva molto celermen-

[322] te il suo iter burocratico. Già nel marzo del 1928 il territorio del Birobijan è formalmente giudicato disponibile per una intensa emigrazione di israeliti e, se essa darà risultati significativi, è da prevedersi la possibilità dell'istituzione di un'entità nazionale ebraica territoriale-amministrativa. Poi, due anni dopo, mentre via via si compiono i passi concreti per mettere in moto la macchina dei trasferimenti, delle sistemazioni e dell'avviamento delle prime aziende, in coincidenza con l'aggravarsi della situazione internazionale nello Estremo Oriente ed in particolare con l'attacco del Giappone alla Manciuria, è emanato il provvedimento da cui abbiamo preso le mosse all'inizio di questo articolo.

Ad esso, altri seguirono sistematicamente allo scopo di affrontare tutti i diversi problemi che si presentavano qui, come in tutti gli altri casi analoghi, a mano a mano che la costruzione socialista procedeva: le disposizioni economiche, affinchè grazie all'elaborazione delle «cifre di controllo», il Gosplan sin dal 1931 predisponesse quanto necessario per lo sviluppo economico-sociale del nuovo territorio; gli interventi politici (si cominciano a tenere verso il 1932 i primi congressi di partito o delle varie organizzazioni del Birobijan); le ordinanze amministrative (nel gennaio 1934 sono distribuite le prime carte d'identità del territorio autonomo). E poi, poco dopo o contemporaneamente agli interventi legislativi, cominciano a giungere le notizie sulla fondazione delle prime aziende agricole, sull'apertura del primo «mercato kolkosiano» (20 giugno 1932), sulle prime cooperative industriali ed artigiane, sui centri abitati che sorgendo dal nulla moltiplicavano di anno in anno i loro abitanti (la capitale, ad esempio, contava nel 1926 circa 800 abitanti; dieci anni dopo essi erano 15.000). In breve, nell'ambito degli immensi sforzi realizzati dall'Urss all'epoca dei primi piani quinquennali per la

[323] messa a coltura di nuove terre e la collettivizzazione delle campagne, la industrializzazione e la costruzione d'una estesa rete di infrastrutture - processo questo che investì in misura considerevole la Siberia - anche il piccolo territorio del Birobijan rapidamente uscì dalla condizione di quasi totale abbandono per entrare nell'era della civiltà delle macchine.

Anche perchè l'esaltazione di altri fenomeni di pionierismo, in linea di massima, meno disagevoli per condizioni ambientali e meno idealistici sotto il profilo morale, è divenuta fin troppo consueta, vale la pena di soffermarsi un momento sull'eroismo dei primi passi del Birobijan: la tempesta di neve che accolse i primi arrivati del 1928 nel mese di maggio, la stagione delle piogge eccezionalmente copiosa, le abitazioni costituite da tende, baracche e carri ferroviari, l'arrivo dei primi trattori e in seguito l'inizio della costruzione di edifici in muratura, la formazione dei primi collettivi agricoli quali Birofeld, Waldeim, Ikor,

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Amurzt, ciascuno di essi con la piccola epopea di fatiche, scacchi e successi. Del pari, sia pure fugacemente, va sottolineato come più per un'esigenza oggettiva scaturita dalla realtà stessa che da calcoli preventivati in partenza, intorno agli anni trenta si cominciassero ad impiantare varie aziende artigiane: inizialmente sussidiarie dell'attività contadina e poi esse stesse centri ragguardevoli di crescita economica, preludi ad un vero e proprio sviluppo industriale connesso in particolare con gli sfruttamenti minerari e del legname delle foreste.

Nonostante vari ritardi, provocati da un eccesso di ottimismo e da una sottovalutazione delle difficoltà e da intralci burocratici, il decennio 1928-1937 può considerarsi di sostanziale ascesa e di positiva corrispondenza tra progetti ed attuazione. Sino al 1936, infatti, quantunque con

[324] cifre parecchio inferiori a quelle da alcuni sognate all'epoca dei divisamenti primitivi, l'immigrazione aumentò di anno in anno: da 900 persone nel '28 a oltre 8.000 nel '36, con la punta di quasi 10.000 nel '32, per un totale di quasi 44.000 israeliti. A questi dati, inoltre, s'accompagnava tanto nell'Urss, quanto all'estero, un'eco cospicua dell'esperimento che si stava avviando. In tutto il mondo i maggiori centri ebraici e non soltanto le cerchie dei comunisti o dei simpatizzanti per l'Urss, dimostrarono tanto interesse per il territorio autonomo ebraico che in vari Stati sorsero associazioni di sostenitori, contributi d'una certa consistenza giunsero specie dalla comunità israelitica degli Stati Uniti e persino si ebbero, prevalentemente nel 1931-32, parecchie centinaia di immigrati ebrei che arrivarono nel Birobijan da paesi stranieri. Così, senza entrare nei particolari si può ricordare l'appoggio molteplice fornito dall'American Society for Jewish Settlements in Russia che agiva attraverso l'American Jewish Joint Agricultural Corporation, dalla Jidishe Coloniziatia in Rotenfarband anch'essa statunitense, dall'American Committee for the Settlement 0f Jews in Birobijan di cui nel 1946 sarà eletto presidente Albert Einstein.

Questo interessamento crebbe ulteriormente dopo il '33, cioè dopo la conquista del potere da parte dei nazisti quando l'estendersi e l'intensificarsi della persecuzione antisemita cominciarono a porre il drammatico problema della sistemazione di centinaia di migliaia di perseguitati.

D'altro canto tutta una serie di iniziative di tipo culturale in senso lato adottate sin dal 1930 e via via articolate che caratterizzarono sotto il profilo ebraico l'atmosfera del territorio da poco istituito destavano larghe generosità e consensi. In primo luogo si può ricordare l'uso dello jidish come lingua ufficiale accanto al russo. Gia nel

[325] 1935 si calcola che la scuola media jidish fosse frequentata da circa settecento studenti. Accanto alla scuola, la biblioteca: quella centrale ha origine nel '33 con l'appoggio dell'Istituto per la cultura ebraica-proletaria di Kiev. Sempre sul piano della cultura sin dal 1931 si andò organizzando un nucleo di teatro ebraico che doveva poi ampliarsi parecchio grazie pure alla collaborazione con il teatro ebraico di Mosca e di altre città della Russia europea. Infine va almeno menzionata l'esistenza di giornalisti e di scrittori molto capaci, con giornali e case editrici a loro disposizione. Due avvenimenti - verificatisi nel 1936 - ci sembra possano considerarsi una sorta di culmine nel processo di crescita, in quanto centro ebraico, del Birobijan. In primo luogo ricorderemo la visita ivi compiuta nel febbraio da L. M. Kaganovic, membro della segreteria del partito, commissario del popolo per le Comunicazioni ed uno dei principali collaboratori di Stalin. L'arrivo di questa ragguardevole personalità di origine israelita nel territorio ebraico nel corso di un

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viaggio nell'Estremo Oriente sovietico, volle essere allo stesso tempo verifica diretta, da parte delle massime autorità, di quanto si stava realizzando e dimostrazione di sostegno e consenso per l'opera intrapresa. Nel suo discorso - che assunse un valore programmatico - Kaganovic sottolineò tre punti: la necessità di accelerare il ritmo di immigrazione di israeliti, la esigenza di rafforzare lo sviluppo agricolo del territorio e l'importanza di trasformare il Birobijan in un centro di cultura ebraico-proletaria. Riguardo a quest'ultimo elemento merita di ricordare che si decise di convocare nel Birobijan per il 1937 per il giorno anniversario della visita di Kaganovic un grande convegno scientifico sulla lingua jidish. Tale convegno, però, non potè aver luogo per i motivi di ordine generale che vedremo.

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Secondariamente il 1936 fu l'anno dei solenni riconoscimenti ufficiali circa la validità dell'esperimento del Birobijan in complesso. Il 29 agosto il Presidium del Comitato esecutivo centrale adottò una risoluzione «sulla costruzione sovietica economico-culturale della Regione autonoma ebraica». Era questo un documento che esaltava con vibranti parole tutto quanto era stato fatto: le iniziative avviate in conformità con la politica nazionale di Lenin-Stalin risultavano pienamente giustificate dalla realtà. Alla fine dell'anno, il 5 dicembre, l'ottavo Congresso dei Soviet approvò la nuova Costituzione, nella quale al capitolo II concernente l'organizzazione dello Stato, nell'art. 22 è espressamente precisato che insieme ad altre cinque fa parte della Repubblica russa, la Regione autonoma ebraica. Come è noto, la Costituzione del 1936 è tuttora vigente.

Ciò che giunse ad arrestare ed a compromettere molto seriamente una linea di tendenza ormai affermatasi ma non senza grossi sacrifici furono, per dirla con l'eufemistica definizione contenuta all'inizio del paragrafo 4 del XII capitolo del «breve corso» della Storia del partito comunista (bolscevico) dell'Urss (ed 1948), le «nuove rivelazioni sui mostri della banda bukhariniana e trotskista». I processi del 1937-38 contro Piatakov, Radek, Tukhacevski, Iakir, Bukharin, Rykov, Krestinski, Rosenholtz eccetera furono il segno più vistoso della degenerazione burocratico-poliziesca, degenerazione che condizionò in misura molto forte tutta la vita politica e sociale del paese: l'attività del partito e del governo, delle organizzazioni culturali e scientifiche, dell'esercito e dell'apparato economico, tanto centrale, quanto nelle molteplici articolazioni periferiche.

E' in questo ambito che l'esperimento ancora fragile del Birobijan subì una spinta deviante particolarmente violenta:

[327] non che i processi e le destituzioni di dirigenti politici ed amministrativi o lo scioglimento di organizzazioni come il Komziet e l'Oziet deciso nel 1938 avessero qualcosa di diverso dagli analoghi provvedimenti adottati in ogni parte dell'Urss; non che si tornasse indietro sulle scelte effettuate ai massimi livelli statali negli anni precedenti. Il grave sconvolgimento ebbe però, per quanto riguarda il Birobijan, la coseguenza estremamente negativa di portare all'arresto quasi completo dell'immigrazione ebraica che restava fondata in larga misura su una spinta ideale.

Alle epurazioni ed alle riorganizzazioni fece poi seguito, altro avvenimento che non poteva non indurre a mettere la sordina sulle finalità specifiche del Birobijan, il patto tedesco-sovietico del 1939. In verità, dal momento che, almeno formalmente, i programmi non erano mutati, le sistemazioni territoriali con la Polonia, la Rumania e le Repubbliche baltiche, tutti paesi fittamente abitati da israeliti, riproposero l'eventualità di trasferimento di queste popolazioni nella Regione autonoma: ma proprio quando si andavano attenuando per il Birobijan come per l'intera Unione

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Sovietica gli effetti delle repressioni del '36-'38 ed i piani per il rilancio economico tornavano ad essere messi a punto contemplando tra l'altro anche la ripresa dell'immigrazione nell'Estremo Oriente, vi fu la guerra con l'aggressione nazista del 1941. Nel corso di questo periodo, tUtto sommato, il territorio aveva in effetti progredito sotto il profilo economico ed anche demograficamente (dal 1926 al 1939 la popolazione salì da 30.000 abitanti a 109.000 per raggiungere i 163.000 nel 1959): tuttavia, in contrasto con il preventivato, il gruppo ebraico rimase limitato, minoritario. Nè la tendenza mutò quando nella fase conclusiva del conflitto gli interrogativi sulla sorte degli israeliti dell'Europa Orientale che fossero sopravvissuti alla

[328] persecuzione hitleriana fecero tornare d'attualità l'ipotesi del Birobijan come luogo adatto ad accogliere i superstiti. In concreto tra il 1944 ed il 1948 vari fattori parvero spingere per un accantonamento delle remore e dei ritardi e parecchi sintomi lasciarono presumere che si cercasse di riallacciarsi ai progetti in elaborazione immediatamente prima del conflitto: oltre ad un gran numero di profughi da sistemare, urgeva adesso la necessità di colmare almeno in parte le distruzioni avvenute nella Russia europea con un accelerato sviluppo della Russia asiatica. Il problema ebraico, inoltre, divenuto tanto tragico per le ignominie naziste, era finito con il qualificarsi, in un certo senso, come uno dei punti di convergenza ideale tra gli Stati della coalizione anti-fascista e per tale motivo ciò che era stato avviato nel Birobijan, per quanto poco conosciuto, tornava a destare interessi, simpatie, adesioni e sollecitazioni in tutti coloro che erano stati colpiti dall'antisemitismo nazista o, semplicemente, ne avevano sentito l'abominio.

Va però detto che ancora una volta la spinta alla ripresa non ebbe troppe occasioni di esplicarsi: le supreme involuzioni del periodo conclusivo del «culto della personalità» (1948-1952), se non impedirono il riassestamento economico post-bellico, posero fine, a partire dallo scioglimento del «Comitato antifascista ebraico», alle aspirazioni a qualificare il Birobijan come centro ebraicamente caratterizzato e le accuse di cosmopolitismo, complotto con i sionisti, connivenza con gli americani, indirizzate ingiustamente ai quattro venti e divenute un poco il leit-motiv dominante, si ripercossero fino alla remota area siberiana. E dopo? E adesso? Nostro intendimento non era tanto commentare l'attualità, quanto rievocare un passato prossimo, ma non molto conosciuto. Per l'oggi comunque, si possono sottolineare alla luce della storia tre fattori essen-

[329] ziali e determinanti. Sotto il profilo economico-sociale il Birobijan, così come tutta la Siberia, ha raggiunto un alto livello; per l'estensione raggiunta dalle terre coltivate, per l'industrializzazione consistente che vi si è avviata, per le condizioni di vita che sono garantite ai suoi abitanti moltissimo è cambiato e in meglio rispetto al pionierismo del 1928. Sotto il profilo giuridico-costituzionale la Regione autonoma ebraica è sempre tale ed il partito ed il governo, come hanno dimostrato in alcune recenti occasioni, sono perfettamente consapevoli di ciò: anche se la presenza laggiù di cittadini sovietici di nazionalità ebraica non ha raggiunto i livelli previsti un tempo, le condizioni formali perche ciò si attui sono state, come s'è visto, adempiute e rimangono in vigore. Sotto il profilo politico-ideale - e anche qui il discorso si riallaccia ad una condizione generale che concerne la prospettiva dell'Urss nella sua totalità e i destini del socialismo nel mondo - la vicenda del Birobijan conferma infine che un atteggiamento di apertura incontrerebbe larghissimi consensi. La fiducia negli uomini - non gli schematismi tenaci, i dogmatismi superstiti e la ragion di Stato intesa nel modo più gretto - potrebbe rimettere in movimento con notevoli

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vantaggi certi meccanismi di spontaneo consenso alquanto arrugginiti. E pensando alla polveriera del Medio Oriente, ce ne sarebbe bisogno.

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Hitler e Johnson: la normalità del male (97) Qualche mese fa La voce repubblicana pubblicò un articolo di fondo su cui

crediamo utile tornare. Né il tema, infatti, ci sembra ingiallito né, ciò che più conta, le argomentazioni in esso contenute paiono contingenti. Nel pezzo non firmato Il continuatore di Guglielmo II e di Hitler (La voce repubblicana, 28-29 novembre 1967), oltre a prendere di mira de Gaulle si affrontavano tali problemi di metodo e d'interpretazione storica da meritare anche a distanza di tempo qualche considerazione.

Premesso che nutriamo per de Gaulle viva simpatia, poiche è il solo capo di Stato o di governo capace di non pronunciare discorsi noiosi e di fare dello humour, nell' articolo in questione notiamo due asserzioni sostanziali: che esistano nella storia i protagonisti demoniaci (né ci pare si possano definire diversamente quei personaggi che assommano in sé qualità di artefici di disgregazione, sciacalli, maramaldi, ricattatori e prepotenti); che uno di questi sarebbe appunto il capo dello Stato francese.

Non siamo convinti né della prima, né della seconda tesi: a nostro avviso l'addossare ad un individuo la responsabilità di «sprofondare un continente negli abissi della disgregazione o della guerra» è azzardato, così come non è

[331] persuasivo l'affiancare in questa opera nefanda, a Guglielmo II ed a Hitler, il gen. de Gaulle.

D'altro canto l'addossare la responsabilità della prima e della seconda guerra mondiale ad un unico individuo non è cosa inconsueta: è un'interpretazione che scaturisce da un preciso sottofondo ideologico, che ha motivazioni e retroscena non indegni. Si tratta, in effetti, d'una sorta di sottolineatura estremistica dello spirito liberale, cioè dell'accentuazione sbilanciata del criterio della libertà dell'uomo nella storia: il che porta appunto a sopravvalutare le colpe e le responsabilità del singolo. In Italia abbiamo pubblicazioni specializzate in questo genere di fantastorie: a destra, ad esempio, c'è la Stampa con il suo perbenismo ammonitore, con i santi patroni Agnelli e Nenni, con l'antifascismo fatto esclusivamente di buone persone, non di rifiuto al prepotere di determinati, precisi interessi; a sinistra sta l'Espresso con le improvvisazioni sempre alla moda, con il tirar sassi ma mai troppo pesanti, oggi con il liberty ed il presidente Mao, domani con Badoglio e Caporetto, dopodomani con Guevara e lo hippysmo.

Dunque in questo modo di giudicare, l'anonimo giornalista repubblicano è in larga compagnia. Per molti della compagnia proviamo più d'un semplice rispetto. Ma come tentiamo di guardarci dal dogmatismo e dallo schematismo, così esprimiamo dissenso dove vi siano il moralismo astratto ed occasionale e la

97 Intervento nel dibattito «America Reich degli anni Sessanta». in Il Confronto, n. 2, febbraio 1968.

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mancanza di coerenza, atteggiamenti che già portarono taluni a votare per il patto Atlantico, per la legge-truffa nel 1953 o contro le pensioni ai vecchi pochi giorni fa e che portano pure al riproporre permanentemente determinati miti: ad esempio quello della scelta occidentale.

Venendo al vivo, che nel MEC si provino shock per i brutali «no» di de Gaulle non ci sembra dimostri molto.

[332] Nel MEC vi sono anche dei poveracci e quindi non tutte le emozioni che si provano a Bruxelles ci sconvolgono. Charles de Gaulle potrà spiacere, ma non ha fatto male ad una mosca e può per lo meno vantarsi di non essersi posto di traverso alla storia avendo a suo tempo ceduto di fronte alla richiesta d'indipendenza del popolo algerino. Le battute sul Quebec potranno amareggiare, ma non è colpa del generale se nel Canadà v'è un'effettiva tensione, che non è certo nata il giorno della visita aIIa Esposizione universale. E l'attuale politioa estera della Francia potrà presentare più d'un aspetto negativo, ma è una negatività che sorge in misura decisiva da ben altro che le «cattiverie» del Primo Cittadino: il nazionalismo dei romeni o degli israeliani, le incongruenze britanniche, la pigrizia della Repubblica federale tedesca non le ha certo inventate lui.

Se c'è oggi un Hitler sulla faccia della terra costui non è certo de Gaulle che non usa né napalm, né campi di concentramento, che non uccide bambini, né mette in prigione il dottor Spock, che non organizza una quinta colonna su scala mondiale, ne grandi e piccole Monaco dal Portorico alla Thailandia.

Ci pare di vederlo lo Hitler contemporaneo quale appare nei sogni del giornalista repubblicano: egli non veste in borghese, non ha una fisionomia da venditore di cavalli, non canta inni sotto l'albero di Natale. Se i demoni esistono nella storia essi - ci sembra di leggere tra le righe della Voce repubblicana - si riconoscono per chiari segni: anzitutto per l'essere stravaganti, anticonformistici. Non s'è infatti detto di volta in volta che degli Hitler erano anche Nasser e Stalin, Sukarno e Malcolm X? Il non-Hitler sarebbe dunque lo statista che fa la sua figura nell'ambito borghese, più o meno democratico: non-Hitler è Vittorio Emanuele III che accoglie festevolmente Mussolini, è Chamberlain

[333] che con fair-play abbandona la Cecoslovacchia e tenta di scaricare il nazismo sull'URSS, è Truman che, sentiti gli istituti competenti, ordina la bomba atomica su Hiroshima. II discorso, quindi, si fa estremamente serio: ma per stroncare alla radice le storture della Voce repubblicana si deve dire chiaramente: non sono gli irresponsabili a fare la storia perche qualora fossero eminentemente degli irresponsabili uomini del destino a fare la storia - in quanto irresponsabili - non sarebbe lecito ne condannarli, ne punirli dal punto di vista penale.

Invece sosteniamo che il tribunale di Norimberga aveva una sua legittimità nel condannare perche riconosceva i suoi imputati capaci d'intendere e di volere. Ricordiamo tutti che al processo Eichmann il primo ministro Ben Gurion ed il procuratore dello Stato Hausner volevano ricavare tra l'altro una condanna globale dell'antisemitismo ed un incitamento moralistico agli israeliti ad immigrare nel nuovo Stato. Ma tali finalità non c'entravano con il proposito di giudicare Eichmann perche, contrariamente alle aspettative di molti (penso anche della Voce repubblicana), non si dimostrò né un mostro, né una belva, né un diavolo, né un

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anormale. Era un individuo che aveva violato determinati principi giuridici: per questo fu giusto condannarlo. (98)

Lo stesso vale per il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson, il quale, nel male che compie, non è meno banale o più disumano di Eichmann. Inserito in un certo meccanismo - del quale a far scattare la molla fu, se non erro, John F. Kennedy - non soltanto non demoniaco, ma addirittura «buono» e «scrupoloso» - l'attuale massima au-

[334] torità statunitense merita (egli si, non de GaulIe) l'appel - lativo di Hitler: non perche sia uno sciacallo, un maramaldo, un prepotente o un ricattatore, ma esclusivamente perche le azioni che compie contro il Vietnam costituiscono un esempio di politica il cui senso ultimo è quello di impedire la coabitazione su questo pianeta ai vari gruppi umani.

Per questo Johnson va condannato: anche se non escludiamo che quanto fa lo faccia controvoglia, perche la politica non è un asilo infantile, ed ordinare il bombardamento di Hanoi e compierIo sono la stessa cosa.

Negli Stati Uniti - come nella Germania nazista a proposito dello sterminio di intere popolazioni - molti cittadini, e magari il presidente Johnson stesso, sentono che l'ordine «ammazza» nel Vietnam è in contrasto con le tendenze e gli istinti normali della maggior parte della gente che dicono «Non uccidere». Tuttavia troppi ancora sanno resistere alla tentazione di disobbedire alla legge e di rifiutarsi di uccidere: il male, cioè, nell'America degli anni Sessanta, sembra aver perso la proprietà che permette ai più di riconoscerlo: la proprietà della tentazione. Sia pure in misura diversa a seconda della partecipazione all'assassinio del popolo vietnamita, tutti gli americani e tutti gli amici degli americani che non disobbediscono all'ordine di Johnson sono in qualche modo colpevoli: né Johnson può invocare, a sua scusante, che milioni di persone gli si mostrino obbedienti, né milioni di persone possono invocare come attenuante il fatto di obbedire.

98 Le argomentazioni qui sopra sinteticamente accennate sono state ispirate dal volume di Hannah Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli, 1964). E' uno dei due o tre libri sui crimini del nazismo che meritino di essere letti

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Parte III

Il sionismo, lo Stato d'Israele, il Medio Oriente

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1) Tendenze del sionismo socialista"

Alle origini del «socialismo ebraico" (99) Da circa un cinquantennio esistono movimenti politici che si richiamano

contemporaneamente al socialismo ed all'ebraismo, movimenti cioè che, sorti per impulso di gruppi e di insigni personalità, divennero poi palestra di formazione ideologica e politica per fitte schiere di israeliti. Tali movimenti non hanno una storia avulsa da quella del movimento socialista internazionale, bensi essa è spesso inserita con vivacità nel suo ambito e vi apporta elementi originali e degni di attenzione. Quali esempi di questa presenza possiamo ricordare l'azione polemica del «Bund» all'interno della socialdemocrazia verso il '900, oppure la parte notevole che ebbero i movimenti «socialisti ebraici» nella direzione della rivolta dei ghetti durante la seconda guerra mondiale; oppure la funzione di primo piano ricoperta dai partiti «socialisti ebraici» tra i lavoratori della Palestina molto prima della formazione dello Stato di Israele.

Di fronte a tali fatti non sembra dunque possibile negare l'esistenza oggettiva - nel passato e, in minore misura, nel presente - di questi gruppi organizzati, di centri culturali e movimenti giovanili e partiti che, formati da ebrei in diversi paesi, si sono ispirati, con toni ed accenti vari, ai principi del socialismo. V'è perciò la necessità, resisi

[338] consapevoli della incontestabilità di tali fenomeni, di passare ad esaminare le questioni connesse con la loro formazione ed il loro sviluppo, cominciando a puntualizzarne alcuni aspetti.

I quesiti, che nascono volendo prendere in considerazione le origini dei movimenti politici del tipo sopra accennato, sono molti. Perche vengono creati in un certo periodo dei «movimenti socialisti ebraici»? Quali rapporti si stabiliscono tra di loro? Su quali classi o gruppi sociali fanno presa? In quale prospettiva si pongono rispetto alle discussioni ed alle divergenze che agitano il movimento socialista internazionale? Di quali ambienti di cultura sono espressione? Si tratta di fornire alcuni elementi di risposta per queste ed altre domande, iniziando l'analisi delle basi sociali da cui questi movimenti scaturiscono, della loro ideologia, della loro organizzazione e delle loro realizzazioni.

I movimenti «socialisti ebraici» più forti ed influenti si formano, come tutti i movimenti socialisti, soltanto nelle nazioni sufficientemente avanzate dal punto di

99 In Il Movimento operaio e socialista in Liguria, n. 2-3, marzo-giugno 1960.

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vista economico e politico e dove, inoltre, la minoranza ebraica è cosi numerosa e concentrata da costituire un gruppo etnico distinto ed abbastanza omogeneo. Tipici per tali condizioni, pur nella loro diversità, furono alcuni paesi dell'Europa orientale, gli Stati Uniti e la Palestina. In altre parole, a mano a mano che nelle varie nazioni capitalistiche si determinava la situazione adatta alla creazione di partiti socialisti, in quelle medesime nazioni, là dove esistevano forti nuclei ebraici, si producevano al loro interno delle correnti che aspiravano a risolvere le discriminazioni razziali-religiose-sociali con metodi socialisti, pur intendendo mantenere viva una certa «cornice ebraica» e non riuscendo ad abbandonare completamente certi atteggiamenti chiusi tendenzialmente di tipo nazionalistico.

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Nel complesso però, per una concomitanza di condizioni ambientali, è nell'oriente europeo che a partire dalla metà dell'800 la grande miseria dei ghetti ebraici si scontra con le piu rozze persecuzioni e si indirizza piu vigorosamente, cercando una via di salvezza, verso gli ideali dell'emancipazione sociale. I vi infatti le questioni delle nazionalità erano più acute e sentite e la minoranza ebraica era sufficientemente densa per assumere una precisa fisionomia. Di conseguenza gruppi di ebrei, proletari e non, scelsero le vie del «socialismo ebraico», differenziandosi da un lato dagli assimilazionisti, dall'altro dai religiosi e dai conservatori e impegnandosi coraggiosamente nell'elaborazione teorica di una posizione che li distinguesse dagli uni e dagli altri. Su questa via gli ebrei slavi erano aiutati dall'esistenza della cosidetta «aiarà», la tipica cittadina di provincia, dove la popolazione era totalmente o quasi totalmente israelita e nella quale una cultura originale e una mentalità locale potevano svilupparsi in maniera caratteristica.

Tuttavia occorre notare come queste tendenze si delineino per la prima volta storicamente in modo organico in Germania, nell'ambiente dominato da Marx e da Engels attraverso l'opera di un iIlustre personaggio su cui mi sembra opportuno fissare anzitutto l'attenzione: vale a dire su Moshe Hess (1812-1875).

Nato a Bonn, egli apparteneva ad una famiglia ebraica proveniente dalla Polonia assai legata alla tradizione religiosa. Ancor giovane Hess decise di sfuggire alle imposizione del ristretto ambiente familiare e si dedicò a liberi studi in vari centri universitari tedeschi, ai viaggi e addirittura ai vagabondaggi. Durante tali peregrinazioni disordinate venne a contatto con la cultura illuministica, liberale e socialistica dell'epoca e vi si immerse. Nel 1837

[340] Hess pubblica il primo libro dove espone la sua filosofia della storia che è una sorta di sintesi tra spinozismo ed hegelismo. Titolo programmatico del lavoro è Lo Stato e la Chiesa considerati da un punto di vista speculativo da un discepolo di Spinoza.

Sotto il profilo della sua posizione politica si può dire che i contatti con Rouge, Marx, Engels ed altri lo portarono a moderare sempre più il suo iniziale anarchismo ed a procedere verso le posizioni sostenute dai suoi amici, anche se le polemiche con lui continuarono. Questa fase di vicinanza e collaborazione con l'ala hegeliana di sinistra durò fin verso il 1848-49, quando, a causa del fallimento dei tentativi rivoluzionari, egli cadde in una crisi di sconforto, si ripiegò su di se e tornò a rivolgersi, anche attraverso lo studio delle scienze fisiche e biologiche, aIlo spirito religioso che aveva circondato la sua infanzia, mantenendosi tuttavia legato all'idea socialista con l'atteggiamento cosmopolita e con l'appoggio all'opera propagandistica dei lassalIiani. II punto supremo della sua evoluzione è nel 1862 aIlorche scrisse Roma e Gerusalemme, libro permeato dal sentimento di un

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nazionalismo ebraico parallelo al nazionalismo prussiano allora in pieno rigoglio, ma nel quale pure non mancano richiami alle teorie avanzate sociali e socialiste che avevano dominato tanta parte della sua esistenza. Alcune frasi conclusive di questa opera possono essere esempio preciso di quale fosse il suo orientamento nella fase finale della vita e di quale clima spirituale fosse partecipe: «le età del dominio di razza sono finite. Anche il popolo più piccolo, appartenga alla razza germanica o latina, slava o finnica, celtica o semitica, non appena faccia valere le sue rivendicazioni od i suoi diritti ad un posto tra i popoli civili della storia, deve contare sulle simpatie dei potenti popoli civili d'Occidente, i quali

[341] oggi hanno guadagnato un leale alleato e compagno nel popolo italiano risorto».

Il pensiero di questa strana ed eclettica figura ci sembra degno di considerazione, perche in effetti esso rappresentò una specie di fusione tra le aspirazioni vaghe delle masse ebraiche dell'Europa centro-orientale e le teorie liberali e rivoluzionarie dell'occidente; per mezzo di Hess e seguendone le tracce, altri avranno modo d'accostarsi direttamente alle fonti del socialismo scientifico; quindi, con tutte le debolezze che egli ebbe, non si può disconoscere l'influsso che esercitò di fatto. Hess, per molti aspetti fu un erede ed il radicalizzatore di quella corrente ebraica di iIluminismo e progresso sviluppatasi in Germania alla fine del secolo XVIII contemporaneamente all'inquietudine e all'ansia di rinnovamento che andavano investendo il paese tutto.

Ma tuttavia quest'uomo di valore rimane, per parecchi motivi, ambiguo e sfuggente. Se ci si domandasse che cosa intendesse per nazionalità questo cosmopolita-nazionalista, razionalista-religioso, assai arduo sarebbe cogliere con un'esatta definizione l'essenza delle sue idee. L'interrogativo, quindi, va risolto empiricamente studiando non solo Hess ed il suo ambiente, ma anche persone e partiti che ne riecheggiano e ne popolarizzano questo o quel concetto: il «rabbino comunista» sia per il tempo, sia per i luoghi ove visse è da reputarsi un precursore, ancora indeciso sulle diverse strade che si trova di fronte, inteIlettualmente aperto ad abbracciare ora questa ora queIla convinzione. In sostanza però sono già presenti in lui i due motivi fondamentali intorno ai quali si aggira la problematica del «socialismo ebraico»: l'esigenza autonomistica e la volontà di innovazioni sociali. Evidentemente qui già esiste «in nuce» la possibilità d'un contrasto: sarà possibile far si che il

[342] desiderio di salvaguardare le proprie caratteristiche non si trasformi in mero nazionalismo, che non venga introdotto, «contrabbandato», il germe della divisione tra i lavoratori? Certo, quali che fossero le contraddizioni di Hess, esse, generate in parte da quel gran coacervo di ideali e velleità che fu il sommovimento del '48, non vennero di fatto avvertite dal loro autore nè individuate dai suoi seguaci, ma anzi le sue idee con i pericoli insiti in esse, si diffusero e si discussero per i ghetti d'Europa e la pubblicistica in ebraico e in jidish ne dà testimonianze indubbie. A questo proposito è da ricordarsi l'influsso di Hess sul già ricordato movimento religioso, detto della «illuminazione» (haskalà), che aveva posizioni antitalmudistiche e liberali ed era fautore d'emancipazione e modernizzazione quantunque non fosse molto sensibile all'opera di redenzione sociale propriamente intesa. (100) 100 Desidero dare qui una testimonianza dei rapporti che intercorsero tra Marx e Hess. A tal fine offro come documento esemplificativo una lettera di Marx alla moglie di Hess, che dopo la scomparsa del marito si era dedicata alla pubblicazione delle sue opere inedite. Le lettere di Hess a Marx, Lasalle, Hertzen, ecc. sono molte, numerose ed interessanti.

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E' solo vent'anni dopo la morte di colui che abbiamo definito iniziatore del «socialismo ebraico» - vent'anni, per

[343] altro densi di propositi e progetti - che sorgono due veri partiti ispiratisi alle sue idee assai più di quanto fossero stati influenzati i suoi contemporanei medesimi, partiti che ebbero momenti di grande fioritura e che ripresero ampliando e consolidando ciascuno a suo modo, i temi intorno alla nazionalità, alla autonomia culturale ed alla giustizia sociale che già avevano avuto parte preminente nelle speculazioni dell'amico di Marx e di Engels. Intendo riferirmi all'«Algemenen Yidicher Arbeiterbund in Littahauen, Polen und Russland» ed al partito dei «Poalei Ziom» («Operai di Sion»): questi furono la più matura espressione dell'«ebraismo socialista» ed accumularono un ricco patrimonio ideologico salvatosi però in assai piccola misura dallo sfacelo attuato barbaramente dai nazisti.

Il Bund sorse nell'ottobre del 1897 a Vilna, un anno prima della fondazione del Partito operaio socialdemocratico russo, al quale doveva poi aderire, e raggiunse la sua massima espansione nel periodo che va dal 1900 al 1910. Esso era in sostanza uno strumento di difesa politica e sociale per mezzo del quale artigiani ed intellettuali rivendicavano i loro diritti di minoranza oppressa e sfruttata. Casi contemporaneamente la «Lega» oltre a far le veci di organizzatore politico fungeva da guida nelle richieste di miglioramenti economici e gli scioperi, perciò, erano uno dei mezzi di lotta più diffusi e propagandati per attaccare e vincere la pervicacia dei padroni, anche se spesso questo «partito di sarti e tessitori» a causa della carenza di operai veri e propri nelle sue fila, finiva col condurre delle agitazioni in maniera incerta e con spunti corporativistici. D'altra parte, però, veniva condotta senza tentennamenti una decisa campagna contro l'arretratezza imperante nelle comunità ebraiche sottoposte al potere religioso dei rabbini e a tutti i pregiudizi ad esso collegati e contro le teorie fautrici

[344] della concentrazione territoriale degli ebrei basate su una loro presupposta unità storica ed etnica, vale a dire contro il sionismo.

Infatti, non appena le teorie sioniste e sioniste-socialiste cominciarono ad avere una certa influenza il Bund non esitò ad attaccarle coraggiosamente: il rafforzamento artificioso della coscienza nazionale avrebbe messo in pericolo la coscienza di classe distogliendo energie preziose, e quindi campo d'attività della Lega doveva essere soltanto l'impero rnsso, né era utile istituire legami internazionali con ebrei d'altri paesi. Se la cultura ebraica aveva continuato a sussistere senza una specifica unità di territorio e senza che in esso si

«Londra 25 ottobre 1877 Stimata signora Hess, «Molti ringraziamenti da parte mia e di Engels per la spedizione dei due esemplari del libro «Teoria della materia dinamica». «Siamo ambedue convinti che il lavoro del nostro amico scomparso è di grande valore scientifico e dà onore al nostro partito. Perciò riteniamo, al di fuori dei legami personali con un nostro compagno da molti anni, nostro dovere illustrare il valore del suo libro e favorire per quanto possibile la sua diffusione, Le due parti che sono ricordate nella prefazione di Hess si trovano nei manoscritti? «Non si offenda per l'importo che Le invio per le due copie; infatti qui non si tratta delle sue spese private, ma di spese per l'opera comune. Suo devoto Karl Marx «Circa il libro scriverò anche a Pietroburgo e a New York».

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concentrassero gli ebrei, ciò era dimostrazione palese della non necessità di tale rivendicazione: l'autonomia spirituale doveva essere difesa all'interno della nazione natale insieme con la lotta per l'uguaglianza e la libertà del popolo russo tutto. Vivace attivismo nell'organizzare i lavoratori in difesa dei loro diritti, lotta contro l'antisemitismo, autodifesa contro i promotori di «pogroms», guerra contro la religione ed il potere religioso nella vita ebraica, sviluppo della cultura jidish: questi in breve i principi su cui si fondava il Bund.

Ma a questo punto va ricordato che la polemica del Bund non si rivolgeva solamente contro quelle che considerava deviazioni nazionalistiche. Una prolungata discussione ebbe luogo pure, particolarmente negli anni 1900-1905, con il Partito operaio socialdemocratico russo, da poco formatosi. La divergenza, che si manifestò specialmente con l'ala leninista del POSDR, (101) si concentrava principalmente su due questioni: quella della autonomia culturale

[345] e queIla del metodo di organizzazione. In sostanza il Bund veniva accusato di cadere, a causa delle sue concessioni al nazionalismo e al separatismo, in posizioni piccolo-borghesi e idealiste, di essersi ridotto insomma a partito non internazionalista e di posporre, nonostante i dinieghi la questione sociale a queIla nazionale. Come esempio di questa «deviazione" si può citare che al IV congresso del Bund (Bialistok, 1901) venne data la seguente definizione della questione nazionale: «Il congresso ritiene che la Russia deve trasformarsi in futuro in una federazione di nazioni dotate di completa autonomia nazionale, autonomia che dev'essere indipendente dal territorio dove risieda la nazione. Il Congresso riconosce che il concetto di "nazionale" va riferito anche al popolo ebraico, benche nelle presenti condizioni sia troppo presto sollevare la richiesta dell'autonomia nazionale per gli ebrei».

Inoltre la pretesa di salvaguardare l'autonomia culturale non sarebbe stata, per la sinistra del POSDR, che un artificioso paravento per nascondere il desiderio d'operare una distinzione tra lavoratori fianco a fianco nelle officine e con argomentazioni estranee agli interessi dei lavoratori stessi e sentite esclusivamente da intellettuali poco coerenti. Quanto al sistema organizzativo, se si fosse scelto quello meno rigido proposto dal Bund si sarebbe aperta la strada ai disordini e alla indisciplina più perniciosa per l'esistenza medesima del partito. D'altra parte un'equa libertà d'usare la propria lingua materna era rivendicata anche dal POSDR, insieme con l'impegno di lottare per la conquista di tutte le classiche libertà democratico-borghesi, di parola, di riunione, di stampa, religiosa, ecc. Quindi le esigenze di cui si faceva interprete il Bund erano, per il POSDR, superate.

Ora che è possibile esprimere un giudizio storicamente

[346] maturo sulla Lega dei lavoratori ebrei, è giusto riconoscere la validità di parecchie delle obiezioni provenienti dai nuclei influenzati sempre più profondamente da Lenin: il Bund fu, cioè, un partito socialista assai moderato, la cui ideologia aveva molte oscillazioni essendo propenso sia ad addivenire a compromessi e concessioni secondo le pressioni che si esercitavano su di esso, come anche a ritirarsi in uno sprezzante e solitario isolamento settario. Cosi in un primo tempo si avvicinò alla socialdemocrazia russa e si federò con essa, poi, più tardi, col rafforzarsi del sionismo-socialista, se ne allontanò passando ad un instabile

101 Si rammentino a questo proposito le due opere classiche rispettivamente di Lenin e di Stalin: Un passo avanti e due indietro (del 1905) e Il marxismo e la questione nazionale (1913).

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tentativo di equidistanza dagli uni e dagli altri. Tuttavia, va ricordato che le battaglie condotte contro i circoli reazionari imperanti nelle comunità israelitiche, contro le esasperazioni nazionalistiche e per la tutela della cultura jidish hanno avuto un'effettiva importanza nell'indirizzare verso ideali di progresso sociale ingenti nuclei di lavoratori ed artigiani. Lo sforzo compiuto dal Bund per popolarizzare le parole d'ordine di Plechanov, della Luxemburg e della socialdemocrazia austriaca ebbe un sicuro effetto rinnovatore nella oscura esistenza delle comunità ebraiche delle piccole città di provincia russe e polacche, specie in quei ceti piccolo-borghesi di artigiani, commercianti ed intellettuali, che si tenevano timorosamente lontani dal partito socialdemocratico. Più grave fu l'azione che distolse i proletari dal loro posto nella lotta di classe per spingerli a compromessi con la borghesia invitandoli a battersi per obiettivi effimeri che non li riguardavano che assai superficialmente. Si venne perciò determinando all'interno di questo partito una mentalità parlamentaristica che, tra l'altro, diede prova della sua imprevidenza e scarsa lungimiranza all'epoca della seconda guerra mondiale, allorché il Bund polacco non seppe tempestivamente rendersi conto della tremenda gravità della

[347] persecuzione antisemita che i nazisti invasori stavano per scatenare in Polonia. Ma la responsabilità per essersi confinati fin dai primi anni del '900 in una chiusura sempre più astratta e particolaristica, va ricercata, in qualche misura, anche in certe manifestazioni di primitivismo ed in certe insofferenze a cui era soggetta la stessa socialdemocrazia russa. (102)

L'altro partito «socialista ebraico» su cui intendo soffermarmi è il già nominato Partito degli operai di Sion, la cui piattaforma ideologica fu precisata e stabilita da due teorici di acuto ingegno: Chaim N. Sirkin (1867-1924) e Dov Ber Borochov (1881-1917). Essi ritenevano di poter dimostrare scientificamente, vale a dire secondo principi marxisti, che il sionismo, cioè l'edificazione di uno Stato ebraico indipendente, è l'unica strada che permetta di risolvere le anomalie sociali, economiche e politiche di cui soffrirebbe il popolo ebraico disperso (gli ebrei sarebbero quindi popolo, non religione o razza o minoranza linguistica). Sirkin almeno per qualche tempo, non pensò necessario collegare al messianico ritorno in Palestina la «territorializ -

[348] zazione" da lui propugnata, mentre toccò a Borochov giustificare, sempre materiaIisticamente, il legame indistruttibile con la «terra dei padri». Schierandosi quindi per un verso contro le incomprensioni della socialdemocrazia ed il cosmopolitismo del Bund e dall' altro criticando le lungaggini burocratiche e gli atteggiamenti reazionari del movimento sionista borghese, venne fondata nel 1906 a Poltava l'organizzazione dei Poalei Zion.

102 Ritengo interessante esporre una delle deliberazioni del V Congresso dd Bund (tenutosi a Zurigo nel luglio 1903), dalla quale risulta la posizione del partito nei confronti del sionismo: «Tenendo conto che il sionismo è il «movimento della piccola e media borghesia, sottoposta a una duplice pressione, la concorrenza del grande capitale da un lato e le leggi discriminatorie e l'inimicizia del governo e della popolazione cristiana dall'altro; tenendo conto che il sionismo, ritenendo l'antisemitismo ineliminabile e di conseguenza stimando che ad esso tocca il compito di edificare uno Stato classista in Erez-Israel, aspira a rinforzare in questo modo i contrasti di classe in nome di interessi che a suo modo di vedere sarebbero nazionali; considerando che i principi del sionismo portano inevitabilmente ad una tattica reazionaria e a sentimenti di odio verso il movimento rivoluzionario del proletariato ebraico generando apatia e sottomissione al governo autocratico cosiché si impedisce lo sviluppo di sentimenti civili tra gli ebrei e si rafforza nei loro animi una psicologia da ghetto, « il Congresso ritiene necessario combattere il sionismo in tutte le sue correnti e tendenze».

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Borochov (103) inizia la sua analisi della situazione ebraica nello scritto «Sui problemi della teoria sionista" con le seguenti argomentazioni che mi sembra opportuno citare tenendo presente quale è stata la storia dell'ebraismo in questa prima metà del '900:

«Certamente, dal punto di vista obiettivo la nostra situazione è

rassicurante per diversi aspetti. L'Inquisizione - c'è da supporre - non si rinnoverà un'altra volta contro di noi. Anche espulsioni in massa di ebrei non vi saranno più. Ma la situazione è forse cosi anche dal punto di vista soggettivo? In psicologia gli scienziati, in base a numerosi esperimenti, hanno stabilito un principio conosciuto sotto il nome di legge di Weber-Fechner secondo cui la percezione aumenta proporzionalmente al logaritmo della sollecitazione. Se tradurremo questa legge dal linguaggio matematico a quello corrente se ne potrà ricavare che la sensibilità aumenta molto più lentamente dei cambiamenti che avvengono nell'am-

[349] biente circostante. E quindi nel prolungarsi del tempo l'uomo ha sensazione di quei cambiamenti sempre meno rapidamente e con pause più lunghe: perciò, benche la condizione dell'uomo migliori continuamente, parallelamente ingrandirà la sua richiesta di miglioramento interiore e dovrà aspettare sempre di più per sentire intorno a lui un cambiamento concreto che lo soddisfi. Di qui il fatto ovunque conosciuto che gli uomini più oppressi sono quelli che sentono di meno la sofferenza e si accontentano di poco e non si lamentano se non in rari casi. E il mezzo più sicuro per fare di uno schiavo un essere capace di richiedere, un insoddisfatto, è di attenuare leggermente le difficoltà della sua sorte. Voi dite che la nostra situazione è migliorata. Io riconosco ciò; ma è proprio questo miglioramento che ci ha reso più sensibili: il filo di paglia ci pesa oggi di più di quanto ci pesò precedentemente il più aspro tronco».

Borochov in pratica tentò di operare una fusione tra bundismo e sionismo,

favorendo di fatto questo secondo termine con una spiegazione economicistica del problema delle minoranze. Il bundismo si ritrova nello scheletro del pensiero borochovista; mentre ne sono esautorate le possibilità ed indicati senza paure i punti deboli, se ne utilizzano le analisi politico-sociali e la prassi. Il compito principale che Borochov si è assunto si può perciò definire cosi: applicare il metodo marxista alle vicende della minoranza ebraica, sostituendo ai problemi della lotta di classe i problemi della nazionalità e «rinviando» la soluzione dei contrasti strettamente economici al futuro, quando lo Stato nazionale, ricostituito dalla minoranza resasi indipendente, si sia formato ed organizzato compiutamente.

Puntando l'attenzione sulla stratificazione sociale delle popolazioni, si riesce a dedurre che, in regime di sfrutta-

103 D. B. Borochov studiò e visse a lungo nella città ucraina di Poltava, trasformata, per ordine governativo, in domicilio coatto per gli avversari politici; quivi venne a contatto, tra gli altri, con il pensatore di tendenza socialista Martov (che era figlio di Alessandro Zederbaum, editore della rivista liberale ebraica Hameliz). Martov, uno dei maggiori oppositori di Lenin al secondo Congresso del POSDR nel luglio 1903, aiutò la formazione intellettuale del giovane Borochov, tanto che è visibile palesemente la somiglianza delle idee. Il Martov ad esempio verso il 1906, diceva: «Il conflitto tra borghesia e proletariato rafforza le posizioni dell'assolutismo e ostacola quindi la liberazione del popolo.»

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[350] mento dell'uomo suIl'uomo, per una serie di cause scientificamente individuabili, le minoranze nazionali non hanno possibilità di solido inserimento nello Stato, anzi ad esse è affidato il ruolo di capro espiatorio dei mali sociali. Pertanto Borochov e Sirkin arrivano alla conclusione che occorra innanzitutto normalizzare i rapporti economici e di conseguenza creare in Palestina una nazione ebraica limpidamente regolare, dove la minoranza come tale non sia piu costretta ad una esistenza resa incerta dalle persecuzioni e dalle difficoltà sociali, e dove perciò non sia più obbligata a ripiegare in aleatorie occupazioni non direttamente produttive. In tal modo la tendenza menscevica ad anteporre l'alleanza tra borghesia e proletariato contro lo zarismo alla lotta autonoma del proletariato delle città e delle campagne per un drastico mutamento sociale, fu utilizzata in senso nazionalistico dai Poalei Zion, che rivendicavano la necessità di edificare uno Stato ebraico borghese dal cui superamento doveva successivamente sorgere una società socialista.

All'incirca all'epoca della rivoluzione del 1905, abbiamo così dinnanzi le due fondamentali suddivisioni in cui si espresse il «socialismo ebraico»; esse si distingueranno per la differente soluzione che prospetteranno del problema della minoranza ebraica, massimo centro dei loro interessi. Ci si indirizzerà o per l'autonomia all'interno della nazione in cui gli ebrei si trovano o per il distacco netto e la formazione di uno Stato indipendente. Sintomo tipico dell'incertezza sulla via da seguire e delle difficoltà a scegliere tra sionismo e non sionismo può aversi considerando la vicenda personale del marxista P. B. Akselrod, il quale, impressionato dalle manifestazioni di antisemitismo avvenute in Russia nel 1881, si avvicinò notevolmente, per qualche tempo, al sionismo.

Ma sembra ora indispensabile rievocare l'ambiente

[351] da cui Bund e Poalei Zion sono scaturiti, riandando a quella realtà alla quale sono indistricabilmente legati, insieme con tutte le minoranze nazionali che facevano parte del grande impero russo e che si dibattevano in una analoga problematica. Difatti, confrontando le esperienze collettiviste che si andavano iniziando in Palestina con alcuni contemporanei fenomeni sociali russi, si noterà da parte dei pionieri ebrei un'immediata imitazione d quanto avveniva tra gli operai ed i contadini. Ciò dimostra l'esistenza di un vincolo insuperabile tra la minoranza ebraica slava ed il paese natale, vincolo che si esplica in Palestina nella fedele trasposizione e adattamento di un metodo di vita. Invero la realtà russa, se offriva sotto alcuni aspetti la possibilità e la necessità d'una certa posizione d'autonomia per le minoranze, allo stesso tempo le portava ad inserirsi ed inglobarsi in essa.

E' noto che grandi masse di contadini vivevano riunite formando delle comunità (il famoso «mir», nelle quali la terra perdeva molte delle caratteristiche di proprietà individuale; i campi erano periodicamente ridistribuiti tra le famiglie e gli apprezzamenti, per uniformarne il valore, finivano con l'essere spartiti in maniera tale che si rendeva indispensabile coordinare in comune le date di semina e mietitura, quasi come in un'unica azienda agricola. I membri del «mir» versavano solidalmente le tasse allo Stato, che venivano ripartite tra di loro secondo varie quote da funzionari scelti all'interno della comunità stessa. E se qualche contadino si allontanava il peso delle imposte a cui sfuggiva ricadeva sui rimasti.

Quanto alla situazione nelle città, nel periodo di formazione dell'industria capitalistica, i gruppi di operai che da poco si andavano radunando negli agglomerati urbani, si accordavano spesso per una vita in comune e coabitavano

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[352] e prendevano insieme i pasti. Il cibo era preparato in cucine collettive, a spese di tutti i lavoratori, si mangiava alla stessa tavola e non di rado, per la povertà, nello stesso piatto. Più tardi, quando le condizioni migliorarono e il contadino, proletarizzato in fabbrica, potè far venire in città moglie e figli, ogni famiglia ebbe sì la sua pentola e ciascuno mangiò ciò che volle, ma le cucine rimasero ancora in comune abbastanza a lungo.

Questo modo tipico di superare le difficoltà economiche sommariamente accennato si ripetè letteralmente in Palestina, per lunghi anni, in numerosi nuclei di ebrei russi emigrati i quali, trovata occupazione nel settore dei lavori pubblici e specialmente nella costruzione di strade, dormivano sotto le tende giornalmente spostate man mano che la strada procedeva, organizzavano i pasti in comune, ecc. Ancor oggi sussistono nello Stato d'Israele elementi di quelle usanze, imposte dalle esigenze della vita e trapiantate dall'Europa orientale, non solo nel folklore e nel linguaggio del paese, ma anche nei costumi e nella struttura delle colonie agricole collettive e nelle cooperative. Ad esempio per ricordare soltanto qualche episodio del tempo in cui i principi del sionismo-socialista non erano ancora stati impostati esattamente, si possono rammentare i membri del «gruppo di Homel», immigrati in Palestina nel 1904, i quali decisero il loro trasferimento dalla Russia a causa delle persecuzioni della polizia che li ricercava quali organizzatori dell'auto-difesa armata nel «pogrom» dell'anno precedente, cosicché la loro fuga ha sostanzialmente lo stesso senso del riparare all'estero dei democratici russi per sfuggire alla Okrana zarista; i fondatori delle colonie di Segera, Um-Giumi e Degania, progenitrici degli attuali «kibuzim», trassero ispirazione dalla vita agricola del loro paese natale nell'istituire una cassa comune, il pagamento

[353] collettivo delle tasse, squadre organizzate di lavoro e via di seguito: il gruppo «Guardia del Volga» di Saratov, prima di arrivare in Palestina nel 1922, lavorò a lungo organizzato in maniera collettiva in varie parti della Russia sconvolta dalla guerra civile in appoggio allo sforzo riorganizzativo dei Rossi contro i Bianchi.

Alla luce dei fatti sopra accennati è utile riassumere i capisaldi ideologici di un altro movimento «ebraico socialista», che ebbe ampia diffusione in Palestina dagli inizi del secolo fin verso il 1925-27, il quale dimostra in modo palese l'attaccamento di determinate correnti emigratorie non solo alle idee vicine alla socialdemocrazia, ma anche a quelle tolstoiane e populiste sulle funzioni del lavoro agricolo e dei contadini e che testimonia inoltre dello strano miscuglio di propositi ed aspirazioni che fermentava tra i lavoratori, gli intellettuali ed i piccolo-borghesi ebrei. Intendo parlare del «Giovane Operaio», raggruppamento politico a metà tra radicalismo avanzato e socialismo umanitario, situato tra il libertarismo di origine contadina e gli intenti nazionalisti e liberali dei borgbesi.

Il «Giovane Operaio» fu fondato nel 1905 dal suo capo spirituale R. David Gordon. Il Gordon (1856-1922) era nato a Podolia, dove era vissuto facendo l'impiegato in una grande azienda agricola sino a 50 anni. A tale età venne improvvisamente licenziato ed allora si decise ad emigrare in Palestina, portando a compimento progetti lungamente maturati nell'intimo del suo animo. Basterà citare alcuni brani di un suo scritto per far risaltare, per mezzo della prosa vigorosa, il singolare umanesimo slavo che lo ispirava e doveva poi riversare nell'ideologia del suo partito.

«Un paese si acquista vivendoci; col lavoro e con la creazione. Così

anche noi acquisteremo e riprenderemo il nostro diritto alla terra... La nostra terra che in antico

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[354] era "una terra stillante latte e miele" e comunque suscettibile di un'alta cultura, rimane desolata... E' questa una specie di sanzione del nostro diritto alla terra, una specie di segno che la terra aspetta da noi. Con la vita, con il lavoro, con la creazione noi acquisteremo e riaffermeremo il nostro diritto storico su quel paese... E' vero, noi siamo una minoranza, ma quel terreno che abbiamo acquistato col nostro proprio lavoro è nostro e nessuna maggioranza al mondo può toglierci questo diritto... Chi lavorerà di più, che creerà di più... costui acquisterà maggior diritto morale e altresì maggior forza vitale sul paese. Si tratta di una gara pacifica... il nostro ideale massimo deve essere il lavoro... soltanto allora potremo superare la distanza che ci separa dalla natura».

Non c'è in queste righe chiara rimembranza della fame di terra dei mugiki

russi e l'ansia purificatrice che pervade le pagine di Tolstoi? Molto vi sarebbe da dire sulla sete di miglioramento e di sanità morale gordoniana, sull'esigenza sempre ribadita di spezzare le mura dei ghetti e d'instaurare dei rapporti più naturali, tra l'uomo e la campagna, tra l'uomo ed il lavoro agricolo. Ma, per altro, a causa della ferma opposizione al marxismo e alla «ipnosi dei partiti» (104), per il rifiuto a prendere in considerazione i modi attraverso i quali si attua il progresso della società, il capitalismo, le lotte di classe, la classe operaia, è indispensabile che si definisca più esattamente il limite dell'«ideale del lavoro». Sebbene per l'immaturità di quei tempi riesca difficile calcolarne le prospettive con esattezza, tuttavia esso palesemente tende a trascendere ed a degenerare in un perico-

[355] loso simbolismo ed in una retorica astratta, in opposizione alle stesse intenzioni iniziali dei propugnatori.

Le affermazioni che rivendicano il diritto degli ebrei alla Terra Santa si prestano oggettivamente all'equivoco: se non è possibile dubitare che esse erano espresse in buona fede, anzi quasi rasentando il candore e !'ingenuità, è nondimeno da notare come tale modo di esprimersi si attagliasse perfettamente agli obiettivi ben concreti dei gruppi di sionisti capitalisti, desiderosi di espropriare, senza troppe tergiversazioni, gli indigeni che lavoravano quelle medesime terre e vivevano dei loro frutti. Si assistè perciò ad una eonvergenza di fatto tra i piani irreali di Gordon e quelli fin troppo precisi dei sionisti borghesi: la negazione dei principi marxisti e dello studio paziente delle condizioni sociali portò gli idealisti del Giovane Operaio alla collaborazione con certe forze mosse da scopi quasi esclusivamente speculativi, eon correnti politiche che intendevano per «ideale del lavoro» non la redenzione attraverso la rivalutazione dell'agire sul contemplare, attraverso la costruzione, ma, più semplicemente, tenendo ben saldo il principio dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo.

Prima di concludere questa sintetica esposizione sui vari aspetti assunti dal «socialismo ebraico» nell'Europa orientale, occorre ribadire che la traccia che si è voluta delineare - partendo da M. Hess (quale iniziatore) fino al Bund (come partito «socialista ebraieo» contrario al sionismo) al Poalei Zion (come partito sionista-socialista influenzato dal marxismo) e al Giovane Operaio (come partito sionista-socialista di tipo umanitario) - è schematica e puramente riassuntiva. Come per ogni ambiente politico, e in primo luogo per quello russo, è infatti indispensabile fornire 104 «Sotto l'azione della socialdemocrazia, gli operai si sono dati un loro proprio reggimento, dei segretari di partito, delle autorità da cui si son fatti portar via pensiero ed azione. Non vogliono il rinnovamento degli uomini, ma una cosa puramente tecnica: l'espropriazione degli espropriatori». A. D. Gordon.

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un numero molto maggiore di dati ed elementi di collegamento e notizie informative per una trattazione sto-

[356] rica vera e propria. Tale impegno è ugualmente necessario volendo studiare a fondo il particolare settore della scena politica della Russia zarista occupato dai «socialisti ebrei». Esistono infatti, accanto ai maggiori, gruppi di «socialisti ebrei» più ristretti e meno influenti ed inoltre pensatori isolati; essi si affiancano ai movimenti dei quali si è scritto ed hanno una parte notevole nel contribuire a formare un ambiente, una tendenza, delle correlazioni, se non altro per mezzo del contributo polemico da essi apportato con la pubblicazione di giornali, riviste e opuscoli, con le conferenze e con i dibattiti organizzati.

A titolo esemplificativo (al fine di permettere di rilevare concretamente come tra i partiti «socialisti ebraici» esistesse un continuo interscambio di idee e come tale vivacità ideologica travalicasse i confini dei ristretti interessi della minoranza ebraica per inserirsi nella vita politica dell'intera Russia), è da segnalarsi l'esistenza di altri due partiti: il «Partito sionista-socialista degli operai» e il «Partito socialista ebraico degli operai». Il primo fu fondato a Odessa nel 1905 da alcuni gruppetti gravitanti nell'orbita dei Poalei Zion in occasione della discussione sviluppatasi nel movimento sionista tra i «territorialisti» ed i fedeli all'idea del ritorno in Palestina. Il partito sionista-socialista aveva una visione pessimistica della condizione ebraica in Russia e riteneva necessario preparare un piano organico di emigrazione per le masse ebraiche, pur opponendosi ai progetti di trasferimento in Palestina.

Il partito socialista ebraieo, fondato a Kiev nel 1906, si sforzava invece di essere all'interno della minoranza ebraica quello che erano i socialisti-rivoluzionari per la popolazione russa; con questo intendimento partecipò nella primavera del 1907 al «congresso dei partiti socialisti nazionali di Russia».

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Dopo la Rivoluzione d'Ottobre questi due partiti si fusero insieme ed ebbero modo di tentare alcuni esperimenti d'autonomia nazionale ebraica in Ucraina nel 1919, prima che il nuovo partito unificato si disperdesse in diverse direzioni (confluendo in parte nel PC (b) , in parte nel Bund ecc.)

Con la tendenza allo sviluppo degli ideali del Giovane Operaio può considerarsi conclusa una determinata era del «socialismo ebraico». La linea di sviluppo che inizia con le anticipazioni dello Hess a metà dell'800, ha termine con la prima guerra mondiale: più precisamente il mondo slavo e gli ebrei che ne fanno parte vanno subendo una profonda trasformazione interiore, cosicchè risulta assai mutata la prospettiva in cui operano i partiti marxisti e non marxisti, sionisti e non sionisti dei quali abbiamo sommariamente discorso, verso il 1925 dopo la guerra e la rivoluzione, quando si comincia a precisare la sostanza dei cambiamenti e le ideologie e le organizzazioni ebraiche borghesi (allorchè l'immigrazione in Palestina divenne più numerosa ed il movimento sionista un fattore politico degno di un calcolo diplomatico) assumono un ruolo vieppiù influente ed oppressivo.

Non va però nascosto che densa di gravi conseguenze fu la deliberazione dei più decisi sionisti-socialisti dell'Europa orientale di trasferire il loro campo di azione in Palestina, tanto più che fu motivata senza riuscire a rendersi conto di quanto sarebbe stata debole la loro possibilità di mettersi alla guida della società nel nuovo paese, dato che non vi erano radicati, ne ignoravano i problemi e non eomprendevano come già da decenni esso fosse una pedina nel gioco colonialista condotto da diverse grandi potenze, gioco che era assurda illusione sperare di arrestare. Così, inevitabilmente, nella sfida per l'edificazione di una società

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[358] socialista che intercorse tra bolscevichi e sionisti-socialisti esuli dalla loro patria, furono i primi a prevalere grazie al sovrumano realismo leninista e staliniano, mentre i secondi, che avevano deciso di combattere da soli la lotta contro la «loro» borghesia, rimasero sempre, rispetto a questa, in posizione subalterna.

Si è che mentre i sionisti religiosi bassavano il loro ideale del ritorno alla terra dei padri coeretemente a tutta la loro tradizione spirituale e mentre i sionisti borghesi, come ogni altro gruppo borghese, non nutrivano difficoltà ad esprimere con belle e spesso vuote formule il loro attaccamento finanziario alle imprese colonializzatorie in Terra Santa, i sionisti-socialisti, ripetendo l'atteggiamento interiore di M. Hess, risolvevano le loro delusioni e le loro debolezze con l'evasione dalla realtà ed inseguendo delle utopistiche chimere.

Volendo tuttavia esprimere un parere complessivo su questi gruppi socialisti, dobbiamo constatare che se non riuscirono mai a svincolarsi dalle ingerenze delle classi avverse, pure possedevano un istinto socialista sincero, che non è possibile disconoscere e che anzi è opportuno ricercare e identificare. Il movimento socialista internazionale ha sempre dovuto lottare per riuscire ad autodefìnirsi, per stabilire i suoi compiti ed i suoi metodi d'azione ed anche per il movimento «socialista ebraico» nei paesi slavi, si è trattato di assolvere un simile compito, attraverso fatiche, errori, sacrifici. L'impegno alla difesa delle classi umili, alla ugualianza ed alla giustizia, i fitti richiami al marxismo non possono essere sottovalutati anche se l'attuazione pratica è stata lacunosa, anche se si sono accompagnati ad esasperazioni nazionalistiche.

Piuttosto un punto chiave che la storiografia deve proporsi di approfondire e confermare ulteriormente è quello

[359] dell'appartenenza dei movimenti socialisti sopra descritti al comune tronco del! socialismo dell'Europa orientale, dal quale si dipartono come suoi rami; infatti senza tener conto di questo elemento essenziale si rischia di ridurre assai la possibilità di interpretazioni ragionevoli.

Il fatto ormai assodato dagli studi più equilibrati, che le teorie sioniste siano vacue non esime dall'esigenza di ancora fondarlo con indagini particolari; sotto questo aspetto le ricerche intorno alle correnti ebraiche progressiste possono fornire un contributo significativo anche alla conoscenza generale della storia dell'Europa orientale nella quale gli ebrei erano, e nell'Unione Sovietica ancora sono, una sensibile minoranza. D'altro canto la minoranza ebraica contava in quei paesi antecedentemente alla seconda guerra mondiale parecchi milioni di individui, ed è sicuramente utile per tutti apprendere i modi della sua evoluzione politica. Qui si è voluto cominciare ad esplorare tale evoluzione pressoche sconosciuta in Italia.

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La fondazione dell'Histadrut e i partiti ebraici del lavoro (105)

Il 4 dicembre 1920 venne fondata a Chaifa la «Confederazione Generale dei

Lavoratori ebrei in Erez Israel» (Histadrut haclalit scel haovdim haivrim be Erez Israel). Il conseguito collegamento organico dei lavoratori ebrei in Palestina, almeno intorno ad alcuni importanti principi, considerato nella prospettiva dei decenni trascorsi, può dirsi il simbolico punto d'arrivo del lungo e complesso periodo storico che si conclude con la fine della prima guerra mondiale. In verità sia prima che dopo la creazione della Histadrut continueranno ad esistere ed a gareggiare svariati partiti di lavoratori, ma tra la situazione del 1914 e quella del dopoguerra si sono operate molteplici trasformazioni ed uno degli avvenimenti che meglio rappresenta tali mutamenti è proprio il sorgete della Confederazione unitaria.

Al congresso di Chaifa erano rappresentati tutti i partiti del lavoro ebraici e cioè v'erano le seguenti liste:

1) «Unione del Lavoro» (Achdut HaAvodà) con 38 delegati; 2) «Il Giovane Operaio» .(HaPoel HaZair) con 27 delegati; 3) «Lista nuovi immigrati»: alleanza di «Giovane

[361] Guardia» (Hashomer HaZair), «Pioniere», «Giovani di Siom», con 16 delegati; 4) «Partito Socialista Ebraico degli operai» (Miflegbet Poalim Sozialistit Ivrit, o più brevemente MPSI) con 6 delegati. Sorge, ora, naturale la domanda: quale utilità può avere un esame di questo

elenco? E la domanda ha tanto più motivo di essere formulata se si pensa che la cifra complessiva di coloro che parteciparono alle elezioni è di 4400 votanti circa, il che dimostra che il maggiore dei ragruppamenti in lizza - l'Unione del Lavoro - non arriva ai duemila iscritti e che tutta la Confederazione non interessava che l'8% della popolazione ebraica palestinese.

A me sembra valga la pena di indugiare un poco nella descrizione di queste correnti ideologiche per la semplice ragione che, attraverso nuovi apporti di pensiero, influenze di varie personalità, trasformazioni organizzative, ecc., esse sono rimaste dirette progenitrici delle formazioni politiche odierne. In altre parole il congresso di Chaifa ha una importanza che valica l'epoca in cui si svolse, giacche permette, a chi torni a studiarlo, di vedere stagliarsi, per la prima volta sul suo sfondo le complesse tendenze ideali che ivi reperirono una via comune di azione, una piattaforma adatta ad agire insieme. Cosa significa Histadrut? In fondo è possibile definirla come un ampio sindacato unitario sorto per iniziativa di partiti di 105 In Il Ponte, n. 12, dicembre 1958.

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lavoratori, ma indipendentemente da essi, che ha norme tratte dalla prassi di altri movimenti sindacali e lo spirito dei quali è fatto rivivere dai lavoratori recentemenre immigrati. Ma vi sono anche, nello statuto, delle norme originali e, se ci addentreremo a rieordarne alcune, maggiormente palese sarà la qualità del patto che legò insieme i lavoratori ebrei. Per esempio tra i primi articoli della legge interna della Confederazione

[362] ne troviamo uno che dice «compito della Confederazione è... la organizzazione e lo sviluppo di aziende agricole e industrie in ogni branca di lavoro, nei villaggi e in città, l'impianto di istituzioni e di banche per il credito alla colonizzazione e agli altri rami di attività similari». Altro compito più in là stabilito è «l'organizzazione e l'aumento delle immigrazioni di lavoratori all'estero». Da queste rapide citazioni è possibile trarre lo spunto per notare due concetti che meritano di essere segnalati: in primo luogo v'è la accentuazione della questione nazionale, l'adesione al sionismo; in secondo luogo è presente la volontà di porre innanzi ad ogni costo l'incremento economico e la cos truzione del paese: compito dell'Histadrut è «la costituzione di una società ebraica del lavoro». Così al congresso di Chaifa il «costruttivismo sionista» (come di solito viene chiamato) si contrappone con precisa fisionomia alla azione diplomatica e politica condotta, di consueto, in quel periodo dall'organizzazione sionista. Il che significa, in realtà, che nuovi ceti sociali, nuove classi hanno preso il loro posto nella lotta per la conquista di una autonomia ebraica in Palestina: i proletari ebrei non si presentano più «sparsi e divisi» ma si impegnano a coordinare la loro azione, e non perseguono più solo vaghi ideali, ma ricercano una politica precisa ed immediata, hanno loro chiare esigenze da rivendicare.

Vediamo ora più da vicino una ad una le svariate forze politiche che diedero vita all'Histadrut: valutandole singolarmente più agevole sarà avere una compiuta conoscenza di quali elementi fosse formato l'organismo complessivo.

Prima della nascita dell'Histadrut esistevano alcuni piccoli movimenti sindacali specialmente tra i braccianti. Però essi non erano riusciti a sfuggire al corporativismo e

[363] più 'ancora alla collaborazione corruttrice con i proprietari terrieri. Altre volte avevano dovuto soccombere, sciogliendosi, per agitazioni e proteste finite senza successo. Sono questi i motivi che spiegano come a presiedere al sorgere del sindacato siano proprio partiti di lavoratori e non i deboli movimenti sindacali precursori.

Le condizioni che determinano tale congresso sono molteplici e non è il caso di esaminarle; accontentiamoci di citarne qualcuna tra le più vistose: il rafforzarsi in tutti i paesi subito dopo la guerra dello slancio popolare, l'arrivo di immigrati particolarmente sensibili ai problemi della solidarietà di classe, il risveglio economico del paese; piuttosto passiamo ad una analisi maggiormente precisa delle varie tendenze politiche legate all'avvenimento. ,

Secondo i dati sopra riportati, la Confederazione Generale dei lavoratori ebbe origine sotto l'influenza predominante della Unione del Lavoro: cominciamo perciò con il descrivere brevemente questo raggruppamento e poi via via passeremo agli altri e percorreremo così lo schieramento del proletariato ebraico in Palestina dai maggiori ai minori partiti e da «destra a sinistra».

L'Unione del Lavoro era stata fondata nel 1919 a Petach Tikva con lo scopo di divenire il partito della classe operaia, su un'ampissima base programmatica che permettesse il confluire di diverse correnti ideologiche. La linea teorica doveva

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essere sintetizzata dal motto: «Unione dei lavoratori in quanto lavoratori, e non perchè abbiamo questa o quella opinione». Favorita dalle circostanze, essa acquisì una dottrina propagandisticamente fortunata, che faceva appello con vigore popolare e senza troppe sottigliezze, a ideali - il socialismo e il nazionalismo sionista - che commuovevano energicamente le masse. Questa apertura audace in campo politico fu opera di una serie di personalità di grande

[364] levatura, altre insigni vennero in seguito a loro volta attratte dalla rigogliosità del movimento: basterà ricordare i nomi di David Ben Gurion, Izchak Ben Zvi (attuale presidente dello stato), Berl Kaznelson, Izchak Tabenkin.

Il sionismo realizzatore come forza capace di creare una società di lavoratori fratelli, l'acquisto, per arrivare a ciò, della terra indispensabile al popolo ebraico e la formazione di un capitale nazionale, l'immigrazione pionieristica nel paese e la conquisra della lingua e della cultura ebraica da parte di tutto il popolo, questi sono i principi ideali, accettabili senza troppe difficoltà da vasti strati dell'ambiente sionista, che ponevano le premesse favorevoli alla nascita di un grande partito social-democratico capace di metterli in pratica, utilizzando ed armonizzando le forze occorrenti a ciò, anche se provenienti da diverse origini.

Dai suffragi raccolti al congresso di Chaifa risulta che il secondo raggruppamento fu quello del «Giovane Operaio», secondo non solo di voti ma anche di importanza notevolmente minore sul piano politico. La qual cosa sarà provata quando, dopo un decennio di discussioni, accettando di fondersi con l'Unione del Lavoro, si scoprirà che l'apporto del pensiero indipendente è piuttosto scarso. In realtà esso persevera in teorie abbastanza superate, protette, inconsapevolmente, dalla arretratezza del paese che ancora non ne svela la intima debolezza come farà la fiera epoca successiva dell'industrializzazione. Alla testa dell'Unione del Lavoro c'è una oculata capacità teorica, v'è la tensione analitica di uno scelto manipolo di ideologhi, di Sirkin, di Borochov, di Brenner, i quali si battono per esaminare con metodo scientifico il problema ebraico e cercano di sfuggire al sentimentalismo fallace e alle facili genericità. Capi spirituali del Giovane Operaio sono invece Tolstoi ed il suo evidente seguace tra gli ebrei A. D. Gordon; i suoi sistemi

[365] hanno il sapore populistieo della «Narodnaia Volia» e l'obbiettivo principale è la rigenerazione fisica e morale dell'uomo per mezzo del lavoro agricolo considerato come dotato di una virtù catartica.

Per questi motivi si pone un partieolare accento sulla necessità di Comuni Agricole e ne deriva anche una incompleta sensibilità di fronte alle concrete fratture tra le classi e alle prepotenze dei reazionari. E' quindi logico che, quando le questioni da confuse ed incerte che erano, per i rinnovamenti economici e sociali, vanno assumendo aspetti sempre più netti e distinri, all'interno del Giovane Operaio vengano in primo piano persone nuove con mentalità nuova e si finisca col riconoscere che la mancata adesione nel 1919 alla nascente Unione del Lavoro era causata più da motivi tattici contingenti per la supremazia all'interno del futuro partito unificato, che da divergenze sostanziali. Si ravvisa, altresì, che la valorizzazione dell'individuo, che il Giovane Operaio pone al centro della sua azione, non verrà depressa dalla fusione in una delle varie correnti, bensì uscirà rivalutata dalla difesa che ne faranno teorici più prudenti ed esatti e moderni. Arriveremo nel 1930 alla fusione tra Unione del Lavoro e Giovane Operaio, dalla quale nascerà quel Partito degli Operai di Erez Israel (o, seeondo la sigla ebraica, MAPAI) che ha oggi la massima responsabilità nella guida della nazione. Dalle esigenze umanitarie da un

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lato e dall'impegno costruttivo della socialdemocrazia classica dall'altro nascerà perciò l'autorevole partito sullo stile del Labour Party che sempre maggiori incarichi andrà assolvendo nella edificazione della società ebraica palestinese. Al primo congresso della Confederazione del Lavoro ebraica partecipano due altre liste minori; quella cosidetta dei «Nuovi Immigranti» e quella del «Partito socialista Ebraico degli Operai». Questi partiti più piccoli subiranno

[366] in seguito, tra un congresso e l'altro dell'Histadrut, considerevoli sbandamenti, assai più vistosi degli inevitabili alti e bassi che anche Unione del Lavoro e Giovane Operaio avranno a sopportare. Ad esempio, la lista dei Nuovi Immigranti, che nel 1920 è coalizione di elementi di scarso peso, successivamente si scinde nei suoi componenti che rimarranno separati fin dopo la seconda guerra mondiale, fino, cioè, alla riunificazione nel MAPAM del febbraio 1948. Analogamente il POSE (o MOPSE) assunse molteplici configurazioni: al secondo congresso dell'Histadrut si presentò con il nome di «Frazione Operaia», al terzo, nel 1927, di «Blocco di sinistra», ecc. E questi mutamenti di denominazione non stanno ad indicare soltanto tattiche elettorali, ma pure effettiva evoluzione del partito. Ma, tralasciando l'approfondimento dei dettagli, ci pare necessario accennare alla lista dei Nuovi Immigrati e al POSE perche, nonostante le incertezze di una politica alle volte vaga, rappresentano in sostanza posizioni non momentanee e caduche, bensì singolari e suscettibili di interessanti svolgimenti; se essi non riusciranno a proporre una solida alternativa ai partiti maggiori, li obbligano, però, a misurarsi nella polemica, li condizionano e sanno porsi in una prospettiva aperta, svincolandosi dagli intrighi e dai personalismi. Tra i Nuovi Immigrati il gruppo più caratteristico e che raccolse maggior copia di voti, fu quello della «Giovane Guardia» («Hashomer HaZair»). Così venne descritta la comparsa fra le altre formazioni politiche della «Giovane Guardia»: «Gordon mostrò grande interessamento per gli immigrati della Giovane Guardia e nell'incontrarsi con loro si sforzò di creare rapporti amichevoli. Ma la dipendenza della Giovane Guardia dalla cultura progressista europea, il suo sforzo per fondare scientificamente i fenomeni dell'uomo e della società ed i primi influssi marxisti-rivoluzionari,

[367] costituirono una barriera tra essa ed il Giovane Operaio sin da quei primi giorni».

Caratteristica saliente della Giovane Guardia è di essere un movimento giovanile, ma non alla maniera di altri partiti ebraici palestinesi il cui nerbo, per le difficoltà di adattamento e per l'esservi altre nazioni maggiormente adatte all'accoglimento di immigrati di età avanzata, era casualmente costituito da persone non anziane. La Giovane Guardia invece si mantiene rigidamente legata a quei principi di autoeducazione giovanile che si è data da se stessa. Prendendo cioè le mosse dai «Wandervoegel» di Germania e dai Boys-scout, si erano formati poco a poco in Lituania, Romania, Polonia, Russia, gruppi di giovani ebrei che aspiravano a stabilire da soli la loro propria esistenza, liberamente, libertariamente. La catastrofe della guerra e l'influsso della rivoluzione bolscevica, impongono a questi ragazzi l'esigenza di abbandonare i sogni chimerici e di radicarsi nella realtà, finche, attraverso parecchi tentativi, arrivano ad accettare il sionismo, a trasferirsi in Palestina e quindi ad impegnarsi in una posizione di sinistra nello schieramento sionista e tra gli stessi movimenti sionisti dei lavoratori. Per circa dieci anni sono ancora dominanti nella Giovane Guardia inclinazioni contrastanti: individualiste e collettiviste; poi a contatto con la prassi quotidiana i giovani intellettuali dell'Europa Orientale incominciano a voler essere coscientemente punto medio - di distacco o di

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contatto - tra partiti di lavoratori sionisti ed antisionisti, a studiare i problemi del leninismo e dell'URSS, a voler dare una loro interpretazione marxista della questione ebraica.

Quanto al POSE esso iniziò la sua esistenza contrapponendosi all'Unione del Lavoro. Nel 1919 l'ala sinistra del vecchio «Partito degli Operai di Sion» aveva rifiutato di seguire la maggioranza del partito che si era fusa con

[368] altri gruppi (piuttosto eterogenei) dando origine alla Unione del Lavoro, di cui già si è accennato. Questa ala sinistra, scindendosi e riorganizzandosi in maniera indipendente prese il nome appunto di «Partito Socialista Ebraico degli Operai» (POSE). Le controversie di fondo tra POSE e nascente Unione del Lavoro si ebbero intorno ai quesiti: partecipazione o no alla III Internazionale (comunista), partecipazione o meno al Congresso sionista ed alle altre istituzioni sioniste. La Unione del Lavoro scelse il sionismo in opposizione al comunismo; il POSE, in sostanza, preferì il contrario, con l'unica eccezione della adesione all'Histadrut, che senza essere risultata ideologicamente somigliante, come sindacato unitario svolgeva un lavoro che, pur non essendo perfetto, non era paragonabile a quello di alcun altra organizzazione proletaria palestinese.

Il biasimo più aspro che il POSE rivolge ai partiti del lavoro sionisti, è diretto alla pretesa incapacità di considerare che la popolazione ebraica, quasi senza eccezioni, viveva sotto la pressione finanziaria o delle elemosine religiose, o degli istituti benefici di proprietà del barone Rothschild, il che in partenza spezza la possibilità delle manifestazioni della libera volontà della gente. Con tappe successive il POSE diverrà il «Partito Comunista Palestinese» (PKP) , ed è oggi la «Miflagà Comunistit Israelit» (= Ma.Ki) (Partito Comunista Israeliano), sempre rigidamente seguace degli insegnamenti del Partito Comunista dell'URSS.

Il panorama sinteticamente tracciato dei partiti dei lavoratori ebrei in Palestina, permette ora che si traggano alcune conclusioni complessive:

1) L'anno 1920 fu un momento decisivo per lo sviluppo politico e sociale dei lavoratori ebrei. Infatti si assiste alla formazione dell'Unione del Lavoro, del POSE ed infìne,

[369] a coronamento di un intenso lavoro, dell'Histadrut.

2) I diversi partiti che si sono ricordati sono molto frazionati, le scissioni, le rotture dei piccoli gruppi in gruppi minimi abbondano, i tentativi di riunificazione danno motivo ad ulteriori divisioni. Tutto ciò dimostra che permane una certa immaturità e che lo sforzo unitario del sindacato teste sorto, è di enorme valore. La solida e infrangibile base della unità sindacale risulterà, con il passare del tempo, perno centrale intorno a cui gli ebrei organizzeranno molti importanti istituti statali.

3) Oltre a ciò si intravedono le linee principali dello sviluppo futuro dei partiti ebraici del lavoro: Socialdemocratico-sionisti (Unione del Lavoro, Giovane Operaio), Socialdemocratici di sinistra-sionisti (Giovane Guardia), Comunisti (POSE).

4) Il ruolo occupato dalla questione nazionale è predominante nella vicenda palestinese sin da quei tempi. Tanto che, a seconda dell'atteggiamento verso di essa, gli stessi partiti dei lavoratori ebrei, si andranno indirizzando in questo o quel senso e si contrapporranno tra loro.

Con queste note si è voluto indicare di quali tendenze, in antecedenza manifestatesi, l'Histadrut sia erede: essa combina originalmente volontà di lotta e capacità di compromessi, rigidità nei principi sindacali e ispirazioni riformiste. Le esperienze del passato non sono annullate, ma, a seconda dei casi, intervengono a

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suggerire soluzioni varie nelle vicende presenti. Lo statuto dell'Histadrut, di cui si è precedentemente discorso, non va, quindi, considerato isolato, bensì al centro di un intenso lavorio ideologieo, rappresenta il termine di una era di preparazione ed è l'inizio di una epoca diversa, in cui si affermerà, in maniera predominante, la collaborazione sionista. In altre parole, nel

[370] l'Histadrut, ed, in maggiore o minore misura, nelle organizzazioni con essa collegate, coscientemente, si sceglie di autolimitare le proprie forze in certe direzioni e di concentrarle su dati obbiettivi di solidarietà nazionale interclassista.

Se volgeremo lo sguardo alla società palestinese avanti la prima guerra mondiale, noteremo che essa era piuttosto chiusa e limitata, progrediva con lentezza e senza strappi violenti; dopo, tra proletariato arabo e proletariato ebraico, nascerà abbastanza rapidamente una differenza tra le fasi dello sviluppo politico. Gli arabi insisteranno nel potenziamento della loro tradizione e, anche a causa di atteggiamenti xenofobi, soltanto per tale linea vedranno possibili le trasformazioni sociali; le masse ebraiche, d'altro canto, sotto la spinta sionista desiderano sostituire tradizione con tradizione, ordinamento statuale arretrato con ordinamento europeo più moderno. Nel 1920 i lavoratori ebrei più coscienti già reputano d'avere gagliardia e risorse. Come romanticamente dirà il sindacalista Yaari essi sentono che lo spirito originale della Confederazione del Lavoro deve consistere nel farne anche la comunità spirituale dei lavoratori e la «comunità dei lavoratori è lo stato operaio in marcia».

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Alle origini del laburismo israeliano (106) Per quanto recente sia la costituzione dello Stato d'Israele e per quanto a non

molto più in là risalga la rinascita della lingua ebraica, uno dei caratteri più vistosi ed originali della vita culturale israeliana consiste nella vivacità tutta europea degli interessi letterari e storici, vivacità che si manifesta particolarmente, per quanto riguarda la storia, nell'analisi di quelle vicende ideologiche, politiche e sociali recenti che più diretta attinenza hanno avuto con l'intricata evoluzione che ha preceduro l'indipendenza.

Di conseguenza negli ultimi anni, al fine di rendere edotti i nuovi immigrati e le giovani generazioni degli eventi a cui non poterono assistere e di permettere agli studiosi l'accesso a fonti documentarie divenute rarissime e conservate solo negli archivi, un notevole incremento ha registrato la pubblicazione di collezioni antologiche variamente impostate e su molteplici argomenti. In tale attività editoriale si inserisce ora anche questo importante volume (107) : una raccolta accurata e ben selezionata degli scritti principali comparsi nel giornale L'Unità, organo settimanale del Partito degli operai socialdemocratici in Erez Israel, che vide la luce negli anni 1907-1913, vale a dire sino a che le autorità turche non decisero di sospenderne la pubblicazione

[372] alla vigilia della guerra mondiale. Oltre a questo materiale i curatori hanno molto opportunamente aggiunto alcuni saggi estratti da raccolte pubblicate più tardi, agli inizi dell' occupazione britannica nel 1918-19.

In tal modo il libro abbraccia tutto quel decisivo arco di tempo che va dalla nascita del primo «giornale socialista in ebraico» in Palestina alla creazione del partito Unione del Lavoro (1919) e alla fondazione della Confederazione del lavoro ebraica (dicembre 1920), o meglio a quel Congresso del partito degli operai ebrei socialdemocratici che «all'unanimità fu d'accordo nel riunire tutti i lavoratori di Erez Israel sulla base del sionismo socialista e decise che una nuova Confederazione avrebbe sostituito il partito». Se quindi si tiene conto del rilievo che doveva assumere nel mondo del lavoro ebraico la Histadrut Haclalit scel haovdim haivrim be Erez Israel (Confederazione generale dei lavoratori ebrei in Erez Israel), organizzazione che è a tutt'oggi una delle forze principali e più tipiche dello Stato, si

106 In Relazioni Internazionali, n. 23, 9 giugno 1962. 107 Ialckut Hachdùt, (Antologia de L'Unità, settimanale del partito operaio socialdemocrarico in Erez Israel-Poalei Zion), 1907-1919. A cura di Ichuda Erez, Tel-Aviv, Am Oved, 1962, pp. 622.

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afferra facilmente il significato del presente libro che permette di gettare una occhiata sui fermenti, le discussioni, le polemiche, le divergenze che precedettero il sorgere di tale ente. Tanto più che nel partito socialdemocratico ebraico e nella redazione del suo giornale si ritrovano alcune personalità di altissimo rilievo, destinate a compiti di primo piano sia nella comunità ebraica palestinese, sia, in seguito, nello Stato d'Israele: Nachman Sirkin, Izchak Ben Zvi, Rachel Iaanit-Ben Zvi, David Ben Gurion, Iaacob Zerubabel, Alexander Hascin, ecc.

Un'indagine esauriente sulle vicissitudini dei gruppi e dei gruppetti di tendenza socialistica formatisi tra i lavoratori ebrei in quel periodo e delle loro scissioni ed unificazioni richiederebbe molto spazio e molta pazienza dato il notevole numero delle tendenze e delle correnti. Per que-

[373] sto, per la loro scarsa entità e per la fugacità con cui apparvero sulla scena politica, sembra più opportuno ricordare tali vicende in modo meno schematico e più aderente, inoltre, all'ordinamento del volume e cioè per problemi. Quali erano in quel tempo le questioni organizzative principali che assillavano il proletariato ebraico? Quali i rapporti con le altre classi? Come si sviluppava il dibattito sui legami tra movimento operaio in Erez Israel e movimento socialista internazionale da una parte e movimento sionistico dall'altra?

Tali sono i quesiti a cui il giornale nei suoi 204 numeri si prefigge di rispondere secondo gli interrogativi che sin dal primo numero Ben Zvi enuclea: «Che cosa siamo noi, al nostro interno, e che cosa siamo verso l'esterno? O più esattamente: che cosa sembriamo e cosa siamo in realtà? Come appariamo dal di fuori?» (p. 11). In sostanza in quegli anni si vanno sviluppando e consolidando tre processi paralleli. In primo luogo, grazie anche al lavorio della maggioranza del nucleo stretto intorno all'Hachdút, si gettano le fondamenta per un partito di lavoratori svincolato dall'influenza dei partiti ebraici di sinistra fiorenti nella diaspora, specialmente nell'Europa orientale. Di qui l'incomprensione con Beer Borochov, il principale teorico di formazione marxista del sionismo-socialista immaturamente morto nel 1917, del quale compare nell'Hachdút solo uno sferzante articolo contro la meschinità e l'impreparazione culturale di certi ambienti ebraico-tradizionali (a proposito della discussione sulla priorità da darsi alla lingua ebraica o allo «jidish», il dialetto degli israeliti dell'Europa centro-orientale). E di qui anche il superamento delle posizioni di Aharon David Gordon e dei suoi seguaci, riuniti intorno al giornale Hapoel Hazair, i quali erano fautori, secondo la loro pre-

[374] parazione originaria di tipo tolstiano-populista, di un socialismo umanitario, non classista.

In secondo luogo l'Hachdút e la maggioranza del partito socialdemocratico di cui esprimeva le opinioni furono tra coloro che più operarono per inserire i lavoratori nel movimento sionistico, sino ad allora prevalentemente controllato da elementi religiosi e dalla media e grande borghesia ebraica. Superando non poche resistenze, l'Hachdút si impegnò per la partecipazione ai congressi sionistici, ponendo le premesse di quella evoluzione che doveva portare i socialisti moderati alla guida ed a posti di grande responsabilità alla testa del movimento sionistico stesso.

In terzo luogo si vennero elaborando le basi per quel moderno partito di tipo laburista - non rigidamente legato alle formulazioni marxiste, cioè, e tanto meno favorevole, quindi, al leninismo e all'Internazionale comunista - che doveva per tappe successive approdare al MAPAI, il partito che ha tuttora la maggioranza relativa in Israele.

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Questi motivi di fondo, che chiaramente si delineano alla lettura del volume, non sono enunciati però attraverso articoli generici e astratti. Al contrario la consistenza dell'opera svolta da questo giornale si registra con l'assiduità con cui vengono seguiti i problemi concreti - gli scioperi, la vita nella città e nei villaggi, la disoccupazione e inoltre la politica del governo turco ed i pericoli della imminente guerra sulla piccola comunità palestinese ecc. - solo sulla base dei quali si azzardano discorsi più ampi e complessi.

Proprio questo legame con la realtà, del quale si hanno in questa raccolta numerosissimi esempi, costituì la forza dell gruppo centrale della redazione del giornale: la spregiudicatezza con cui si affrontò la difficile questione della «conquista del lavoro» (e cioè del diritto degli immigrati ebrei all'occupazione), l'impegno con cui si appoggiò la

[375] colonizzazione cooperativa, la chiarezza con cui si condussero le battaglie elettorali per garantire una rappresentanza ai lavoratori, indicano come, nonostante la scarsezza numerica e la debolezza economica della minoranza israelita, fin da quegli anni ormai lontani ci fossero negli uomini dell'Hachdút la carica ideale e la capacità politica atte a trasformarli in quadri dirigenti e a far loro superare le strettezze di una condizione subalterna.

Di tale stato di cose il volume è testimonianza assai efficace. Ma a questo punto si apre, per lo studioso, un nuovo grosso quesito: di dove provenga tale pragmatistica abilità ed efficienza nella direzione della cosa pubblica. Tra gli altri fattori che contribuirono a rendere straordinariamente capaci quelle personalità non comuni è opportuno segnalarne uno sfuggito ai più: si tratta dell'esperienza statunitense che parecchi dei redattori dell'Hachdút (Ben Zvi, Ben Gurion, Zerubabel) compirono quando si rifugiarono oltre Oceano durante la prima guerra mondiale. Parte del segreto del loro slancio costruttivo, della loro insofferenza per gli schemi teorici, del loro dinamismo, può forse rinvenirsi nell'incontro che essi ebbero negli anni della gioventù con il paese del pionierismo per antonomasia.

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La sconfitta del «socialismo ebraico» in Palestina nel 1923-30 (108)

Tra le tendenze dei gruppi progressisti ebraici dell'Europa orientale e quelle

dei nuclei socialisti e socialisteggianti degli ebrei trasferitisi in Palestina dall'inizio del secolo, non vi fu mai, nonostante l'opinione contraria dei sionisti, una vera corrispondenza o un vero collegamento organico. Sussistevano ovviamente tra gli uni e gli altri riferimenti teorici, legami d'amicizia o culturali o religiosi e conoscenze personali; mancava invece qualsiasi somiglianza o correlazione tra gli ambienti in cui essi operavano. I loro rispettivi campi d'azione - il paese da cui provenivano ed il paese in cui s'andavano stabilendo - erano profondamente diversi e ne scaturirono necessariamente atteggiamenti psicologici e forme d'intervento politico assai dissimili. Gli Stati europei di provenienza erano, difatti, in sostanza indipendenti e con rapporti economici interni di tipo capitalistico, mentre in Palestina la situazione economica era di stile feudale, di virtuale asservimento colonialistico e le correnti politiche progressiste che divennero ben presto dominanti furono il moto indipendentistico antimperialista da una parte, ed il pragmatismo trade-unionista importato dal Labour Party britannico dall'altra, correnti ideali estremamente distanti perciò tanto dai fermenti sociali tolstoiani,

[377] populisti e nichilisti quanto dalle impostazioni rivoluzionarie e marxiste dei menscevichi e dei bolscevichi che predominavano in Polonia, Romania, Russia ecc. nei gruppi ebraici più avanzati.

Per quanto concerne l'atteggiamento degli indigeni che gli ebrei immediatamente dovettero prendere in considerazione, vale a dire delle masse popolari arabe, esse fin dall'avvio della decadenza dell'Impero turco e poi sotto il regime mandatario inglese, si orientarono con crescente decisione per conquistare al paese la piena indipendenza nel quadro della liberazione di tutto il Medio Oriente dalle presenze straniere. Proprio nell'ambito di questa aspirazione sono da vedersi i primi sforzi delle classi lavoratrici mussulmane per delineare soluzioni autonome, che tenessero conto cioè delle loro specifiche esigenze, nelle questioni politiche di fondo. Così, in mezzo a tutti i problemi d'acclimatamento nella nuova patria che i proletari ebrei dovettero affrontare, spicca quello importantissimo delle relazioni con i lavoratori arabi in via d'evoluzione verso una più matura coscienza dei loro diritti, ma, peraltro, ancora ampiamente sottoposti all'influsso dei capi religiosi e tribali retrivi e dei proprietari terrieri più ricchi.

108 In Il Movimento operaio e socialista in Liguria, n. 1, gennaio-marzo 1961.

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In questo quadro va subito rilevato che i piani sionistici si scontrarono sempre in maniera palese o occulta con gli orientamenti dei lavoratori ebrei più propensi a riconoscere schiettamente la realtà delle nuove condizioni obiettive che imponevano tutto un ridimensionamento dei modi di pensare e d'agire. Anche se l'Organizzazione sionistica, saldamente diretta da gruppi politici borghesi, perseverò nella diffusione di concetti confusi e pericolosi, più volte, come ad esempio nel 1925, vennero portati avanti dagli elementi più coscienti e più attivi del movimento socialista ebraico palestinese tentativi coraggiosi per strappare il velo

[378] all'equivoco della «collaborazione nazionale interclassista», così come si verificò parallelamente in campo arabo con una serie di analoghi fermenti. Tali tentativi non avvennero in maniera isolata e sporadica, ma, quale espressione d'una complessa situazione, s'accompagnarono ad un processo generale di rapida e continua trasformazione dei residui ideali ereditati dal passato, processo nel quale le iniziative di rottura dei lavoratori ebbero una funzione allo stesso tempo di causa e d'effetto.

Avendo succintamente descritto quelli che possono essere alcuni dei più significativi temi d'indagine sulle vicende del «socialismo ebraico» in Europa in genere e nella Russia zarista in particolare, è su alcune successive lotte sociali, che si manifestarono in Palestina nel decennio seguente alla prima guerra mondiale, e nelle quali tra i principali protagonisti troviamo i nuclei locali di socialisti ebrei, che si desidera richiamare l'attenzione.

*

Nel 1923, all'inizio d'una crisi economica che doveva avere serie ripercussioni

sul fronte della lotta di classe, esistevano in Palestina diversi partiti e organizzazioni ebraiche con tendenze progressiste e socialiste. In verità alcuni tra essi non avevano ancora fatto in tempo a differenziarsi in maniera netta rispetto alla loro origine slava; per un certo periodo di transizione i neo-immigrati si vollero attenere scrupolosamente alla cornice ideologica precostituita, quantunque inadatta al nuovo paese, credendo di poterla rendere direttamente operante secondo gli schemi stabiliti nella diaspora. E' questo il caso del «Giovane Operaio» (legato alle dottrine utopistiche-tolstiane del suo fondatore A. D. Gordon) ed è questo il caso della «Giovane Guardia», un movimento giovanile destinato ad acquistare una rag-

[379] guardevole importanza, che condivideva quasi pienamente le tesi di Beer Borochov.

Peraltro, al fine di ricostruire con una certa esattezza le caratteristiche delle forze in campo, è indispensabile accennare ai due partiti ebraici del lavoro più tipici che si notano in quel tempo sulla scena palestinese. Essi sono la «Unione del lavoro» ed il «Partito socialista ebraico degli operai» «<P.O.S.E.»), che si trasformò, come vedremo, proprio nel luglio 1923 in «Partito comunista palestinese» «P.K.P.»). Questi due partiti, Unione del lavoro e P.K.P., meritano di essere segnalati giacchè si schierano fin dai primi passi ai due poli del fronte progressista ebraico palestinese, divenendone rapidamente i rappresentanti più significativi non tanto secondo le tradizionali suddivisioni ereditate dalla situazione europea, quanto secondo le mutate condizioni che si andarono rivelando in Palestina.

Comunque una prova dello stacco crescente tra ambiente europeo ed ambiente palestinese e dell'inadeguatezza delle vecchie organizzazioni politiche ebraiche a fronteggiare i nuovi problemi, è data dalla constatazione che tanto la Unione del

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lavoro quanto il P.O.S.E. furono una derivazione del vecchio Partito degli Operai di Sion, ormai incapace a seguire l'incalzare di mutamenti grandiosi quali la rivoluzione bolscevica e la fine della guerra mondiale. In relazione con ciò è da considerarsi il deliberato della maggioranza di tale partito in Palestina di dar vita ad una rinnovata organizzazione proclamando, dopo una lunga lotta di correnti, la fusione con ogni gruppo a ciò disposto. La nascita del nuovo Partito, che prese appunto il nome di Unione del lavoro, si verificò formalmente al congresso di formazione a Petach Tikvà nel 1919, con l'alleanza organica tra la maggioranza del partito degli Operai di Sion e vari nuclei di socialdemocratici indipendenti e d'illustri perso-

[380] nalità isolate di indirizzo più o meno progressista.

L'ala sinistra di minoranza, invece, uscita dal Partito, si riorganizzò in maniera indipendente sotto il nome di P.O.S.E. ribadendo l'attaccamento al marxismo e accostandosi rapidamente con sempre maggiore nettezza ai principi delleninismo.

Da una parte c'è dunque l'Unione del lavoro, la quale proclama «l'unione dei lavoratori in quanto lavoratori e non perchè abbiano questa o quella opinione» e che «l'unità d'azione sia quello che ci garantisca la libertà di pensiero... Si parli pure di visione del mondo, ma sia chiaro che il suo valore non sta nell'essere un dovere di partito» (109). Si tratta di un partito che è direttamente ispirato all'Organizzazione sionistica, quale strumento per agganciare il massimo numero possibile di lavoratori, ma che, con il passare degli anni e l'evolversi delle situazioni, finirà con il capovolgere il rapporto e con il sovrapporsi all'Organizzazione sionistica stessa.

Sul piano ideologico l'Unione del lavoro fa leva su principi quali il socialriformismo ed il nazionalismo, capaci di far presa, in un paese povero e arretrato, su quegli strati di lavoratori, che, non avendo a disposizione termini di confronto, non riescono più a verificare la equivocità di tali dottrine. Tale genericismo programmatico, che in pratica è una manifestazione di scarso classismo e di mancanza d'impegno rivoluzionario, è pienamente espresso nella seguente dichiarazione esposta dall'insigne teorico dell'Unione del lavoro Berl Kaznelson al congresso del 1919:

«Noi, uomini dell'Unione del lavoro, siamo uomini del lavoro; la nostra socialità si definisce con parole popolari

[381] e con una terminologia derivante dalla nostra vita e dai nostri sentimenti e non c'è alcuna necessità che ci adeguiamo a schemi meccanici... Non abbiamo bisogno di darci alcuna ideologia, nè sionista, ne socialista: operaio ebreo, questo dice tutto». (110)

La lettura di qualche paragrafo della piattaforma programmatica de1l'Unione conferma esattamente tutto ciò:

«Il movimento del lavoro nella Terra d'Israele aspira al sionismo

realizzatore; con la forza d'una immigrazione popolare vasta ed ordinata vuole creare l'esistenza del popolo ebraico nella Terra d'Israele come società di lavoratori fratelli [...].

Per realizzare questo obiettivo sono necessari:

109 P. Merchav, Appunti di storia del movimento operaio nella Terra d'Israele, Merchavia, 1952 (in ebraico). 110 P. Merchav, op. cit., pag. 113.

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a) il trasferimento della terra, delle acque e delle risorse naturali in possesso perpetuo del popolo ebraico;

b) la creazione del capitale nazionale per 1. la trasformazione dei terreni e l'impianto delle industrie chiave della nazione [...]; 2. il finanziamento delle forze nazionali di lavoro nell'industria e nell'agricoltura, con l'appoggio delle libere società dei lavoratori;

c) l'immigrazione pionieristica nel paese [...] per preparare le condizioni alla grande immigrazione popolare e associare alla costruzione la classe lavoratrice [...] che costituirà la società del lavoro futura;

d) la conquista della lingua e della cultura ebraica da parte di tutto il popolo e l'associazione all'attività culturale e di formazione della cultura di tutti i lavoratori». (111) D'altro canto, proprio in contrapposizione all'Unione del lavoro e ai suoi vaghi

programmi, s'organizza il P.O.S.E. La divergenza di base tra i due partiti si ebbe intorno ai dilemmi: adesione o meno ai principi della III Internazionale,

[382] adesione o meno al Congresso sionista e alle sue isti - tuzioni. Si trattava di chiarire se l'inserimento nel movi - mento sionistico avrebbe permesso di condurre un'azione di classe efficace e viceversa se l'appoggio alla III Internazionale non avrebbe obbligato alla rottura con lo schieramento borghese-ebraico.

L'Unione del lavoro scelse il sionismo in apposizione al comunismo, il P.O.S.E. preferì il contrario e ruppe i legami con il movimento sionista, conservando peraltro l'appoggio alla Confederazione generale dei lavoratori ebrei (Histadrut), fondata nel 1920, che, pur essendo grandemente influenzata dalle correnti sioniste-socialiste più riformiste e di destra, come sindacato unitario ebbe pur sempre una funzione insostituibile.

L'argomentazione principale rinvenibile nelle critiche che il P.O.S.E. rivolgeva ai partiti del lavoro sionisti era che essi non s'accorgevano di quanto ogni azione del movimento operaio e contadino ebraico fosse condizionata dalla ingerenza continua, determinante e in svariatissime forme delle organizzazioni borghesi ebraiche. Solo affrontando con coraggio tale realtà e battendosi con decisione contro tale paternalistico e soffocante stato di cose, si sarebbe potuto svincolare il proletariato ebraico dal giogo economico e politico della borghesia sionista. In particolare tale dipendenza imponeva alle masse ebraiche una condotta eccezionalmente miope nei confronti dei lavoratori arabi, verso i quali il P.O.S.E. ed in seguito il Partito comunista da esso derivante, mostrarono sempre grande apertura e comprensione.

Con l'accoglimento nelle fìle del partito di elementi disillusi dalla politica dei gruppi sionisti-socialisti, il P.O.S.E., nel 1923, si diede una nuova e più precisa organizzazione mutando anche il suo nome in Partito comunista

[383] palestinese. Con energia i comunisti si battevano per chiarire a loro stessi ed al pubblico operaio palestinese i rapporti esistenti tra potere mandatario e movimento sionistico (i cui interessi tendevano a coincidere nel tentativo di formare una società di tipo capitalistico ed europeo occidentale) e per studiare i modi per

111 Il testo completo di questo documento si trova in: M. Braslavski, Il movimento operaio nella Terra d'Israele, voI. I, Tel-Aviv, 1955, pag. 360.

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trasformare la potenziale energia rivoluzionaria dei contadini arabi in efficiente forza progressista alleata e compagna dei gruppi di sinistra ebraici.

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Questa era dunque nei termini essenziali la posizione dei due più importanti partiti ebraici del lavoro nel 1923, quando, a partire dai primi mesi dell'anno, si andò diffondendo nel paese una pesante crisi che, con i suoi contraccolpi sul terreno ideologico, costituì la molla atta a provocare una polemica chiarificatrice tra le varie correnti socialiste, polemica che ebbe in sostanza per argomento le vie lungo le quali guidare le classi proletarie alla conquista di un regime di completa emancipazione.

L'istituzione in Palestina d'un regime di mandato sotto tutela della Gran Bretagna (decisa alla Conferenza di San Remo dell'aprile 1920) ed il perdurare dell'euforia generatasi alla fine della guerra, avevano portato ad un notevole incremento di parecchie attività industriali. Specialmente l'edilizia ed i lavori pubblici avevano assunto un ritmo di sviluppo tale che un paese piccolo, arretrato e prevalentemente agricolo, quale era allora la Palestina, ne risenti subito il beneficio. In un primo tempo, una gran parte dei neo-immigrati trovò agevolmente una provvisoria sistemazione presso l'Ufficio governativo per i lavori pubblici. Durante tali lavori che si spostavano di continuo lungo le strade in costruzione e da regione a regione, cominciò a rafforzarsi tra gli operai, che coabitavano sotto le tende,

[384] uno spirito di comunione e di unità che bene armonizzava con quel certo gusto per l'avventura che li aveva spinti dall'Europa alle soglie dell'Asia e che non avrebbe mancato di trasformarsi, in determinate condizioni, in spirito rivoluzionario. Venuto ad esaurimento il piano di lavori pubblici (anche perche, superato il periodo iniziale di gestione, la Gran Bretagna perse in gran parte l'interesse a preoccuparsi della disoccupazione e dell'impiego della mano d'opera nel paese), i lavoratori licenziati cominciarono in parte a trasferirsi nei centri urbani, dove persisteva il boom edilizio, divenendo muratori, falegnami e carpentieri. Qui molti dei «collettivi» di lavoro costituiti precedentemente finirono con lo sciogliersi: i componenti del gruppo, infatti, trovarono più redditizio farsi assumere nelle imprese private come singoli operai, aspirando a divenire capimastri specializzati ed infine proprietari essi stessi di piccole imprese. Altri nuclei riuscirono a superare il trapasso ed a darsi una struttura di cooperativa edile cittadina efficiente. Tuttavia queste cooperative, per l'essersi formate in una contingenza particolare, portarono in se elementi gravi di disuguaglianza tra tecnici e operai, tra soci «ricchi» e soci «poveri», e di degenerazione burocratica assai pericolosa: con il rafforzarsi economico delle cooperative, il loro riunirsi in «Società collettiva per i lavori pubblici, la costruzione ed il materiale edile» (1924) e la trasformazione nel «Solel Boné», sezione autonoma della Confederazione riformista del lavoro, quegli elementi negativi diventarono vere crepe che minarono le fondamenta della struttura cooperativistica, con accumulazioni di capitale incontrollato e perniciose storture organizzative.

Una situazione più dinamica si verificò invece, come naturale in un paese agricolo, nelle campagne, dove gruppi collettivistici ebraici in numero assai più alto che in città

[385] a lungo mantennero vivo lo spirito di rivolta, teso verso l'ideale costruzione d'una società comunistica, e dove più profonde si manifestarono, nel periodo che prendiamo in considerazione, le contraddizioni di classe.

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Il sentimento di ribellione fu stimolato dal fatto che, dopo la prima guerra mondiale, lo stato dei contadini ebrei aveva cominciato a differenziarsi sempre più profondamente da quello degli arabi. Superata una fase transitoria di disorientamento, alcuni gruppi di «pionieri» ebrei avevano accettato, obtorto collo, i patti secondo i quali i finanzieri dell'Organizzazione sionistica erano disposti a concedere le terre e i capitali indispensabili alla realizzazione del sogno colonizzatorio. L'associazione fra capitale e lavoro sotto l'egida sionistica aveva cominciato così a funzionare con la concessione in affitto a tempo indeterminato dei terreni comprati dagli effendi arabi e con il prestito ad interesse ben calcolato dei denari necessari all'impianto delle aziende. Presto, però, i coloni dovevano rendersi conto di quanto l'accordo con i capitalisti fosse pesante. Da questi mercati scaturirono infatti gravi incidenti che contribuirono non soltanto ad avvelenare i rapporti tra ebrei ed arabi e tra i lavoratori dei due gruppi, ma anche a far precipitare la crisi economica e d'ideali del '23. Gli incidenti di Afule del 1924, ad esempio, possono essere considerati tipico preludio di sanguinose sommosse future.

Comunque, tutte queste tensioni, instabilità e rotture, in città e in campagna, tipiche d'una società in disordinata trasformazione, divennero esplosive allorche lo slancio costruttivo venne meno e la stabilità economica s'incrinò: l'insufficienza di capitali dovuta alla modestia delle riserve monetarie, una serie d'arrischiate operazioni finanziarie, la mancanza di coordinamento tra esigenze industriali ed agricole, provocarono una rarefazione delle coperture bancarie,

[386] causando un turbamento prima e l'arresto poi del normale ciclo di scambio.

Tra le ragioni del disagio va ricordato - accanto alle speculazioni sui terreni, sia nei centri urbani, in collegamento col crescere della popolazione, sia in quelli agricoli, intorno ai quali gli arabi denunciavano continuamente l'esistenza d'intrighi e soprusi (112) - l'andamento del grosso «affare» Rutenberg per lo sfruttamento dell'energia idrica dei fiumi Giordano e Yarmuk, un affare che sta a metà tra la speculazione e certi sforzi di modernizzazione caratteristici dello spirito imprenditoriale capitalistico. L'ingegnere russo Pinchas Rutenberg, personalità avventurosa e brillante (era stato ministro di Kerenskj), trasferitosi in Palestina dopo la rivoluzione, era riuscito ad ottenere nel 1921 la concessione per lo sfruttamento delle acque dei due fiumi. Per mettere in atto i progetti, egli costituì un imponente trust finanziario con un capitale di un milione di sterline, riunendo insieme le energie di Keren Haiesod (Fondo di sostegno, lo strumento finanziario principale dell'Organizzazione sionistica mondiale), del Jewish Colonial Trust e di altri enti ebraici, ma, prima che l'impresa potesse avviarsi, si dovettero superare molte difficoltà, fra le quali l'aggiramento della precedente concessione fatta dall'Impero Ot-

112 Ecco qualche esempio di tali denuncie: il giornale Al-Karmel (v. Oriente Moderno, voI. I, 1922, pag. 538) elevava fin dal 1922 alte proteste per la vendita di terre agli ebrei da parte dei latifondisti arabi: la Jewish Colonisation Association, controllata dal finanziere E. de Rothschild, si sarebbe impadronita di vasti appezzamenti nei dintorni di Cesarea per «piantarvi alberi», impedendo ai beduini di coltivarli come avevano sempre usato fare. Un'altra polemica scoppiò nel 1925 tra i rappresentanti degli arabi del Beisan (zona sud del lago di Tiberiade) ed il presidente del movimento sionistico mondiale, Weizmann : secondo gli arabi le terre di quella zona sarebbero state vendute solo perche i proprietari erano oberati di debiti. Nel 1931 l'inviato del governo britannico, Strickland, rilevò che sui contadini arabi gravava un debito di due milioni di sterline.

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[387] tomano al greco Euripide Mavrommatis. (113) Tutto ciò causò per parecchio tempo il blocco d'una cospicua quantità di denaro e ritardò l'inizio dei lavori, con danno per l'economia del paese.

Si aggiunga che in questo stesso periodo nella crisi s'inseriva l'intensa azione propagandistica dell'Organizzazione sionistica per un'immigrazione in massa di «europei», i quali avrebbero dovuto aiutare il consolidamento del potere britannico e rappresentare un utile strumento di manovra politica, costituendo uno strato di piccola e media borghesia capace di rompere l'azione delle organizzazioni proletarie. «E' un'immigrazione senza alcun programma ne contenuto ideale, è un'immigrazione della media borghesia che cerca una sistemazione». (114) Anche per questo le partenze dalla Palestina dal 1926 al 1929 furono elevatissime: nel 1929, quando già v'erano alcuni segni di ripresa, l'emigrazione era ancora un rerzo della immigrazione.

*

Le organizzazioni dei lavoratori, tanto arabe che ebraiche, ed i movimenti

politici di sinistra, di fronte alla crisi economica dilagante, si sforzarono di reagire energicamente. La prima risposta operaia fu l'aumento delle controversie con i padroni, che da 9 nel 1922 salirono a 21 nel 1923 e a 44 nel 1924. Nel 1927 la pressione protestataria di 10.000 disoccupati tra i soli ebrei (circa la metà di tutti gli operai salariati ebrei esistenti) riuscì a promuovere alcuni interventi da parte delle autorità: l'amministrazione britannica ordinò la ripresa di alcuni lavori pubblici e l'Esecutivo sionista distribuì una certa somma di sussidi. Fallì

[388] invece completamente il tentativo di combattere l'urbanesimo, di allontanare dalle città potenziali elementi di «disordine» e trasferire in campagna mille famiglie di proletari cittadini, organizzato dalla gerarchia impiegatizia del «Centro agricolo» .

Il gruppo politico che per primo trovò nella lotta motivi di nuova forza e rinnovate capacità di impegno fu il Partito comunista palestinese. Già nell'estate del 1923 esso aveva pubblicato un documentato manifesto in cui si attaccavano i sistemi coloniali britannici e le operazioni dei latifondisti arabi ed ebrei. Il P.K.P. svolse contemporaneamente un'attiva azione sindacale, anche se clandestina a causa dei divieti governativi e anche se la maggioranza della Confederazione del lavoro decise di non accettare candidature comuniste per le elezioni nei sindacati. A tal fine, già dal novembre 1922 il P.K.P. aveva organizzato una «Frazione operaia» per agire nei sindacati in maniera mascherata, con il programma di trasformare l'Histadrut in unione di leghe internazionali-sindacali di classe (formate cioè da arabi ed ebrei). (115)

113 J. M. N. Jeffries, Palestine: the Reality, London, 1939, pag. 429. 114 G. Viterbo, Linee di storia del sionismo, 1946, pag. 47 b. 115 La lotta eroica dei comunisti palestinesi, costretti a battersi in condizioni d'inferiorità rispetto agli altri partiti dei lavoratori perché dichiarati fuori legge, è ben esemplificata dalla seguente decisione, veramente poco onorevole, adottata dal Consiglio della Confederazione del Lavoro nel 1924 (in Braslavski, op. cit., vol. II, 1956, pag. 166) : «Il Consiglio della Confederazione generale dei lavoratori ebrei in Terra d'Israele dichiara che il gruppo che si mimerizza sotto il nome di "Frazione operaia nella Confederazione del lavoro» ha dimostrato in tutte le sue manifestazioni di essere nemico del popolo ebraico e della classe degli operai in Palestina. Il Consiglio riprova la propaganda contro l'immigrazione e le calunnie contro il movimento operaio ebraico che confondono l'ambiente dei lavoratori di tutto il mondo. Il Consiglio decide lo scioglimento della Frazione operaia in tutti i suoi aspetti e cammuffamenti [...]. Il Consiglio decide che tutti i rappresentanti della Frazione che

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La determinazione chiara nel giudicare alla pari i la-

[389] voratori arabi ed ebrei permise ai comunisti di raggiungere alcuni successi tanto con l'uno quanto con l'altro gruppo etnico. Nel 1924 un ferroviere arabo partecipò per la prima volta al congresso del partito, e nel 1925 il partito comunista raccolse nelle città oltre il 10% dei voti nelle elezioni per l'«Assemblea degli eletti», l'organismo rappresentativo degli ebrei palestinesi. Tuttavia, il massimo dell'influenza tra gli ebrei venne raggiunto nel 1926, durante la punta massima della depressione economica, quando quasi la metà dei membri della «Legione del lavoro» («Gdud Avodà») si espresse per l'unità d'azione con l'estrema sinistra, votando contro l'allontanamento di coloro che professavano simpatie per le idee comuniste. I gruppi collettivistici rimasti nelle campagne su posizioni più radicali ebbero quindi il loro momento favorevole per prospettare con l'appoggio del P.K.P. un piano globale di riforma comunistica.

La Legione del lavoro, fondata nd 1920, e in cui confluirono i gruppi collettivistici rimasti fermi alle impostazioni rivoluzionarie originali, fu una consociazione che raccoglieva alcune migliaia di giovani pionieri, venuti specialmente dalla Russia, i quali conducevano una vita dall'impronta spregiudicata e anarchicamente commossa. Uno degli elementi ideali che maggiormente essi valorizzavano era lo spirito della collettività, del cameratismo, la ferma fiducia che solo insieme, in comunione si sarebbe potuta costruire l'ideale società comunista, mentre da isolati, da singoli, ciascuno era impotente e le sue forze disperse. Tali principi risultano chiaramente dalle regole singolari e brillanti, con cui avevano stabilito la massima disciplina e la massima libertà all'interno del loro gruppo, il massimo di eguaglianza ed il massimo dell'aiuto reciproco.

«Il tipo umano del pioniere russo che si rivolse alla Palestina dopo la rovina causata all'ebraismo dalla guerra

[390] è quello che impresse il suo sigillo su questa creazione e vi riversò il suo particolare folklore: una gioventù impregnata d'entusiasmo, un enorme cameratismo popolare, una forte aspirazione verso l'edificazione nazionale e socialista, un superare con passione le difficoltà del lavoro e d'una vita continuamente nomade. Nella esistenza della Legione si sentiva giorno per giorno una spinta gioiosa ed un cuore aperto allo stesso tempo russo e pionieristico. L'immigrazione russa aveva bruciato i legami col passato e non si preoccupava del futuro: il presente aveva conquistato l'intero animo dell'uomo, incurante delle difficoltà dell'oggi e del domani». (116)

Questa carica di passionalità sincera, slava ed ebraica, presentava certamente aspetti confusi; agli uomini della Legione del lavoro mancavano inizialmente l'equilibrio e la capacità necessari a rendersi conto di quali realmente fossero le condizioni storiche in cui si trovava allora la Palestina, ma, ed in questo c'è il miglior attestato della loro sincerità, quando essi si accorsero della realtà delle cose non esitarono a «rompere» con ogni remora ed a distruggere di fatto la Legione stessa, dal momento che le sue aspirazioni si rivelavano irrealizzabili.

Tuttavia sarebbe errato presentare la Legione del lavoro come un gruppo di illusi o di incoscienti, anche solo agli inizi della sua attività. Difatti, a parte l'organizzazione interna originale ed efficace, il suo statuto, tutt'altro che ingenuo, è intervengono in suo nome nei congressi, consigli, assemblee ed organizzazione della Confederazione sono esclusi dalla Confederazione». 116 M. Braslavski, op. cit., vol. I, pag. 189-190.

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un documento ponderato e perspicace, come rivela ad esempio, uno dei suoi principali paragrafi: «Compito della Legione è la edificazione del paese per opera d'una "comuna" generale dei lavoratori ebrei nella Terra

[391] d'Israele». (117) Questa sola frase pone in realtà alcuni impegni molto seri, e più esattamente: 1) v'è il progetto d'una società nuova dai rapporti interni totalmente trasformati; 2) si ritiene che l'organizzazione di tale società deve poggiare direttamente sul lavoratore senza diaframmi intermedi; 3) tutte le istituzioni esistenti, compresa l'Histadrut, vengono ritenute inadatte a tali fini o per lo meno gravemente insufficienti per la loro lentezza ed incapacità a corrispondere alla volontà dei lavoratori, che sono ridotti ad obbedire allo strumento organizzativo invece di dominarlo secondo i loro interessi; 4) diversamente da come si orienteranno altri movimenti collettivistici, che punteranno a creare delle «cellule» di cooperazione agraria e che in realtà formeranno soltanto delle «isole» prive di influenza stabile sul paese, si vuole una organizzazione di stile sovietico, che abbracci tutti i lavoratori, sia presente in ogni luogo e imponga senza compromessi in ogni settore la priorità classista operaia-contadina.

Ma la fierezza irriducibile dei membri della Legione del lavoro ed il loro disprezzo per i compromessi e per gli abbandoni dichiarati o nascosti delle linee programmatiche, dovevano inevitabilmente scontrarsi con l'abilità manovriera dell'Organizzazione sionista e della Confederazione del lavoro ebraica: tra Legione del lavoro, da una parte, e Confederazione del lavoro, Unione del lavoro e Organizzazione sionista, dall'altra (sempre più adagiantisi, queste ultime, nel giuoco della politica britannica), scoppiò presto una lotta asperrima per l'egemonia sul movimento operaio.

«La Legione ebbe diverse traversie... ma io dirò solo che avevamo la

sensazione meravigliosa che il "collettivo", il "comune" [392]

non solo non toglieva nulla alla nostra personalità, bensì che al contrario elevava ciascuno di noi. Non eravamo diventati dei numeri, ciascuno conservava le sue caratteristiche, le sue particolarità ed ognuno veniva giudicato a seconda delle sue capacità... Gli abitudinari, i conformisti, i centralisti tra i dirigenti dell'Histadrut non vedevano di buon occhio la Legione, questo gruppo organico, che dall'esterno, sembrava una banda di anarchici, ma dal di dentro era rinsaldata dai legami di una perfetta disciplina all'impresa, al paese, alla classe operaia» (118) Da tutto ciò risulta evidente il contrasto che stava maturando nel

raggruppamento sionista-socialista, contrasto che si scatenò durante la crisi del '23-'27 e che doveva portare ad una delle più profonde lacerazioni nel movimento socialista ebraico e alla sconfitta storicamente inevitabile dell'unico gruppo che, partito da basi sioniste-socialiste, pur di non accettare patteggiamenti antioperai, ebbe la forza di respingere ad un certo punto il sionismo. Mentre gli uomini della Legione del lavoro cominciavano ad approfondire le loro critiche per l'inettitudine

delle maggiori istituzioni a risolvere la crisi, inevitabilmente essi andavano accostandosi alle tesi del Partito comunista palestinese anche sul piano ideologico. A poco a poco la coincidenza tra le due posizioni, con grande allarme di tutto il mondo

117 M. Braslavski, op. cit., vol. I, pag. 191. 118 I. Sade', Ricordo del Gdud Avodà, in Hechaluz, anno VI, n. 1, 28 novembre 1950.

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sionista ufficiale, divenne sempre più palese, manifestandosi pure in prese di posizione vere e proprie. A mano a mano che all'interno della Legione del lavoro, nonostante tutte le pressioni e le repressioni, si enucleò una sinistra, i casi di avvicinamento si moltiplicarono: nei sindacati la Legione del lavoro si affiancò alla Frazione operaia diretta dai comunisti; nella colonia agricola di Tel Josef,

[393] durante le votazioni per l'organismo rappresentativo ebraico, un forte gruppo di elettori votò comunista; tendenze simili si ebbero nelle colonie di Beit Alfa e Hefzi-Ba; in seguito, sorsero nel paese circoli di lavoratori per la «propaganda a favore dell'unione della classe operaia», nei quali, prescindendo da etichette partitiche, lavoratori d'ogni corrente poterono incontrarsi e discutere su un piede di parità; ed infine, atto decisivo nel precipitare verso la rottura, esplose la controversia sull'indirizzo da dare alla grande colonia agricola di Ein Charod.

Questo episodio, che vede il primo serio insuccesso degli uomini della Legione nello spiegare alle classi lavoratrici i motivi di fondo della crisi e nell'indicare i mezzi per rovesciare la situazione, consistette nel tentativo da parte della Legione di costituire intorno a tale colonia una «comuna generale» dei lavoratori di tutto il paese; vale a dire si propose concretamente l'inizio della costruzione d'una società comunistica di tipo sovietico al di fuori degli schemi e del controllo dei sionismo e del sionismo-socialista. L'opposizione congiunta della Confederazione del lavoro e dell'Organizzazione sionistica intervenne immediatamente per frustrare il proposito ed imporre invece la suddivisione del territorio tra parecchie colonie minori, in modo da frazionare l'impulso rivoluzionario ed impedire la costituzione d'un modello di nuova organizzazione statale adatta ad un paese arretrato quale era allora la Palestina. In verità, tale incidente e tale conclusione furono preceduti da altri minori analoghi: ad esempio, i membri della Legione del lavoro delle colonie di Tel Hai e Kfar Ghiladì furono espulsi dalla Confederazione avendo deciso contro il suo parere di unirsi in un'unica colonia.

In tale impari scontro la Legione del lavoro non poteva resistere all'ingerenza delle forze avverse e quindi, con

[394] il Consiglio generale del novembre 1926, si finì col cedere alla proposta di indire un referendum per mantenere aperta o no la Legione ai simpatizzanti per i comunisti e agli «ipercritici». Il referendum, che aveva un carattere palesemente terroristico dal punto di vista ideologico, deliberò con piccola maggioranza, la esclusione di tali uomini dall'organizzazione, ma questa decisione, imposta di fatto da elementi estranei e facendo leva sui timori e le paure dei più deboli, portò in pratica la Legione del lavoro al suicidio. La maggioranza si disperse come movimento autonomo, confluendo o nella Confederazione del lavoro o nell'Unione

del lavoro e nella Giovane Guardia. La minoranza si sbandò a sua volta in diverse direzioni; un certo numero degli elementi più conseguenti decise di ritornare nell'Unione Sovietica da dove erano partiti, più giovani e con idee meno chiare, quando ancora vi regnava la terribile confusione della guerra civile: alcuni, fra i quali Helkind e Mikenik, che erano stati alla testa della Legione, impiantarono un'azienda agricola collettiva in Crimea dal nome «Via Nuova».

Dalla scomparsa della Legione del lavoro dalla scena politica e dal perdurare della difficile situazione economica derivò conseguentemente una più diretta dipendenza dell'Histadrut dall'Organizzazione sionistica. La Banca operaia, la Cooperativa di consumo Hamashbir, le cooperative edilizie ed agricole, così come avevano chiaramente predetto la Legione del lavoro e i comunisti, cedettero buona parte delle loro azioni alle Organizzazioni sionistiche o ricevettero ingenti e gravosi

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prestiti da istituti finanziari che posero delle precise pregiudiziali politiche. Quello che i semplici lavoratori videro attuarsi con sempre maggiore evidenza fu la svalutazione continua, nel grosso meccanismo dell'unità nazionale formale, delle istanze più genuine del loro movi-

[395] mento. Dalla constatazione di quello che si verificò in seguito si ebbe la chiara conferma che la critica incessante e gli impulsi ribelli, avutisi nell'ambiente puro della Legione del lavoro, sebbene talvolta assumessero maniere eccessive o

semplicistiche, non furono che l'espressione del desiderio di una sicura autonomia per le organizzazioni proletarie e del timore, rivelatosi purtroppo non vano, che forze guidate da diversi fini mettessero in iscacco il giovane movimento dei lavoratori ebrei in Palestina ai primi passi degni di considerazione.

Sul piano politico la conclusione di questo processo di chiarificazione tra le varie correnti di sinistra ebraiche si ebbe con la nascita di un nuovo grande partito politico, il «Partito degli operai della Terra d'Israele» (MAPAI), che fu la risposta dei gruppi di destra e dell'Organizzazione sionista ai tentativi dei comunisti e della Legione del lavoro, risposta che significò la creazione di un apparato che doveva

garantire e premunire una volta per tutte contro l'eventualità d'una ripresa delle forze socialiste conseguenti.

Il MAPAI fu costituito nella primavera del 1930 con la fusione dell'Unione del lavoro e del Giovane Operaio. Tale operazione, non semplice anche se da tempo auspicata dai settori di destra di tali partiti, trovò una notevole opposizione nell'ala di sinistra dell'Unione del lavoro che protestò contro l'«unione a qualsiasi prezzo», l'«unione sia quel che si sia», l'«unione che in pratica allontana da noi grossi strati». Tuttavia, nonostante le obiezioni delle minoranze, il grosso partito sorse e si distinse subito nella capacità di mantenere sotto controllo le diverse correnti e nel dominare discussioni, divergenze e spinte centrifughe. In concreto, il MAPAI raggiunse l'obiettivo di concentrare presso di se la direzione dei massimi interessi ebraici, sia per quanto riguardava gli affari dei lavoratori

[396] (attraverso il predominio sulla Confederazione del lavoro, le cooperative ed i suoi gruppi di colonie agricole), sia per quanto concerneva altri settori sociali (attraverso l'Organizzazione sionistica, la Jewish Agency, le imprese industriali e commerciali controllate dalla Confederazione del lavoro e collegate all'ambiente capitalistico locale e internazionale). Il MAPAI finì con il divenire il punto d'unione

tra le istituzioni sionistiche centrali e larghi strati popolari; pertanto ogni rigido appello alla dirittura ideologica non trovò alcun accoglimento, e i richiami al Bund o a Borochov o a Gordon non furono che formula politica contingente di cui non venne accettato che quanto meglio s'adattava alla circostanza immediata. (119) Il nuovo partito si qualificò come partito di centro interclassista tra i ricchi borghesi sionisti e le masse ebraiche prive d'orientamenti, elevando e rafforzando quella funzione strumentale già verifìcatesi ai tempi dell'Unione del lavoro da parte degli israeIiti più preparati dei paesi capitalistici ai danni degli israeliti di estrazione popolare e ponendosi al servizio della trattativa diplomatica non solo all'interno dell'ebraismo, ma anche con le forze esterne, con la potenza coloniale mandataria, ad esempio, alla quale non si oppose mai in maniera preconcetta, ma con cui s'ingegnò di stipulare una continua collaborazione, e con gli arabi, ai quali non 119 Interessante sarebbe un'analisi del documento programmatico approvato dal MAPAI nel 1930. Il primo articolo, ad esempio, che qualifica molto bene i limiti e gli obiettivi del partito, dice: «Al centro della storia ebraica della nostra epoca sta la realizzazione completa del sionismo in tutta l'ampiezza di questo termine». (M. Braslavski, op. cit., vol. II, pag. 371).

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nascose mai l'intenzione di voler creare uno Stato ebraico, senza spartizioni artificiose o accordi moralmente troppo impegnativi. Il partito diventò ben presto consapevole delle sue possibilità di influire sull'Organizzazione sionistica e nel mondo

[397] dell'alta politica e dimenticò le sue origini modeste e proletarie; facendo leva sui sentimenti nazionalistici e borghesi dichiarava apertamente: «Ciò che ci è necessario è il potere statale nei confini della Terra d'Israele» (120); oppure precisava così la sua visione del socialismo: «Se noi siamo dei sionisti socialisti, non dobbiamo lasciarci dominare da ogni tradizione di scarso valore, solo [...] perché è circondata

da una falsa aureola di rivoluzione. Noi dobbiamo considerare i valori del presente e quelli del passato con i nostri occhi». (121)

Con tali affermazioni ogni programma di edificazione statale socialista, ogni speranza d'adeguare alle esigenze dei lavoratori il futuro ordinamento dello Stato, ogni illusione di far progredire parallelamente le pressioni rivoluzionarie e la lotta d'indipendenza, erano morti e seppelliti.

I motivi per cui il MAPAI riuscì a sottrarsi ad ogni impegno nei confronti del proletariato sono molteplici e possono farsi risalire alla situazione complessiva del paese. In primo luogo solo una piccola parte dei lavoratori ebrei socialisti immigrò in Palestina, quindi solo nel breve periodo del fiorire della Legione del lavoro ebbe modo di concretarsi uno schieramento politico capace di far emergere le vere istanze di classe. In secondo luogo i movimenti socialisti-sionisti in polemica con il MAPAI, qualle ad esempio la Giovane Guardia, proprio in quanto sionisti, non riuscivano a svincolarsi da influssi nazionalisti o contrari ai loro interessi proletari e quindi l'opposizione al MAPAI s'esauriva e si spezzava nelle loro stesse mani. In terzo luogo il MAPAI s'accaparrò l'appoggio massiccio dell'Organizzazione

[398] sionista che aveva bisogno d'un grande partito popolare che attraesse le vaste masse, e che eventualmente si dichiarasse anche socialista, ma il cui socialismo fosse sicuramente controllabile, nazionale e formale. Da tali pregiudiziali scaturì un partito vivace e moderno, che a volte difese e aiutò i lavoratori, ma esclusivamente nella misura in cui le loro richieste non superassero quanto il movimento sionista nel suo insieme era disposto a concedere.

L'alleanza stabilita nel 1930 tra Unione del lavoro e Giovane Operaio non fu dunque un semplice rafforzamento quantitativo, bensì comportò un mutamento qualitativo: da raggruppamenti incerti e soggetti a influenze mutevoli, si passò ad un carrozzone di grosse proporzioni, rotto a tutti gli intrighi, che si giovò di tutte le oscillazioni ideologiche in senso strumentale per attrarre e conquistare alla sua politica.

Politica che, in seguito alla pericolosa lezione rappresentata dal tentativo rivoluzionario della Legione del lavoro, si tradusse in dispotismo illuminato di certi ceti e gruppi sulla massa dei lavoratori: lo scopo essenziale fu di evitare che i sindacati, le agitazioni operaie, le critiche organizzate, le richieste d'ordine morale e ideale si proponessero un'azione «estremistica» capace di minacciare inversioni di tendenza e risultati netti. Anche per tali ragioni, per prevenire il pericolo che sorgessero aspirazioni troppo avanzate e incontrollabili, si ricorse alla retorica e al sentimentalismo per nascondere le vere ansie ed i veri travagli del proletariato, la

120 D. Ben Gurion, in Hechaluz, anno IIl, n. 17, 23 maggio 1948. 121 B. Kaznelson, in Hechaluz, anno I, n. 5, 28 agosto 1946.

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eco dei quali filtrò sempre più fioca tra le intercapedini burocratiche del sionismo-socialista del MAPAI.

Anni dovevano passare, partiti sorgere e trasformarsi, situazioni internazionali e palestinesi sconvolgersi prima che il guanto di ferro del MAPAI allentasse la sua presa

[399] e nuove prospettive di riscatto si presentassero di fronte agli operai e ai contadini. (122)

Il lettore che volesse meglio documentarsi su quanto sopra esposto potrebbe

servirsi, come prima informazione, dei seguenti volumi, oltre a quelli citati nel testo:

D. Horoviz, L'economia della Terra d'Israele nel suo sviluppo, Tel-Aviv, 1946 (in ebraico). G. Z. Israeli, P.O.S.E. - P.K.P. - M.A.K.I., Tel-Aviv, 1953 (in ebraico ). M. Sneh, Conclusioni sulla questione nazionale, Tel-Aviv, 1954 (in ebraico). Le mouvement ouvrier juif en Israël, Parigi, 1949. G. Tedesco, Capitalismo e collettivismo nelle campagne israeliane, Torino, 1959. Israele, numero speciale de Il Ponte, Firenze, 1958.

122 In questi giorni (febbraio 1961) giungono dallo Stato d'Israele le notizie dei ricatti e delle pressioni esercitati dal primo ministro Ben Gurion e dal suo seguito di militaristi soustelliani per defenestrare dalla direzione della Confederazione generale del lavoro il segretario Pinchas Lavon, loro compagno di partito, ma rappresentante d'una politica che obiettivamente assicurerebbe al paese uno sviluppo tendenzialmente più democratico e popolare. Nel quadro di tali avvenimenti, sintomo d'una gravissima involuzione in atto all'interno del MAPAI, mi sembra particolarmente opportuno sottolineare le origini di tale partito giacché esse possono parzialmente spiegare perche certi metodi e certi atteggiamenti abbiano modo di continuare a sussistere anche ai giorni nostri.

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[400]

Alcuni limiti della colonizzazione agricola (123) L'esperienza della colonializzazione agricola ebraica nello Stato d'Israele

presenta, per l'osservatore d'un paese come l'Italia o della stragrande maggioranza degli Stati del terzo mondo (vale a dire del tipo di paesi che più hanno interesse a studiare quali siano le forme di conduzione, di produzione e di organizzazione agricola maggiormente efficienti) più che altro motivi di curiosità. E cioè, quantunque il movimento cooperativo e collettivistico israeliano interessi un numero di persone non irrilevante (circa 220.000 individui), le contingenze eccezionali di cui esso ha fruito fanno sì che al momento risulti impensabile una sua ripetizione altrove nei tratti essenziali e su scala non sperimentale.

In particolare - e giova soffermarsi su questi elementi proprio ai fini di valutare meglio il significato di tutto il fenomeno - due fattori hanno contribuito a rendere realizzabile l'idea astratta di dar vita a villaggi di tipo collettivistico o cooperativo: il fatto che siano esistiti movimenti giovanili e politici composti in buona parte da persone qualificate, intenzionati a consacrarsi all'idea della creazione di colonie agricole e il fatto che esistesse un flusso di capitali cospicuo atto a finanziare tali esperimenti. In altre

[401] parole, alla base della edificazione rurale collettivistica e cooperativa israeliana troviamo, da un lato, un nucleo proporzionalmente rilevante di personale altamente qualificato, dall'altra un complesso di sussidi (prestiti e finanziamenti, regalie e sovvenzioni) che ha offerto la possibilità, a chi ne ha avuto desiderio, di accingersi all'opera di colonizzazione.

Non è nostro compito soffermarci a descrivere in modo specifico che cosa abbia significato concretamente e nella storia di vari decenni, il concetto che abbiamo enunciato. In effetti dietro alle linde facciate delle casette dei kibuzzim e dei moshavim che troviamo disposte in bell'ordine in centinaia di punti dello Stato d'Israele, c'è tutta un'aspra vicenda di faticosi accordi tra coloro che in nome del sionismo cedettero al compromesso di classe e coloro che in nome della lotta di classe abbandonarono l'aratro e la vanga e tornarono in città, di successi nella costruzione di centri abitati nelle abbandonate campagne e di fallimenti nel dare a tali centri un senso ed un significato socialisti non solo per loro stessi, ma che pure coinvolgessero la società circostante.

Come dato che giudichiamo d'una certa importanza, rimane però da ribadire che si è trattato e si tratta d'un esperimento relativamente delimitato, e quindi,

123 In «La riforma agraria in Italia e nel mondo», Quaderni di "Politica e Mezzogiorno", n. 2.

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poiché limitato, riproducibile sì, ma in laboratorio e giunto ad una certa fase di realizzazione per un insieme di circostanze storiche, che secondo le probabilità appaiono praticamente irripetibili.

Gli inizi del movimento cooperativo e collettivista israeliano risalgono ai primi anni del '900, allorché i primi gruppi di giovani - studenti ed appartenenti alla piccola borghesia - cominciarono ad immigrare dall'Europa orientale in Palestina cercando di rigenerarsi e purificarsi dalle

[402] brutture del mondo borghese con l'edificare una nuova società di giustizia ed eguaglianza. Attraverso varie vicissitudini questi giovani che si trovarono ad operare in un paese coloniale e nel complesso piuttosto arretrato, accettarono di farsi finanziare nella loro impresa dalle istituzioni del movimento sionistico controllate da gruppi ebraici allo stesso tempo reazionari e fìlobritannici. Così, purché il loro sogno di impiantare delle comuni al loro interno libere potesse giungere a compimento, i giovani idealisti finirono con l'accettare a maggioranza una posizione subalterna e di obiettivo sostegno alla politica generale fissata dall'Organizzazione sionistica.

E' lungo una direttiva di questo tipo che il movimento di cooperazione e collettivismo agricolo si è evoluto in Palestina prima e, dopo, nello Stato d'Israele, nei decenni scorsi, ingrandendosi ed ampliandosi sempre più, villaggio dopo villaggio, venendo ad assumere nello Stato una posizione di indubbio rilievo, ma perdendo in fine, e in maniera irrimediabile, la possibilità di dare vita ad una società di lavoratori e di socialismo.

Secondo i dati a nostra disposizione alla fine del 1957, (124) la situazione nelle campagne israeliane poteva riassumersi nelle seguenti cifre:

Tipo del villaggio N. Abitanti % villaggi normali 28 63.615 16 colonie collettive 230 80.101 20 villaggi cooperativi (moshavim) 372 138.891 35 altri tipi di colonie (villaggi-scuola e di lavoro, ecc.) 116 114.192 29

[403] Da tale tabella risulta dunque la posizione minoritaria delle imprese agricole

individuali ma qualche accenno ad esse appare comunque necessario. In genere lo strato importante dei 63.000 contadini non inseriti in qualche modo nella cooperazione, è costituito da imprenditori ricchi, da coltivatori benestanti proprietari di aranceti nelle zone più fertili del triangolo Tel-Aviv - Migdal Gat - Bersheva o lungo la direttiva Chaifa - Tel-Aviv oppure dediti allo sfruttamento di altre culture particolarmente redditizie. Sono, in sostanza, contadini alquanto agiati, anche se l'estensione delle terre di loro proprietà non è molto grande: in parecchi casi si tratta di appezzamenti di terreno ereditati dai padri e dai nonni giunti nel paese dopo il '900 e che si erano insediati nelle zone più fertili e di più comodo accesso. Era quella una colonizzazione fondata sulla spinta dell'interesse personale che - nel suo scarso impegno politico - ricorda quella effettuata in proporzioni più

124 In La pianificazione rurale in Israele, di AIbert Meister, pag. 208, Ed. di Comunità, Milano, 1964. E' il libro più importante in materia uscito in Italia e ce ne varremo per vari dati.

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grandi dai «bianchi» in varie colonie africane. Tali orientamenti piuttosto chiusi, sia pure oggi inseriti nella dialettica dello Stato israeliano, sono ancora vivissimi in questo gruppo, che è il principale tra i coltivatori privati: per questi motivi così come svariati decenni or sono i «chaluzim» (i «pionieri» politicizzati, cioè), avevano aspri scontri di classe con questi gretti e ricchi piccoli proprietari (ad esempio costoro si rifiutavano di assumere mano d'opera ebraica preferendo, perche meno costosa, quella araba: un antirazzismo davvero peloso!), attualmente non esiste alcuna comunità d'interessi profonda tra cooperazione e collettivismo agricolo da un lato e contadini individuali dell'altro, i quali sono invece molto vicini, come struttura mentale e per motivi economici alla media borghesia cittadina.

Tornando alla tabella sopra riportata e alle prospettive della parte più interessata del mondo agricolo israeliano,

[404] deriva che anche in riferimento percentuale con l'agricoltura nazionale, sebbene dal punto di vista del potenziale economico il loro peso sia di gran lunga più rilevante di quello di altre forme di attività contadina, moshavim e kibuzzim, i due tipi «socialisti» di villaggio ebraico sui quali concentreremo la nostra attenzione, hanno un'importanza determinante, ma non assoluta; rispetto al paese poi, considerando gli abitanti, sempre alla stessa data del 1958, i kibuzzim raccoglievano meno del 5 % della popolazione ed i moshavim all'incirca il 7 %.

Quanto alla struttura interna si può dire che la differenza sostanziale tra l'uno e l'altro genere d'azienda consista nel diverso rapporto che si attua tra individui e strutture di produzione (ivi compresa la terra). Nel kibuz terra e strumenti di produzione (dai trattori alle installazioni varie, dal bestiame ad un insieme di beni di uso generale) sono di proprietà collettiva: le mucche sono allevate in unica stalla, il latte è rivenduto in blocco ed il ricavato va alla cassa dell'azienda che lo impiega a seconda delle esigenze collettive. Così avviene per tutti i rami dell'azienda e l'individuo non è nemmeno legato in modo assoluto alla propria professione, ma in conformità con i bisogni del collettivo (oltreché tenendo conto il più possibile dei suoi desideri) viene impegnato in quelle occupazioni che si rivelano di volta in volta più necessarie al buon andamento della vita collettiva.

Nel moshav invece la terra è divisa tra i singoli contadini che si valgono però in comune di imprese per l'acquisto di merci o per la vendita dei prodotti oltrechè usufruire collettivamente di taluni strumenti di costo più elevato: trattori, combines ecc.

Tanto nell'una quanto nell'altra forma di colonia non vi è una adesione meccanica e totale agli schemi e alle

[405] regole stabiliti in teoria: kibuzzim e moshavim, nell'ambito dei principi sopra descritti, presentano un gran numero di sfumature nell'attuazione pratica, accentuando questo o quell'aspetto in relazione ad un complesso di circostanze come ad esempio la qualità dei terreni che favoriscono questa o quella cultura, le possibilità finanziarie che possono essere abbastanza differenti, la provenienza e la formazione culturale dei coloni ed i loro orientamenti politici, ecc. Va aggiunto, a proposito di quest'ultimo dato, che per quanto riguarda i kibuzzim, esistono addirittura varie federazioni a seconda degli indirizzi politici-ideologici e delle conseguenti differenze teoriche e pratiche che ne derivano anche nelle modalità di gestione delle imprese.

Invero negli ultimi anni si registra nei vari raggruppamenti kibuzzistici una forte tendenza all'unificazione e ad omogeneizzarsi: via via che il kibuz si sente isolato nello Stato e meno capace di indirizzarne le scelte, tendono a perdere

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importanza le distinzioni ideologiche, un tempo rigorosissime ed impegnative, ed emergono in primo piano, con spunti di tipo più particolaristico e quasi corporativo, i problemi e le scelte economiche che in sostanza sono analoghi per tutti i kibuzzim. Nondimeno, sia pure in un ambito sempre più ristretto, i problemi ideali, culturali, sociali, educativi ecc. continuano ad essere assai vivi nel mondo kibuzziano. Mentre infatti nel moshav predomina soffocante lo sforzo individualistico della singola famiglia contadina per migliorare la propria condizione e le aspirazioni culturali sono nettamente messe in secondo piano, nel kibuz ognuno gode d'un margine personale piuttosto vasto per dedicarsi all'elevazione spirituale, al perfezionamento delle conoscenze tecniche e all'attività politica. In verità il kibuz non è nel complesso meno assillato del moshav dagli interessi economici ed economistici: ad esem-

[406] pio la lotta a lungo condotta per eliminare nel movimento kibuzzistico la piaga del lavoro salariato (il kibuz che ha come fondamento quello di reggersi senza valersi dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo ha sempre formalmente respinto di integrare nel suo sistema economico la presenza di operai e broccianti salariati), è in pratica fallita nonostante le numerosissime risoluzioni che di anno in anno preannunciavano a breve scadenza l'eliminazione di tale «deviazione». Tuttavia è indubbio che l'organizzazione kibuzzistica si è rivelata più atta a produrre frutti interessanti pure sul piano del pensiero e dell'elaborazione culturale.

Appare comunque evidente in quale senso le due forme di organizzazione contadina vadano analogamente evolvendosi: cooperatori e uomini della collettivizzazione appaiono con crescente nettezza una sorta di élite nel mondo del lavoro. Specialmente il kibuz perde via via il carattere di punta avanzata del movimento socialista per trasformarsi in una azienda sempre più ricca dove una cristallizzazione burocratica va manifestandosi con progressiva tenacia man mano che i problemi della conduzione economica divengono più complessi e dove una massa sempre più larga di mano d'opera salariata non qualificata garantisce l'alto livello dei redditi. Risulta ormai assodato che il kibuz non scomparirà perche ha acquistato una sua valida saldezza economica, ma esso già oggi è profondamente snaturato e tende sempre più a divenire una società piccola, chiusa ed egoistica anche se fra i suoi membri è garantita l'uguaglianza formale ed un livello di vita piuttosto alto.

E' pure per questo genere di considerazioni che la possibilità di applicare altrove i sistemi israeliani di gestione comunitaria delle terre, sembra tecnicamente assai difficile in quanto rivelacisi non compatibili - senza gravi degenerazioni - con la società capitalistica e inadatta ad accogliere

[407] grandi masse di lavoratori. In altre parole i metodi israeliani paiono inadatti proprio a quegli Stati scarsamente sviluppati che più avrebbero urgenza di riforme agrarie. D'altro canto i contadini cooperatori della Svizzera o della Danimarca non hanno certo particolare bisogno di apprendere da Israele il loro mestiere.

Ma che cosa ha determinato, in definitiva, tale evoluzione? La radice dell'andamento contraddittorio e pieno di elementi scoraggianti anche se variamente giudicabili, al quale assistiamo, pare a nostro avviso consistere nel distacco concretamente compiuto nel 1948-49 del kibuz dalle sorti dello Stato. Quando il kibuz non è riuscito ad imporre allo Stato il suo modo di vita e lo Stato è divenuto chiaramente uno Stato capitalistico nel quale erano tollerate, ma non di più, anche forme di attività cooperative e quando i partiti ai quali il kibuz dava il suo appoggio cessarono di incidere seriamente sull'indirizzo generale, individualistico e di concorrenza privata, si posero le fondamenta dell'attuale condizione di chiusura

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in se stessi, di isolamento e di cedimento. In breve l'involuzione definitiva ed evidentissima di oggi ha le sue origini nella sottomissione agli avversari di classe, avvenuta, come dicevamo più sopra, con le scelte operate molti decenni fa e cioè nel non aver saputo dare una risposta globale alle insinuazioni dei ricchi del movimento sionistico ufficiale.

Questa realtà spiega, a nostro avviso, l'interpretazione complessiva che s'è data di questi esperimenti, pur interessati ed eroici sul piano umano; ne possono intervenire a modificarla considerazioni più generali sulla pianificazione che indirizzerebbe lo Stato tutto e quindi anche kibuz e moshav. Anzitutto, come con molto acume sostiene il Meister (op. cit. p. 8), «il termine pianificazione in Israele significa piuttosto sistemazione del territorio che non pia-

[408] nificazione della produzione». Secondariamente i piani per il 1950-56 e per il 1956-63 fissati per l'agricoltura dal Ministero competente, sono soltanto una sorta di coordinamento tra i programmi di vari enti, alcuni (e i principali) dei quali sono dominati da intendimenti privatistici, di pura bonifica o messa a sfruttamento dei terreni e comunque assolutamente non collettivistici o socialisti: ci riferiamo cioe ai propositi dell'Agenzia ebraica, del Fondo nazionale ebraico o della Banca agricola nazionale: sono tali istituti che finiscono con l'imporre le loro direttive allo Stato ed alle colonie agricole, ai funzionari dei ministeri ed ai lavoratori. Ne valgono a difendersi dalle ingerenze e dalle pressioni di queste forze, le iniziative della Confederazione del lavoro alla quale kibuzzim e moshavim aderiscono: completamente socialdemocratizzata essa, insieme al partito dominante, il MAPAI, non sembra preoccuparsi d'altro che di mantenere un bilanciamento nello Stato tra le opposte tendenze secondando l'indirizzo del Governo nell'impedire rotture clamorose tra industriali ed operai, tra interferenze del capitale straniero e necessità di tutelare in cerra misura l'economia del paese.

E' alla luce di questo equilibrio di forze e di questa occulta ma permanente condizione di lotta di classe che va giudicato il fenomeno della cooperazione e della collettivizzazione nelle campagne israeliane. Tutto è ormai stato deciso da decenni: si sa chi comanda e si sa chi ha ceduto, si sa quello che è tollerato e si sa quello che è lecito fare. Ma tutto, secondo un'altra prospettiva, è ancora da decidere, tutto è ancora in gioco.

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[409]

2) La realtà israeliana prima e dopo il '67

Storia e mistificazione per il X anniversario (125) In occasione del decimo anniversario della fondazione dello Stato d'Israele e

delle celebrazioni che sono state indette anche in Italia nel 1958-59 per ricordare tale evento, sono stati pubblicati da varie case editrici alcuni volumi che hanno lo scopo di illustrare le origini della giovane entità statale, le su caratteristiche e le prospettive del suo futuro. Non sembri inutile segnalare qualcuno di tali libri, cogliendo l'occasione per esaminare, sia pure brevemente le diverse questioni che vi vengono sollevate.

Se si getta uno sguardo complessivo su quanto è stato edito intorno all'argomento, subito si riscontra la mancanza dell'opera storica vera e propria, solida ed esauriente. Nei casi migliori (Antico nuovo Israele, di F. Della Seta, ed. Radio Italiana, 1959) si può apprezzare un lodevole sforzo per cercare di inquadrare episodi e personaggi, sia pure in termini programmaticamente sommari, ma che tuttavia non giustificano tutte le lacune: per esempio, la vita politica della popolazione araba palestinese viene sostanzialmente taciuta, e la dinamica interna di classe di questo gruppo etnico, che fu uno dei primi nel mondo musulmano a cercare di rompere con il feudalismo e l'imperialismo colonialista, viene troppo comodamente lasciata da parte. Ma altrove (ad esempio in Israele, di D. Catarivas, Milano,

[410] Mondadori, 1959) sono da registrarsi, viceversa, una superficialità ed una leggerezza stupefacenti. Senza una ricerca metodica intorno ai motivi che hanno portato alla creazione dello Stato d'Israele non si può giungere ad una definizione della sua effettiva fisionomia, e non si superano le obiettive difficoltà di spiegare il fenomeno del risorgimento d'uno Stato ebraico. Ma accanto alla reale complessità del problema non va dimenticata l'esistenza d'una efficace pressione propagandistica di parte che ha ottenuto, per ora, e salvo sporadiche eccezioni, il risultato di far affogare nella genericità una materia di grande vivacità.

Se si considera la storia dello sviluppo dell'idea sionistica, cioè del movimento che propugna la teoria del ritorno degli Ebrei alla Terra promessa, una prima grave omissione in ordine cronologico, che si riscontra in pressoché tutte le pubblicazioni che prenderemo in considerazione, è l'insufficiente collegamento tra il movimento sionistico, che divene portavoce dei sentimenti di ribellione e delle aspirazioni religiose di esseri umani sofferenti e perseguitati, e l'ambiente internazionale in cui esso andò sviluppandosi. In realtà, tra le masse ebraiche dell'Europa orientale da un lato (irrequiete e in cerca di una soluzione per migliorare la loro vita schiacciata dal gioco dello zarismo come la vita d'altre minoranze nazionali, ed obbligate all'emigrazione non appena questa fosse possibile) e le trattative ad alto livello con

125 In Studi Storici, n. 4, 1959-60.

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teste coronate e primi ministri che venivano condotte da Herzl e Weizmann dall'altro, c'è un grosso divario. In quale misura l'azione politica dei dirigenti sionisti è stata ed è determinata dalla volontà di venire incontro ai desideri delle masse ebraiche oppresse ed in agitazione ed in quale misura è stata ed è condizionata dall'ossequienza ai voleri di questo o quel governo (Turchia ed Impero zarista, Gran Bretagna e Francia, Stati Uniti e Repubblica

[411] federale tedesca)? Questo problema mi sembra del tutto assente anche in quel volume serio e per molti versi degno, a cui ho avuto l'onore di collaborare, quale è il numero speciale su Israele della rivista Il Ponte (Israele, numero speciale, n. 12, dicembre 1958). Non si intende qui negare il valore della ricerca intorno alle tendenze messianiche in seno all'ebraismo attraverso i secoli; ma ciò che manca, e che probabilmente è determinante per spiegare il sorgere dello Stato d'Israele, è una descrizione della posizione della Palestina, come regione dell'Impero ottomano in decadenza che per motivi espansionistici era guardata con cupidigia da diverse grandi potenze europee, le quali nascondevano i loro desideri sotto dichiarazioni false e magniloquenti. Per non risalire alla caratteristica politica dell'alleanza con la Porta intrapresa da Luigi XIV, nella quale sono già rinvenibili parecchi elementi che precorrono una politica di infiltrazione colonialistica vera e propria, val la pena di spendere alcune parole (poiche il Catarivas ne accenna a p. 68, ed il della Seta vi si sofferma diffusamente a p. 89) sulle mire che pure Napoleone ebbe nei confronti della Palestina e sulla tattica da lui escogitata per realizzarle. Le manovre diplomatiche connesse con la spedizione in Egitto e Siria del 1800 erano basate sul tentativo di illudere da una parte gli Ebrei europei e dall'altra gli Arabi indigeni che gli intendimenti del Primo Console erano volti esclusivamente alla protezione dei rispettivi interessi e delle rispettive aspirazioni. Così, mentre il Moniteur Universel invimva tutti gli Ebrei d'Asia e d'Africa a radunarsi sotto le bandiere di Napoleone, quest'ultimo, come è noto, non disdegnava d'indossare persino i tradizionali vestiti musulmani per dimostrare la sua amicizia per gli Arabi e la sua intenzione di proteggerli e di aiutarli. In verità, la prima intromissione di tipo colonialistico in Palestina si espresse

[412] per opera di Napoleone I sfruttando le divergenze che potevano esistere tra diversi gruppi etnici nei confronti della Terra Santa, tattica che raggiunse poi il suo culmine nell'azione della Gran Bretagna a partire dalla prima guerra mondiale.

Lo studio di questi aspetti della politica europea è indispensabile se si vogliono chiarire le origini remote dello Stato d'Israele; per contro, il metodo d'esposizione adottato, ad esempio, dal Chouraqui (Lo Stato d'Israele, Milano, Garzanti, 1958) mi sembra del tutto insufficiente. Questo libro infatti riesce, sì, a far risalire al 70 dopo Cristo le origini dell'attuale Stato d'Israele (v. p. 11), ma tralascia completamente l'esame di tutti quei fattori che hanno riportato la Palestina, 2000 anni dopo, agli inizi del 1900, a rinserirsi saldamente nella vita politica dello scacchiere europeo-mediorientale. Insomma - e l'osservazione è valida, più o meno, per ognuno dei libri citati -, o si sceglie di concentrarsi sullo Stato d'Israele, ed allora va tenuto presente che la sua storia ha inizio di fatto solo nel 1948; oppure se si desidera prendere in congiderazione le sue più remote origini, è un arbitrio racchiuderle nella esclusiva descrizione dei tentativi e dei successi diplomatici del movimento sionista e del lavoro eroico d'alcune migliaia di pionieri. Non fu soltanto a causa della sua forza intrinseca che il movimento sionista arrivò a raggiungere gli obiettivi che si era prefisso; bensì fu la situazione generale, e specialmente la politica antisemitica del nazismo, la quale spinse grandi nuclei di Ebrei a spostarsi ed in parte ad immigrare

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in Palestina, e diede l'occasione ad un'organizzazione finanziata da banchieri di utilizzare il fenomeno dandone una particolare interpretazione.

Un esempio abbastanza corretto di questa impostazione può trovarsi nel reportage giornalistico Israele anno dieci

[413] di Angelo Del Boca (Torino, Lattes, 1958), sicuramente uno dei migliori che siano stati scritti sull'argomento in questi anni. Il De Boca, infatti, senza rinunciare a manifestare simpatia per quanto apprezza ed ammira, si sforza d'evitare il tono laudatorio e retorico, e soprattutto la deformazione storica. Spesso anzi, sia nel testo, sia nelle importanti note alla fine del volume è vivacemente critico e, nello stesso tempo, molto cauto (si v. ad esempio, la nota colonna infame a p. 162, dove sono riferite alcune di quelle azioni terroristiche antiarabe che, per quanto abilmente nascoste dai servizi di informazione israeliani, hanno avuto un notevole peso nell'impedire uno schiarimento dell'atmosfera politica nel settore; e la nota Israele e la «diaspora», a p. 178, che espone con obiettività l'atteggiamento d'alcuni Ebrei non sionisti).

Constatata la carenza dell'interpretazione sionistica della storia dello Stato d'Israele, vi sarebbe l'esigenza di delineare una contro-storia, o meglio una vera storia, che, senza concedere nulla agli sproloqui di tipo fascista o reazionario, getti un fascio di luce su un gran numero d'avvenimenti che al momento sono ancora avvolti nel mito e nell'apologo. Sarebbe quindi utile proseguire nell'esame spassionato per sciogliere con versioni attendibili via via tutti i «nodi» che ancora stringono la storia e la «preistoria» dello Stato d'Israele. Qui ricorderò soltanto in modo sommario, tra i punti che mi sembrano maggiormente degni d'attenzione, i seguenti problemi, a partire dalla fine della prima guerra mondiale che portò all'occupazione della Palestina da parte degli Anglo-Francesi: i disordini tra Arabi ed Ebrei verso il 1920, che segnarono l'inizio del dissidio tuttora aperto tra i due popoli; l'evoluzione delle forme di colonizzazione collettivista; la situazione della classe operaia e la funzione della Histadrut (la Confederazione

[414] del lavoro ebraica). Prescindendo da una serie di questioni più generali (ne rammenterò una sola: le responsabilità e l'andamento della guerra contro l'Egitto degli Anglo-Franco-Israeliani per la conquista di Suez nel 1956; su tali problemi la posizione assunta da A. Nirenstajn sul già ricordato numero speciale del Ponte è del tutto inaccettabile e di straordinaria leggerezza, v. p. 1818), sulle quali molto si è scritto, sarà utile soffermarsi sui tre punti sopracennati, che sono caratteristici della situazione interna israeliana, e sui quali più o meno tutti i libri editi in Italia per il decennale si soffermano.

Per quanto riguarda gli incidenti tra Arabi ed Ebrei, senza stare a ricostruirli uno per uno giacché furono molti e con andamento confuso, è tuttavia indispensabile avvertire che le cause che li provocarono furono assai più complicate di quanto comunemente si dica. E' troppo semplice affermare come fa il Chouraqui che «gli Arabi manifestavano la loro crescente ostilità al Centro Nazionale» (op. cit., p. 22). In verità, se ci si soffermasse su tali dolorosi torbidi verificatisi a più riprese e che costarono la vita a molti lavoratori, si scoprirebbe che in nuce erano in essi nascoste certe contraddizioni che ancora oggi pesano sulla situazione. Per esempio, perche non si dovrebbe tener presente la «polivalenza» dell'Organizzazione sionistica vergo i vari regimi più o meno reazionari, europei ed extra-europei, avanti la prima guerra mondiale e la sua simpatia per l'Impero ottomano, simpatia che doveva essere uno dei motivi iniziali che sollevarono contro di essa l'ostilità degli indipendentisti arabi palestinesi? Di fatto l'Organizzazione sionistica fin da allora

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ebbe nei confronti della popolazione araba, a prescindere da pochi notabili, un atteggiamento prettamente colonialistico che si concretò nel tentativo di trovare appoggi prima nel governo di Costantinopoli; poi, quando esso fu scomparso

[415] dalla scena, dalla Gran Bretagna. Dire, come afferma il Catarivas, che «gli Ebrei si installavano non da conquistatori, non come crociati» (op. cit., p. 93), è una grossa deformazione, giacché spesso gli incidenti scoppiarono proprio allorché l'Organizzazione sionistica, scavalcando con sistemi imprenditoriali più moderni i vecchi coloni ebrei insediatisi nel paese ai primi del '900, cominciò a comprare terre dai ricchi arabi senza preoccuparsi dei braccianti poveri, che per generazioni le avevano lavorate, e usò come massa di manovra in tali operazioni gli Ebrei proletari di recente immigrazione, la maggioranza dei quali non si rese conto della drammaticità della situazione e considerò come lotta di classe progressiva l'azione concorrenziale contro i proletari arabi.

Una messa a punto in questa direzione va fatta, per esempio, per l'episodio famoso di Tel-Chai, piccola colonia ebraica dell'Alta Galilea dove a causa dell'assalto di un gruppo di Arabi vennero uccisi alcuni Ebrei, tra i quali Y. Trumpeldor, conosciutissima figura di pioniere. Sull'episodio il Della Seta dà un giudizio che concorda con quasi tutta la letteratura ebraica che ne ha trattato: esso, dice il Della Seta, «segnò il richiamo ad una dura realtà ed indusse gli Ebrei a rafforzare le proprie formazioni autonome di difesa» (op. cit., p. 200). Nessuno può disconoscere la tristezza di questo incidente, ma dal punto di vista storico è arbitrario isolarlo dall'intero contesto in cui avvenne. Perché non ricordare che in quel momento tutta l'Alta Galilea era in rivolta per l'occupazione di forza che era stata decisa dalla Francia, in base ad accordi di spartizione con la Gran Bretagna, di una parte della Palestina del Nord, cosa che avrebbe portato allo smembramento del paese? Perche non ricordare che la colonia ebraica si trovava in quel momento in una specie di terra di nessuno, percorsa da

[416] bande partigiane arabe che non seppero comprendere (e non era facile) che il Trumpeldor difendeva il lavoro ebraico e non era un agente inglese o francese? Un discorso analogo si può fare per il clamoroso incidente del 1° maggio 1921 a Tel-Aviv che causò, con i disordini dei giorni immediatamente successivi, l'uccisione di un centinaio di Arabi ed Ebrei, e che fu dovuto, con tutta probabilità, alla provocazione ordita da alcuni agenti francesi ai danni dei loro colleghi inglesi, sfruttando l'atmosfera già tesa e riuscendo a mandare a monte il tentativo del POSE (Partito Socialista Ebraico degli Operai, l'antenato dell'attuale Partito Comunista Israeliano) di mettere in moto le masse tanto arabe quanto ebraiche per un'azione unitaria e pacifista. Lotte di classe violente, inizi di sfruttamento colonialistico, presa di potere degli Stati mandatari in Palestina, Siria e Libano: questo è l'ambiente in cui cominciò a prendere forma l'esperimento sionistico. Senza esaminare tali circostanze strettamente intrecciate con il progredire dell'impresa sionistica risultano poco comprensibili sia gli odi che fin da allora presero a dividere Arabi ed Ebrei, sia le cause che portarono la popolazione ebraica palestinese a darsi una certa organizzazione ed a crearsi certi suoi istituti particolari.

Passando alla seconda questione, sulle prospettive future del più originale di tali istituti, vale a dire su quella forma collettivistica di colonizzazione che si chiama kibbuz, si esprimono oggi giudizi fortemente contrastanti. C'è ancora chi considera il kibbuz la «cellula socialista della futura società»; altri, invece, pur constatandone l'efficienza economica, lo ritengono ideologicamente in declino e sottolineano che se

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esso ebbe un grande valore ed una grande vitalità in periodi eccezionali, ora col normalizzarsi della situazione tenderebbe ad adeguarsi e ad inserirsi nella so-

[417] cietà circostante. Se nei «tempi eroici» l'influenza dell'atmosfera sana dei kibbuzim sul resto del paese era cospicua, attualmente la direzione spirituale dello Stato si è trasferita, come sempre accade nell'epoca capitalistica, nelle città, che sono divenute il principale centro del paese sia dal punto di vista culturale sia da quello economico, e tale influsso in parte positivo perche sprovincializzante, ma dominato dalle concezioni capitalistico-borghesi, si diffonde con velocità crescente anche nelle campagne, anche nei kibbuzim, che non riescono a contrapporglisi efficacemente ne sotto l'aspetto della battaglia ideale, ne riescono a tener fede ai metodi economici e tecnici della cooperazione pianificata. Questa minaccia, che purtroppo anche molte persone di sinistra in buona fede non riescono a vedere, con grave danno delle classi lavoratrici israeliane che solo da una matura presa di coscienza di tale fenomeno potrebbero trarre la forza per riscattarsene, è apertamente avvertito dal Del Boca che in maniera significativa intitola un capitolo del suo lavoro Il Kibbuz in pericolo. Tra le opinioni delle persone da lui intervistate il giornalista piemontese riporta queste due «Con questo - disse uno studente del- l'Università di Gerusalemme - non vogliamo condannare il kibbuz. Nella storia del nostro paese resterà forse l'esperimento più nobile». E un altro più cinico: «Io penso che fra cinquant'anni sarà soltanto un oggetto da museo. Un argomento di colore per i giornalisti e di studio per i sociologi».

Alla capacità non comune del Del Boca, che sa con poche righe riassumere nei termini essenziali una questione assai intrinseca, è curioso opporre il Catarivas, che, molto meno ingenuamente di quanto potrebbe apparire, fa una strana confusione tra i successi e gli insuccessi dei kibbuzim, tra la gente che li abbandona e la gente che vi aderisce,

[418] tra Ben Gurion che li critica e Ben Gurion che ha la residenza proprio in uno di essi. E' evidente che David Catarivas per non esaminare seriamente certe difficoltà che non può non avere riscontrate, si dà da fare per «folklorizzare» ogni cosa e poter concludere abbastanza qualunquisticamente che giacché lo Stato d'Israele è vario (c'è chi è- contento e chi è scontento, c'è chi fallisce, c'è chi arrichisce e chi no) deve anche essere bello.

Una testimonianza non sospetta dell'effettivo stato di crisi in cui versa oggi il movimento kibbuzzistico è offerta dall'opuscolo Capitalismo e collettivismo nelle campagne israeliane (Torino, Studi e inchieste, settembre 1959), di Giuseppe Tedesco, un giovane che è stato per alcuni anni membro del kibbuz Bar-Am. L'autore, che riporta alcuni dati storici poco conosciuti (per esempio, sulla funzione che ebbe il barone Rothschild agli inizi dell'opera di colonizzazione), non sfugge al dilemma che preoccupa parecchi all'interno dell'organizzazione kibbuzistica e dei partiti sionisti-socialisti. E' il dilemma di coloro che ormai razionalmente non possono non riconoscere il fallimento delle speranze che avevano riposto nell'esperimento del kibbuz, come nuova e felice formula di «costruzione del socialismo dal basso» e che tuttavia sentimentalmente non riescono a condannare quell'ambiente che ha occupato tanta parte della loro vita. Infatti il Tedesco da un lato (p. 200) scrive:

«Alcuni dati statistici pubblicati dal giornale borghese Ha-arez, non certo sospetto di simpatie per il movimento operaio, ci dimostrano le meravigliose realizzazioni sociali, ad uso interno, raggiunte nelle colonie collettiviste. Questo ci prova, senza dubbio, la loro superiorità rispetto ad altre forme di colonizzazione,

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nell'ambito dell'attuale regime israeliano». Però, due pagine dopo, è costretto ad ammettere: «Sotto la pesante pressione del mondo esterno i kibbuzim han finito col cedere in politica per non cedere

[419] in economia. La caccia alle piccole e grandi comodità individuali è ora all'ordine del giorno... Il disinteresse politico e la tendenza al quieto nazionalismo borghese sono ormai di dominio generale» (p. 202). Lo stato d'animo che si manifesta in questo breve scritto non è singolo frutto d'una passeggera incertezza, ma è permanente in tutti i più consapevoli dirigenti del movimento collettivistico israeliano, e coloro che non lo prendono in considerazione danno una rappresentazione assai limitata di quel che sia l'odierna realtà del kibbuz.

L'ultimo punto, sul quale ritengo giusto esprimere alcuni rilievi, si collega strettamente con la problematica kibbuzistica e concerne precisamente quanto si dice o non si dice nei testi citati su un altro settore del movimento dei lavoratori israeliani e cioè sulla classe operaia oggi abbastanza numerosa, la quale si concentra intorno ad una fitta rete d'imprese industriali più o meno grandi. Praticamente in nessuno dei libri che abbiamo segnalato vengono trattati i problemi della classe operaia, come essa viva, quali siano i salari, come essa lotti, quali siano le sue aspirazioni. Di fatto, si confonde spesso con classe operaia la popolazione delle colonie agricole, la quale però non è che il 4 % circa della popolazione del paese, mentre gli Israeliani che dipendono da industria, artigianato, costruzioni e trasporti sono circa il 40 %. Questa lacuna è particolarmente visibile nel numero speciale del Ponte anche per colpa d'alcuni brevi scritti di diverse eminenti personalità socialdemocratiche (I. Bar Jehudah, M. Bentov, R. Barkatt, A. Oron, ecc.) che indulgono ad un ottimismo di maniera e rifuggono da ogni serio approfondimento degli argomenti loro affidati (rispettivamente: la politica interna, le risorse del sottosuolo, l'Histadrut, l'assistenza malattie).

I motivi che spingono gli studiosi borghesi e socialdemocratici ad evitare questi temi, fondamentali per conoscere

[420] l'essenza di uno Stato, sono di due tipi: da un lato vi sono uno scarso interesse ed una disattenzione tradizionale per i problemi della lotta di classe e v'è una preferenza a ricercare le particolarità strane piuttosto che a soffermarsi sulla «solita» realtà; ma dall'altro, in più d'un caso, v'è un'effettiva malafede, un desiderio illecito di sorvolare, il tentativo d'abbellire il quadro oltre la giusta misura. E quando la lacuna è grossa come questa, quando ciò di cui non si parla è la classe operaia urbana, non si tratta evidentemente soltanto di distrazione. La classe operaia compare, quantunque per via indiretta, solo quando si descrivono i fasti della Confederazione del lavoro, che è in realtà di tendenza moderatissima, burocratizzata e strettamente collegata al sindacalismo «giallo» statunitense oppure quando si fa del bozzettismo di gusto mediocre (d'Oriente s'incontra con l'Occidente al volante di una Kaiser-Frazer costruita in una fabbrica israeliana da operai originari d'Asia o d'Africa sotto la direzioni di ingegneri venuti dall'Europa», D. Catarivas, op. cit., p. 11). La classe operaia israeliana si dibatte, invece, in problemi assai diflìcili, le lotte sindacali sono aspre, lo sfruttamento è violento, e all'interno della Confederazione del lavoro insorgono vivaci contrasti; insomma, fortunatamente, gli operai israeliani sono di carne ed ossa, coi loro pregi ed i loro difetti, non delle pallide silhouettes degne d'un cortometraggio propagandistico della Shell o della B.P.C.

Da questi rilievi e da queste critiche mi sembra risalti chiaramente, anche se ancor molto vi sarebbe da dire, quanto si sosteneva agli inizi, la mancanza, cioè, di una riflessione approfondita sul fenomeno israeliano; le questioni infatti che qui si

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sono sollevate non vogliono essere che un campionario di parecchie altre, tanto di politica estera quanto di politica interna, che sarà opportuno discutere in modo più metodico.

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La logica del profitto e della repressione (126)

I Il governo israeliano, come ha continuato a dichiarare in queste settimane,

non intende in alcun modo ritirarsi dai territori occupati dopo il giugno 1967. Anzi, con un atto assolutamente unilaterale, ha proceduto all'annessione di Sharm El Sheik, notoriamente territorio egiziano, in- vitando i cittadini israeliani ad insediarvisi in modo permanente.

Molteplici e negative appaiono le conseguenze di tale proposito: l'occupazione militare ha già infatti dato origine a vari fenomeni tutt'altro che confortanti per l'avvenire dello scacchiere e c'è ormai una realtà pluriennale che sollecita in direzione opposta a quella che il ministero di Tel-Aviv insiste nel voler seguire. Al riguardo, senza ritornare ora sugli aspetti a livello di Stato ed internazionale del problema, c'è molto da osservare e meno fugacemente di quanto di solito avvenga, sulla condizione della popolazione araba nelle aree presidiate dai soldati israeliani, sui suoi rapporti con le autorità d'occupazione, sulla situazione obbligata in cui si trovano le truppe conquistatrici, dal momento che hanno voluto interpretare la parte appunto dell'invasore. Di particolare interesse è in questo quadro un'informazione un poco più particolareggiata su quanto avviene nella «striscia» di Gaza. Qui, infatti - a Gaza, a

[422] Rafiah, a Khan Yunis e poi nei campi profughi e nei villaggi di Shati, Sagija, Nuseirat, Beit-lahia, Dir el-Balah -, erano concentrati sino al 1967 in un territorio lungo 40 chilometri e largo 10, oltre 400.000 abitanti (300.000 dei quali palestinesi rifugiatisi nel 1948-49 in seguito alle espulsioni israeliane). Qui, anche per le caratteristiche del terreno, quantunque dopo l'attacco del '67 circa 50-60.000 persone abbiano abbandonato la zona, è sorto tra le masse un movimento di opposizione intenso e vigoroso che ha sfidato tenacemente, con la forza della disperazione e l'istinto della giustizia, le più aspre e metodiche misure repressive. Qui perciò risulta molto chiaro cosa significhi e quanto costi il prolungarsi dell'occupazione.

Sui modi con cui nel giro di circa due anni e mezzo è cresciuta e s'è consolidata a Gaza la resistenza partigiana contro gli israeliani, su come i campi profughi sono diventati delle isole contro l'occupante, in un certo senso a somiglianza di quanto s'è verificato per i campi profughi in Giordania (ma superando ben più complesse difficoltà) su come, in breve, un coacervo umano confuso ed incerto ha saputo, con l'aiuto delle organizzazioni guerrigliere, assumere consapevolezza nazionale e battersi con coraggio, ci sarebbe evidentemente da scrivere parecchio. Comunque, per quanto il materiale già si presti ad un volume di storia, per dare un'idea delle vicende verificatesi in questo tormentato settore, ci soffermeremo solo sugli ultimi

126 In Rinascita, n. 18, 30 aprile 1971 e n. 38, 24 settembre 1971.

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sviluppi: da quando le autorità israeliane, nel novembre-dicembre 1970, decisero di intervenire nel modo più duro contro la spinta liberatrice.

Di fatto, mentre alle frontiere con la Giordania e con la RAU s'osservava la tregua e mentre ad Amman si sviluppava il violento scontro tra truppe reali e guerriglieri, la «striscia» di Gaza riusciva, in pratica, a sfuggire in larga

[423] misura al controllo dell'occupante: centinaia di azioni di resistenza - solo nell'ultimo anno (otto volte di più, secondo i calcoli di Tel-Aviv, di quanto verificatosi in altri territori occupati) con decine di colpiti tra i soldati israeliani - avevano pressoché sottratto la regione alla presenza assidua dell'invasore.

E' indubbio che a questo punto sono emerse nel governo israeliano precise preoccupazioni di ordine politico; una innanzitutto: bisognava evitare ad ogni costo qualsiasi ipotesi di autentico autogoverno da parte della popolazione araba. Se si fosse trattato di elementi collaborazionisti, se cioè gli arabi di Gaza non avessero tentato seriamente di prendere nelle proprie mani la propria sorte, probabilmente a Tel-Aviv si sarebbe guardato all'evoluzione nella «striscia» con occhio diverso: di contro, poiché Golda Meir ed i suoi ministri sono sempre partiti dal principio della conquista espansionistica, dal rifiuto di considerare i legittimi desideri di autoamministrazione degli indigeni, dalla idea della supremazia permanente israeliana valutando gli arabi, in qualunque circostanza, come cittadini di seconda o terza categoria, la risposta alla eccezionale congiuntura determinatasi a Gaza non poteva essere che quella della repressione più energica ed esemplare. L'occasione che fece scattare un'operazione di «rastrellamento» in grande stile - dopo che, lo ripetiamo, da un lato, vari quartieri e numerose località erano passati sotto l'influenza dei partigiani e, dall'altro, incidenti sanguinosi con morti e feriti si erano susseguiti per anni senza soluzione di continuità - si verificò il 12 gennaio 1971, quando un nuovo immigrato israelita, in gita con la famiglia, avendo sbagliato strada, capitò con la sua automobile, senza che la polizia israeliana lo avvertisse, proprio in una «terra di nessuno», da tempo chiusa al traffico civile: una bomba a mano venne lanciata contro il

[424] veicolo e due bambini rimasero uccisi. Da quel momento sino ad oggi, le autorità israeliane hanno continuato ad infierire contro la popolazione, per fiaccarne la resistenza e per attuare la perseguita annessione effettiva della «striscia» allo Stato di Israele. Immediatamente decretato un severissimo coprifuoco, il 3 gennaio, le autorità militari israeliane deponevano il sindaco di Gaza, Ragib el-Alami, accusato di intelligenza con i ribelli e, in particolare, di essersi opposto a lungo all'allacciamento della città con la rete elettrica israeliana (una precisa operazione di concreto annessionismo).

In Israele solo i comunisti (come scrivevano sul loro giornale Zo Haderech del 6 gennaio, per altro censurato) sottolineavano tempestivamente l'eccezionalità delle misure poliziesche in corso rilevando il fatto che a causa delle crescenti repressioni una crescente opposizione s'era logicamente manifestata. Sin dall'8 e dal 9 le truppe israeliane infatti, durante le perquisizioni, aprivano il fuoco uccidendo tre cittadini a Gaza ed uno a Rafiah e facendo una ventina di feriti: ne derivava una proclamazione di sciopero generale in tutta la città, negozi chiusi, scuole chiuse. Le autorità d'occupazione decidevano allora l'invio immediato della cosiddetta «Guardia di frontiera», un corpo specializzato nella repressione e nel quale sono arruolati numerosi beduini, considerati con orgoglio dai comandi israeliani collaborazionisti di tipo sud-vietnamita. L'11 gennaio Dayan ed il capo del Comando meridionale, gen. Ariel Sharon, ispezionavano a loro volta la «striscia» rendendosi

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personalmente conto della situazione: il giorno dopo la «Guardia di frontiera» apriva ancora il fuoco sulla gente ferendo altri sei arabi.

E' a questo punto che la gravità delle persecuzioni contro i civili della «striscia» comincia a trapelare. Il 13

[425] gennaio il deputato comunista Meir Vilner chiede che il parlamento discuta immediatamente di quanto sta accadendo e nella sua richiesta sottolinea i seguenti fatti: il coprifuoco dura senza tregua da 11 giorni a Gaza e nei campi profughi circostanti; nei campi profughi ed in alcune parti di Gaza sono state interrotte le reti idrica ed elettrica; i rap- presentanti della Croce rossa internazionale sono stati invitati ad abbandonare la «striscia»; è stato vietato ai rappresentanti dell'UNRRA e dell'ONU di distribuire viveri ai profughi; nel corso delle perquisizioni sono stati provocati danni gravissimi alle proprietà di comuni cittadini; nell'atmosfera di vessazioni contro l'intera popolazione, molte famiglie hanno incominciato a fuggire dalla zona; le scuole sono chiuse; i proprietari di negozi che chiusero le loro botteghe sono sottoposti ad immediato processo militare e condannati a decine a pagare una multa di 500 lire israeliane per ogni giorno di chiusura. Nonostante queste prime denunce, non si registra alcun cambiamento nell'atteggiamento delle autorità israeliane e nell'azione di intimidazione assolutamente sproporzionata: il 14 gennaio, ad esempio, secondo quanto rivelano i giornali, sparando contro un autobus il cui autista non ha sentito l'ordine di arrestarsi, vengono feriti 5 viaggiatori. Un ragazzo di 17 anni è ferito a morte a Rafiah, un altro morto si registra a Khan Yunis. I giornalisti scoprono tra i feriti negli ospedali, in seguito a violenze poliziesche, una bambina di nove anni ed un bambino di dodici. Ancora il 20 gennaio però il Parlamento, che ha rifiutato di discutere l'interpellanza comunista, insorge contro i deputati Vilner e Uri Avneri dell'Haolam Hazè che, mentre si esamina una proposta dell'estrema destra per insediamenti ebraici da effettuarsi nella «striscia», tentano di richiamare l'attenzione sulle pesanti persecuzioni in atto in quei luoghi.

[426]

Solo alla fine del mese - il 24 - dopo due settimane di «mano pesante», all'interno del governo comincia ad avvertirsi qualche incertezza, solo perche l'intera opinione pubblica è ormai perfettamente a conoscenza della enormità dei fatti che si succedono. La reazione delle autorità - le quali, come abbiamo precisato, a più riprese s'erano recate a Gaza con i loro principali responsabili - è di negare i fatti o minimizzare. Ma tutti i giornali ricevono uno sconvolgente rendiconto anonimo «Su quanto sta succedendo a Gaza» dal quale è difficile prescindere per la precisione dei dati e la puntualità dei riferimenti: quello che s'è fin qui elencato non è che una parte e nemmeno la peggiore della violenza abbattutasi sugli arabi della «striscia», rei di aspirare alla libertà. Le notizie, che giungono sconvolgenti, parlano di molti morti, di centinaia di feriti (ad esempio, una ragazza, Fauzia Abed el-Mavula, schiacciata contro il muro da una jeep, ha fratturate gamba e mano), di migliaia di prigionieri (per mancanza di spazio nelle prigioni, si istituiscono un recinto sulla riva del mare e nel deserto del Sinai un campo di concentramento destinati ai familiari di elementi sospetti) di abitazioni distrutte a centinaia. Negli stessi giornali governativi, quelli almeno con un minimo di serietà professionale, compaiono numerose testimonianze dirette di redattori recatisi sul posto. Su Iediot Aharonot si pubblica, ad esempio, questa descrizione:

«Difficile credere che in questa città (Gaza) abitino centomila persone oltre alle decine di migliaia che si trovano nei campi profughi circostanti. Gli automezzi della

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«Guardia di frontiera» ispezionano con impressionante lentezza le vie principali, le canne delle mitragliatrici puntano ogni angolo. Altri poliziotti marciano a due a due per le strade. Altri sono fermi nei punti strategici». Sull'Haarez del 29 gennaio, Amos Hadar intervista un medico: «Ho chiesto

[427] al direttore dell'ospedale, che ha rifiutato di dirmi il suo nome, se sono stati trasportati cittadini con segni di percosse sul corpo e quanti. Mi ha risposto di si: una decina, e tra essi bambini».

Di fronte a tutto questo non c'è da stupirsi se alla fine di gennaio il capo di Stato maggiore, Bar-Lev, s'è sentito costretto a nominare una commissione militare d'inchiesta sui fatti di Gaza, anche perche su pressioni del governo egiziano, ad essi ha cominciato ad interessarsi il Consiglio di sicurezza dell'ONU. Il 9 febbraio - dopo che tra numerose altre crudeltà, il comandante delle truppe nel Sinai, Menachem Aviram, in una conferenza stampa, aveva ammesso che nel solo 1970 sono state arrestate qui 1.127 persone (370 ribelli, 124 «sostenitori» di ribelli e 663 «sospetti,» - sono pubblicati i primi risultati ufficiali della commissione d'inchiesta. Pur con punizioni assolutamente irrisorie (ammonimento per due alti ufficiali, deferimento a tribunali disciplinari per un altro ufficiale e per alcuni soldati i nomi dei quali non sono rivelati, sottrazione della «Guardia di frontiera» all'inchiesta con il pretesto che essa non fa parte dell'esercito, ma della polizia) il verdetto è assai sintomatico poiché la gravità dei misfatti non ha potuto essere del tutto occultata dal governo.

Resta, quale primo dato conclusivo, il fatto enorme della brutale ed indiscriminata repressione attuata contro un'intera popolazione. Ciò suona palese conferma di come i dirigenti israeliani intendano rispettare le aspirazioni delle genti arabe che amministrano e di come essi intendano procedere nella salvaguardia dei diritti degli arabi quando si accingono ad annettere nuovi territori. Le annessioni, attuate nella discriminazione e con l'intento di sfruttare in ogni modo la popolazione araba, non costituiscono che un ulteriore anello nella catena di sofferenze inflitte al popolo

[428] palestinese: di ciò l'opinione pubblica internazionale deve prendere coscienza e contro di ciò essa deve energicamente muoversi.

Va inoltre aggiunto che a Gaza, a tre mesi dall'inizio delle operazioni anti-guerriglia, la lotta non è affatto terminata. Ecco un resoconto sommario di alcuni degli ultimi episodi: il 22 febbraio i partigiani hanno attaccato un automezzo militare carico di alti ufficiali; lo stesso giorno si sviluppa una nuova ondata di arresti di individui «sospetti» (tra cui un ragazzo di 16 anni); il 1° marzo, nel corso d'uno scontro a fuoco rimangono feriti vari soldati israeliani e civili; il 10 marzo sono uccisi 3 arabi; il 15 marzo si segnalano nella «striscia» cinque attacchi partigiani tra i quali un attentato alla linea ferroviaria, una bambina araba di tre anni è uccisa in oscure circostanze; una battaglia con i «ribelli» avviene il 16 marzo; il giorno dopo un giovane è trovato morto nel campo di Gebelia; scontri con vari feriti si hanno pure il 20 marzo; alla fine di marzo, un convegno di kibbuzim situati nei pressi della «striscia» rivolge un appello alle autorità competenti affinché venga costruita una «barriera» di sicurezza tra tali centri agricoli e la zona «calda».

In realtà di fronte a quanto sta accadendo a Gaza non vi è che una sola strada, ribadita con coraggio anche recentemente da Meir Vilner: «Non c'è altra strada per arrivare alla "normalizzazione" nella "striscia" di Gaza e negli altri territori occupati se non quella del ritiro da tali territori delle forze di conquista israeliane e del perseguimento della pace per mezzo della piena attuazione della deliberazione del Consiglio di sicurezza». Questa prospettiva che pure è l'unica sensata, non appare

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ancora all'orizzonte, mentre i segni di aggravamento della tensione sembrano infittirsi. Nondimeno, in un quadro tanto contra-

[429] stante non si possono sottovalutare ne le spregiudicate denunce di parecchi giornalisti 'israeliani, ne i coraggiosi cittadini israeliani che il 28 gennaio di fronte al parlamento hanno dimostrato contro le angherie e le tribolazioni inflitte agli arabi di Gaza. Le loro parole d'ordine siano le parole d'ordine di tutti gli antifascisti: «Il silenzio collettivo è uguale a responsabilità collettiva ! ». «Deputati, ricordate: chi tace è complice ! ». «Deputato Hausner - il famoso procuratore generale al processo Eichmann - quanto vale il sangue di un bambino arabo?».

II Per quanto oggi possa risultare più complicato di ieri indicare delle modalità

per una soluzione positiva del conflitto arabo-israeliano, non sembra possibile riprendere il commento sugli ultimi passi politici di Tel-Aviv se non ribadendo i giudizi critici espressi da tempo. Senza sottovalutare, infatti, i tentativi fatti dalla diplomazia internazionale alla ricerca di vie di compromesso, se si rifiutano le suggestioni d'un realismo politico del tutto apparente che non farebbero che incancrenire le contraddizioni, impedendo di vedere i termini autentici della questione, resta un dato significativo su cui non si può sorvolare: il prestigio politico e ideale israeliano - oggi si direbbe la credibilità - fino a poco tempo fa assai alto specie nell'Europa occidentale è ormai, non per caso, completamente smarrito.

Quale che sia dunque il ricupero di posizioni diplomatiche che Tel-Aviv sta tentando, l'impianto economico-sociale dello Stato d'Israele rimane e si consolida, come quello della discriminazione e dello sfruttamento capitalistico più acuto e qualsiasi proposta che non tenesse conto di

[430] ciò non potrebbe dunque essere valutata che precaria. Questo, in particolare, si constata per quanto concerne il trattamento che il governo israeliano riserva ai cittadini arabi dei territori occupati: una vicenda in un certo senso esemplare e rivelatrice della logica repressiva che guida le autorità israeliane, una vicenda, inoltre, che ha numerose, serie ripercussioni tra la popolazione di origine ebraica. Ma che ormai non è più isolata.

Torniamo ancora una volta, ad esempio, alla martoriata striscia di Gaza, divenuta ormai per le truppe israeliane il fronte principale per loro stessa ammissione: da quattro anni la guerra dei «sei giorni» s'è conclusa, ma la logica quotidiana delle sparatorie, dei rastrellamenti, del lancio di bombe a mano, delle persecuzioni dei «terroristi», sostenitori dei «terroristi», simpatizzanti, e donne, uomini e bambini al di «sopra di ogni sospetto» continua senza interruzione. Per rendersi conto di quale sia la realtà di Gaza non è necessario valersi di informazioni segrete: basta leggere la stampa governativa israeliana e ne risulterà un panorama impressionante e rivelatore, quale può offrire solo chi - immerso in una permanente dimensione di persecutore - ha ormai smarrito il senso del lecito e dell'illecito e comincia a dimenticare che è un essere umano anche chi sta di fronte alla propria baionetta. I giornali di Tel-Aviv con agghiacciante tranquillità discettano, ad esempio, sui vantaggi che deriveranno dall'impiego di militari giovani e esperti nelle azioni di rastrellamento in confronto con i talvolta esitanti soldati della riserva; oppure analizzano con scientifica puntualità come i «terroristi» ed i loro

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collaboratori vadano stanati dai bunker clandestini, inseguiti nelle fognature, ricercati senza esitazioni in ogni angolo o bottega; oppure definiscono con metodicità nei supplementi alle loro edizioni del sabato le varie categorie di ricercati: [431] «terroristi» anziani, nuove leve di «terroristi» (giovani, adolescenti) e simpatizzanti (donne, vecchi e bambini) che hanno soprattutto il compito di avvertire dell'arrivo dei soldati israeliani. E' un quadro, questo offerto dalla stampa «benpensante» israeliana, che dimostra, senza bisogno purtroppo di alcuna forzatura, che è un'intera gente ad essere giudicata pericolosa, da controllare e domare in blocco: altro che «terroristi»..

A noi non piacciono i paragoni che troppo di rado permettono di esprimere giudizi esatti e tuttavia il raffronto tra i fasti della «Guardia di frontiera» israeliana, impegnata con tutte le moderne armi a sua disposizione a sottomettere un nucleo umano rinchiuso in una sorta di ghetto alle porte del deserto, e altre eroiche spedizioni del genere verificatesi circa trent'anni fa in Europa, sorge spontaneo ed induce a riflessione amare, a considerare come in determinati contesti sociali e politici, attraverso certi condizionamenti, l'uomo faccia in fretta a trasformarsi da preda in cacciatore e viceversa.

Comunque, alla fine di luglio, il governo israeliano per risolvere definitivamente il problema di Gaza aveva preso la drastica decisione di trasferire almeno 70.000 dei profughi arabi colà residenti nell'area egiziana di El Arish. Tuttavia i trasporti forzati di migliaia di famiglie realizzati, era l'altro previa distruzione delle loro misere abitazioni, hanno destato una tale opposizione che gli arabi della zona hanno dato vita a metà agosto ad un imponente sciopero di protesta: di fronte alla disperata, ma tenace resistenza, l'ONU - che ha il compito di fornire determinati aiuti a tali profughi, che ha addirittura a suo tempo installato i campi di raccolta intorno a Gaza - è dovuta intervenire sul governo israeliano con qualche energia e l'ha indotto a sospendere almeno per ora le deportazioni dopo che «soltanto» 14.000 persone erano state allontanate.

[432]

Il problema della violenta espulsione dei «profughi» dalla striscia di Gaza è indubbiamente legato a una precisa politica verso i territori occupati, ossia alla più che dichiarata volontà israeliana di stabilirvisi ormai in permanenza (basti pensare alle ultime e reiterate dichiarazioni di Dayan). Non di meno vi è nell'operazione un elemento altrettanto importante concernente i problemi sociali dello Stato di Israele, i rapporti interni tra le forze sociali, e come dicevamo all'inizio, la struttura capitalistica della società israeliana: un insieme di dati su cui occorre ritornare per cogliere anche quanto di nuovo vi sta maturando. In altri termini la politica di sfruttamento (e di repressione) delle popolazioni arabe sta confermandosi sempre più chiaramente una faccia del meccanismo unico di sfruttamento della borghesia israeliana.

E per venire più direttamente a questo ordine di problemi, siamo stati fin troppo facili profeti, qualche tempo fa (v. Rinascita n. 29), nel pronosticare per lo Stato d'Israele un acuirsi delle tensioni sociali e degli scontri di classe: le grida di allarme che governo e padronato si lanciavano l'un l'altro all'inizio dell'estate sono state infatti sommerse dalla tempesta monetaria scatenata dai provvedimenti di mezz'agosto del presidente Nixon, e adesso nuove serie difficoltà si sono aggiunte ad accelerare nel paese i segni della crisi economica ed a rendere affannoso il quadro della vita politica.

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Ma forse vale la pena di fornire qualche dato riepilogativo sui più recenti avvenimenti giunti a turbare ulteriormente il già scombussolato mondo economico-finanziario di Tel-Aviv. Anzitutto, la svalutazione del dollaro: considerando gli strettissimi legami che corrono tra Stati Uniti e Stato d'Israele (basti ricordare la corrente permanente di cospicui investimenti americani), le vicende drammatiche

[433] della moneta d'oltre Atlantico non potevano non avere rapide e incisive ripercussioni pure sul corso della lira israeliana. Per questo, il 21 agosto, non senza lunghe e tormentose discussioni, il governo di Tel-Aviv decideva a sua volta una svalutazione della moneta: il dollaro saliva da 3,50 a 4,20 lire israeliane ed in maniera corrispondente aumentava pure il costo delle altre valute estere.

Allo stesso tempo che il governo autorizzava un immediato aumento del prezzo della benzina e dei prodotti petroliferi, si annunciava che il provvedimento di svalutazione avrebbe causato una lievitazione generale dei prezzi di almeno il 7 per cento. E così, come la stampa più equanime metteva in evidenza, assai chiaro risultava subito chi avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione stessa e chi ne avrebbe fatto le spese. Avrebbero sopportato le conseguenze negative dell'operazione quelli con entrate pagate in moneta israeliana e, in primo luogo, quelli con una entrata fissa: operai, impiegati, tecnici, addetti ai pubblici servizi. Avrebbero tratto consistenti vantaggi coloro che realizzano in moneta estera i loro guadagni: gli enti pubblici e privati che devono ricevere ancora circa 200 milioni di dollari dalla Germania per le riparazioni di guerra e che si faranno pagare in marchi, i grandi importatori ed esportatori, coloro che possono fare massicci investimenti in dollari (quest'anno i nuovi investimenti in moneta statunitense dovrebbero ammontare a circa 100 milioni di dollari).

A conferma delle illazioni dei giornali venivano ben presto le reazioni e le risposte del paese reale: gli ambienti della grande industria - ad esempio delle fabbriche tessili, delle aziende per la lavorazione dei diamanti, la compagnia aerea El-AI, le grosse imprese alberghiere che ricevono i turisti stranieri - si dicevano immediatamente soddisfatti, anche se soltanto a metà, della via scelta dal

[434] governo. Il problema per questa bella gente era molto semplice: ottenere altre consistenti agevolazioni fiscali e garanzie sul blocco dei salari. (Ci sia permessa una parentesi su un episodio di vita italiana. Come è noto, in valle Olona nei pressi di Varese, i lavoratori degli stabilimenti Mayer sono in queste settimane impegnati in forti scioperi perche i proprietari stanno pesantemente ritardando il pagamento di salari e stipendi. Orbene il comportamento delle Cartiere Mayer italiane collegate con la Cartiera di Chedera in Israele può dare un'idea di come il padronato di Tel-Aviv intenda partecipare ai sacrifici per il consolidamento economico del paese).

Di contro, nel mondo del lavoro l'impressione negativa era immediatamente avvertibile: in un momento di battaglie sindacali impegnative, la Confederazione del lavoro, di grande importanza nell'economia nazionale, pur essendo controllata politicamente dalla socialdemocrazia gialla dei Dayan e della Meir, non era stata nemmeno informata in anticipo della decisione che il governo stava per prendere tanto questa appariva platealmente gravosa per le masse popolari! Il ministro delle Finanze, Pinchas Sapir, in un discorso al paese, sottolineava poi il disavanzo di 1.400 milioni di dollari nella bilancia commerciale anzitutto a causa delle enormi spese militari, ma allo stesso tempo preannunciava che si sarebbe opposto a qualsiasi aumento di sussidio per il carovita sui salari fino al gennaio 1972: si può immaginare, di fronte a tali dichiarazioni, come abbiano risposto i lavoratori,

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costringendo gli stessi sindacati a farsi portavoce del loro malcontento ultragiustificato.

L'interrogativo che comunque si rincorreva dalla Bor- sa alle banche, dagli ambienti politici e sindacali sino alle case dei lavoratori nell'ultima decade d'agosto era: il piano

[435] ministeriale per contrarre le importazioni ed aumentare le esportazioni, per bloccare prezzi e salari, per evitare il rischio dell'inflazione, avrà successo? In verità sin dall'inizio si nutrivano - da parte degli osservatori semplicemente responsabili - sensibili dubbi. In una condizione generale di libera concorrenza e d'apertura verso gli imprenditori privati, come verificare se un rincaro è dovuto a «giustificati motivi» o no? E, ammesso che tali distinzioni si attuino, come controllare che egualmente il prezzo non venga aumentato? Forse che l'esperienza in materia realizzata in occasione di altri momenti d'«austerità», non ha dimostrato la cattiva disponibilità del sistema economico israeliano a impedire rincari e speculazioni?

In effetti, mentre si è sviluppato un acceso dibattito sull'opportunità e la puntualità delle misure governative (tema ricorrente, ripreso con diverse accentuazioni da sinistra e da destra: ma il bilancio dello Stato, prima fonte di spinte inflazionistiche, non andava forse ritoccato in questa circostanza?), l'andamento concreto delle cose ha cominciato a offrire ai quesiti soprariportati le prime risposte. Punto primo: la «psicosi» del rincaro ha spinto i cittadini ad una frenetica corsa agli acquisti. Senza entrare in episodi particolari - la massa dei piccoli risparmiatori che si riversa agli sportelli delle banche per ritirare i mode- sti risparmi da spendere immediatamente - non si può non segnalare, quale elemento socio-economico significativo, l'incremento straordinario delle vendite avvenuto intorno al 25 agosto negli elettrodomestici, nei televisori, nelle scarpe, mobili, zucchero, marmellata, ecc.

Punto secondo: la lievitazione dei prezzi. I timori della gente della strada si sono purtroppo immediatamente dimostrati fondati, e, anche qui senza scendere nei particolari, basti rilevare aumenti vertiginosi nei generi di prima

[436] necessità, nei servizi pubblici, nei ristoranti e via dicendo. Punto terzo: i riflessi di tutto ciò sui salari e sugli stipendi. Vale a dire, in poche parole, che quasi all'improvviso tutta la fascia di coloro che ricevono medie retribuzioni hanno cominciato a vedere il rischio di precipitare ad un livello di vita nettamente più basso, mentre il non piccolo numero di coloro che le statistiche definiscono poveri e semipoveri è stato gettato di colpo in uno stadio ancora inferiore, e cioè nell'autentica miseria non certo attenuata dalle scarne previdenze statali predisposte. E' agevole dunque comprendere che cosa questo abbia significato in un paese già percorso da marcate lacerazioni sociali ed angu- stiato dai problemi della diseguaglianza e della discriminazione. Tanto è vero che, fin dall'indomani delle deliberazioni ministeriali, L Barzilai, responsabile dell'Istituto per gli studi economico-sociali della Confederazione sindacale, poteva mettere a fuoco con discreta puntualità alcuni risultati che si sarebbero dovuti riscontrare dopo poche settimane. In primo luogo, egli sosteneva, le mosse governative non appariranno minimamente credibili presso le masse popolari perche, nella difficile congiuntura, il governo avrebbe potuto, ma non ha voluto, risparmiare centinaia di milioni del bilancio statale eliminandoli dalle spese per gli armamenti, per la costruzione di edifici di rappresentanza, tribunali e prigioni, per la polizia e per il ministero del culto. Secondariamente, l'intervento governativo se non ha esitato ad aumentare i prezzi rapportandoli al nuovo valore del dollaro, si è ben guardato dall'operare per contenere o diminuire i prezzi di certe merci che già erano di gran lunga superiori ai

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costi (ad esempio per la carne importata ed il ferro da costruzioni). In terzo luogo, a proposito dell'aggiunta per il carovita, se il governo sembra adesso aver conseguito il suo obiettivo di eliminarla dai salari si trove-

[437] rà di fronte amare sorprese: i lavoratori privati cercheranno di rifarsi ottenendo in altro modo degli aumenti, il mezzo milione di pubblici dipendenti non potrà che avviare delle tenacissime lotte salariali per salvaguardare il proprio livello d'esistenza. Infine, se la Confederazione del lavoro non vorrà essere travolta da un'ondata di impopolarità, sarà giocoforza prendere sempre più chiaramente le distanze dalla linea adottata dal governo.

Tali sviluppi si sono ora pienamente verificati e proprio in questi giorni lo scontro politico tra la linea governativa e l'orientamento dei lavoratori s'è fatto incalzante: per un verso le riunioni delle commissioni interne e delle leghe sindacali per discutere della situazione economica e incitare i vertici sindacali all'azione si sono andate moltiplicando; per un altro le agitazioni salariali sono rapidamente aumentate di quantità ed intensità (tra le categorie in movimento gli insegnanti, gli impiegati delle dogane e dell'aviazione civile, i postini, oltre ad una miriade di aziende, imprese ed uffici dove i lavoratori sono impegnati in vertenze e scioperi «in ordine sparso»); per un altro il governo è deciso a proseguire con estremo rigore la direttrice di marcia stabilita e di conseguenza, allo scopo di salvaguardare la propria politica economica filopadronale, s'è impegnato a presentare in Parlamento per una rapida approvazione un insieme di leggi anti-operaie veramente minaccioso.

In una breve rassegna informativa come questa non è semplice scendere nei particolari di certi dispositivi giuridici fatti apposta per intrappolare i lavoratori e quindi ci accontenteremo di sottolineare gli aspetti essenziali. Diremo soltanto che essi riguardano principalmente i lavoratori alle dipendenze dello Stato, quasi come anticipazione ed indicazione delle prospettive riservate a tutti i lavoratori del paese, e che si articolano su due obiettivi: l'osservanza dei contratti di lavoro deve diventare obbligatoria per legge e

[438] quindi ogni sciopero, finche il contratto non sia scaduto, dovrà essere perseguito come reato; deve essere instaurato il principio dell'arbitrato obbligatorio e del preavviso di alcune settimane per ogni sciopero che si abbia intenzione, nonostante tutte le complicazioni, di proclamare. In sintesi: la fine del diritto di sciopero per i pubblici dipendenti.

Risulta abbastanza complesso, a questo punto, seguire la serie alquanto convulsa di riunioni e polemiche che, specie nella seconda settimana di settembre, si sono avuti a ritmo vertiginoso a vari livelli per discutere questi provvedimenti che vogliono in pratica impedire ai lavoratori l'uso dell'unico mezzo efficace loro rimasto per contrapporsi all'impostazione anti-operaia del governo e cioè dello sciopero. Lo scontro essenziale s'è avuto il 9 settembre all'interno del partito della maggioranza assoluta, il cosiddetto Allineamento. Un'altra discussione v'è stata il 12 in sede governativa. Infine un altro dibattito v'è stato il 13 in Parlamento ove è stato affrontato il tema degli «scioperi selvaggi» in attesa che il governo presenti tra pochi giorni per l'approvazione le sue leggi anti-sciopero.

Quale lo schieramento emerso? Insieme con il primo ministro, a portare avanti la tesi della disciplina, dell'ordine, della patria in pericolo e quindi della repressione sono stati specialmente tipi come il ministro del Lavoro, Almoghi, e il ministro della Difesa, Dayan, che s'è distinto per la tenacia con cui ha insistito per «dare i denti» alle disposizioni che si stanno mettendo a punto e cioè efficacia punitiva contro i trasgressori (chi sciopera, va in galera). I deputati legati alla Confederazione del

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lavoro o hanno taciuto (il suo segretario generale era assente dalla seduta del Parlamento) o hanno cercato di dimostrare che i lavoratori avranno pure dei vantaggi dalla trasformazione dei contratti salariali in leggi, se tutti li dovranno rispettare. Qualche brontolio è venuto, ma non in sede parlamentare

[439] dal Mapam. Di contro la destra, esultante, ha incalzato il governo per il ritardo e la incompletezza con cui i provvedimenti sono stati elaborati. La migliore battuta ci sembra sia stata quella del deputato Uri Avneri, il quale, avvertendo che gli operai infrangeranno tali leggi e che sostituiranno gli scioperi palesi con il sabotaggio, ha detto rivolto ai banchi del governo: « Voi provocherete una rivolta come ancora non c'è mai stata in questo paese: alle Pantere nere si uniranno le Pantere bianche».

E, in effetti, le notizie che giungono dalle fabbriche e dalle commissioni interne, da singoli sindacalisti e da gruppi di lavoratori paiono indicare che la rivolta è in un certo senso già cominciata e che contro il governo si muovono gruppi che fino a poche settimane or sono ne erano fidi sostenitori.

Scrivendo il 18 agosto (prima della svalutazione della lira cioè) sulla vertenza scaturita intorno al decreto di precettazione dei medici in sciopero, il settimanale comunista Zu Haderekh, formulava dei giudizi talmente centrati che crediamo valga le pena riprenderli allo scopo di fare il punto su una situazione in piena evoluzione. Sotto il titolo «Per la libertà di sciopero» si poteva infatti leggere: «Molti lavoratori in Israele stanno imparando per loro esperienza che la politica del governo è anti-operaia, anche se non sono ancora giunti alla convinzione che essa è anche anti-nazionale. Impareranno che c'è un legame profondo tra le varie lotte: la lotta per l'aumento del livello di vita, la lotta per la libertà dell'azione organizzativa-sindacale ed in patticolare per il diritto di sciopero senza interventi dello Stato, e la lotta per una pace senza conquiste ed annessioni». E in verità raramente come oggi sono emerse nello Stato d'Israele la corrispondenza tra politica dei bassi salari e logica del profitto capitalista, e la compenetrazione tra repressioni anti-popolari ed accettazione della violenza imperialista.

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Cinque anni dopo (127) Sono passati cinque anni dalla «guerra dei sei giorni» del giugno 1967 e il

conflitto non si è composto: non solo, ma l'importanza per la storia del Medio Oriente di quello scontro armato va rivelandosi sempre più ampia, sempre più profonda, inversamente proporzionale alla sua rapidità. Di fronte all'evidenza di determinati fatti si può dire che oggi anche le tendenze di certi settori dell'opinione pubblica siano cambiate. Da parte di taluni che in buona fede, ma avventatamente si erano schierati per la causa israeliana non c'è stato esclusivamente il ritorno ad una posizione relativamente più equilibrata dopo l'euforia delle prime battute: è un complesso di eventi che ha indotto (a volte con grave ritardo, va aggiunto) a ricredersi e ad orientarsi in modo meno partigiano e preconcetto, a ridimensionare gli entusiasmi ed a moderare le antipatie. La tragedia dei profughi palestinesi, quelli del 1948 e quelli del 196 7, la testardaggine dei ministri israeliani nel rifiutare compromessi onorevoli e nel disattendere le indicazioni dell'ONU, la violenza delle azioni di forza, delle ritorsioni e delle repressioni ad opera delle truppe israeliane sono altrettanti elementi che non potevano non indurre a giudicare con più attenzione gli intendimenti a lunga ed a breve scadenza del governo di Tel-Aviv e la politica israeliana anche retrospettivamente.

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Per altro, a nostro avviso lo spartiacque tra il pro e il contro, il giudizio sul significato della rottura del 1967 passa tuttora per un interrogativo che resta ancora essenziale per quanto ormai sia diventato ovvio e famoso: fu la «guerra dei sei giorni» un'enorme e brillante operazione difensiva israeliana per salvare lo Stato dalla distruzione, l'unica alternativa rimasta «per la difesa della nostra vita e dei nostri diritti» come spiegò al Parlamento l'allora primo ministro Eshkol il 12 giugno, oppure, un atto di guerra aggressiva? In base ad una valutazione non contingente della storia dello Stato d'Israele ed alla conoscenza della sua struttura e degli orientamenti delle sue classi dirigenti, già cinque anni fa chi volle non faticò troppo a scoprire la natura aggressiva ed espansionistica della mistificazione patriottarda. Va però aggiunto, comunque, che da quell'epoca sono state avanzate, e pure recentemente, nuove e non sospette testimonianze che permettono di meglio considerare il senso della situazione odierna e le poco rassicuranti prospettive future, e che hanno illuminato nel dettaglio i meccanismi che ieri fecero scattare la trappola della guerra. In verità, per chi avesse avuto un poco di pazienza, sul piano della ricerca documentaria, alcuni dati sui reali intendimenti degli israeliani, ed innanzi tutto sulle mire delle correnti bellicistiche, erano già da molto tempo disponibili e reperibili senza troppa fatica. In un libro di Michel Bar-Zohar, noto

127 In Rinascita, n. 23, 9 giugno 1972.

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sostenitore di generali e grande amico di spioni, Histoire secrète de la guerre d'Israël c'è, ad esempio, un curioso capitolo (il quindicesimo, intitolato «I generali contro Eshkol» in cui con il trasparente scopo di irridere alle perplessità ed alle incertezze dei «politici» e di decantare le rudi virtù guerriere, viene descritta in modo abbastanza esplicito quella specie di colpo di Stato del 28 maggio che gli alti comandanti israeliani attuarono nei confronti del

[442] capo del governo mettendolo in pratica con le spalle al muro. In breve, mentre il governo esitava, generali come Abraham Yaffe, Ezer Weizmann, Arik Sharon e Izchak Rabin si pronunciarono con estrema decisione per la guerra, minacciando, se i partiti non si fossero convinti più che in fretta, di farsela da soli. Disse infatti Rabin, poi capo di Stato maggiore: «Sembra che la sola forza sulla quale si possa contare in questo paese sia l'esercito».

Intorno alla levata di testa o complotto o putsch dei generali israeliani in un momento estremamente delicato, si è poi discusso e si discute ancora. In particolare le polemiche - che putroppo raramente sono state riportate in Europa - hanno avuto notevole vivacità nel 1969 quando nel quadro delle lotte di frazione all'interno del partito di maggioranza Avodà, i sostenitori di una linea parlamentare decisero di rivelare quanto aveva loro confidato Levi Eshkol, presidente del Consiglio nel 1967, poco prima di morire il 26 febbraio 1969. Nel marzo, infatti, il giornale della federazione giovanile del partito Ramzur pubblicava un'intervista postuma del defunto capo del governo che senza mezzi termini confermava il tentativo di «piccolo putsch» militare e per soprammercato alludeva alla «trovata» di un qualcuno che avrebbe meritato di essere spedito alla Corte marziale. A rincarare la dose, a sostegno delle posizioni di Eshkol e dei suoi successori giunse poi, nello stesso torno di tempo, il libro di Moshe A. Ghilboa, responsabile della sezione culturale del partito Avodà, dal titolo Shesh shanim, shishà iamin (Sei anni, sei giorni) che portava una nuova importante pietra all'edificio della autentica ricostruzione dei fatti. Secondo Ghilboa, infatti, ottenuto il ministero della Difesa attraverso le pressioni dei militari di cui s'è accennato, il gen. Dayan, con l'aiuto del gen. Aharon Yariv, capo dei servizi segreti al

[443] quartier generale, nella riunione del governo del 4 giugno riportò in modo volutamente inesatto le informazioni sugli spostamenti delle truppe egiziane nel Sinai: facendo apparire come straordinariamente minacciose le mosse degli egiziani, Dayan otteneva con facilità mano libera dal ministero per dare l'ordine di passare ad un attacco «pre- ventivo».

Intorno alla brillante invenzione di Dayan, giunta a conoscenza del pubblico con due anni di ritardo, si moltiplicarono le discussioni in Parlamento (grazie ad un'interpellanza del comunista Vilner) e sui giornali, tanto più che a posteriori anche altri accenni sparsi qua e là, assumevano una nuova significanza. Lo stesso dayanista Bar-Zohar aveva scritto: «Prima d'addormentarsi, Moshe Dayan domanda ad uno dei suoi assistenti di passare da Ben Gurion per informarlo della decisione del governo: "Ditegli che il governo ha accettato la mia proposta. Penso che il concentramento egiziano rivesta un carattere offensivo"». (La sottolineatura è nostra).

Il giornalista S. Ofer, in un articolo sul quotidiano governativo Davar del 4 maggio 1969, riassumeva con precisione ed onestà il senso delle rivelazioni alle quali s'è accennato: «Se vi fu una esagerazione nel determinare un pericolo egiziano alla vigilia della guerra dei sei giorni, significa che la guerra dei sei giorni fu superflua». Se vi fu un'esagerazione per spingere il governo ad agire, prosegue il giornalista,

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«che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo continuare a difendere i territori che abbiamo conquistato solo perche qualcuno aveva trovato l'occasione per agire?».

Questo senso di disagio e di sconforto che da tempo pervade la cerchia degli israeliani più vigili su quanto capita loro intorno, s'è negli ultimi mesi acuito in seguito a taluni interventi abbastanza sconcertanti di

[444] vari autorevoli generali. Attraverso dichiarazioni in convegni o articoli su giornali, i generali della riserva Ezer Weizmann (oggi tra i capi del partito d'estrema destra Gahal) e Matatiau Peled - che ebbero importanti incombenze durante la «guerra dei sei giorni» rispettivamente nel settore operazioni e nel settore approvvigionamenti - sono infatti ritornati, in parte per giustificarsi, in parte avendo un occhio alla situazione politica attuale, sulle spinose questioni che siamo venuti mettendo a fuoco. Così su giornali al di sopra di ogni sospetto come il Maariv e l'Haarez, i due ufficiali hanno negato che i responsabili del paese siano stati sorpresi nella loro buona fede da qualche esponente militare particolarmente astuto: tutti in verità erano a conoscenza del bluff e cioè che lo Stato d'Israele non correva il pericolo di distruzione e che si trattava soltanto di far credere questo al mondo. Il Peled cerca di dimostrare che l'occupazione di territori egiziani, siriani e giordani era e resta necessaria nel quadro d'una più vasta strategia; per bloccare la penetrazione sovietica prima e per imporre oggi specialmente all'Egitto di sganciarsi dall'URSS, se vorrà riavere il Sinai almeno in parte. Il Weizmann, invece, sottolinea come quantunque non vi fosse un pericolo di sterminio per lo Stato d'Israele, la guerra era necessaria sia perché interessi storici, nazionali e concreti inducevano all' ampiamento territoriale, sia perché se non ci fosse stata guerra, il carattere essenziale dello Stato avrebbe dovuto cambiare: «se non avessimo colpito, lo Stato d'Israele non avrebbe potuto continuare ad esistere con la sua specificità, con il medesimo spirito, con la medesima essenza». Sono queste, fin troppo chiaramente argomentazioni che divagano sui compiti di avamposto dell'imperialismo americano che il governo israeliano s'è assunto o sulla mistica ultra-nazionalistica della conquista territoriale, ma che pure con una sorta di sfaccia-

[445] taggine permessa dall'atmosfera sciovinistica dominante, re- spingono la nota leggenda di Israele accerchiato, di Davide e Golia ecc.

Tra gli interventi, che le ultime prese di posizione di Peled e Weizmann hanno provocato, merita d'essere segnalato l'interrogativo irritato posto dal giornalista A. Schweizer, sempre sull'Haarez (23 marzo 1972) che riassume un poco i dubbi d'un più vasto pubblico: «i cittadini hanno il diritto di chiedere ai signori Weizmann e Peled di dire e dimostrare chi insomma ha cucinato la guerra, chi è riuscito a mettere nel sacco il mondo ed il popolo d'Israele ed in breve sul conto di chi ci sono da mettere non solo i successi, ma anche i morti».

Proprio a conferma dell'interpretazione che tipi come Peled e Weizmann danno della «guerra dei sei giorni», quantunque al presente essi continuino a strumentalizzarla per i fini più retrivi, appare opportuno aggiungere qualcosa a proposito del decisivo e strabiliante successo dell'aviazione israeliana nel 1967, un successo tanto più strabi- liante se si pensa che le truppe avversarie sarebbero già state pronte a sferrare il colpo mortale. Anche questo aspetto del problema è venuto chiarendosi a poco a poco, fonti non sospette hanno fornito, per lo più involontariamente, le tessere del mosaico. Ad esempio Randolph e Winston Churchill, nel loro volume La guerra lampo di Israele, già all'indomani del conflitto avevano potuto scrivere la seguente incisiva affermazione tra i vari elementi che secondo loro spiegavano la superiorità israeliana: «le informazioni riguardanti i

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movimenti e le attività aeree del nemico, la posizione delle basi radar e missilistiche erano precisissime». Bene: e come avevano fatto gli israeliani a procurarsi tali precisissime informazioni?

A ciò ha cominciato a ripondere l'esperto militare

[446] israeliano Zeev Schif nel suo volume Cnafaim mial Suez (Ali su Suez): «il comandante dell'aviazione egiziana durante la guerra, il maresciallo Sidki Mahmud, da anni era legato con il servizio d'informazione centrale degli Stati Uniti e tramite suo si riseppero i segreti dell'aviazione egiziana e giunsero fino al servizio d'informazione israeliano». Senza presumere d'aver esaurito l'argomento, questa breve rassegna di commenti, valutazioni e rivelazioni apparsi in Israele sul conflitto, pensiamo comunque permetta di elencare alcuni punti fondamentali nel succedersi degli eventi: che vi fu una sorta di pressione illecita dei militari sul governo per spingerlo al conflitto e che il governo s'acconciò rapidamente all'obbedienza; che l'Egitto non aveva intenzione e non era preparato ad attaccare, ma che il governo israeliano, per «merito» specialmente di Dayan e Yariv, riuscì a dimostrare il contrario; che gli scopi della guerra erano non difensivi, ma di espansione territoriale in concomitanza con una più generale strategia imperialista.

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3) Riflessioni sul Medio Oriente

Papa Montini sulla strada di Gerusalemme (128) I

Nel momento in cui questo articolo appare, il viaggio di Paolo VI ai Luoghi

Santi è in pieno svolgimento. Ma anche se per tale motivo non potranno essere registrati tutti gli incontri e tutti i risultati del pellegrinaggio, su di esso tanto si è già scritto e tante interpretazioni si sono date da sembrare, secondo le intenzioni vaticane, addirittura storicamente inquadrato. Ovviamente le cose non stanno così: la missione del pontefice si inserisce in tutta una complessa evoluzione della Chiesa cattolica e perciò il suo significato ultimo e il suo esito potranno rendersi evidenti solo tra qualche tempo. Un primo giudizio può essere tuttavia avanzato sul senso della visita proprio sulla scorta dei commenti, delle illazioni e delle ripercussioni che essa ha destato ovunque e in particolare a Roma e nel Medio Oriente.

Tralasciando di porre in rilievo quello spirito misticamente imitativo e celebrativo, cosi caratteristico e vigoroso nella concezione cattolica, del quale potrebbe vedersi un nuovo esempio nel quasi identico ripetersi ad opera di Giovanni Battista Montini del cammino di Paolo da Damasco a Gerusalemme, due sono le opinioni dominanti circa il valore da attribuire e quest'ultima clamorosa iniziativa vaticana.

[448] Un nuovo dinamismo

In primo luogo, taluni, ponendo l'accento su quella che ormai sembrava essere

divenuta una norma rigorosa di inamovibilità del Pontefice da Roma, sottolineano il peso ecumenicamente illustrativo e in un certo modo rivoluzionario del viaggio. Recuperando un dinamismo e un'attitudine a seguire l'evoluzione dei tempi, rinvenibili solo in epoche antecedenti al Concilio tridentino del 1545-1563, la Chiesa cattolica, secondo questi ragionamenti, proseguirebbe la grandiosa opera avviata da Giovanni XXIII per un'amichevole riconciliazione tra cristianesimo e mondo moderno, per un rilancio della comprensione tra i popoli e della fiducia nell'uomo,

128 In Rinascita, n. 1, 4 gennaio 1964 e n. 2, 11 gennaio 1964.

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per uno sviluppo degli atti che agevolino il dialogo e il riavvicinamento tra tutte le fedi cristiane.

In abbastanza netta contrapposizione con queste tesi vengono però avanzate, anche in ambienti autorevoli, chiavi interpretative assai diverse. Evidentemente alcune delle aspirazioni di Angelo Roncalli non sono ancora state completamente vanificate tra le mura della Santa Sede (anche perchè esse scaturivano non solo dal coraggio d'una iniziativa personale bensì pure da una acuta intuizione delle esigenze dei tempi); tuttavia lo spirito e le intenzioni risultano modificate in maniera profonda. Oggi starebbe affermandosi più che altro la sensazione dell'isolamento della Chiesa cattolica, dalla gravità dei problemi che l'affliggono, della difficoltà e dell'inadeguatezza ad affrontarli. L'andamento inconclusivo del Concilio sarebbe quindi, secondo questa visione, una conferma dell'insostituibilità della funzione papale e il viaggio al Santo Sepolcro acquisterebbe un carattere assai più limitato, più contingente, eminentemente dimostrativo.

[449]

Numerosi elementi sono in verità, adducibili a sostegno del secondo tipo di osservazioni, quelle che sottolineano la natura «difensiva» del viaggio di Paolo VI, elementi rinvenibili tanto nell'atteggiamento della diplomazia pontificia, quanto in quella dei circoli politici dei paesi maggiormente interessati all'avvenimento.

Anzitutto non ci si può sottrarre all'impressione d'una certa inadeguatezza nella preparazione dell'impresa e anche se la precipitosa organizzazione non è forse stata casuale, non si può non rilevare come il «troppo semplice» Angelo Roncalli, così modesto ed ingenuo a detta dei suoi detrattori, avrebbe indubbiamente avvertito con grande chiarezza e saputo risolvere con grande abilità le numerose complicazioni giuridiche, politiche, diplomatiche e protocollari incontrate da Montini sulla strada per Gerusalemme. L'indimenticabile ricordo che Roncalli ha lasciato di sè in paesi a maggioranza non cattolica, come la Bulgaria e la Turchia, o presso i circoli israeliti con cui era venuto in contatto durante la seconda guerra mondiale, e la profonda esperienza con uomini e religiosi di fede non cattolica raccolta in tali occasioni, lo avrebbero sorretto ed agge- volato in misura considerevole se fosse toccato a lui trovarsi in questa contingenza.

Proprio la scarsa comprensione delle ripercussioni del viaggio di Montini in territori ove i fedeli al culto cattolico sono una piccola minoranza, risulta di contro uno dei fenomeni più curiosi. E qui si entra ad esaminare l'altro aspetto della questione e cioè oltre ai moventi e agli scopi del visitatore, l'atteggiamento e gli interessi dei visitati. Difatti è pure a causa delle lacunose previsioni circa gli umori di israeliani e giordani, di ebrei e musulmani che è sorta e ha continuato a svilupparsi la discussione sulle finalità politiche o meno del pellegrinaggio montiniano,

[450] discussione che se può essere abbastanza facilmente con- trollata in Italia (ove non è chi non possa ignorare, ad esempio, il prestigio e l'importanza delle smentite e delle note d'un giornale quale l'Osservatore Romano), non può certo essere altrettanto agevolmente ridimensionata in paesi ove Roma ed il cristianesimo sono giudicati entità lontane e vaghe e comunque con una autorità estremamente remota ed imprecisa su Stati e governi.

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I commenti del mondo arabo Per quanto dunque alla Santa Sede non vi sia stato probabilmente alcuno che

abbia immaginato o sperato o temuto finalità politiche a breve scadenza nella visita ai Luoghi Santi, nei due settori in cui è divisa Gerusalemme, al Cairo, ad Amman ed altrove, l'interpretazione in chiave politica è sempre stata all'ordine del giorno sin dal primo annunzio delle intenzioni di Paolo VI di recarsi a Betlemme, a Nazaret, al monte Sion, ecc. Può darsi che taluni commentatori politici israeliani o giordani abbiano tentato, sostanzialmente in malafede, di «spiritualizzare» e di «cristianizzare» quelli che sono i più genuini sentimenti delle popolazioni e dei governanti che hanno fatto ala al giro papale. Può darsi che qualche diplomatico giordano o israeliano particolarmente accorto abbia tentato di smussare e di mediare idee e opinioni. Nondimeno sta di fatto che musulmani ed israeliti e laici ed atei dell'intero Medio Oriente solo sforzando le loro reali convinzioni avrebbero potuto prestare attenzione a Paolo VI in forma diversa da quella della curiosità o dell'interesse politico. Prova di ciò sono i commenti apparsi sulla stampa di quei paesi in queste settimane, della quale crediamo opportuno ricordare

[451] i giudizi precisamente per agevolare il superamento di quella visione provincialmente «cattolico-centrica» che le trasmissioni cariche di infatuazione della radio e della televisione italiana si sono incaricate di divulgare. Giacchè, e la cosa, per quanto ovvia, dopo quindici anni di regime democristiano minaccia di non esserlo più, San Pietro è caput mundi solo per chi è convinto di ciò ed assai pericoloso è diffondere la credenza che solo pochi e sperduti individui agli estremi confini della terra possano mettere in dubbio tale asserzione.

No, non è così e le varie prese di posizione dei giornali giordani Al-Difa e Al Manar, o degli egiziani Al Ahram e Akhbar el Yom, o degli israeliani Haarez e Jerusalem Post, per non citare che talune delle voci più autorevoli, testimoniano di come ciascuno interlocutore abbia permanentemente tentato di «tirare» dalla sua parte e interpretare a suo modo la visita pontificia. Così, ad esempio, mentre l'Al Difa preannunziava la presentazione da parte dei profughi palestinesi rifugiati in territorio giordano d'un memoriale sulla «questione palestinese», l'Haarez di Tel-Aviv concludeva un editoriale con questa affermazione: «Questa visita dunque testimonierà che la Chiesa romana non vede lo Stato d'Israele come inadeguato alla salvaguardia dei luoghi santi per il cristianesimo; e quantunque tale testimonianza non abbia molta importanza dal punto di vista religioso, sotto il profilo politico ha indubbiamente un certo peso» .

Mentre dunque si è conclusa da pochi giorni la discussione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite sul problema dei profughi arabi e mentre sta per convocarsi una conferenza dei paesi del Medio Oriente per adottare misure contro l'attuazione del progetto israeliano di deviare a scopo d'irrigazione le acque del Giordano, il viaggio di Montini ha

[452] finito con l'acquistare il sapore d'un certo riconoscimento ed apprezzamento sia d'Israele, sia dclla Giordania, dei due Stati dello scacchiere, cioè, più legati all'Occidente e allo stesso tempo collegati ambiguamente, ma saldamente, in un tacito accordo di mutuo appoggio. E' per questo motivo, per il timore che l'incerta solidarietà panaraba venga ulteriormente scalfita dal collegamento israelo-giordano, che la stampa del Cairo ha mosso critiche particolarmente pungenti alla visita di Paolo VI, e che una settimana prima dell'avvenimento è stato ricevuto in Vaticano il

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nuovo ambasciatore della RAU che ha avuto col Pontefice una conversazione riservata.

L'esito del pellegrinaggio di Paolo VI, avvenuto in un'atmosfera agitata dalle opposte tendenze e carica di risentimenti (basterebbe a questo proposito ricordare le polemiche israeliane circa la località dell'incontro tra l'ospite romano ed il presidente dello Stato), ha perciò in notevole misura confermato l'interpretazione restrittiva circa il suo scopo ultimo: sul piano politico v'è stato un indubbio gesto di favore verso i paesi visitati, accomunati in un medesimo interessamento; sul piano religioso s'è potuto costatare invece quanto la spinta unitaria tra i cristiani e per una migliore comprensione tra le varie e differenti Chiese non abbia ritrovato quella carica realizzatrice impressale da Giovanni XXIII e si sia arenata nella permanente dichiarazione della supremazia di Roma (anche se questa supremazia è venata oggi di paternalistica benevolenza). Sul piano religioso giova poi rilevare un fatto di non poco interesse. Con la visita alle località che videro secondo il rito, la vicenda del Cristo, la Santa Sede ha, a livello politico, conoesso una patente di legittimità non certo irrilevante allo Stato d'Israele: passo questo che forse in futuro potrà favorire, in cambio, qualche correzione allo

[453] status di Gerusalemme secondo i progetti di internazionalizzazione del 1947-1949. E tuttavia ciò è avvenuto all'indomani del rinvio, in sede conciliare, della revisione dell'atteggiamento nei confronti del giudaismo, revisione che avrebbe dovuto portare ad un superamento delle secolari calunnie contro il «popolo deicida», oltre che ad una condanna dell'antisemitismo in genere. Si è potuto così assistere, nonostante il vigoroso impegno del cardinale Agostino Bea per far approvare lo «schema», ad una sorta di penoso assurdo: il riconoscimento, in sede politica, d'una legittimità ebraica, che viene tuttora negata nel campo spirituale-religioso. Di conseguenza se con atti di formale cortesia si è accettata la realtà dello Stato d'Israele e del suo governo, d'altro canto si era in precedenza favorita con l'andamento inconclusivo della seconda fase del Concilio (ad esempio con le dichiarazioni dell'11 novembre scorso di monsignor Nimat el Semaan, vicepatriarca dei latini di Gerusalemme), la ripresa di vieti motivi di odio religioso.

Anche da questa incongruenza risulta giusta l'opinione che opta per il ridimensionamento della portata della pellegrinazione attraverso i tortuosi confini tra Giordania ed Israele. La Chiesa cartolica sente una profonda necessità di ristabilire il contatto con popoli e paesi, ma troppe sono le contraddizioni nella sua azione, troppi sono i presupposti che considera irrinunciabili, troppo poco è lo spirito di sacrificio con cui nell'insieme si muove per riuscire a spostare le montagne e a riproporre il miracolo dell'uomo che ha fede e successo perchè si impegna e rischia.

Oggi Betlemme è una cittadina agricola che vede i suoi abitanti impegnati in dure lotte per la terra ed il pane; a Gerusalemme fatto religioso dominante sono oggi le violenze degli ebrei ortodossi contro chi viaggia in automobile o fuma di sabato; oggi Nazaret è una delle roccaforti del

[454] movimento comunista medio-orientale, una città ove i comunisti arabi ed ebrei, musulmani e cristiani ripropongono un programma d'autentica liberazione dell'individuo. E' su questo palcoscenico bruciato delle passioni e dalle lotte, che è fugacemente passata la bianca figura di Paolo VI: se diplomatici e governanti, più per ipocrisia professionale che per buona volontà hanno ad essa per un momento rivolta l'attenzione, certamente il discorso alle moltitudini di diseredati che pure guardavano con stupore l'insolito corteo, è risultato vago ed incomprensibile.

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II Che cosa si proponeva con il pellegrinaggio ai luoghi santi il pontefice Paolo

VI? Cosa ha trovato, chi ha incontrato, quali fini della sua missione possono dirsi raggiunti e quali no? Su questi interrogativi - anche se molto si discute e si continuerà a discutere - una prima seria risposta giunge dalla cronaca stessa della visita, dalla sucessione dei personaggi che si sono avvicinati a papa Montini e hanno conferito con lui. E in primo luogo, come non nascondono tutte le corrispondenze più sincere, risulta confermato il senso di incertezza, di incomprensione sorto un pò dovunque e che sembra aver aleggiato intorno alle mosse del «vescovo dei vescovi» non appena vennero conosciute le sue intenzioni di compiere il viaggio sull'altra sponda del Medi terraneo.

Si è che questa occasione ha offerto la possibilità per costatare con particolare nettezza sia le remore di carattere religioso, storico e politico che specialmente oggi inceppano il cammino della Chiesa cattolica, sia i criteri del ten tativo che da vari anni, e cioè dalla conelusione del ponti-

[455] ficato di Eugenio Pacelli, essa conduce per dirimerle e superarle.

Senza voler in questa occasione avviare un'indagine storica sulle posizioni assunte dalla Santa Sede negli ultimi decenni verso le vicende drammatiche e spesso atroci che hanno sconvolto il mondo; sospendendo, anzi, per un momento il giudizio sugli atteggiamenti adottati dal papato in tali occasioni e verso gli atteggiamenti ideologici e culturali scaturiti dalle terribili e grandiose vicissitudini susseguitesi nelle prima metà di questo secolo, pensiamo che a Roma, in Vaticano, anche senza voler criticare o mettere in discussione a fondo gli indirizzi scelti, o addirittura continuando a valutarli giusti e obiettivamente opportuni, sia però maturata la consapevolezza del solco e della diffidenza che in seguito a quei deliberati, a quelle impostazioni, a quelle scomuniche sono venuti determinandosi tra i popoli e specie tra gli strati più consapevoli, più onesti, più buoni della gente da un lato e la Chiesa cattolica dall'altro.

Via via che la consistenza e la potenza temporale della Santa Sede sono andate rafforzandosi, via via che le tecniche più moderne e raffinate sono state introdotte per agevolare la diffusione del verbo cattolico, maggiormente largo si è aperto il divario tra gerarchie ecclesiastiche, fedeli e popoli, meno immediata e divenuta la rispondenza tra direttive e obbedienza. L'ideale ritorno a una civiltà medioevale, ove tutto sia omaggio e devozione alla religione e dove solo la Chiesa sia interprete e guida delle azioni umane, è divenuto sempre più irreale, sempre più lontano, soffocato dai precetti, dalle ammonizioni, respinto dall'incontenibile progresso delle scienze, dall'invincibile volontà dell'uomo di conoscere e conoscersi e di scoprire le leggi per realizzare, qui e oggi, libertà e giustizia.

In modo specifico, due paiono i «peccati» di fondo

[456] che si addebiterebbero alla Chiesa cattolica, e dai quali essa vorrebbe riscattarsi o comunque dimostrare di essersi disciolta: l'aver appoggiato il fascismo, l'aver benedetto, durante la seconda guerra mondiale, le bandiere nere, e l'aver difeso, in nome dell'inamovibilità dell'ordine costituito, i sistemi colonialistici, diffondendo la tesi di un parallelismo e d'una interdipendenza tra cattolicesimo e sistema della proprietà privata, interdipendenza che se venisse ancor adesso

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conclamata universalmente con la stessa energia di qualche tempo fa, minaccerebbe di precludere ogni prospettiva missiònaria non solo nei paesi a regime socialista, ma anche in quelli numerosi del terzo mondo, che secondo varie gradazioni sono avviati sulla strada delle espropriazioni e delle limitazioni della prepotenza individuale.

L'opera di Paolo VI e la sua visita ad arabi ed ebrei sembra dunque inserirsi in questo complesso e fosco retroscena, oltre che essere motivate da interessi ecumenici di cristiano riavvicinamento e dalla più banale aspirazione di veder grandiosamente conclamate la magnificenza e la umiltà (!) della cattolicità e del suo vicario. E tutto ciò non viene meno anche se Montini era, non molto tempo fa, cosi lontano dall'immaginare l'odierna peregrinazione da dichiarare nella lettera pastorale all'Archidiocesi ambrosiana per la Quaresima del 1962, che, in occasione del Concilio «un carisma di profezia animerà l'urbe, la città umana si tramuterà in città di Dio. Roma diventerà Gerusalemme» (la sottolineatura è nostra).

Tuttavia, se queste erano le finalità, più modesti appaiono i risultati ottenuti, a partire dai molti inchini scambiati alla partenza dall'Italia e al ritorno in Italia, e dall'enorme spreco di mezzi aerei, automobilistici e di telecomunicazione che ancora una volta, secondo uno sbaglio di prospettiva, sovente commesso dagli addetti al protocollo

[457] italiani e vaticani, sono serviti a stupire, a intimidire, a marcare le differenze, più che a commuovere e a creare simpatia. (A proposito di tutto ciò, ci piacerebbe sapere se la delegazione socialista al governo è stata interpellata e ha consentito a spendere, per esempio, centinaia di milioni - si parla di 800 - per creare, grazie all'abilità dei nostri tecnici e alla potenza degli altoparlanti forniti dalla radio-televisione della Repubblica italiana, f0lklore e fittizia euforia per le strade di Amman e della città vecchia di Gerusalemme).

Contradditori ed esitanti ci sono sembrati nel complesso gli echi destati dagli incontri principali: con re Hussein il 4 gennaio, con il presidente israelita Shazar, con il patriarca della Chiesa ortodossa di Costantinopoli, Athenagoras e con il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Benedictos, il 5 e il 6. In realtà la magniloquenza retorica e la preziosità stilistica dei saluti e degli omaggi sono venute perdendo la loro capacità di far presa sulle masse dei semplici e sulle élites dei dotti. Inoltre, quanto suonarono pacifiche e convincenti, ad esempio, le parole di re Hussein che negli anni scorsi ha gettato nelle galere metà degli abitanti del suo regno? Come si può immaginare che l'evocazione - invero non del tutto di buon gusto - della memoria di Pio XII effettuata da papa Montini la sera del 5 gennaio nell'accomiatarsi dal Presidente israeliano, abbia trovato consensi, oltre che tra gli accompagnatori ufficiali (tra i quali, secondo Haarez, si trovavano dignitari quali il console di Israele a Milano Astorre Mayer, paternalistico padrone della comunità ebraica ita- liana, oltre che di industrie in Italia e in Israele), anche nella popolazione ebraica vera e propria?

Giacché, in fin dei conti esattamente qui stia il limite del tentatlivo vaticano di rinnovamento: la tematica che si vor-

[458] rebbe nuova è avviata e sviluppata con gli stessi ceti di un tempo e conservando, in sostanza, l'apparato delle precauzioni e delle cautele di sempre; a queste condizioni come è dunque possibile che il mesaggio assuma consistenza, in- cida sulla &Ocietà, divenga realmente operante e attivo?

Che ben poco sia per ora mutato risulta dallo stesso atteggiamento generale assunto dalla Santa Sede verso la terra del primo e del secondo testamento. Sono note le polemiche e le discussioni, sollevate specie da parte protestante contro il

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persistere nella cattolicità d'una intenzione sminuitiva nei confronti del Vecchio Testamento che avrebbe finito con l'assumere, a confronto con gli Evangeli, una posizione in sottordine e continuerebbe a venire letto e studiato tra i seguaci della Chiesa di Roma in maniere non milito più rigorose di quelle indirette e imprecise lamentate da Martin Lutero nel 1517. Ora nulla sembra indicare che il pellegrinaggio papale sia stato felice occasione per portare a mutamenti in questo ordine di questioni, nulla sembra indicare l'emergere d'una volontà di «recupero» della prima parte della Bibbia e d'un desiderio d'accostamento al Pentateuco e agli altri libri sacri più antichi. Il fatto che Paolo VI calcasse non solo le orme che avrebbero tracciato Gesù e suoi compagni, ma anche Giuseppe e i Maccabei, Davide e Salomone è apparso solo in maniera indiretta e di sfuggita, quantunque recentissime ricerche archeologiche nelle fortezze ebraiche del deserto del Neghev abbiano ancora ultimamente portato al rinvenimento di papiri di straordinario interesse anche dal punto di vista dell'esegesi biblica. Questo non casuale distacco, quasi noncurante, per ricordi e reliquie che pure dovrebbero essere amorosamente venerate del credente cattolico ci sembra significare non secondaria conferma di un riserbo sostanziale e della mancanza di passi significativi da parte di Roma

[459] non tanto in direzione di altre fedi e confessioni con le quali peraltro si vorrebbe trattare, ma di quella genuinità e di quella accorta dirittura che paiono le qualità migliori per bene predisporre, o meglio, per bene predisporsi, alla conversazione, alla comprensione e all'apertura.

Da quanto si è sin qui detto pensiamo risulti abbastanza evidente l'insieme di contraddizioni, di timori e di velleità che sembra contraddistinguere l'azione della Chiesa cattolica in questo periodo di tentativi ed esperimenti. Ma la presente occasione richiede un accenno pure alla condizione in cui si trovano altre fedi religiose - la musulmana, l'ebraica, le cristiane separate - con gli esponenti delle quali le più alte gerarchie cattoliche si sono in questi giorni intrattenute.

Per quanto riguarda la fede musulmana - che non va considerata un blocco unitario, perche frazionata in varie sette, tra le quali ricordiamo la sunnita (la principale), la sciita, i kharigiti, gli ahmaditi ecc. - il problema essenziale è, ai nostri giorni, sintomaticamente quello del rapporto con la critica storica, con la filosofia e con la scienza moderne. Il potere degli ulama o dottori della legge e la loro influenza sulla vita pubblica continuano ad essere molto forti. Ma, d'altro canto, il mondo moderno, ovunque, a poco a poco, sotto l'incalzare delle vicende politico-sociali, li restringe e li corrode. Di qui un complicato lavorio diretto a contrapporsi a ogni innovazione, oppure a ricercare gli opportuni adattamenti, oppure a impegnarsi in uno sforzo di riscoperta del vero Islam. Secondo lo studioso Alfred Guillaume, i nuclei islamici più sensibili a questo tipo di problematica si sentirebbero spinti a lottare per i seguenti obiettivi: essere sinceri interpreti dell'ambizione dell'Islam a riconquistare la perduta gloria culturale, presentare una nuova interpretazione dell'Islam adatta alla mutata condizione

[460] del mondo, analizzare criticamente la situazione presente dissotterrando i tesori del passato islamico, avviare uno scambio di opinioni tra le sezioni dell'universo islamico per giungere a una concreta fratellanza spirituale di tutto l'Islam. (129) Non minori sono le tensioni e le divergenze nel campo ebraico. Qui però il contrasto principale è tra ebrei ortodossi ed ebrei che conferiscono a ciò che li unisce un valore eminentemente nazionalistico e culturale. Di conseguenza, lo

129 Cfr. A. Guillaume, Islam, Bologna, Cappelli, p. 178.

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Stato di Israele continua a ondeggiare tra due indirizzi assai differenti senza aver ancora trovato un effettivo equilibrio: trasformarsi in uno Stato teocratico, che impegni rigidamente i suoi cittadini all'osservanza dei precetti della religione, oppure divenire uno Stato ebraico che non è più riconosciuto per tale proprio dagli israeliti attaccati alla lettera degli antichi precetti della fede.

Infine, per ciò che concerne i cristiani orientali, va in primo luogo sottolineato la loro divisione causata in varie riprese, da molteplici cause storiche: le polemiche sulla natura del Cristo, quelle del VI secolo dell'era volgare, la penetrazione della fede in paesi «barbari» e lontani da Roma e Costantinopoli (come l'Armenia, la Georgia, i Balcani), che provocò la nascita di una ritualistica locale e di tendenze autonome, la progressiva differenziazione tra cristianità greca e romana, che si manifestò con lo scisma del 1054, ecc. Conseguenza di tutto ciò è l'attuale condizione caratterizzata, nella fascia geografica che va dall'Egitto alla Turchia, ai paesi slavi, da un insieme disparato di confessioni (ortodossa, monofisita, nestoriana) suddivise a loro volta secondo differenti riti (bizantino, copto, armeno siriano, maronita ecc.). In corrispondenza con ciascuna di queste ripartizioni, sono in tutto una ventina, rigorosa-

[461] mente gelose della loro autonomia (o autocefalia), esistono poi consigli di vescovi (o sinodi), con potere di decidere e che eleggono ognuno un patriarca (Cristoforos II, papa e patriarca d'Alessandria, della Libia, della Pentapoli, d'Etiopia e d'Egitto; Teodosio IV, patriarca d'Antiochia, della Cilicia, della Siria e dell'Arabia; Benedictus, patriarca di Gerusalemme e della Palestina; Alexis, patriarca di Mosca; Cirillo I, patriarca di Bulgaria ecc.).

Le chiese cristiane dell'Europa orientale, dei Balcani e del Medio Oriente da tempo sono all'opera per tentare di concordare con il principio dell'indipendenza quello dell'unità; ciò al fine di arrestare la loro progressiva, ma netta decadenza causata dalle trasformazioni sociali che hanno investito l'Europa orientale e dalla ripresa araba che sembra avvenire al di fuori, se non in contrasto, di un qualsiasi contatto con la tradizione di Bisanzio-Costantinopoli.

A parte dunque le finalità più evidenti dell'incontro di Paolo VI con Athenagoras e Benedictos, che cosa è emerso di comune, in questa contingenza, a tutte queste forme di religiosità che rendono tanto vivace e contraddittoria l'area medio-orientale? Sia pure in termini sintetici crediamo possibile avanzare qualche elemento per soddisfare il quesito. In genere, ciò che ovunque pare venuto deteriorandosi e perdendo forza e interesse sono il mito, i dogmi, l'ingiunzione assoluta e indiscutibile. Mentre il modo di vita «all'americana», con i suoi imperativi del successo a ogni costo, della meccanizzazione, del divismo è andato dilagando, quale espressione del capitalismo più prepotente e dinamico (e nel Medio Oriente - dalle interferenze in Turchia e Grecia e dagli aiuti all'americanofilo Athenagoras, ai sussidi allo Stato d'Israele, all'intervento nel Libano, alla presenza nell'Arabia Saudita - l'America di Dulles e di Kennedy è ben presente), si pone a ogni credente, a ogni

[462] autorità religiosa il dilemma se accettare l'adozione in nome della conservazione d'un potere in declino, di sistemi e metodi palesemente antiumani oppure se, in nome dell'uomo, si debba rivoharsi a tutto ciò e prepararsi ad andare incontro al futuro a viso aperto e con fede.

Non sappiamo in quale misura Paolo VI abbia avvertito queste necessità: non ci risulta infatti, che nei suoi numerosi discorsi invitanti alla pace si sia sentita vibrare quella nota d'urgenza e di inevitabilità che in questa epoca di morte o di pace

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atomica sarebbe stata necessaria; non è dato inoltre sapere se il pellegrinaggio sia stato, nelle intenzioni del suo autore, più una proiezione verso il futuro o più un rilancio e un disseppellimento di modi e di gesti d'un passato assai lontano. Tuttavia, per noi che con sincero interesse abbiamo seguito i passi del vescovo di Roma, questa esigenza di chiarificazione, questa urgenza di verità, questo disperato e virile bisogno di autentica pace, di autentica giustizia che proviene dalle masse e dai popoli e che le religioni non riescono a esaudire, ha suonato di conferma e di sprone.

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Giordania, Siria ed Egitto dopo la guerra dei «sei giorni» (130) I

Se si considerano le iniziative e le mosse dei capi di Stato arabi nel presente

periodo, appare evidente come uno di quelli più impegnati nella discussione sulle cause ed i risultati della sconfitta militare sia re Hussein di Giordania. Ciò non è casuale: tra i paesi che hanno subito le conseguenze dell'attacco israeliano, la Giordania è indubbiamente quello che ha subito le perdite territoriali ed i danni materiali più gravi; è inoltre quello dove il problema dei profughi si profila più acuto e doloroso. Non v'è quindi da stupirsi se il sovrano giordano esplica in questi giorni una intensa attività diplomatica, si sforza per portare avanti la sua proposta d'un «vertice» tra gli Stati del Medio Oriente, rilascia interviste e si reca personalmente all'ONU per illustrare la gravità della situazione in cui versa il suo regno.

D'altro canto, rispetto ai due schieramenti in cui è suddiviso il mondo arabo - paesi avanzati e paesi a regime conservatore - la Giordania occupa un posto preciso, affiancandosi all'Arabia Saudita, al Kuwait, alla Libia, alla Tunisia ed al Marocco, tra quelli più chiusi e retrivi sul piano interno. Se dunque un dato di grande rilievo per lo sviluppo del contrasto arabo-israeliano è l'atteggiamento che assumerà in avvenire il blocco arabo, di puntuale impor-

[464] tanza sarà pure l'orientamento che Amman adotterà in tutta la questione: anche dalle scelte di Amman la polemica ed il dissenso sul destino dei profughi, sulla sistemazione dei Luoghi santi, sull'avvenire dei territori conquistati da Tel-Aviv potranno avere questo o quello sviluppo. Se l'unità araba si configurerà, si qualificherà meglio in termini di lotta antimperialista, se la revisione critica condurrà a riconsiderazioni nei riguardi dell'Occidente, dipenderà in misura non irrilevante anche dai passi del re giordano, il cui paese occupa una posizione strategica non soltanto contro Israele, ma pure nello stabilire una contiguità territoriale tra la Siria sul Mediterraneo e l'Arabia Saudita sul mar Rosso.

Per tentare di avanzare delle previsioni sulla direzione in cui si potrà muovere Hussein in futuro è però indispensabile valutare meglio il peso economico e la qualità della sconfitta sopportata. I territori perduti costituivano in concreto quella parte della Palestina che il vecchio regno di Transgiordania era riuscito ad occupare ed inglobare nel 1948-'49 durante la guerra d'indipendenza israeliana. Contravvenendo - parallelamente agli scavalcamenti israeliani - alle disposizioni dell'ONU tendenti a creare sulla area della antica Palestina due entità, l'una araba,

130 In Rinascita, n. 26, 30 giugno 1967; n. 25, 23 giugno 1967; n. 28, 14 luglio 1967.

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l'altra israeliana, unite da vincoli economico-federali, la monarchia di Amman, vent'anni fa, iniziò la guerra contro gli ebrei in chiave puramente espansionistica e, rivaleggiando con i capi di allora degli altri Stati musulmani, riuscì a prendere di fatto possesso di zone eccezionalmente importanti. Ottenuto il controllo sulle due rive del Giordano non mutò infatti solo la dimensione geografica del regno: ad una parte orientale, estesa, ma quasi tutta desertica e scarsamente popolata, s'aggiunse una parte occidentale, assai più piccola come area, ma fertile, molto più ricca di acque, densamente popolata da una gente attiva e vivace.

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Centri pieni di fervore come Jenin, Tulkarem, Ramallah, Latrun, Betlemme, Gerico, Hebron, oltre alla parte vecchia di Gerusalemme, giunsero a dare una vera e propria nuova dimensione allo Stato in cui erano stati incorporati: la tradizionale aspirazione della dinastia di governare su un territorio non solo più ampio di quello affidatole dopo la prima guerra mondiale dalla Gran Bretagna, ma politicamente, economicamente e culturalmente più valido sembrava raggiunta.

A parte però lo spirito espansionistico, l'allargamento territoriale ottenuto dal re Abdallah, come ogni arabo ed in primo luogo ogni arabo della Palestina sa, non venne mantenuto nel '49 solo a spese degli alleati irakeni, egiziani e siriani e con lo scarso impegno anti-israeliano della Legione araba transgiordana su determinati fronti. La spregiudicatezza, per un verso, i consigli ed i suggerimenti della Gran Bretagna, per un altro, certo non lo spirito democratico, indussero addirittura il sovrano a vari contatti con la controparte: la Gran Bretagna - che in quel tempo attraverso Sir John Glubb (Glubb pashà) ed altri esperti militari controllava in modo diretto l'esercito transgiordano - vedeva di buon occhio ogni ampliamento del regno perche in tal modo aumentava pure la propria zona d'influenza e quindi favoriva in particolare l'avvio di conversazioni dirette tra Abdallah e i suoi ministri, da una parte, sionisti ed esponenti del governo israeliano, dall' altra. Fu questo il retroscena diplomatico che portò nel novembre 1947 ad un incontro segreto tra il sovrano e la signora Golda Meyerson (più tardi Meir, futuro ministro degli Esteri israeliano) e, nel marzo 1949, sulla base d'un primo contatto tra il colonnello el-Tel ed il generale Moshe Dayan, comandanti gli opposti schieramenti sul fronte di Gerusalemme, ad una altra serie di conversazioni tra Abdallah ed esponenti del

[466] governo transgiordano ed importanti rappresentanti del governo di Tel-Aviv (Igal Yadin, Walter Eytan, Moshe Dayan, Reuven Shiloach e Jehuda Harkabi), conversazioni che costituirono la base dell'accordo armistiziale di Rodi.

Ora, da un punto di vista di principio, parrebbe non potersi criticare quella ormai lontana convergenza arabo-israeliana. Eppure, qualora se ne osservino meglio le conseguenze, risulta comprensibile l'amarezza che il loro ricordo desta nella maggioranza degli arabi palestinesi, amarezza che portò uno di costoro ad assassinare lo stesso re Abdallah il 20 luglio 1951. In concreto, grazie a quegli accordi, il sogno d'uno Stato palestinese autonomo, auspicato pure dalle Nazioni Unite, in una parte almeno del territorio, veniva spazzato via: dove non c'erano gli israeliani, ci sarebbe stato il controllo reazionario ed oscurantista della monarchia hascemita.

Il mezzo milione di abitanti dei territori incorporati, insieme al mezzo milione di profughi, vedevano sacrificati la loro aspirazione indipendentistica e i loro desideri di riforme sociali alle manovre d'un sovrano senza scrupoli che venendo meno alla solidarietà inter-araba, patteggiando con gli israeliani, sostenuto dalla Gran Bretagna accettava, per suo esclusivo tornaconto, la nuova delimitazione

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confinaria. Sia pure schematizzando alquanto la nuova situazione - tra gli arabi palestinesi non c'era ovviamente una unanimità assoluta di idee, bensì, proprio per il loro alto livello di consapevolezza politica, esisteva ed esiste un arco abbastanza vasto di posizioni - è da quell'annessione la quale, sancendo il successo israeliano, affossava almeno per un certo periodo la prospettiva dei due Stati da istituire nel territorio palestinese, che è scaturita tra la popolazione palestinese passata sotto sovranità giordana una permanente tendenza all'opposizione. Dal 1949 in poi, in numerose ri-

[467] prese (l'ultima fu nel novembre scorso in occasione dell'incidente di frontiera a Samua) la maggioranza della popolazione al di qua del Giordano manifestò vivacemente - con le dimostrazioni, con i tentativi insurrezionali, con l'azione propagandistica clandestina - la sua avversione al destino che le era stato imposto: i territori annessi, in breve, divennero un permanente rompicapo per Hussein, succeduto al padre. Per un verso apparivano la parte più preziosa del regno, per un altro continuavano ad essere anche quella più insofferente del regime, più desiderosa di trasformazioni e con frequenti sussulti repubblicani.

E' secondo questa impostazione che va giudicata l'attuale situazione e cioè il rapido distacco che all'indomani della sconfitta sembra tornare a profilarsi tra Hussein ed i paesi arabi più avanzati, le insinuazioni non prive di qualche addentellato reale su un ripetersi, ma in conformità con la mutata contingenza, d'una concordanza tra governo di Tel-Aviv e governo di Amman, il rilancio della proposta israeliana per la costituzione di una entità autonoma negli ex-territori giordani. Vediamo di meglio precisare che cosa si nasconda dietro questo complesso intrecciarsi di linee diplomatiche, di intrighi politici e di sforzi per imbrogliare ancor più le carte.

In effetti re Hussein di Giordania, che pure in questo conflitto è stato costretto dalla forza unitaria dello schieramento dei paesi arabi a scendere in lotta a fianco della RAU e della Siria, appare in una condizione critica: puntare al recupero puro e semplice delle zone perse appare difficile anche perche tali zone non lo volevano e non lo vogliono come sovrano; d'altro canto una rottura del fronte unitario arabo anti-israeliano, con tentativi di riallacciare con l'estrema destra di Dayan il dialogo già avviato da suo nonno, suonerebbe non la spaccatura d'un blocco dalle finalità set-

[468] tariamente nazionalistiche, ma il venire a patti con le correnti più aggressive, neocolonialiste e filo-imperialiste del campo avverso. Da queste difficoltà sembra nata l'idea d'un incontro al vertice tra i massimi dirigenti arabi: non per arrivare a chiarimenti, non per prendere deliberazioni comuni e neanche con la speranza di convincere altri dirigenti diversi da quelli che oggi come ieri sono già più o meno disposti al cedimento.

Il vertice arabo patrocinato da Hussein avrebbe in verità lo scopo concreto di dar via libera alle manovre sovrane con l'avallo d'una unità araba formale e fittizia: Hussein, in questo modo, potrebbe aspirare a realizzare ciò che vuole, senza subire attacchi e critiche dai movimenti arabi più avanzati. In nome della idea della genetica unità araba, priva di contenuti antimperialisti e superficialmente agitatoria, il sovrano giordano starebbe dunque operando un serio sforzo per riassestare il proprio regno: ridimensionata territorialmente, gravata da una massa di profughi (avviliti, ma desiderosi di rientrare nelle loro case, sconvolti, ma dotati di profonda consapevolezza politica) la monarchia giordana traballa adesso paurosamente ed è

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indispensabile per essa arrivare al più presto ad un assestamento e ad una iniziale riorganizzazione.

Ottenuto l'avallo dei capi arabi, il piano di Hussein potrebbe puntare ad un nuovo accordo con la destra israeliana, di nuovo sulla testa dei legittimi abitanti della Palestina? Pur di salvare il trono, un sovrano che non ha esitato più volte a puntellarlo con le armi o i denari inglesi ed americani, potrebbe anche essere disposto a farsi proteggere da coloro che al momento appaiono i più forti. Se il governo israeliano patrocinasse la creazione nelle zone palestinesi recentemente occupate di uno Stato arabo cuscinetto e vassallo, magari in cambio di qualche privilegio o «sus-"

[469] sidio» economico, Hussein esiterebbe ad appoggiarla? In altre parole, insidiato dalle opposizioni interne, gravemente impacciato dalla presenza d'un milione e più di profughi palestinesi recenti e remoti, il regno di Giordania, invenzione artificiosa delle potenze coloniali all'epoca della prima guerra mondiale, potrebbe soggiacere alla tentazione di sostenersi anche facendo ricorso alle manovre neocolonialiste della destra governativa israeliana.

L'ansia d'uscire dalla crisi può dunque indurre Hussein alle peggiori concessioni: non si tratta minimamente del riconoscimento d'una realtà di fatto, non v'è la speranza d'un'autentica presa di coscienza dei problemi, ma sarebbe l'inserimento d'una fetta del mondo arabo nella sfera d'influenza degli eserciti israeliani. Con la stessa spregiudicatezza con cui la corte di Giordania aveva avallato, di fronte alle pressioni dell'opinione pubblica interna, lo spettacoloso riavvicinamento alla RAU, non ci sarebbe da stupirsi che, sulla scia dello slancio obiettivamente fornito dalla vittoria israeliana alle correnti filo-occidentali esistenti tra gli arabi, i medesimi personaggi accedessero all'idea d'una temporanea supremazia israeliana, all'interpretazione dei rapporti con Israele in chiave di sottomissione ai portavoce prediletti della Casa Bianca.

Questo tipo di osservazioni trova un'ampia base negli orientamenti adottati dalla monarchia di Giordania nei mesi scorsi; senza risalire troppo indietro, le notizie circa gli aiuti forniti dagli Stati Uniti, ad esempio, risultano numerosissime: nel dicembre 1966 il governo di Washington concedeva un prestito di 15 milioni di dollari, il 17 gennaio scorso era firmato un accordo per un altro prestito superiore ai tre milioni di dollari destinato all'ampliamento dell'aeroporto di Gerusalemme; il 20 febbraio il Tesoro giordano riceveva tre milioni e mezzo di dollari a titolo d'aiuto

[470] americano. Contemporaneamente arrivavano cospicue forniture militari: intorno ad esse scoppiava una polemica perche taluni organi di stampa insinuavano che fossero pagate con i soldi stanziati dalle Conferenze al vertice arabe per consolidare la sicurezza della Giordania. Amman smentiva, ma in concreto in quel torno di tempo decine di aerei sbarcavano armi americane d'ogni tipo: cannoni, attrezzature per il genio, obici da 105 mm., aerei a reazione da combattimento accompagnati da specialisti e tecnici americani per addestrare i piloti.

Di fronte a questo tipo di fatti la prospettiva in cui si situa l'opera dei governi che si succedono alla corte di Amman acquista caratteri ben definiti: si consolidano i rapporti con la Corea del sud (visita il 18-20 novembre 1966 del ministro degli Esteri sudcoreano Tung Wong-lee), si decide di non riconoscere più il governo repubblicano dello Yemen (18 febbraio), si ristabiliscono i rapporti diplomatici con la Germania occidentale (27 febbraio) che erano stati interrotti nel maggio 1965. A queste iniziative s'accompagnano all'interno frequenti echi di disordini e manifestazioni antigovernative (Nablus, per esempio, sarebbe stata teatro di un

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susseguirsi d'incidenti durato, all'inizio di quest'anno, per settimane intiere) e da continue repressioni (in marzo, grazie alla nuova legge sulla stampa, il numero dei quotidiani è stato ridotto da cinque a tre, tutti con diretta partecipazione del governo al loro finanziamento).

La sconfitta subita ad opera dello Stato d'Israele, lungi dal dissuadere, potrebbe accentuare la spregiudicatezza reazionaria di Hussein; questa è un'ipotesi logica, se alla luce d'un passato indiscutibile è possibile tracciare delle previsioni .

Toccherà piuttosto e ai dirigenti arabi più avveduti

[471] ed alle organizzazioni più o meno clandestine che continuano ad operare in Giordania, lavorare affinche non si arrivi ad una sistemazione esclusivamente apparente, ma in realtà fonte inevitabile di future gravi complicazioni. Certo esistono tra gli arabi ed anche tra i sudditi della Giordania svariate opinioni: ed in questo ambito non v'è da escludere che alcuni risultino persino accecati dall' efficienza israeliana e disposti ad inchinarvisi. Ma è chiaro che imboccando questa strada è l'intero movimento d'indipendenza e di rinascita araba che si mette in discussione.

Per tutto questo, nella prospettiva d'una via araba alle trasformazioni economiche e sociali, nella prospettiva d'una soluzione che valga a salvare il suo trono, che non pregiudichi la questione di Gerusalemme, che lo sostenga nella questione dei profughi, della delimitazione dei confini, la posizione di re Hussein risulta in parte dettata da una condizione interna e internazionale - di unità anche con gli altri paesi arabi - che la guerra ha contribuito a rendere particolarmente ardua. Ancora una volta, come nel 1922, come nel 1949, la dinastia penserà ai propri affari e amministrerà il proprio popolo come fosse una proprietà privata? Ma questo non servirebbe minimamente ad un effettivo appianamento delle contraddizioni, non favorirà il ripensamento che pure sta avviandosi nel mondo arabo, a partire dagli uomini di cultura e dai politici più attenti. Del danno - come elemento di confusione e di cedimento - che può derivare alla causa araba da un accostamento giordano ad Israele, Dayan ed i suoi amici sono perfettamente consapevoli: sarebbe un insperato avviamento, secondo i loro piani, ad ulteriori rotture e divisioni nel raggruppamento avversario. Per questo, apertamente o con sondaggi nascosti moltiplicheranno le offerte in tale direzione.

Tuttavia, quali che possano essere i momentanei suc-

[472] cessi d'una simile operazione, spetterà alle forze progressiste esistenti farla fallire in ultima analisi: accettando se del caso la rottura dell'unità fittizia alla quale Hussein stesso si richiama, lavorando in profondità e puntando invece alla costruzione d'una unità dei popoli, non più solo dei governi.

II Uno degli obiettivi di fondo dell'attacco israeliano ai paesi arabi era quello,

come è stato più volte sottolineato, di provocare la caduta dei governi della RAU e della Siria, dei governi cioè che oggi appaiono tra i più aperti socialmente e tra i più decisi nell'azione anticolonialista ed in favore d'un'autentica indipendenza nazionale. In effetti poco o nullo è il fastidio che i regimi ancora legati ai sistemi monarchici e feudaleggianti (come ad esempio il governo giordano) possono dare ai piani di controllo militare ed economico della zona: è invece l'effettivo sforzo per

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sottrarsi alle egemonie ed alle protezioni straniere, dò che incide e disturba. In questo ambito, se le conquiste della rivoluzione egiziana del 1952 appaiono abbastanza consolidate e si intravvede al di là dell'attuale gruppo dirigente, un fermento di idee e una dialettica di forze di ricambio che potrebbero avvicendarsi alla direzione del paese probabilmente senza mettere in rischio di totale demolizione i risultati di un quindicennio di governo repubblicano, differente è la situazione nella Siria.

In Siria il nucleo di personalità che attualmente controllano il paese, appare abbastanza eterogeneo: non essendosi mai prodotta una frattura storica analoga al passaggio dalla monarchia alla repubblica, al contrario essendosi la

[473] lotta politica stemperata, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, in un susseguirsi di colpi di mano, di rivolte militari, di ribellioni, di inani tentativi parlamentaristici, per il presente governo risultava e risulta arduo qualificarsi, impegnarsi in consistenti riforme, guadagnarsi in permanenza l'appoggio della maggioranza della pubblica opinione.

Va però subito detto che le previsioni pessimistiche secondo le quali l'avanzata fino in prossimità di Damasco avrebbe inevitabilmente portato alla caduta di Atassi e Zouayen, non si sono avverate. La liberazione dalla prigionia, al momento dell'invasione, di el-Hafez e di Omrane, tra i massimi esponenti abbattuti il 23 febbraio 1966, in nome dell'esigenza di ricostruire al più presto la più ampia unità nazionale, aveva sul momento fatto temere una sorta di cedimento politico: al di là della necessità di chiamare tutti alla lotta contro l'attacco militare, vi sarebbero state un'offerta di compartecipare al governo e un'intenzione di rivederne parallelamente i programmi? In effetti, passato il periodo di maggiore tensione e di più drammatico pericolo, el-Hafez ed Omrane sono stati lasciati sì liberi, ma di andarsene nell'esilio dorato di Beirut: il ministero è rimasto invariato e le sue linee d'attività non risulta abbiano subito sostanziali correzioni. Dunque, al momento della prova, il regime siriano ha retto, le masse popolari l'hanno sostenuto, gli oppositori occulti - che certamente non mancano - non hanno avuto la energia o la possibilità di far scattare i piani eversivi, e le prospettive d'attività per il futuro, lungi dall'essere compromesse, appaiono sostanzialmente aperte al successo.

Proprio partendo dallo scacco subito dagli aggressori (la inattesa resistenza del governo di Damasco) risulta quindi di notevole interesse avviare qualche osservazione

[474] sull' ambiente politico siriano, quale è oggi, e sui suoi retroscena. Quando, ad esempio, Noureddine al-Atassi, capo dello Stato e segretario generale del partito Baath, il 7 febbraio scorso, commemorando le insurrezioni effettuate dal Baath stesso in Irak e Siria nel 1963, dichiara too l'altro: «Allorché noi, a nostra volta edifichiamo le basi materiali della costruzione socialista, ci troviamo portati da una fede profonda ad agire nell'interesse dell'intiera classe lavoratrice araba, perche noi siamo decisi a mettere tutte le risorse del paese al servizio della rivoluzione araba universale», ci si sente infatti vivacemente curiosi di meglio conoscere che cosa vi sia dietro le affermazioni, indubbiamente suggestive, in favore d'uno sviluppo socialista per la Siria ed in appoggio di una trasformazione rivoluzionaria dell'intero raggruppamento arabo. In che cosa consistono i programmi di edificazione socialista? Come praticamente si intende procedere per un'azione comune insieme agli altri paesi arabi più dinamici?

Prima di soffermarsi su questi interrogativi è però indispensabile ricordare il tipo di struttura economica e sociale con la quale il governo siriano deve misurarsi.

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La Siria, innanzitutto, sottoposta per decenni al controllo coloniale francese, non ha potuto a lungo neanche pensare ad avviare un rafforzamento economico in direzione dell'industria. Investita dalla pressione d'una larghissima importazione concorrenziale, in parte forzosa, la debole industria locale dovette far fronte ad un faticoso processo di riconversione ed adattamenti, abbandonando metodi e ritmi di produzione tradizionali, diminuendo come entità e cercando di consolidarsi qualitativamente. Così, in pratica, pur migliorando la sua efficienza, sin verso gli anni '50 l'industria siriana, rispetto al numero degli operai impiegati, risultava stagnante o con scarsi incrementi. In breve, in quell'epoca

[475] su circa 3 milioni e mezzo di abitanti, non più di 60-70.000 erano legati all'attività industriale. Il resto della popolazione attiva lavorava nell'agricoltura, in alte percentuali articolata su piccole e povere aziende, nel commercio, nell'artigianato. Questo tipo di stratificazione sociale, schematicamente riassunto, s'accompagnava e s'accompagna con un notevole frazionamento dal punto di vista etnico e specialmente religioso (si contano, ad esempio, circa mezzo milione di cristiani, 355.000 alauiti, 100.000 drusi ecc.) e con una brillante tradizione di attivismo politico.

I problemi dell'impostazione d'un corretto programma di trasformazioni economiche e d'emancipazione da ogni ingerenza esterna, risultano di conseguenza assai complessi. Quantunque gli operai tutto sommato, siano oggi circa 200.000 manca, qui, un mondo contadino compatto e rivolto verso un preciso tipo di riforme (quale ad esempio c'è in Egitto): c'è, di contro una discreta diffusione della cultura, e c'è, perciò una considerevole abilità dialettica e sottigliezza nell'intuizione politica: ma da tutto questo deriva una forte spinta alla dispersione, una sovrabbondanza delle parole rispetto ai fatti, una ristrettezza di disponibilità di quelle dense masse umane che, una volta messe in movimento, riescono a dare coerenza e chiarezza anche ad iniziative sul principio incerte e a provocare una svolta ed un balzo di qualità nelle scelte e nelle decisioni.

In concreto per molti anni la lotta tra i diversi partiti e le svariate tendenze ha avuto caratteri ambigui: in omaggio ad una tradizione riformistica e impegnata nella ricerca d'una piena indipendenza nazionale, le affermazioni spesso risuonavano combattive e innovatrici, la pratica, invece, risultava attardata dai cedimenti, dalle pressioni particolaristiche, dagli intrighi delle famiglie influenti. Nella recente storia siriana, così, non sono neanche mancate le organiz-

[476] zazioni che si ispiravano all'attivismo fascista e che in nome d'un nazionalismo esasperato finivano coll'appoggiarsi sull'Occidente e col favorire ogni atteggiamento e deliberazione anti-operaia.

D'altro canto, nell'incalzare dei problemi concreti, le forze di sinistra avevano modo di allargare la loro influenza e di premere sui governi che via via si succedevano, con notevoli risultati. Già dieci anni or sono, nell'estate 1957, contro la Siria dove la sinistra imprimeva una spinta sempre più evidente al paese, si organizzarono manovre di destra a largo raggio in cui si trovarono coinvolti il governo turco di allora, gruppi filo-americani locali e la Sesta flotta americana. Dieci anni fa quei propositi vennero stroncati anche con la creazione insieme all'Egitto, della Repubblica araba unita. E però - per un complesso di motivi - quell'esperimento unionistico salutato con tanto entusiasmo, doveva dimostrarsi del tutto prematuro: poco tempo dopo, nel 1961, la Siria riprendeva la sua libertà d'azione e riprendeva anche il faticoso ed oscuro lavoro delle varie correnti di cui si compone lo schieramento di sinistra.

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Sostanzialmente tre sono i movimenti che costituiscono la maggioranza numerica e la parte ideologicamente più valida della sinistra siriana: in primo luogo il partito comunista, che sorto negli anni '20, ha una rilevante consistenza ed atticolazione ed un ricco passato di lotte ed esperienze, il movimento nasseriano, particolarmente forte tra i militari, ed il Partito socialista della rinascita araba (Baath), nel quale confluiscono per un insieme di motivi, intellettuali cittadini, contadini ed artigiani ed un cospiquo numero di militari. Ora, un compito di eccezionale importanza doveva in questi ultimi tempi svolgere proprio quest'ultimo partito: di origine composita, ideologicamente portavoce delle tre parole d'ordine (nazionalismo, unità panaraba, riforme economiche)

[477] che maggiore presa hanno nell'opinione pubblica, incoerente e generico nella sostanza, aperto alle pressioni di sinistra quanto a quelle di destra, proprio a contatto con la realtà del paese, con i problemi irrisolti, con gli insuccessi clamorosi di talune sue iniziative, che maggiormente avrebbero dovuto contribuire a dargli una fisionomia originale, il Baath ha finito con l'essere lo strumento per aprire una pagina nuova nella storia del paese.

Un partito che probabilmente in Europa, per quello che potrebbe definirsi un estremismo avventuristico piccolo-borghese, sarebbe caduto preda dei gruppi capitalistici e avrebbe finito con il divenire docile mezzo per diffondere confusione e in sostanza per frenare e bloccare i fermenti innovatori sparsi un pò dovunque, nell'ambiente medio-orientale ha avuto una sorte assai diversa. E' mancata anzitutto la pressione d'una grande borghesia siriana - poiche una grande borghesia di fatto ancora non esiste - che potesse catturarlo a difesa dei propri interessi; la situazione effettiva del paese e del mondo arabo, così ricca di contraddizioni e di cariche rivoluzionarie, ha impedito inoltre un completo scivolamento sulla destra; l'ala sinistra, infine, attiva e consistente nell'interno del Baath, ha finito col prevalere e con il provocare una conversione d'indirizzi d'estremo interesse.

Per circa tre anni - dal marzo 1963 al febbraio 1966 - una polemica sorda s'è infatti svolta all'interno dal Baath, con frequenti sussulti nel paese e nelle forze armate, con tentativi di contatto con l'Occidente da parte degli elementi più moderati ed allo stesso tempo, con accentuazioni, a volte estremistiche, nel programma di nazionalizzazione dell'economia nazionale. Così, tanto per mettere in evidenza il clima quasi paradossale instauratosi nel '65-'66 a Damasco, merita di ricordare che quasi allo stesso tempo da un lato

[478] il leader del Partito comunista siriano Khaled Baghdash scriveva per il numero del marzo 1965 della Nouvelle revue internazionale, un articolo sostanzialmente d'appoggio alle misure nazionalizzatorie appena adottate, pur sottolineando l'esigenza di confrontarle con un indirizzo di politica generale omogeneo con esse, dall'altro, Salah al-Bitar che di lì a poco sarebbe divenuto capo del governo, si dava da fare a sottolineare l'assoluto distacco del socialismo del Baath dal marxismo, la sua piena «arabicità», la completa identità tra nazionalismo e rivoluzione, inventando la nuova formula, del tutto evasiva, del «nazionalismo rivoluzionario arabo» .

Dopo la sconfitta del 23 febbraio 1966 dell'ala destra del Baath (anch'essa in verità, non unitaria ma articolata in varie correnti, ed alla testa della quale si trovavano Bitar, Aflak e Hurani) e dei militari ad essa alleati (el-Hafez, Omrane), il terzo congresso regionale del Baath (20-30 settembre '66) e il nono congresso inter-arabo, vale a dire delle sezioni del Baath esistenti nei diversi paesi del Medio Oriente (tenutosi anch'esso a Damasco dal 5 al 15 ottobre), sancirono la inversione di

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tendenza in senso progressista. E tuttavia, sia per mantenere i legami con alcuni strati militari e con determinati ceti del paese, sia in omaggio sincero ad una direttiva tradizionale, l'acceso nazionalismo e le proclamazioni bellicistiche, care agli studenti ed agli ufficiali non vennero messi da parte. Così sia per la mancanza d'un chiarimento completo sul piano ideologico, sia per l'esigenza d'istituire un contatto con il paese, allo stesso tempo che le iniziative in campo economico e nelle relazioni con l'Est e con l'Ovest divenivano sempre più qualificanti, si evitava di superare una certa superficialità di visione nazionalistica, di accantonare - ad esempio nei confronti del problema israeliano - una

[479] determinata schematicità di atteggiamenti, di rompere con la fraseologia poco utilmente aggressiva dei precedenti governanti, così come invece s'era rotto con la pratica.

In altre parole la direzione del Baath - membri autorevoli della quale oltre a al-Atassi e Zouayen, sono tra gli altri, il gen. Salah Jedid, il ministro degli Esteri Ibrahim Makhos, Habib Haddah, Mohamed Said Taleb - è riuscita a superare la contraddizione tra affermazioni rivoluzionarie e pratica confusa e poco incisiva che contradistingueva il periodo precedente il febbraio 1966. Specie nel settore agricolo l'elaborazione di misure riformatrici ha fatto considerevoli passi avanti eliminando la velleitaria tendenza a livellare le piccole proprietà e patrocinando invece lo sviluppo della cooperazione e dell'associazionismo tra i coltivatori. Del pari, sotto la guida di Khaled el Jundi, il dinamico presidente della federazione generale dei sindacati, i lavoratori della città hanno assunto in questi mesi un posto d'avanguardia nella vita pubblica svolgendo un compito di primaria importanza oltre che nell'ambito della produzione (per l'attuazione degli obiettivi previsti dal piano quinquennale d'investimenti, ad esempio), quale elemento di fiducia del governo in due o tre momenti di burrasca che si sono registrati negli ultimi mesi.

Nel settore industriale al centro dei progetti si trovano la diga sull'Eufrate, finanziata dall'URSS e la raffineria di petrolio di Homs che sorgerà grazie all'appoggio della Cecoslovacchia: nel futuro non si pensa di procedere affrettatamente ad altre nazionalizzazioni, ma piuttosto, di potenziare le imprese già controllate dallo Stato. Sul piano politico, infine, a differenza dell'esclusivismo d'un tempo, è auspicata, quantunque a titolo personale, la presenza nelle istituzioni statali anche di personalità di sinistra, ma non legate al Baath: s'è dunque iniziata la strada della collaborazione organica pure con elementi di ispirazione marxista.

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Rimane invece quale dato contradditorio l'impostazione coraggiosamente riformatrice per un verso e per un altro l'appello agitatorio che sovente è riecheggiato con concessionial nazionalismo più primitivo. Non cbe non esistano le insidie sul cammino di rinnovamento appena iniziato; tuttavia precisamente la prova dei fatti sembra confermare la cosciente permanenza d'un autentico sostegno popolare al governo dell'ala sinistra del Baath: quindi la inutilità d'un approccio ai problemi dello scacchiere, a volte generico, appare confermata. La convergenza che s'è in questi giorni manifestata tra governo algerino e governo siriano, sembra ribadire, oltre ad una interessante molteplicità di posizioni in seno alle forze avanzate arabe, il livello di consistente progressismo raggiunto dai dirigenti di Damasco. Esattamente in questa luce va vista perciò la possibilità d'iniziative più realistiche ed allo stesso tempo più spregiudicate da parte degli uomini politici giunti al potere un anno e mezzo fa.

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E' pienamente conprensibile che il movimento arabo di liberazione nazionale e di rinascita e per le trasformazioni economiche e sociali, per una serie di cause, a lungo abbia continuato a mutuare nel linguaggio formulazioni e slogans estremamente semplici, capaci di colpire anche i lavoratori più isolati, anche i nuclei più spoliticizzati. E tutta via sarebbe un far torto alle stesse masse lavoratrici siriane che sono scese in difesa del regime, sarebbe un pericoloso dar corda ai nazionalisti più fanatici, portavoce mascherati dell'estrema destra, il non trarre frutto anche dalla drammatica contingenza della campagna militare israeliana per avviare pure in politica esterna l'audace revisione impostata all'interno.

Proprio mentre in Israele, passata l'euforia, non si sa bene in quale direzione muoversi, e già, ad una settimana dalla fine della rapida guerra, s'annunzia con l'avvio della

[481] smobilitazione, la ripresa dei licenziamenti (altro che volontari!) e cominciano ad emergere le notizie circa le persecuzioni a cui sarebbero stati sottoposti durante il rapido conflitto tanto gli arabi della Palestina quanto i comunisti, si apre per i governi aperti a sinistra come quello siriano lo spazio, non per il giuoco puntiglioso e ristretto, ma per ampie ed aperte posizioni politiche.

III Con i suoi trenta milioni d'abitanti, con un sistema industriale relativamente

sviluppato e con un'agricoltura avanzata, nonche per il prestigio internazionale acquisito in un quindicennio d'impegnate battaglie e polemiche internazionali, l'Egitto repubblicano si qualifica come il paese arabo decisivo per giungere a un assetto progredito dell'intero scacchiere del Medio Oriente.

Alla Repubblica araba unita, in riferimento appunto alle responsabilità che le competono nel mondo arabo, s'impone ora - dopo la crisi di giugno - una approfondita critica di tutta l'azione di governo esplicata dai Liberi Ufficiali che, conquistato il potere nel 1952, l'hanno detenuto con continuità. Gli interrogativi si fanno incalzanti e non sarà possibile eluderli: chè cosa non ha funzionato e che cosa c'è stato di sbagliato? La rivoluzione ha camminato in tutti i settori con il passo spedito che si affermava o vi sono stati intralci e inciampi non adeguatamente valutati? Di questo genere sono i quesiti che si pongono gli elementi più qualificati del paese. Ricordando il coraggio che in passato hanno saputo dimostrare gli uomini migliori dell'Egitto nel denunciare errori e carenze, è lecito prevedere che sarà dato assistere nei mesi futuri a un'ampia e documentata autocritica.

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Il governo della RAU, negli anni scorsi, aveva come cardine della propria azione due elementi. In primo luogo v'era una evidente ispirazione di tipo democratico egualitario: alla rinascita nazionale dovevano accompagnarsi le riforme sociali ed economiche, alla indipendenza doveva essere dato un contenuto in termini di aumento del tenore di vira delle masse popolari, di maggiore partecipazione da parte dei semplici cittadini alla direzione del paese, di diritto all'istruzione, di rispondenza tra uguaglianza giuridica ed uguaglianza effettiva. In secondo luogo, partendo dal presupposto che alla testa del paese fossero insediate forze politicamente avanzate e che, di contro, l'enorme arretratezza non potesse permettere risoluzioni miracolistiche e fulminee di secolari miserie, era di fatto

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proclamato quale metodo permanente di governo una sorta di gradualismo. Avanzata quindi verso il socialismo, progresso costante e vigoroso, ma senza inutili e troppo pericolose fratture, senza rischiare passi falsi, senza spingersi troppo avanti su posizioni che sarebbe stato difficile mantenere.

Questa impostazione diede in concreto origine a un'opera di direzione e di governo alquanto oscillante. Vuoi per taluni dissensi all'interno della compagine stessa dei Liberi Ufficiali - dissensi non superficiali, ma riflesso di atteggiamenti e programmi d'attività abbastanza differenziati -, vuoi per la visione pragmatistica dominante alla quale s'è fatto cenno, di volta in volta è prevalsa l'una o l'altra accentuazione. Nel 1956, dopo Suez, vi fu, ad esempio una spinta alla solidarietà internazionale con i paesi di recente indipendenza asiatici e africani e una rinnovata coesione interna sulla base dell'appoggio al governo di gruppi e nuclei di sinistra. Due anni dopo, invece, nel '58, l'affrettata unione con la Siria - giudicata non troppo positiva dallo stesso Nasser - si risolse in una riscossa delle tendenze espan-

[483] sionistiche ein una rottura con quei medesimi movimenti avanzati che poco tempo prima erano stati un sostegno decisivo per le sorti della rivoluzione dei Liberi Ufficiali. Nel 1962 vi fu poi un altro mutamento di tendenze: la fusione con la Siria era fallita, rivelandosi troppo rapida e abboracciata, e fu necessario ripiegarsi sui problemi della costruzione del paese, sulle esigenze della pianificazione, sulle questioni del rapporto tra direzione centrale e periferia dello Stato.

La presente contingenza è dunque da considerarsi anche in conformità con il più recente punto d'arrivo di tutti questi ondeggiamenti. E se è vero che essi in una certa misura sono pure stati dimostrazione d'una opportuna disponibilità di alternative all'interno della cornice nasseriana, nondimeno è possibile comprendere come le diverse tendenze si siano combinate e quale sia stata la risoluzione della contrapposizione dialettica, rifacendosi principalmente alle decisioni adottate cinque anni fa. Nel 1962, infatti, con la pubblicazione della Carta d'azione nazionale, che fu allo stesso tempo documento ideologico e programma politico, si dava vita a un'iniziativa che avrebbe dovuto correggere alle radici alcuni errori precedentemente riscontrati: ebbene, a un quinquennio di distanza, è possibile elencare almeno tre motivi indiretti, ma sostanziali, che in relazione con quelle speranze confermano almeno in parte quei difetti e permettono d'interpretare l'attuale scacco.

In primo luogo, sia il piano quinquennale 1960-65, sia lo sviluppo economico successivo hanno dato risultati insufficienti e si sono dimostrati ricchi di difficoltà parzialmente imprevedibili. Obiettivo del piano era un aumento del reddito nazionale del 40 per cento: l'aumento è stato invece del 37 per cento (in media 6,5 per cento all'anno) con mancato raggiugimento degli obiettivi nell'agricoltura

[484] (83 per cento), nell'industria (78 per cento); nelle costruzioni (76 per cento). ecc. Tale esito non corrispondente alle previsioni dipendeva da una serie di fattori molto complessi che sono stati probabilmente sottovalutati: eccessivo tasso di natalità, aumento superiore al previsto nel numero degli operai, aumento nel costo di servizi pubblici, aumento troppo rapido dei consumi, insufficiente risparmio per finanziamento delle nuove imprese. Nel 1966-67 pesarono negativamente il peggioramento delle relazioni economico-commerciali con gli Stati Uniti e la diminuzione nei raccolti del cotone. Non per caso, nel maggio del 1967, il governo ha deciso di compiere uno sforzo per concentrare gli investimenti in alcuni grandi progetti che dovrebbero arrivare a compimento con una certa rapidità (centrali

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elettriche, bonifiche, diga di Assuan) allo scopo di cercar di alleviare la tensione esistente nel bilancio statale.

Il secondo elemento che ha pesato non favorevolmente si potrebbe definire una certa lacunosità e incompetenza della direzione: mentre l'opera di sprovincializzazione e di rottura delle consuetudini feudali è proceduta meno rapidamente di quanto auspicato, all'interno delle gerarchie del potere s'è probabilmente sviluppato un fenomeno di dannosa burocratizzazione. Non sufficientemente sorretti da un orientamento ideale saldo e chiaro dirigenti politici e responsabili dell'economia hanno in troppo alta percentuale finito con l'adagiarsi nel quieto vivere e nella ricerca della sistemazione personale. Di questo sfasamento s'erano avuti negli scorsi mesi vari sintomi, il più vistoso dei quali fu la formazione del governo presieduto da Sidki Soliman il 10 settembre 1966: compito principale della nuova compagine ministeriale doveva infatti essere quello di intervenire per una riorganizzazione del settore pubblico dell'economia e per avviare con la massima energia e com-

[485] petenza il piano settennale 1965-72. Vinte le resistenze della clandestina Fratellanza mussulmana - organizzazione ultra-conservatrice d'ispirazione religiosa - il governo avrebbe dovuto procedere con rinnovato vigore sia sul piano economico, sia su quello dello snellimento amministrativo e dell'efficienza politica.

Infine alla RAU è venuto in parte a mancare l'appoggio e il riferimento allo schieramento composito, ma significativo dei paesi neutrali e disimpegnati. In altre parole, a causa di una complessa serie di vicende s'è verificata una sorta di sfaldamento del fronte di paesi che all'epoca di Bandung partiva dall'India e dalla Cina per riunire !'Indonesia e via via decine di altri Stati africani e asiatici. Allo stesso tempo che si succedevano le tragedie del Congo, della Rhodesia, del Ghana, più ristretto diveniva l'ambito degli alleati più naturali dei paesi arabi avanzati, più ardua la possibilità di tracciare una politica estera di solide alleanze e di utili convergenze. La crisi degli Stati afro-asiatici di recente indipendenza, crisi su cui tutte le forze progressiste devono riflettere, non poteva non riverberarsi in modo particolare sul Cairo, che dell'azione afro-asiatica era stato ed è uno dei centri più vitali.

Questo triplice nodo di difficoltà - la pesantezza economica, l'incertezza nella direzione politica, le incertezze nel raggruppamento afro-asiatico - ha, a nostro avviso, pesato in modo decisivo nelle impostazioni del Cairo dell'aprile-maggio scorsi. Non si tratta tanto di spiegare l'esito d'uno scontro militare, quanto di avvertire come si sia giunti alla battaglia. Si tratta di rendersi conto come l'azione diplo- matica dell'Egitto si sia spiegata di fatto, alla vigilia dell'attacco israeliano, praticamente nel vuoto.

Tra parole e fatti, tra iniziative diplomatiche e azioni concrete s'è aperto - all'inizio di giugno - un drammatico

[486] iato: ed è in questo varco, involontariamente offerto dagli stessi egiziani, che si sono precipitati i carri di Dayan. In altre parole, come ogni onesto osservatore riconosce, la vittoria militare israeliana non è che il frutto delle moderne tattiche di guerra, tattiche che differiscono notevolmente, anzitutto per le modifiche intervenute negli armamenti, da quelle della seconda guerra mondiale: nella loro efficiente insensibilità - degna della «catena» d'una moderna azienda industriale - le truppe israeliane hanno offerto un piccolo saggio di che cosa abbiano recato alla strategia bellica venti anni di progresso bellico. Ciò su cui invece bisogna insistere e tornare a riflettere è su quella curiosa combinazione di malessere economico, di

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tardiva revisione politica e di relativo isolamento che ha portato la RAU a essere in grado di vincere una divergenza sul piano diplomatico e a perderla invece sul piano della forza militare.

Come molti sostengono, gli egiziani non credevano che gli israeliani avrebbero attaccato. Positiva era indubbiamente la deliberazione egiziana di non varcare per primi il confine: ma che senso ha avuto il portare l'avversario nella migliore condizione per compiere tale atto? Ecco che ancora riemerge quella frattura tra pensiero e azione che abbiamo segnalato.

Analogamente saggio risulta l'aver accettato la tregua immediatamente: questo non significa aver accettato le condizioni del nemico, bensì potrebbe essere questa la strada per avviare nel modo migliore possibile, con il minimo di dispersione e di sacrifici, il ripensamento che da tante parti si preannuncia. L'accusa al governo egiziano di cedimento che da taluni ambienti arabi è stata pure avanzata, il rammarico per non aver dichiarato che «la guerra continua», paiono in effetti molto meno saggi del tentativo di risolvere e riassorbire il conflitto in tutti i modi onorevoli fuorché

[487] (se sarà possibile) con quello delle armi. La riorganizzazione economica, l'eliminazione degli elementi negativi dall'amministrazione e dall'esercito, il rafforzamento dei collegamenti internazionali possono anche essere fatti senza che tuoni il cannone: questo ci sembra il programma d'emergenza avviato attualmente nella capitale egiziana; e se esso arriverà a compimento, ancora una volta l'orientamento progressista di fondo, ma nel pieno rispetto della specificità nazionale, si sarà affermato sui pericoli e sui rischi d'una situazione oscura e amara.

Il popolo egiziano - con un'alternanza di pause incerte e d'improvvise recrudescenze di lotta e di agitazioni - si batte da oltre mezzo secolo per la propria indipendenza e per essere libero di scegliere con la più ampia autonomia i propri ordinamenti. Gli inganni, i tentativi di corruzione e le sconfitte, in questo periodo, non sono stati pochi: pure esso è riuscito a riemergere alla storia, a scuotersi dal torpore, a tornare a dire una parola specifica nel consesso degli Stati. Questo però non ha significato risoluzione di determinati problemi eccezionalmente complessi: la fine del sottosviluppo economico, la formazione in misura sufficiente di quadri dirigenti adeguati, l'istituzione di collegamenti internazionali con i popoli afro-asiatici perfettamente funzionanti.

Su una struttura economica orientata in senso pianificatorio, si aprono di fronte al popolo egiziano oggi i grossi problemi dell'avvenire: come superare le arretratezze dell'economia, come trasformare i fellahin in operai, come riuscire a risparmiare capitali per nuove industrie e nuovi canali con un regime medio di vita non certo elevato; come meglio qualificare, come selezionare il personale politico, i tecnici, gli insegnanti, gli esperti, come meglio innestare sull'originale raggruppamento dei Liberi Ufficiali gli

[488] uomini validi di diversa formazione ideologica e in particolare le personalità legate al marxismo; come contribuire per ridare slancio, vigore, capacità di presa al cosiddetto raggruppamento neutralisrioo. E' su questi dilemmi che s'impegnano oggi i dirigenti egiziani.

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URSS, paesi comunisti e crisi del Medio Oriente (131) La crisi del Medio Oriente della primavera scorsa, con tutto quello che ha

rivelato e con tutto ciò che ne è scaturito - l'efficienza tecnico-militare israeliana, il dramma dei profughi palestinesi, la chiusura del Canale di Suez, tanto per citare alcuni dei più vistosi fenomeni - ha rappresentato una sorta di drammatica prova di coerenza, chiarezza e senso delle responsabilità per l'intera sinistra italiana ed internazionale. Mentre nubi oscure continuano ad aggirarsi sul Mediterraneo (la Grecia, Cipro), mentre parecchi sintomi lasciano presumere che ancora a brevi scadenze parti ti avanzati e masse popolari saranno chiamati per lo meno a testimoniare, a prendere posizione, giunge dunque opportuna qualche osservazione su come l'URSS e gli altri paesi comunisti si siano mossi in questa contingenza. E proprio al fine d'entrare nel vivo del problema, giova prendere l'avvio dai diversi orientamenti che hanno caratterizzato da un lato i partiti comunisti e i governi degli Stati ove essi sono al potere, insieme con la grande maggioranza dei partiti comunisti del mondo, dall'altro la maggior parte delle organizzazioni di tipo socialdemocratico: partendo da questa suddivisione, infatti, diverrà più evidente entro quale ambito si situino le sfumature e le differenziazioni che pure tra i primi vi sono state e come s'inquadrino le discus-

[490] sioni, le messe a punto e gli sforzi d'approfondimento che ancora vanno susseguendosi all'interno dello schieramento comunista.

Riducendo all'osso la divergenza (non certo per schematizzare, ma al contrario per favorire, se possibile, il dibattito ed il confronto ideale partendo da punti netti) in che cosa socialdemocratici e comunisti si sono differenziati a proposito del conflitto arabo-israeliano? Sia pure con di- verse accentuazioni, variamente spartendo il torto e la ragione, ci pare lecito affermare che la socialdemocrazia abbia essenzialmente visto (o voluto vedere), nella "guerra dei sei giorni", la manifestazione culminante d'una serie di malintesi e contrasti locali. Certo, nessuno ha negato l'esistenza di interferenze più o meno ampie di questa o quella potenza: tuttavia per i socialdemocratici in sostanza le cause e gli sviluppi del conflitto avevano origine strettamente medio-orientale e la connessione con la situazione mondiale o è stata di fatto negata o è stata vista in forme labili ed evanescenri. Su questa impostazione si poteva così innestare facilmente la teoria d'uno Stato d'Israele candido agnello circondato dai lupi, oppure giungeva logico collegarsi alla proposta israeliana per conversazioni dirette arabo-israeliane escludenti l'intervento delle Nazioni Unite, oppure si moltiplicavano gli inviti volenterosamente equanimi

131 In Il nuovo osservatore, n. 66, settembre 1967.

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dei meglio intenzionati perche ciascuno dei contendenti riconoscesse i suoi torti e si accingesse al compromesso.

L'atteggiamento socialdemocratico - che, ripetiamo, s'è estrinsecato con una multiformità di posizioni all'interno d'una comune matrice - era però talmente sfumato che esso è stato rapidamente inglobato dalla destra (la destra della guerra di Suez, dei bombardamenti nel Vietnam, dei colpi di Stato colonialistici in Africa, per intendersi) e con una tale prontezza che probabilmente dall'epoca della

[491] prima guerra mondiale non s'è potuto assistere ad un altrettanto patriottico embrassons-nous. In base a quali motivazioni si sono invece attestati l'URSS ed i comunisti in genere? Poiche da molti mesi la tensione nello scacchiere andava crescendo, essi hanno avuto tutto il tempo per rendersi conto dell'evolversi della situazione, dell'emergere e del consolidarsi negli Stati interessati di determinate forze aggressive o pacifiste, propugnatrici dell'uno o dell'altro programma e soprattutto di convincersi della connessione inestricabile e determinante tra gli sviluppi dei rapporti arabo-israeliani ed alcune tendenze e certi fenomeni in corso su scala mondiale.

In altre parole, da parte comunista v'è un rovesciamento del giudizio socialdemocratico: è vero, nel Medio Oriente vi sono questioni aperte, problemi specifici in sospeso e manifestazioni puntuali di inimicizia, ma tutto questo non sarebbe giunto al punto in cui è giunto senza la concomitanza favorevole d'una certa realtà internazionale, realtà che porta al moltiplicarsi dei focolai di guerra calda qua e là sulla faccia della terra. In effetti, particolarmente da parte araba, si è, per motivi evidenti, indugiato a sottolineare l'intervento anglo-americano diretto nel corso dello scontro militare: e, allo stadio attuale delle informazioni, ricordando come nel Medio Oriente (e non solo nel Medio Oriente) le svolte ed i colpi di scena da romanzo giallo siano all'ordine del giorno, non ci sarebbe da stupirsi se con il tempo le denunce e le illazioni del Cairo e di Damasco assumessero, almeno in parte, inoppugnabile veridicità. Tuttavia va subito precisato che i sovietici ed i comunisti, almeno sul piano teorico, sono partiti da più articolati giudizi per definire la loro scelta.

In primo luogo, rifacendosi a considerazioni che sono ormai divenute patrimonio permanente del pensiero comu-

[492] nista, il problema della nazionalità, della difesa ad oltranza delle prerogative nazionali, dell'appello della "voce della patria" ecc. è stato visto con mente fredda ed impegno razionale. Non che sia venuta a mancare la consapevolezza dell'importanza della dimensione nazionale o che si siano sottovalutati tutti i guai che possono derivarne: al contrario, nei dirigenti comunisti più avveduti, così come istintivamente nelle larghe masse popolari delle quali sono alla testa, immediatamente s'è avvertito che anche il problema nazionale più legittimo e degno di rispetto non può essere giudicato in se stesso, ma sempre va considerato nel quadro e in maniera subordinata agli interessi generali della lotta di liberazione dei popoli contro il capitalismo e l'imperialismo, per il socialismo. In questa impostazione - le cui fondamenta teoriche, a parte Lenin, possono essere ritrovate nelle formulazioni di Marx sul movimento risorgimentale italiano - c'è dunque una importante radice delle scelte politiche comuniste: dell'appoggio al movimento di liberazione arabo e della critica ferma, pur nella intransigentemente ribadita legittimità dell'esistenza statuale, dell'iniziativa militare israeliana.

Un secondo presupposto teorico che ha funzionato come polo d'orientamento per il movimento comunista è stato il riferimento e la riflessione sulle strategie e le

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tattiche impiegate attualmente dalle cosidette forze imperialiste, dai sostenitori del colonialismo vecchio e nuovo. L'andamento delle ostilità nel Vietnam, per un verso, il senso degli avvenimenti nel Congo, nella Rhodesia, nell'Indonesia, nel Ghana, per un altro, si rivelerebbero indicativi di una duplicità di iniziative da parte di coloro che intendono opporsi ad un'evoluzione in senso socialista nei paesi di recente indipendenza e comunque ad un allargamento dell'area favorevole ad esperienze indirizzate a sinistra. Oggi,

[493] cioè, di fronte all'impasse in cui si troverebbe invischiata l'iniziativa statunitense nel sud-est asiatico (o estensione ulteriore di conflitto senza sicure prospettive di vittoria, ma con la certezza d'un gravoso prezzo di prestigio politico da pagare ed un più accentuato isolamento tra i popoli, oppure riconoscimento del vicolo cieco che s'è imboccato e conseguente ricerca d'un onorevole compromesso con i Vietcong) si punterebbe ad un aggiornamento della tradizionale politica di consigli, pressioni ed aiuti discriminati verso i paesi dell'Asia e dell'Africa. Di fronte all'acuirsi in tali parti del mondo degli scontri sociali e politici con contenuto di classe, si sceglierebbe a completamento ed integrazione dove occorra dell'aggressione esterna o dell'eversione violenta dall'interno, l'attacco e la demolizione degli istituti del nuovo assetto nascente, per interposta persona. V'è, comunque, uno spirito di guerra che va estendendosi per tentare di arrestare con la forza un processo di maturazione e trasformazione che una pratica consueta non riesce più a controllare. Ed è precisamente in connessione con le tendenze generali dell'imperialismo americano che avrebbe agito lo Stato d'Israele, convintosi che la guerra rende, che si può rischiare la pace mondiale, già da tante parti messa a repentaglio, puntando ad ottenere, con le spedizioni militari, determinati risultati politici ed economici.

In terzo luogo i comunisti si sono mossi a taluni passi e a certe dichiarazioni sul Medio Oriente, in base ad un serio aggiornamento delle loro impostazioni concernenti gli Stati arabi, la loro struttura sociale, le profonde differenziazioni che tra essi sussistono, la funzione della religione islamica ecc. Sulla scorta di prolungate analisi del Medio Oriente e degli altri scacchieri ove hanno lottato e lottano i popoli ex-coloniali, una notevole revisione è [494] stata effettuata negli ultimi anni per quanto concerne la funzione tradizionalmente conferita alla classe operaia, sui compiti, in tali località, del partito comunista e delle altre correnti avanzate, sulle posizioni e gli ondeggiamenti delle borghesie "nazionali", sui ritardi e le incongruenze provocati dalle esistenze di strutture arcaiche e feudali, sulla lacunosità della dottrina cinese della pretesa azione egemonica di guida rivoluzionaria che eserciterebbero nella presente fase storica i popoli ed i movimenti progressisti dei paesi afro-asiatici e dell'America Latina, sulla connessione, infine, che esiste - per una avanzata ed un consolidamento del socialismo nel mondo - tra Stati socialisti, movimento operaio dei paesi capitalistici più sviluppati e movimenti di liberazione nazionale.

La consapevolezza dell'essenza e dei retroscena della questione nazionale, il dibattito sulle vie di sopravvivenza dell'imperialismo, lo studio della realtà medio-orientale ed ex-coloniale in genere: ecco quali sono, a nostro avviso, le principali fondamenta ideologiche che hanno indotto l'URSS e gli altri Stati e partiti comunisti ad operare nelle passate settimane, fondamenta sulle quali era indispensabile soffermarsi brevemente perche costituiscono una chiave importante per comprendere e spiegare decisioni e dichiarazioni. D'altra parte l'ampia messe dei riferimenti che abbiamo segnalato sussistere nell'impegno politico, diplomatico e

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militare dell'Unione Sovietica, induce immediatamente a ribadire la considerazione che, per l'URSS ed in genere per i comunisti, quella del Medio Oriente sia una crisi gravissima: non si tratterebbe cioè soltanto di una crisi che si connette e s'intreccia con precise tendenze negative in atto su scala assai più vasta, ma d'una controversia che potrebbe avviare, senza mezzi termini, sul cammino della terza guerra mondiale. Così come ha sostenuto

[495] Kossighin nel suo intervento all' Assemblea Generale dell'ONU del 19 giugno, quella israeliana sarebbe "un'aperta sfida all'ONU ed alla legge internazionale. Il mondo aspetta di vedere se l'ONO è in grado di respingere l'aggressione. Se oggi non si dà una risposta alle pretese di Israele, domani nuovi aggressori grandi e piccoli potranno tentare di strappare altri territori ad altri paesi pacifici. Il problema dunque è quello della guerra e della pace: se questa tendenza non viene fermata, allora il risultato sarà - oggi o domani - una grande guerra che non risparmierà nessuno Stato".

Si possono invero dare della polemica arabo-israeliana molte interpretazioni e però se si tiene al centro dei ragionamenti questo abbastanza comprensibile timore sovietico (che il possesso del Sinai si tramuti in un incitamento al moltiplicarsi degli impadronimenti territoriali, in una sollecitazione a prendere ciò che fa comodo) tutta l'ampia gamma d'iniziative avviate nel Medio Oriente dal blocco comunista acquista piena coerenza: se è in pericolo la pace internazionale ogni mezzo per allentare la tensione deve essere impiegato, ogni insistenza su elementi marginali che potrebbero distogliere da tale obiettivo diviene dannosa e pericolosa. Così, ad esempio, le pressioni e gli appelli degli ambienti ebraico-sionisti per un rovesciamento della posi- zione sovietica in nome del riconoscimento dello Stato israeliano deciso nel 1948, si rivelano del tutto inconsistenti: dall'angolo visuale dell'URSS, infatti, che cosa c'entra il richiamo alle vicende di vent'anni fa e la mai smentita convinzione del diritto all'esistenza dello Stato d'Israele, con le iniziative ultime dei governanti israeliani che hanno messo in movimento tutta l'area medio-orientale e a repentaglio la pace sull'intero globo terrestre? Anche in questa pretesa egocentrica israeliana di "sistemare" i problemi

[496] in sospeso a colpi di revolver e, di contro, nella coscienza che oggi quando si preme il grilletto le ripercussioni sono enormi e gli affari delimitati perdono il loro contorno e si tramutano in vertenze assai più grandi ed aggrovigliate, c'è, dunque, una profonda differenza di metodo che contraddistingue singolarmente l'approccio comunista ai quesiti del Medio Oriente.

A questo punto, comunque, apparirebbe necessaria una ricostruzione delle specifiche prese di posizione sovietiche nei confronti dei paesi arabi, almeno per quanto concerne gli ultimi anni: solo in questo modo - affiancando ai risultati della ricerca storico-ideologica i dati dell'azione politica effettiva - si potrebbero infatti riscontrare esaurientemente svolte, ripensamenti e fenomeni di insistente coerenza. Ci si accontenti però d'un semplice richiamo, giacché un'indagine approfondita condurrebbe inevitabilmente fuori tema: d'altronde le mosse sovietiche nel Medio Oriente sono state sovente investigate ed in modo serio e documentato e a tali indagini ci pare più logico rinviare il lettore. (132) In breve la presenza sovietica nel bacino orientale del Me- diterraneo, che aveva cominciato ad acquistare un minimo di consistenza solo dopo il 1945, ha attraversato sostanzialmente due fasi: fin verso

132 Si veda, ad es., H. Carrère d'Encausse, «L'URSS et le Moyen Orient» in Orient, n. 37, 1er trimestre 1966.

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il 1956 il movimento di liberazione nazionale arabo e le sue conquiste (rivoluzione egiziana del 1952) non apparivano ancora suscettibili d'avviare in prima persona, secondo vie specifìche, i paesi del settore lungo una prospettiva prima non capitalistica e poi francamente socialista; dall'epoca del conflitto di Suez, della sconfitta (nell'estate '57) dei tentativi d'intervento occidentale nelle questioni interne della Siria, della rivoluzione irakena del '58, dello sbarco americano nel Libano, è invece

[497] venuto consolidandosi un atteggiamento di maggiore fiducia per le prospettive di rinnovamento e per gli esperimenti in corso nello scacchiere. Episodi quali la visita di Krusciov in Egitto nel 1960 o l'autocritica dei comunisti irakeni per talune accentuazioni settarie che avevano favorito il loro isolamento nei momenti cruciali del governo Kassem, stanno ad indicare l'emergere d'una più attenta considerazione per i fermenti che scuotono la zona: in maniera più sciolta che in altri paesi ex-coloniali, qui i movimenti d'origine non-marxista, i gruppi nazionali in seno alle forze armate, ad esempio, possono assumere la funzione di strumento di riscossa, rinascita e trasformazione, così come, in politica estera, il distacco dall'ambito dei blocchi contrapposti e l'affermazione del neutralismo tendono a divenire neutralismo positivo e coesistenza pacifica in unione con le spinte neutraliste che s'affermano contemporaneamente in tanta parte del cosidetto Terzo Mondo.

Da questa situazione, assai diversa da quella dominata in larghissima misura da signorotti feudali e capi tribù del 1945, è derivata la crescente ampiezza nei rapporti e negli scambi tra paesi arabi e paesi socialisti: gli acquisti di cotone e di altri prodotti agricoli, la fornitura di ragguardevoli quantità di beni industriali, la concessione di prestiti con basso tasso d'interesse, l'aiuto nell'edificazione di grandi opere pubbliche (diga di Assuan, diga sull'Eufrate) sono divenuti così alcuni degli elementi più consistenti d'un rapporto che via via perdeva ogni casualità ed incidentalità per aumentare di permanenza e complessità.

Un ulteriore passo in avanti dei rapporti tra nazionalismo arabo e comunismo sovietico si registra poco tempo fa, agli inizi del '66, allorché in Siria il partito Baath, che solitamente aveva assunto delle posizioni di gretto ultranazionalismo e violentemente anticomuniste, si avvia

[498] verso una interessante evoluzione. Dalla matrice piccolo-borghese del Baath stesso, aperta ad opposti e contraddittori sviluppi, scaturisce, per un complesso di cause, attraverso un aspro travaglio, sovvertendo l'equilibrio interno tra maggioranza e minoranza, una linea avanzata: di nazionalizzazione delle industrie, di riforma agraria, di colleganza con i gruppi arabi più avanzati. Superate, per un verso, le fiacche ed insulse esperienze di tipo parlamentaristico, vinte, per un altro, le pressioni per la continuazione delle dittature militari reazionarie e nazionalistiche, l'antica spinta a sinistra è, recentemente, riuscita ad affermarsi a Damasco, con un esperimento non facile, denso di rischi ed incertezze, ma allo stesso tempo entusiasmante: le correnti di sinistra del Baath, i gruppi filo-nasseriani, i movimenti di sinistra che si richiamano esplicitamente al marxismo appaiono avviati sulla strada d'una fruttuosa collaborazione, una collaborazione lungamente prevista e tanto sovente respinta indietro dagli ostacoli d'una congiunta pressione reazionaria esterna e locale.

Ma allo stesso tempo che in Siria un vero e proprio salto qualitativo sta verificandosi nelle compagini politiche che variamente s'ispirano alla lotta per la piena indipendenza nazionale e per il socialismo, va aggiunto che agli occhi di Mosca, di Pechino, di Belgrado un'altra battaglia è vio- lentemente ingaggiata dalle

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forze avanzate dell'arabismo: è la lotta anti-inglese di Aden e dell'Oman, è la cruenta battaglia anticolonialistica del sud della penisola arabica che si connette e si trascolora nella più netta azione rivoluzionaria dei repubblicani yemeniti in guerra contro i sostenitori del regime monarchico abbattuto nel 1963 e potentemente aiutati dalla monarchia saudiana.

Questi fermenti e queste aperte iniziative anti-imperialiste finiranno con il convincere l'URSS e gli altri paesi

[499] socialisti che l'area medio-orientale, alle soglie del 1967, lungi dall'essere coinvolta nella crisi che ha colpito tanta parte dello schieramento dei non-impegnati, sia piuttosto all'avanguardia nell'opera di abbattimento delle vecchie strutture e nell'istituzione di nuovi ordinamenti. Al Cairo, a Damasco, ad Algeri particolarmente evidenti erano nel marzo-maggio scorsi i sintomi che potevano dare fiducia al campo comunista; e non si trattava soltanto di provvedimenti di tipo economico diretti a contrastare, ad esempio, lo strapotere delle Compagnie pétrolifère anglo-américane come quelli adottati dal governo siriano nei confronti dell'Irak Petroleum o di iniziative politiche d'evidente significato come il moltiplicarsi dei contatti tra alcuni paesi arabi e la Repubblica democratica tedesca. Ci si riferisce a più nascoste, ma forse più importanti operazioni per l'adeguamento degli organismi dirigenti e per il superamento di lacune e carenze che da anni ed anni preoccupano i comunisti. Così, interessanti sintomi si avvertono per inserire nella politica agraria - un settore decisivo nell'economia dello scacchiere - le esperienze moderate ultimamente effettuate in Bulgaria; così in Egitto, consapevoli delle debolezze dell'Unione Socialista, si registrano tentativi accuratamente predisposti per trasformarla in profondità rafforzandola con una leva di quadri particolarmente fidati e capaci di battersi contro le deviazioni burocratiche e i ritorni di fiamma capitalistici; così, in pratica alla vigilia dello scontro con Israele, si riunisce ad Algeri una conferenza internazionale di esponenti dei partiti e dei gruppi della sinistra araba, alla quale presenziano anche personalità del socialismo europeo, che affronta con notevole spregiudicatezza una serie di nodi storici e di quesiti in sospeso che da lungo tempo intralciano il cammino al movimento operaio e contadino arabo.

[500]

D'altro canto a questi fattori che contribuiscono ad accentuare la simpatia del movimento comunista per le correnti avanzate del nazionalismo arabo, altri se ne aggiungono a rendere irreversibile la scelta a fianco degli arabi nell'ora dello scontro armato. Ci riferiamo all'evoluzione che parallelamente avviene nello Stato d'Israele e che finisce col rivelarsi incanalata in direzione opposta - vale a dire in senso regressivo - rispetto a quanto con fatica, ma anche in modo ormai distinto, sta affermandosi tra le più influenti avanguardie del mondo arabo.

Per quanto nella breve, ancorche non lineare e poco conosciuta (malgrado le apparenze) storia dello Stato d'Israele a varie riprese si siano registrate recrudescenze e anti-arabe e anti-sovietiche (si ricordi, ad esempio, la rottura dei rapporti diplomatici tra URSS ed Israele del 1953), l'ultimo biennio, contraddistinto dalla presenza, alla guida del paese, di un governo Maarach-Mapam (socialdemocratici di destra e di sinistra), aveva segnato momenti di relazioni buone e con l'URSS e con gli altri paesi socialisti europei in genere. Si erano infittiti gli scambi culturali, si rafforzavano i contatti commerciali, una serie di episodi spiccioli parevano indicare l'estendersi d'una positiva buona armonia.

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Purtroppo, come ormai adesso è chiaro universalmente, la personalità moderata di Eshkol alla testa della compagine ministeriale non ha funzionato che da paravento quan- do le acque si sono intorbidite e un complesso di difficoltà economiche sempre più acuto ha intaccato non soltanto l'economia, ma anche il corso politico consueto dello Stato israeliano. Infatti, quando la crisi economica e finanziaria iniziatasi nel 1965, con l'aumento dei prezzi, il calo delle esportazioni, la fine delle "riparazioni" tedesche, il crollo di alcuni istituti finanziari minori, il moltiplicarsi delle de-

[501] cine di migliaia di disoccupati, l'eccedenza delle emigrazioni sulle immigrazioni, è sembrata avviare verso una drammatica alterazione della fisionomia del paese, immediatamente dietro Eshkol s'è profìlato il cranio di Dayan, dietro alla fraseologia kibuzzistica dei "socialisti" al governo, s'è fatta sentire la pretesa dei gruppi capitalistici europei e americani che da vent'anni investono cospicue somme in Israele e che hanno rifiutato qualsiasi ridimensionamento ai profitti programmati.

Da tutto ciò quindi non è scaturito negli atteggiamenti sovietici nulla che potesse suonare in contrasto con il riconoscimento con lo Stato d'Israele nel 1948 o con le relazioni cordiali di non molti mesi fa: semplicemente il governo sovietico ha prestato maggiore attenzione agli sviluppi reali che alle coperture propagandistiche, più agli intendimenti delle forze che autenticamente contano nel gioco che alle evanescenti alchimie di illusi in buona fede e ne ha trauto le conseguenze. Ovviamente, come risulta in modo particolare quando siano sul tappeto anche grosso lacerazioni nazionali, i sentimenti di amor patrio si sono scatenati e hanno finito con il contare oggettivamente. Ciò non toglie, tuttavia, che la dinamica economico-politica a cui abbiamo fatto cenno sia stata la molla decisiva nel mettere in moto tutto il complesso meccanismo e che, comunque, i sovietici, con la cauta freddezza che deve contraddistinguere chiunque abbia su di se enormi responsabilità, abbiano essenzialmente guardato proprio a quella, piuttosto che alle vociferazioni degli uni e degli altri, per reagire come hanno reagito.

Secondo tale angolo visuale perciò lo scoppio delle ostilità arabo-israeliane dei primi di giugno si troverebbero in un punto preciso nell'andamento delle relazioni internazionali: e cioè là dove si congiungono, in un clima globale grigio ed incerto, la crisi interna israeliana, un mo-

[502] mento eccezionalmente delicato nei rapporti inter-arabi e nel dibattito arabo per la scelta di vie autonome in direzione del socialismo ed una massiccia recrudescenza su vasta scala di agitazioni anticolonialiste e di esigenze repressive.

Questo tipo di giudizio della situazione e di comportamento dell'URSS e della maggioranza dei comunisti ha prestato, per altro, abbastanza logicamente il fianco a due generi principali di critiche. Da destra, da patte della più fiacca e meno fantasiosa socialdemocrazia si è subito gridato allo scandalo, all'URSS senza cuore, ai comunisti alleati con Nasser oggi come ieri lo sono stati di Hitler: in breve un rifiuto fatto di sentimento e buon cuore, ma paurosamente irrazionale, quando non meramente elettoralistico, nel ripudio di considerare i fatti e di discuterli. Dalla sinistra estremistica, cioè dai dirigenti della Repubblica popolare cinese, sono invece venute violente accuse alla lentezza ed alla timidità sovietiche, accuse che, come in altri casi, si basavano sull'isolamento alquanto arbitrario di alcuni dati e sugli inviti a compiere ciò che i cinesi stessi, in fin dei conti, si guardano bene del fare, per lo meno nella misura da loro auspicata. Giacchè se si volesse fare dell'umorismo, considerando come nel recente passato Pechino sia stata uno dei più

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fervidi sostenitori di quei sabotaggi e di quelle azioni terroristiche arabi che Israele ha potuto cogliere come ottimi pretesti per lanciare la sua offensiva-lampo, si potrebbe dire che Pechino stessa, con i suoi assurdi incitamenti abbia lavorato, secondo lo stile indocinese, anche nel Medio Oriente, se non per il giaguaro, certo per la tigre di carta imperialistica.

Ma, in definitiva, ciò che è stato messo sotto accusa è l'atteggiamento coesistenziale dei sovietici: l'intenzione di scegliere, ma con scrupolo, d'unire all'energia ed alla potenza il senso del limite e l'intenzione d'evitare i rischi,

[503] l'impegno a scansare troppo gravosi sbilanciamenti ed a ricercare invece la soluzione in più direzioni, in tutte le direzioni in cui possa risultare utile. Per intanto, concluso il primo round, a Mosca, nonostante qualche comprensibile amarezza, non si è poi così contristati per risultati. Se l'obiettivo era l'abbattimento dei regimi avanzati arabi, questo non è stato raggiunto; al contrario dalla sconfitta non è escluso nasca un ripensamento delle debolezze ed un superamento di certe angustie che hanno sin qui impedito al movimento indipendentistico d'assumere una maggiore e più sicura dimensione. Per intanto anche se l'ONU non ha preso finora alcuna decisione di qualche consistenza - ma chi poteva pensare che il consesso internazionale, da anni paralizzato per l'impotenza a dirimere il conflitto vietnamita, di punto in bianco superasse le difficoltà che ne inceppano il funzionamento? - le votazioni del 4 luglio, oltre a sottolineare lo sbandamento del settore atlantico (per la mozione dei paesi non impegnati hanno votato anche Francia, Turchia e Grecia), hanno permesso di illustrare all'opinione pubblica internazionale un determinato andamento delle vicende che in un primo tempo non era stato assolutamente compreso dalla grande maggioranza. (133)

Per sintetizzare, comunque, quanto Mosca abbia messo in opera nella contingenza dello scoppio guerresco del giugno, converrà suddividere secondo tre direttrici tale azione: all'ONU e tra le grandi potenze sul piano diplomatico, verso i paesi arabi, all'interno dello schieramento comunista. Si tratta, come immediatamente si nota, d'una azione complessa e elaborata, avviata su diversi livelli, tendente a non lasciare nulla d'intentato; di una azione che corrisponde alla posizione sia di uno tra i maggiori Stati oggi esistenti,

[504] sia di paese internazionalmente impegnato ad avviare una intensa collaborazione con i popoli di recente indipendenza sia infine di paese socialista che deve muoversi di conserva con gli altri paesi socialisti e che insieme a loro deve elaborare un orientamento comune il più efficiente possibile. Nel corso delle drammatiche giornate può invero essere comparsa una sorta d'incertezza nella distinzione tra le differenti prospettive d'iniziativa che abbiamo indicato: talvolta i protagonisti sovietici sono sembrati scambiarsi i ruoli, talvolta lavoro diplomatico ed operazioni di più sostanzioso contenuto sono in effetti risultati tutt'uno. Ad esempio la puntuale dichiarazione dell'URSS del 5 giugno, preludio e premessa d'accaniti sforzi per bloccare l'avventura ed arrestare gli israeliani dilaganti, i successivi consulti diplomatici febbrili per far cessare le ostilità ed impedire il massacro arabo appaiono qualche cosa di più d'una tradizionale routine diplomatica dell'epoca di guerra. Si tratta di atti nei quali le caratteristiche e gli impegni d'uno Stato che si definisce socialista traspaiono, a nostro avviso, con energia ed evidenza. Nondimeno, specie con l'analisi retrospettiva, l'individuazione dei tre momenti ai

133 Di rilievo la dichiarazione comune turco-iraniano-pakistana del 31 luglio che chiede il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati.

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quali abbiamo accennato non solo risulta lecita, ma doverosa se si vuole tracciare un panorama degli interventi di Mosca. Panorama che, al momento in cui scriviamo prolungandosi gli effetti dell'invasione israeliana, apparirà delineato ed incompleto, fissato a sottolineare gli elementi principali del recentissimo passato, non ancora ad individuare pienamente una linea di sviluppo che sta ancora districandosi.

La manovra diplomatica sovietica ha avuto tre episodi salienti: il contatto Kossighin-de Gaulle, la decisione di puntare sulla convocazione straordinaria dell'Assemblea Generale dell'ONU e l'incontro Kossighin-Johnson. Grazie alle conversazioni parigine di metà giugno i sovietici otte-

[505] nevano il non insignificante risultato di consolidare l'azione comune con la Francia. Riconosciuto alla proposta di de Gaulle per un incontro tra i massimi rappresentanti americano, inglese, francese e sovietico un tutt'altro che irrilevante valore politico e diplomatico, Kossighin si garantiva l'allineamento della Francia nella votazione a New York e preordinava la visita a Mosca di Pompidou nella prima settimana di luglio. Tale secondo giro di conversazioni tra il primo ministro sovietico e quello francese si concludeva con l'approvazione d'un comunicato in cui essi "deplorano che nelle votazioni avvenute il 4 luglio, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite non sia giunta a pronunciarsi su una raccomandazione relativa al ritiro delle forze israeliane sulle linee di partenza che occupavano prima del 5 giugno". Nello sconcerto generale l'idillio franco-sovietico è dunque continuato, pesando non poco sulla situazione.

Ma perche i sovietici hanno insistito tanto sulla convocazione dell'Assemblea dell'ONU anteponendo questa a qualsiasi altra proposta di avvio di negoziati? Come lo stesso Kossighin doveva pubblicamente affermare nella conferenza concessa alla televisione francese il 10 luglio, né gli incontri sovietico-americani, né, specie in questa fase, gli incontri a quattro, considerati come strumento per dirimere le controversie mondiali, appaiono validi alla visuale complessiva dell'Unione Sovietica. "Considero errata - ha detto Kossighin - l'opinione secondo la quale i grandi problemi internazionali possono essere regolati tra i due grandi, tra le potenze che sono veramente grandi, veramente importanti. Essi devono essere regolati da tutti i popoli, da tutti i paesi, grandi e piccoli. Ecco perche non abbiamo fìducia in un accordo concluso tra due grandi, ma abbiamo fìducia nelle Nazioni Unite in cui sono rappre-

[506] sentati tutti i paesi, tutti i popoli. Spetta loro l'obbligo di regolare i problemi internazionali".

La proposta israeliana (per una trattativa diretta arabo-israeIiana) è invece stata considerata irrealistica, fino a quando le truppe israeliane occupino una larga fetta dell'altrui territorio. Per altro, tra le quinte è trapelato che i sovietici avrebbero potuto prendere in considerazione il piano israeliano per contatti diretti tra le parti in causa, forse impegnandosi in una nuova operazione nello "spirito di Tashkent", nel caso gli israeliani avessero sgombrato le zone conquistate. Non consta che in Israele la cauta, ma estremamente interessante risposta interlocutoria sovietica sia stata presa in troppa considerazione: così a Tel-Aviv, dopo essersi rifiutati di pigliare sul serio le offerte di pace di Nasser della fine di maggio, ci si è guardati dall'accettare di discutere quelle sovietiche di metà giugno.

Così ai sovietici non restava che la via dell'ONU: del rilancio di questo istituto nel caso si fosse giunti alla condanna dell'aggressore, del tentativo cioè di impedire concretamente nuove avventure, visto che non si sono riuscite ad evitare quelle passate, oppure della messa a punto delle responsabilità di ognuno nel caso l'ONU

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non fosse pervenuta a deliberazioni d'un certo impegno. Era ed è in gioco sicuramente l'autorità, forse la sopravvivenza dell'oganizzazione internazionale e l'Unione Sovietica, con notevole tempismo, ha intuito che in quella direzione andavano compiuti dei tentativi, che era errato non sfruttare quella tribuna, se non si fosse riusciti, in questo come in altri casi, ad avviare a concreta attuazione gli eventuali deliberati. Per questo c'è stato l'approccio con Johnson, per questo l'URSS ha votato a New York il 21 luglio per il rinvio al Consiglio di Sicurezza dell'esame della situazione medio-orientale: l'ONU - per dirigenti sovietici - non è il ri-

[507] medio di ogni male e non è da gettare tra i ferri vecchi, ma va utilizzata come luogo di scontro e di convergenze, o per trattative diplomatiche, anche se questo ha potuto comportare, nel gioco procedurale, una differenziazione nell'ultima votazione rispetto ai paesi arabi. D'altro canto una critica ferma, ma non demolitrice alle debolezze delle Nazioni Unite trova concordi a fianco dell'URSS una larga fascia di paesi, i quali da un disimpegno sovietico a New York non trarrebbe alcun vantaggio, ma un senso di accresciuto isolamento ed impotenza. Nei confronti dello schieramento arabo l'URSS ha agito in due modi: con il sostegno diretto e con la pressione politica, con rapidi ed indispensabili aiuti e con l'apertura d'una ampia discussione per pervenire a metodi comuni ed a obiettivi comuni. Anche su tali problemi è difficile indicare nette differenziazioni: l'invio di armamenti che permettessero alla RAU ed alla Siria di far fronte alle gravi perdite subite, s'è infatti accompagnato a più discrete, ma non meno importanti iniziative per studiare i perche d'una sconfitta, il comportamento degli alti comandi, le lacune dell'organizzazione e per definire con maggiore puntualità che in passato le modalità dell'eventuale impiego dell'uso della forza. Notevole importanza riveste, a nostro avviso, la presenza nelle acque egiziane d'una cospicua squadra navale sovietica: è una presenza che suona non solo non disprezzabile sostegno psicologico per le masse arabe, che si profila non soltanto quale consenso all'attuale gruppo dirigente del Cairo, ma anche tesa a prevenire qualsiasi intervento straordinario nel settore e a evitare che - come si continua da parte araba a sospettare - i radar, se non altro, di navi non israeliane interferiscano come avrebbero interferito nelle prime ore dell'offensiva aerea di Tel-Aviv.

Per quanto riguarda le conversazioni arabo-sovieti-

[508] che, avvenute ad esempio sia con le visite del capo di Stato Podgorny al Cairo e a Damasco (tra il 21 giugno ed il 3 luglio) sia con la missione Mosca di Aref e Boumedienne del 17-18 luglio al termine del "vertice" a cinque tra Algeria, RAU, Sudan, Irak e Siria, per citare alcune delle più consistenti iniziative nei due sensi, è anzitutto da notare come intenzione moscovita sia stata e rimanga quella di stabilire una permanente unità d'intenti con gli arabi. Si potrà discutere molto sui limiti della concordia e sul permanere d'elementi di frizione: essi non ci sembra vengano negati ne a Mosca, ne nelle capitali arabe interessate. Ciò che invece pare stare eccezionalmente a cuore all'URSS è l'affermarsi d'un criterio di consultazioni regolari, è il constatare che anche senza ricorrere a schemi specifici e vincolanti di alleanza può realizzarsi una convergenza non casuale con i paesi più avanzati del mondo arabo.

Per i sovietici finora esiste un solo esempio nella storia di agganciamento al campo comunista da parte d'un paese slegato dalla tradizionale orbita sovietica e giunto al socialismo in modo del tutto autonomo, seguendo una propria via e percorrendola con puntiglio a migliaia di chi- 10metri dalle frontiere sovietiche: è il caso cubano. Il que- sito inespresso, ma che permanentemente sembra avvertirsi nel

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sottofondo è precisamente questo: forse gli Stati arabi avanzati sono divenuti consapevoli dell'esigenza d'un più organico collegamento con i paesi socialisti? Forse dalla sconfitta militare nascerà l'esigenza d'un "serrate le file" e d'un accostamento meglio definito al blocco sovietico? Evidentemente, poi, tale blocco si dimostra assai meno monolitico ed assai più flessibile e agile che in passato: se c'è quindi questa necessità di appoggiarsi ad esso, se l'insidia d'una eversione interna e d'una aggressione esterna possono richiedere misure di collegamento più sostanziose,

[509] questo non vorrebbe dire, come sembrava un tempo, necessità di far scomparire la propria fisionomia e di antipatici e poco utili spunti di snazionalizzazione. Perche, di conseguenza, dalla complessa crisi attuale, non dovrebbe nascere un allargamento, anche se non schematico e dichiarato, del campo socialista? Perche le misure annunziate da Nasser nel suo discorso del 23 luglio sulle correzioni da apportare all'Unione Socialista e sul rinnovamento di uomini in genere nelle alte cariche dell'amministrazione egiziana, non possono preludere ad una svolta che avvicini i metodi della gestione dello Stato e la qualità delle sue organizzazioni politiche a quelle sovietiche?

Sono questi interrogativi ai quali non è facile dare risposte nette perche solo il tempo e lo scioglimento graduale di tutta una serie di incertezze potranno portare ad un reale chiarimento. E però l'azione sovietica nei confronti degli Stati arabi più avanzati appare piuttosto precisa nei termini generali: sostenere al massimo il movimento di liberazione e rinovamento arabo, ma evitare i rischi d'una conflagrazione più ampia; recare il più ampio soccorso possibile, ma tentando di non disperderlo e di amministrarlo accortamente; condannare senza esitazione gli aggressori israeliani sottolineando la loro funzione di copertura dell'imperialismo, ma evitare la formazione d'una mentalità da "azioni punitive", vendette e guerre di sterminio. Se questi appaiono i criteri di fondo della politica medio-orientale sovietica, problema sostanziale rimane quello di vedere se le correnti più avvertite dell'arabismo possono oggi o domani farli propri; nei termini più concreti il dilemma potrebbe riproporsi così: dalla sconfitta militare, dalla scoperta della efficienza israeliana e del ritardo tecnologico in cui lo schieramento degli Stati arabi si trova con precisi riflessi nel campo degli armamenti e del loro impiego,

[510] quale conseguenza trarranno i lavoratori arabi ed i loro dirigenti meglio preparati?

Lasciando da parte un periodo più o meno lungo di discussioni e ripensamenti, per gli esperti sovietici non paiono aprirsi che due prospettive. O riemergerà lo spirito attivistico ed ultranazionalistico che ha contrassegnato la azione araba sino ad ora e si continuerà ad incanalare la presa di coscienza delle popolazioni arabe sui temi più generici e meno conclusivi. Oppure dalla tragedia, dalla sconfitta, dal moltiplicarsi delle difficoltà scaturirà una consapevolezza nuova: il popolo ed i gruppi di governo nella prova veramente dura di questi mesi potrebbero raccogliere tutte le energie per un rinnovato impegno non tanto sul piano militare quanto per una informazione più esauriente della realtà e per un reperimento di vie di sviluppo proprio in base alla ricognizione della realtà in cui essi si trovano. E' insomma, non solo per i sovietici, ma in genere per i comunisti, un periodo questo che dovrà dimostrare come i paesi di recente indipendenza dell'area medio-orientale possono arrivare ad intervenire in maniera adeguata contro le nuovissime forme di attacco colonialistico: pur con parecchie e serie attenuanti, è infatti evidente che qualcosa di importante non ha funzionato se non ai vertici, certo in gangli intermedi assai

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delicati dell'amministrazione civile, delle forze armate, degli organismi politici arabi. Quindi, mentre il nemico esulta e si consolida sulle posizioni avanzate che ha conquistato, agli arabi tocca scegliere tra il prepararsi per una Valmy, non tanto militare, quanto politica e sociale e un Termidoro, che allenti la tensione e ponga fine all'austerità ed alla disciplina: se l'obiettivo che più interessava allo Stato d'Israele ed ai suoi sostenitori era - come congiuntamente sostengono, sovietici e arabi progressisti - sostanzialmente il crollo dei regimi del Cairo e di Damasco,

[511] l'avvenire imporrà o la fine dei sistemi politici che in tali capitali hanno preso il potere, fine magari mascherata di velleitaria intransigenza, o uno sviluppo, un rafforzamento, un'autentica radicalizzazione delle fondamenta avanzate che ivi sono state gettate. Se, in breve, il mondo arabo, per una concatenazione di motivi s'è trovato negli ultimi anni all'avanguardia della lotta imperialistica, dalla contingenza ardua che ora sta attraversando non potrà derivare che la dimostrazione di quanto lento, faticoso e doloroso sia il processo di completa emancipazione oppure la testimonianza che le trappole dell'avversario possono essere evitate, che l'essenziale è stato salvato e che la battaglia continua da un gradino più alto di consapevolezza.

E, come la stampa sovietica sta puntualmente sottolineando da varie settimane, se è verso la seconda prospettiva che ci si orienta, da un lato si deve essere convinti dell'indispensabilità d'un coordinamento unitario il più ampio possibile di tutti i protagonisti impegnati nell'azione socialista, dall'altro vanno criticate le miIlanterie e gli avventurismi. "Poiche l'imperialismo è ancora una realtà, il pericolo di guerra esiste tuttora come è del resto dimostrato da quello che avviene nel Vietnam e nel Medio Oriente, dalle provocazioni contro Cuba e dai rigurgiti revanscisti di Bonn" scriveva la Pravda del 25 luglio. E così proseguiva, dopo aver assicurato l'aiuto dell'URSS e degli altri paesi socialisti ai paesi arabi: "Occorre lottare contro le campagne di calunnie e contro l'azione scissionistica del gruppo di Mao Tse-tung... La situazione internazionale ed ora i fatti del Medio Oriente dimostrano che è necessaria l'unità d'azione dei partiti comunisti, del movimento operaio e del movimento di liberazione nazionale".

Se si volesse riepilogare il tipo di discorso intrattenuto dall'URSS con i paesi arabi durante le varie fasi dello scon-

[512] volgimento medio-orientale del trimestre scorso, si potrebbe notare che esso è passato da un momento di discreti, ma incerti approcci diplomatici alla fine di maggio, alla concordanza più vigorosa ed ampia durante gli scontri a fuoco e nel corso delle polemiche all'ONO, ad un più attento sforzo d'esame congiunto nel giugno-luglio. Passato il periodo più incandescente, i sovietici non hanno esitato a guardare in faccia la situazione ed a discuterne direttamente con i loro interlocutori medio-orientali individuando in fin dei conti tre sole alternative, ma indicandone una sola come proponibile: non quella della ripresa del conflitto e non quella della guerriglia (per la quale si profilerebbero non poche complicazioni), ma, fino a che non saranno stati esauriti tutti i tentativi, quella della trattativa sulla base delle deliberazioni dell'ONO del 1947.

Invero il governo israeliano non pare troppo confortare gli sforzi coesistenziali sovietici. La maniera migliore per fare fallire ogni tentativo d'approccio pare, ad esempio, quella impiegata dal ministro degli Esteri Abba Eban che ha dichiarato il 23 luglio alla televisione americana essere lo Stato d'Israele pronto persino a trattative segrete. Evidentemente dopo una tale pubblica dichiarazione le trattative segrete, in apparenza auspicate, appaiono più improbabili. D'altronde a rendere difficile l'impegno razionalistico sovietico contribuisce la discordanza israeliana che

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si manifesta da un lato dichiarando la disponibilità ad evacuare, sia pure a certe condizioni, le zone conquistate, dall'altro precisando che talune zone conquistate (Gerusalemme, Gaza, l'altopiano siriano) non saranno restituite e più in generale sfruttando economicamente ed adeguando amministrativamente con celerità e in maniera totale tutte le aree di cui le truppe si sono impossessate. Israele appare cioè inten- zionato a sfruttare a fondo la vittoria, rifiutando ogni fidu-

[513] cia nelle Nazioni Unite, preparandosi a rafforzare il potenziale militare, mantenendo vivo in ogni modo lo spirito nazionalistico che ha consentito una forte unità popolare al momento dell'attacco e non esitando nel prevenire con ogni mezzo i sussulti indipendentistici che potrebbero dilagare nella popolazione araba passata sotto il suo controllo.

E però va detto che l'energica azione di informazione e di ridimensionamento avviata dall'URSS circa l'essenza della politica israeliana, l'aggressività fanatica emersa nelle posizioni di taluni circoli di Tel-Aviv, la inumanità forse non sempre evitabile, ma comunque assolutamente presente di certe operazioni militari, serviranno a creare un sottofondo utile nell'avvenire all'inizio di conversazioni anche indirette. Cosi se i sovietici, specie nelle ultime settimane, hanno avviato verso gli arabi un percepibile lavorio per favorire la crescita di un più impegnato realismo, un non meno interessante sforzo è stato quello di demitizzazione verso la non meno accesa e talvolta irresponsabile campagna propagandistica dei sionismo. In questo contesto va, ad esempio, inquadrata la pressione sovietica per l'internazionalizzazione di Gerusalemme, combattuta, tanto per citare una pubblicazione ebraica facilmente reperibile, con argomentazione offensive, superbe e virulente come le seguenti: "Nessuna gente, nessuna 'internazionalizzazione', nessuna artificiosa costituzione potrà elevare Gerusalemme così in alto come può fare (e come in realtà ha già fatto) Israele nel corso di molti secoli. La Gerusalemme degli Ebrei infatti sta - per loro costante volontà e per loro merito - su un piano diverso da quello delle capitali degli altri popoli" (Israel, Roma, 20 luglio 1967).

L'informazione, il dibattito e le decisioni all'interno del campo comunista sono culminati con le due riunioni al vertice del 9 a Mosca e dell'11-12 luglio a Budapest e

[514] nella riunione del plenum del Comitato centrale del PCUS conclusasi il 21 giugno. Sono state queste manifestazioni che hanno avuto, tra l'altro, il compito di mettere in allarme i quadri politici dell'Europa orientale e di preparare, nell'incertezza in cui si configurava la scena politica internazionale, alla mobilitazione ideale le larghe masse popolari. Ma oltre a questo, il significato immediato e di prospettiva di tali riunioni resta considerevole, specie quello dell'incontro del 9 giugno al quale hanno partecipato, con una unanimità d'intenti da molto tempo dimenticata, non soltanto i massimi dirigenti dei partiti comunisti dell'URSS, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria e Repubblica democratica tedesca, ma anche quelli di Jugoslavia e Romania. Il contenuto della dichiarazione - che però non è stato firmato dalla delegazione romena - appare a qualche settimana di distanza abbastanza generico: appoggio agli arabi aggrediti, invito a cessare il fuoco ed a ritirarsi sull'antica linea armistiziale, appello all'ONO per una condanna dell'aggressore. Nondimeno si tratta d'un documento non privo d'una sua solennità che già appare preconizzare quella linea di convergenza tra comunismo europeo e movimento di liberazione arabo che è un poco, come s'è visto, la speranza e l'obiettivo di fondo dei sovietici.

Di particolare interesse, per i riflessi all'interno dell'URSS, i risultati del dibattito del Comitato centrale del PCUS. In sostanza di fronte alla gravità della

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situazione internazionale, il massimo organo politico sovietico ha stabilito di convalidare l'orientamento seguito dagli uomini al potere; che queste siano state le risultanze del dibattito in tale sede risulta, più che dal comunicato diffuso al termine dei lavori, dal discorso pronunciato dal segretario generale del partito, Brezhnev, il 5 luglio. L'approvazione della direttiva non rigida e non oltranzista si ricava ad

[515] esempio da queste affermazioni: "Oggi, guardando indietro, possiamo dire con fiducia che nei giorni critici della crisi del Medio Oriente la nostra azione è stata giusta. Oggi che le ostilità sono cessate, è prima di tutto necessario che le truppe dell'aggressore vengano ritirate da tutti i territori occupati. Non si può consentire all'aggressore di trarre vantaggio dai suoi attacchi a tradimento, l'aggressione non può restare impunita. La situazione nel Medio Oriente resta tesa e si deve fare di tutto perché non vi divampi di nuovo la guerra... In questa fase politica della lotta contro l'aggressione, per eliminare le tracce delle sue conseguenze, noi stiamo dando ai popoli arabi ogni assistenza... La causa della liberazione nazionale e sociale è una causa giusta, che esige il maggior consolidamento possibile degli Stati da poco divenuti indipendenti, del loro potenziale difensivo e della costante preparazione a respingere gli intrighi aggressivi dell'imperialismo ... Noi abbiamo fiducia che le forze rivoluzionarie del mondo arabo trarranno le debite conclusioni dagli avvenimenti passati. Nella lotta contro l'aggressione, i popoli arabi cementano la loro unità". Ci si scuserà l'ampiezza della citazione, ma essa pare eccezionalmente significativa, nella sua chiarezza, dei canoni adottati dall'Unione Sovietica nella crisi medio-orientale: preparazione, prudenza, saldezza, unità; ed inoltre condanna delle sterili agitazioni e delle concessioni demagogiche. Forse le parole di Brezhnev erano in qualche misura rivolte anche ad eventuali dissenzienti interni, ma in effetti, senza stare a tracciare delle ipotesi non controllabili, risulta per certo che esse erano indirizzate ad oppositori esterni: ad esempio alla Cina popolare ed alla Romania.

Ma forse di maggiore rilevanza, anche se ha avuto sulla stampa ripercussioni inferiori, il secondo vertice dei partiti comunisti dell'Europa Orientale, al quale erano pre-

[516] senti tutti i massimi leaders (Givkov, Kadar, Ulbricht, Gomulka, Brezhnev, Novotny e Tito), ma dal quale era assente la Romania. E' stata infatti, con ogni probabilità, questa l'occasione per un esame approfondito della condizione medio-orientale e per definire, cessati i combattimenti ed apertasi la prospettiva d'un periodo d'incerta stasi, le linee comuni di sostegno economico, finanziario e militare agli arabi e le direttive diplomatiche per favorire un'evoluzione positiva dell'aspra controversia. Sulle posizioni illustrate successivamente dall'URSS in varie circostanze si sono cioè attestati tutti gli Stati a regime socialista dell'est compresa la Jugoslavia, la quale, nota da molti anni per le relazioni eccezionalmente amichevoli che la legano alla RAU, verrà a costituire un elemento d'eccezionale interesse nel legame che oggi avvicina mondo arabo ed Europa orientale. In complesso, a parte la defezione romena sulla quale ritorneremo, la tattica sovietica è riuscita a raccogliere un notevole numero di consensi: a parte l'appoggio - che non era scontato almeno nei termini così calorosi con cui si è espresso - dei Kadar e dei Gomulka, esso ha ricevuto il sostegno di Tito, che come la maggior parte dei dirigenti dell'ex-raggruppamento dei non-impegnati non ha avuto imbarazzi nella scelta. Parlare dunque d'isolamento sovietico appare, in questa situazione, azzardato e non rispondente allo sviluppo degli avvenimenti: certo l'URSS non è riuscita a raccogliere al completo dietro di se tutti gli Stati orientati in senso comunista, certo l'abbandono, in sede ONO, di parecchi paesi di recente indipendenza ha impedito

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alle proposte sovietiche di raggiungere la maggioranza dei suffragi. E tuttavia raramente come in questa occasione l'andamento contorto delle relazioni internazionali ha permesso all'URSS di guidare una coalizione cosi estesa: dal mondo arabo alla Francia, dalla Jugoslavia all'India. Per quanto

[517] possa apparire alquanto paradossale, prescindendo dalla cronaca diplomatica nuda e cruda, ci sono inoltre molti fattori che inducono a credere che qualora la Santa Sede volesse farsi promotrice di qualche atto in favore dell'internazionalizzazione di Gerusalemme, sarebbe proprio nell'URSS e nei suoi più ortodossi sostenitori, che essa potrebbe trovare un conforto ed adesione tra i più decisi. In verità, dunque, la prevalente moderazione sovietica, che pure non s'è disgiunta dall'autentico e indispensabile ausilio alla causa araba, può aver abbassato qualche entusiasmo e rinfocolato da Pechino le ormai consuete accuse di cedimento e convergenza con Washington; tuttavia, osservando le cose meno grettamente diviene molto difficile sostenere che la via favorevole ai compromessi ed alla ricerca paziente di vie d'uscita onorevoli patrocinata in queste settimane sia già venuta ad usura, abbia dato tutto quello che poteva dare e invece non riveli nuove e vivaci possibilità future.

Ipotizzare da parte dell'URSS un intervento più diretto nel contrasto arabo-israeliano significherebbe, per un verso, non tenere conto dei modi in cui si è svolta la politica sovietica praticamente dalla fine della guerra mondiale e pretendere la rottura della impostazione coesistenziale riaffermata con specifica insistenza da alcuni anni a questa parte, per un altro auspicare un allargamento del conflitto pressoche incalcolabile: fin troppo danno hanno recato in passato le posizioni formalmente più rigide che poi nella pratica erano condizionate e dai rapporti di forza e dai rischi che non si potevano far correre all'umanità, perche i dirigenti del Cremlino potessero ora acconciarsi a modificare radicalmente il loro atteggiamento. Oggi poi le navi della flotta militare sovietica stazionano nei porti egiziani nel complesso con l'approvazione delle principali parti in

[518] causa: degli arabi che vi vedono una sicura protezione, degli Stati Uniti d'America che vi riscontrano una fonte di stabilità ed una garanzia di mantenimento dell'equilibrio. Dopo decenni di pressioni e contropressioni, sotto la bandiera con la falce ed il martello, la presenza sovietica nel Mediterraneo ha acquistato un diritto d'esistenza che ormai nessuno contesta; perche dunque mettere in rischio tutto questo esercitando, come taluni pure avrebbero voluto, una pressione rivoluzionaria-autoritaria sui popoli arabi per una ripresa immediata della lotta ad oltranza?

Tanto più che, qualora popoli e dirigenti arabi volessero o dovessero far ricorso alla forza, l'URSS non esiterebbe ad accollarsi le proprie responsabilità tuttavia evitando nel modo più rigoroso possibile di scivolare verso la terza guerra mondiale. L'esempio che viene dal Vietnam - per quanto si tratti evidentemente d'un caso molto diverso _ potrebbe far testo e s'inserisce comunque agevolmente nell'ambito dell'orientamento unitario assunto alla conferenza di Budapest: anche senza partecipare direttamente al conflitto, tenendo anzi aperte le porte ai contatti ed a eventuali trattative, l'URSS ed il campo socialista danno al presente un tale aiuto al Vietnam settentrionale ed ai Viet-cong da rendere impossibile una vittoria militare statunitense. Se quindi il popolo arabo palestinese dovesse muoversi con la stessa determinazione degli asiatici, gli arriverebbe un sostegno sovietico - anche se non in volontari e non in formazioni regolari - che costituirebbe un fattore di seria consistenza.

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E' anche seguendo quest'ordine d'idee che da Mosca sono giunti a Tel-Aviv gli avvertimenti dei quali abbiamo fatto cenno: l'URSS, pur non uscendo dal comodo e poco minaccioso ambito della coesistenza pacifica, ha ancora molte carte da giocare in favore dei suoi alleati medio-orientali e grave sarebbe sottovalutarle.

[519]

Passando a tratteggiare alcuni aspetti delle posizioni assunte dai paesi dell'est europeo durante la crisi arabo-israeliana, su due anzitutto converrà soffermarsi: la Jugoslavia e la Romania, il più "a destra" ed il più "a sinistra" degli Stati socialisti. In realtà tale definizione generalmente accettata, più che chiarire potrebbe oscurare l'essenza degli atteggiamenti assunti in occasione delle recenti vicende del M. O. In effetti, paragonando il comportamento di Belgrado e Bucarest verrebbe più logico sostenere che gli jugoslavi, pur avendo alquanto annacquato, in particolare nella gestione dell'economia, la loro vocazione socialista, forse per gli gli insegnamenti del passato, forse per i loro profondi legami con il neutralismo, forse per la sofferta ed autentica, ma non meschina esperienza di politica estera autonoma, hanno saputo assumersi con energia le loro responsabilità, mentre i romeni, divenuti oggi alfieri d'un nazionalismo di stile antecedente il 1914, pur mantenendo una notevole rigidezza burocratica (anzi probabilmente proprio per questo) non hanno saputo adottare che orientamenti nella fattispecie retrivi o poco comprensibili. O meglio una delle interpretazione per giudicare la disposizione romena assai meno ostile ad Israele degli altri Stati socialisti, potrebbe essere quella che Bucarest ha sentito quasi congeniale con i propri indirizzi lo slancio nazionalistico che ha investito l'esercito israeliano: in questo caso, la sostanziale "doppiezza" del presente filo-cinesismo romeno si sarebbe in pieno rivelata. Dovendo scegliere tra estremismo alla Stalin-Trotsky e nazionalismo, i romeni non hanno esitato a scegliere il secondo, rivelandosi, nel presente caso, forse più lontani da Pechino che la stessa Mosca. Ma a Pechino, i dirigenti cinesi non hanno esitato, a quanto si è potuto sapere, ad esprimere i loro punti di vista, rigidamente filo-arabi, ai rappresentanti romeni in partico-

[520] lare in occasione del viaggio in Cina ai primi di luglio del presidente del consiglio romeno Maurer, viaggio che, secondo alcune impressioni, nonostante le ambizioni mediatorie, non sarebbe approdato a nulla. In conseguenza di ciò lo stesso Maurer avrebbe finito con il ridimensionare, ma anche con il qualificare più esattamente, le proprie aspirazioni accontentandosi, il 22 luglio, di stabilire un'omogeneità d'intenti con il governo, evidentemente non troppo spregiudicato, dell'Olanda: romeni ed olandesi infatti, al termine della visita di cinque giorni di Maurer, hanno firmato un comunicato congiunto nel quale si dichiarano favorevoli ad immediate conversazioni dirette arabo-israeliane.

Comunque a Bucarest in parecchie occasioni s'è manifestata la volontà di esprimere il proprio parere sulle vicissitudini medio-orientali; a parte una dichiarazione del Comitato centrale del partito comunista e del governo della Romania, diffusa subito dopo l'inizio della tregua imposta dall'ONO, si ricordano i discorsi del segretario generale del partito Ceausescu a Brasov ed a Bucarest, l'intervento di Maurer alla sessione straordinaria dell'ONO, il rapporto di Ceausescu all'Assemblea nazionale romena del 24 luglio. Ebbene da tutti questi interventi emerge la spinta a porsi in condizione mediana tra le parti: così i riferimenti alle interferenze internazionali sono sfumati e paiono non escludere l'esistenza di responsabilità sovietiche, parallelamente a quelle americane, così se la guerra è giudicata inaccettabile come mezzo per risolvere le controversie tra gli Stati, si

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finisce con il non capire bene chi ha scatenato il conflitto, chi sia l'aggressore anche se si ammette che è lo Stato d'Israele ad avere conquistato determinati territori da cui deve andarsene.

Se si guarda più in generale la politica romena, poi,

[521] appare abbastanza palese come la crisi nel Medio Oriente di queste settimane s'inserisca abbastanza opportunamente in una manovra a largo raggio di disimpegno dall'URSS che Bucarest ha avviato da vari anni: non per nulla in questo periodo sono tornate a circolare voci per una candidatura romena alla successione di U Thant vista di buon occhio dagli Stati Uniti, non per nulla il dibattito all'Assemblea nazionale ha permesso di ribadire i noti atteggiamenti di indipendenza: "In ogni caso - ha detto, ad esempio, il ministro della Difesa Ion Ionita - la Romania combatterà a fianco degli altri Stati socialisti contro qualsiasi aggressore, che il Patto di Varsavia esista o meno". Più esplicita asserzione circa l'inutilità e quindi la negatività del Patto di difesa militare tra i paesi socialisti europei, pare non fosse stata ancora espressa.

E' evidente, per altro, che il conflitto arabo-israeliano, a dispetto dei bene o dei male intenzionati desiderosi di tenerlo chiuso al livello degli scontri locali o al massimo regionali, è servito un poco a tutti come banco di prova e strumento per confermarsi impegnati in determinate direzioni o per tastare l'evolversi della situazione mondiale. Per ciò che concerne i romeni essi, lungi dall'accostarsi in modo parallelo alle posizioni di de Gaulle, hanno finito con l'avviarsi per una direzione specularmente opposta: la Francia di de Gaulle ha guardato all'est e s'è affiancata, nella presente contingenza, alle tesi sovietiche; la Romania di Ceausescu, disdegnati sempre più nettamente il modo e la sostanza delle posizioni dell'URSS, si è volta all'ovest puntando ad un'equidistanza che non ha molto convinto nessuno: o meglio è stata applaudita dagli israeliani e giudicata con crescente sospetto dagli arabi.

Sin dove giungerà questa indipendenza romena, rispetto al resto del campo socialista, è difficile prevederlo;

[522] certo però che la mancanza d'una frontiera con Stati capitalistici e l'esistenza dello sbocco sul mar Nero sono fattori che da un lato impediscono all'URSS di nutrire soverchi timori dal punto di vista strategico-militare e quindi non impongono l'urgenza di drastici interventi (oggi poi particolarmente difficili), dall'altro garantiscono alla Romania una larga possibilità di scambi e movimento a prescindere da qualsiasi ritorsione sovietica. La Romania - nella sua spregiudicata ricerca del nuovo - appare in una botte di ferro, tanto è vero che gli altri Stati socialisti hanno finito con il far finta di niente al susseguirsi delle trovate.

Ritornando al Medio Oriente, il succo delle posizioni romene consiste nell'aver accentuato uno dei due elementi sostanziali che si trovano nella politica sovietica: se si finisce infatti col sopravvalutare il rispetto dell'indipendenza dei singoli Stati, rifiutandosi di verificare quanto può esservi di nazionalistico ed aggressivo ed infondato nelle loro richieste, se ci si affida alla semplice buona volontà delle parti in causa per la risoluzione delle controversie, senza voler controllare i moventi di classe che possono spingere in talune direzioni, se per l'instaurazione d'un'era di coesistenza pacifica si fa maggiore affidamento sulla libertà che deve essere concessa a ciascuno Stato nel rivendicare i propri diritti, più che sullo sforzo di ogni Stato per impegnarsi a sottomettersi all'interesse generale, ci si ritrova pari pari a quella visione pacifista dell'assetto internazionale che fece il suo fallimento non già nel 1938, ma, come s'è detto, nel 1914. E se anche può darsi che per qualche Stato, il

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clima politico sia rimasto fermo ad un nazionalismo che si credeva seppellito, non è da pensare altresi che la constatazione sia confortevole o che da tali chiusure gelose non siano da prevedersi complicazioni. Nell'epoca dell'arma nucleare, quando esiste un'obiettiva spinta al collegamento

[523] sempre più stretto tra gli Stati, la dimensione romena - in se anche comprensibile - non si direbbe però possa servire di modello generale o favorire il reperimento di soluzioni ai duri problemi dello scontro tra Israele e Stati arabi.

Quanto alla Jugoslavia, si ha la netta impressione che l'occasione del conflitto medio-orientale abbia costituito uno spunto di rilievo per un avvicinamento - coincidente con la crisi dello schieramento dei non-impegnati - all'Unione Sovietica ed alla maggioranza dei paesi socialisti europei. Ciò si riscontra, tra l'altro, dalla energia della assunzione di responsabilità da parte della Jugoslavia sin dall'inizio della tensione: "Ci si rende conto nel mondo che la politica di forza che s'è abbattuta brutalmenre sulla RAU e sui paesi arabi indipendenti non è che un elemento della politica la cui applicazione sta devastando il diviso Vietnam, il quale, osservato in questo contesto, appare ancora più nettamente in primo piano in una politica mondiale di pace" scriveva Josip Djerdja nella Revue de la Politique Internationale, del 5 giugno scorso, quando ancora si poteva sperare che la guerra avrebbe potuto essere evitata. Dunque, marcata sottolineatura del contesto mondiale in cui si poneva la crisi del Medio Oriente, come si può rilevare leggendo, ad esempio, dal medesimo testo, osservazioni quali le seguenti: "Malgrado tutto l'entrata in vigore del 'regime di Suez' nel golfo di Akaba non avrebbe portato ad una situazione tanto critica quanto l'attuale se, per la prima volta nel corso della presente crisi, gli Stati Uniti non fossero entrati in scena a fianco d'Israele. Essi sono intervenuti con la brutalità che caratterizza sempre più nettamente, negli ultimi tempi, l'attitudine di questa grande potenza". Che l'orientamento derivante da tali giudizi non fosse passeggero, che anzi si sia, se mai, approfondito e puntualizzato, si deduce anche dalle indiscrezioni concernenti un

[524] adeguamento delle forze armate jugoslave in correlazione con gli insegnamenti scaturiti dalla guerra dei sei giorni, indiscrezioni diffusesi in Occidente alla fine di luglio: precisamente perche quel conflitto non è stato visto come estrinsecazione violenta di divergenze limitate, ma al contrario come prova d'una tendenza aggressiva ed involutiva di più ampia portata che potrebbe giungere a toccare, dopo il Medio Oriente e la Grecia, ancora la penisola Balcanica ed il bacino orientale del Mediterraneo, pur non sapendosi esattamente in quali modi, sarebbe indispensabile un rinnovamento in quei comandi militari jugoslavi che paiono essere intaccati da pigrizia e da routine burocratica, che insomma non danno sufficientemente fiducia di sapersi districare da situazioni imprevedibilmente intricate.

Come per la Romania, ma in maniera molto diversa, il dramma del Medio Oriente è servito in Jugoslavia per dare l'inizio ad una vivace discussione sulla situazione interna del paese e gli interventi si sono moltiplicati sulla stampa e nelle più varie tribune con incisivi riferimenti, ovviamente, alle discussioni sulle direttive di politica interna e di trasformazione economica da tempo dibattute. La autogestione ed in genere i metodi di autogoverno ultimamente rivalutati garantiscono che il paese sappia far fronte con bastante prontezza agli eventi? E' possibile, pur avendo adottato una linea assai precisa, evitare rotture e lacerazioni troppo gravi nelle relazioni commerciali con determinati Stati che la pensano diversamente dalla Jugoslavia sulla controversia arabo-israeliana? Quale "costo" è

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lecito pagare per sostenere la causa dei popoli arabi? Un'indicazione per uscire da questi pesanti interrogativi che ancora una volta dimostrano quanto interferiscano nella situazione internazionale alcuni aspetti importanti della problematica medio-orientale, ci sembra l'abbia voluta esprimere il presi-

[525] dente Tito aprendo i lavori del Comitato centrale della Lega dei comunisti jugoslavi il 1° luglio.

Ciò che in concreto ha voluto sostenere Tito è che, nelle grandi svolte storiche, nei momenti decisivi, pur senza venir meno alle proprie caratteristiche ed ai propri impegni, occorra avere il coraggio di scegliere: "Non tutti hanno compreso che era stato Israele ad aggredire - egli ha detto -. Quasi tutti i socialisti d'Europa e molti esponenti democratici francesi, italiani, scandinavi e del Benelux hanno assunto posizioni favorevoli ad Israele. E' stato cosi dimostrato come, in situazioni del genere, i partiti social-democratici pendano dalla parte degli interessi capitalistici. Ciò appare chiaro anche oggi all'ONU, sebbene comincino già a differenziarsi i punti di vista circa la legittimità delle azioni israeliane. Sono sicuro che questo processo continuerà e che un giorno o l'altro, nonostante tutto, il mondo saprà che non si è trattato solo di un conflitto tra Israele ed il mondo arabo, ma di qualcosa di ben più vasta portata, di una lotta cioè tra le forze del progresso e quelle della reazione".

Al fine di meglio situare, alla luce di queste parole, lo sfasamento prodottosi tra Jugoslavia e Romania a proposito del Medio Oriente non pare inutile riportare alcuni commenti espressi sull'Avanti! (30 luglio) dall'autorevole esponente del PSU, Venerio Cattani, di ritorno da una visita nella repubblica romena: "La tesi romena sul Medio Oriente è molto vicina a quella espressa dal nostro partito. Si pensa cioè che la pace tra arabi ed israeliani non può essere che il prodotto del ritrovamento di un comune terreno di convivenza e quindi, alla fine, di trattative dirette. Ciò significa, come anche noi pensiamo, che l'interventismo delle grandi potenze peggiora, non migliora la situazione, nelle aree critiche, come il Vietnam dimostra. In conclu-

[526] sione, mi pare che il gruppo dirigente romeno si sia messo su una linea di politica esterna intelligente e aggiornata". Al di là, dunque, delle divergenze e delle convergenze marginali, ciò che distingue al fondo l'orientamento dei romeni per un verso, degli jugoslavi, per un altro, quali che siano i punti di partenza, si riconferma il giudizio sulla congiuntura internazionale nel complesso: per i primi la azione politica del proprio paese è legata - come esattamente sottolineava il parlamentare del PSU - al sentimento nazionale e alla potentialità economica; per gli altri, l'interpretazione socialista della storia dovrebbe fare si che, almeno in talune occasioni discriminanti, già adesso gli Stati che si ispirano a tali dottrine, si comportino in maniera anomala rispetto alla tradizionale politica di potenza.

Meno rilevate, nell'insieme, appaiono le conseguenze delle prese di posizione bulgara, cecoslovacca, polacca, tedesco-orientale ed ungherese. Mentre sul piano internazionale non si sono notate differenze rispetto agli atteggiamenti sovietici, c'è solo stato un certo dibattito sul piano interno in Polonia e Cecoslovacchia, allo stesso tempo che nella Republica democratica tedesca la guerra arabo-israeliana è stata considerata pure in funzione della permanente polemica con la Germania federale. Gli echi interni del conflitto medio-orientale a Varsavia ed a Praga si sono avuti allorche determinate frange dell'opinione pubblica - alcuni elementi intellettuali, qualche militare in Polonia - hanno creduto di vedere nelle scelte dei rispettivi governi una sorta di durezza burocratica e d'ossequio poco democratico alle tesi dell'URSS. Si tratta, a quanto è dato sapere, di fenomeni marginali anche se

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hanno avuto qualche riscontro in articoli di quotidiani e nei discorsi di alcuni dirigenti.

Tali episodi di dialettica interna non paiono assolutamente da avvicinare, ad esempio, alle manifestazioni in

[527] favore del governo e filo-arabe inscenate, a quanto affermano alcune fonti giornalistiche, dalle popolazioni musulmane abitanti in talune repubbliche sovietiche (Georgia, Usbekistan). Paiono piuttosto raffrontabili alla divergenza che ha contrapposto in Occidente socialdemocratici e comunisti: anche in Polonia ed in Cecoslovacchia, le persone - iscritte o no al partito comunista - che in una certa misura propendono per le impostazioni socialiste democratiche o che, comunque, rivendicano nella presente fase politica la supremazia della libertà individuale sulla giustizia sociale o hanno una sorta di nostalgica ammirazione per tutto quello che ha sapore occidentale, hanno trovato modo di esprimere il loro più o meno mancato dissenso dalle tesi governative. Si è trattato, ripetiamo, di manifestazioni limitate, ma non è inutile registrarle perche da un lato denotano la possibilità d'esprimere un'opinione diversa da quella della maggioranza, dall'altro illustrano la larghezza delle ripercussioni e il meccanismo di odi e simpatie non sempre razionali fatti scattare dai protagonisti diretti dello scontro anche se non sempre è parso che essi stessi si siano resi conto delle conseguenze dei loro atti.

Molto interessante, per giudicare l'approccio della RDT, il discorso pronunziato da Walter Ulbricht a Lipsia il 15 giugno, tutto dedicato al conflitto del Medio Oriente ed all'esame di come si siano posti di fronte ad esso i due Stati tedeschi. La Germania Orientale, non va dimenticato, ha saputo inserirsi abilmente nella crisi economico-diplomatica tra Stati arabi e governo di Bonn, avviando una fruttifera iniziativa commerciale della quale tappa assai significativa è stata la visita al Cairo dello stesso Ulbricht nel febbraio-marzo 1965: di qui l'impossibilità e l'assurdità sotto tutti gli aspetti per il governo di Berlino-est di prospettarsi un mutamento d'indirizzo nell'attuale frangente. Va però

[528] riconosciuto che, dalle parole di Ulbricht, l'azione della Repubblica democratica tedesca verso i paesi del Medio Oriente si dimostra più sfumata ed acuta di quanto solitamente molti osservatori occidentali si sforzano di accreditare.

Così, anche se la massima autorità della Germania comunista non ha esitato, in nome d'una visione classista, a denunciare i "richiami al vecchio Testamento, sfruttati senza ritegno per ingannare la gente e coinvolgerla nell'isteria della guerra", ha pure messo in chiaro come in Israele abitino "non poche persone a cui va la nostra simpatia poiche esse furono crudelmente perseguitate dai fascisti di Hitler, ridotte senza patria o che a mala pena riuscirono a sfuggire alle fabbriche della morte naziste e alle camere di tortura". Dunque nonostante i legami economici e politici di primo rango con il mondo arabo, una sorta di riconoscimento dei diritti legittimi israeliani, anche se condito con dure cririche alla "cecità, causata da sciovinismo, follia razzista e presunzione di classe" del governo e dei militari dello Stato d'Israele.

Segue poi nella requisitoria di Ulbricht - uno dei discorsi di parte comunista piu rigorosi e meglio impostati, anche se, evidentemente, discutibilissimo, tra quanti se ne sono recentemente ascoltati - l'attacco alla politica di Bonn: basandosi sulle asserzioni di larga parte della stampa tedesco-occidentale egli ha avuto buon gioco nel dimostrare che dall'appoggio militare ed economico ad Israele è saltata fuori, nella presente circostanza, la "concezione offensiva, che cioè l'aggressione avrebbe fatto buona prova. L'aggressione israeliana avrebbe dimostrato [per i circoli

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governativi di Bonn] che la politica della forza riduce i pericoli di guerra". Di qui la saldatura tra appoggio ad Israele, ostilità verso gli arabi e politica contraria alla pace che a Bonn si continuerebbe a sviluppare.

[529]

Con il cenno alle critiche violente verso Ismele, ma attentamente non anti-ebraiche da parte di Ulbricht, ci sembra d'aver elencato la maggior parte degli elementi di qualche significato emersi dalla politica sovietica e degli altri paesi socialisti europei in occasione dell'ultimo atto sin qui recitato dell'ormai ventennale dramma arabo-israeliano. Resterebbero da esaminare gli orientamenti di altri paesi comunisti non europei: della Cina, ad esempio, e di Cuba, raggiunta da Kossighin con una visita-lampo dopo l'incontro di Glassboro. Si aprirebbe però qui, per la Cina popolare, un lungo discorso giacché occorrerebbe spiegare essenzialmente che cosa vi fosse di incomprensione, che cosa di pura politica d'inrervento in un determinato scacchiere e che cosa di effettivamente ragionato nella tenace simpatia per la Organizzazione per la Liberazione della Palestina, vista - mentre non è e specialmente non è stata - come una pattuglia avanzata della rivoluzione armata araba. Nel complesso, però, lo scacchiere medio-orientale, non è stato considerato di primo piano nell'ambito della strategia rivoluzionaria di Pechino e quindi le cose sono state valutate con un certo distacco: la posizione cinese verso il conflitto medio-orientale fermato, ma non bloccato, risulta perciò strettamente legata con le impostazioni generali della politica di Mao e dei suoi collaboratori nell'attuale fase di rivoluzione culturale.

Quanto a Cuba, come prontamente denunciava una dichiarazione del governo del 7 giugno, i popoli arabi venivano là giudicati vittime della strategia globale della politica imperialista nel mondo e si sostenevano le tesi egiziane secondo le quali l'imposizione del Consiglio di Sicurezza di cessare il fuoco senza condannare l'aggressore e senza esigere il ritorno alle basi di partenza, em "imporre una capitolazione di fronte all'aggressione imperialista".

[530]

In sintesi, l'atmosfera di diffidenze e di minacce in cui il governo rivoluzionario cubano continua ad operare si è percepita con nettezza in tutte le prese di posizione ufficiali dell'Avana, improntate a insistente denuncia dell'imperialismo statunitense e dei suoi intrighi.

E' possibile, al termine di questa rassegna, raccogliere le fila e tentare di elencare che cosa ha rivelato o confermato della politica dell'URSS e degli altri paesi comunisti, l'occasione della crisi del Medio Oriente?

Senza aver la pretesa di esaurire la tematica, ma al contrario al semplice scopo di meglio fissarla, diremmo che quattro punti emergono per la riflessione. In primo luogo l'URSS s'è affermata come potenza che ha determinati legami nell'area del mondo mediterraneo e quindi il voler prescindere da tale presenza, conquistata non con una iniziativa colonialistica, ma con una ormai consolidata ed articolata opera di sostegno economico ai paesi in via di sviluppo, potrebbe essere causa di gravissime complicazioni. In secondo luogo, l'azione sovietica - come hanno confermato i contatti con gli Stati Uniti - non è intenzionata a giungere, per il momento, all'intervento diretto nei conflitti locali, quantunque questi conflitti siano esplicitamente giudicati come manifestazione d'una "aggressività generalizzata"; da altro canto l'URSS reputa d'aver molti altri strumenti di pressione avanti di arrivare al gradino dell'intervento in prima persona. In terzo luogo all'interno del campo comunista s'è confermato esistere una certa molteplicità di posi- zioni, un continuo

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lavorio di assestamento e sfaldamento, un permanente convergere e divergere: ciò rende più complessa, ma anche più ricca di possibilità, la manovra politico-diplomatica dello schieramento dei paesi a regime socialista. In quarto luogo, esattamente sulla scia di questa maggiore articolazione, si vanno sviluppando una conver-

[531] genza ed un intreccio di legami tra URSS, paesi socialisti e paesi in via di sviluppo che converrà tenere attentamente d'occhio in avvenire: di qui, specie per quanto concerne i cosidetti paesi arabi avanzati, potrebbero nascere nuovi, grandiosi sviluppi in rapporto con l'ulteriore allargamento, secondo modalità ancora non prevedibili, del fronte degli Stati indirizzati più o meno rigidamente sulla strada del collettivismo.

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INDICE pag. 5 Premessa » 9 Parte I - Gli israeliti italiani durante il fascismo » 11 Il fascismo e gli ebrei: un esperimento di consuntivo

storiografico » 41 1934-1938: Prime notizie su «La Nostra Bandiera» » 58 Prime notizie su «Davar» » 89 Appunti sulla persecuzione in Italia durante l'occupazione

nazista » 123 Ultime lettere di deportati ebrei » 139 Aspetti della partecipazione di ebrei italiani alla seconda

guerra mondiale » 156 Reazione sociale, razzismo, antifascismo: spunti di ricerca e

discussione » 190 Appunti sulle ricerche intorno all'antisemitismo nazi-

fascista nel decennio 1960-1970 » 207 Parte II - Vicissitudini dell'ebraismo europeo » 209 A mo' d'introduzione: gli Alleati e gli ebrei » 215 Stampa clandestina e contrasti sociali nel ghetto di Varsavia » 224 Un diario clandestino: «Notes from tbe Warsaw Ghetto» » 233 Gli erranti sulla via della morte » 245 Janusz Korczak e gli ebrei di Polonia » 261 Testimonianze su Korczak » 281 Per l'anniversario dell'insurrezione: la relazione di Antek » 307 Echi del processo Eichmann nella pubblicistica italiana » 316 Per il quarantesimo del Birobijan sovietico » 330 Hitler e Johnson: la normalità del male » 335 Parte III - Il sionismo, lo Stato d'Israele, il Medio Oriente » 337 1) Tendenze del «sionismo socialista»:

Alle origini del «socialismo ebraico» » 360 La fondazione dell'Histadrut e i partiti ebraici del

lavoro » 371 Alle origini del laburismo israeliano » 376 La sconfitta del «socialismo ebraico» in Palestina

nel 1923-30 » 400 Alcuni limiti della colonizzazione agricola » 409 2) La realtà israeliana prima e dopo il '67:

Storia e mistificazione per il X anniversario » 421 La logica del profitto e della repressione » 440 Cinque anni dopo » 447 3) Riflessioni sul Medio Oriente:

Papa Montini sulla strada di Gerusalemme » 463 Giordania, Siria ed Egitto dopo la guerra dei «sei

giorni» » 489 URSS, paesi comunisti e crisi del Medio Oriente

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Finito di stampare il 18 marzo 1974 / Urbino Scannerizzazione: AAARGH / 12 maggio 2008 / Urbino AAARGH Il situ fu creato in 1996 da une squadra internazionale

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