corsi e ricorsi di corsa

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di Giovanni Di Baldo, Narrativa satirica

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Giovanni Di Baldo

Corsi e ricorsi di corsa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CORSI E RICORSI DI CORSA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Giovanni Di Baldo ISBN: 978-88-6307-336-2

In copertina: immagine proposta dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2010 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Maxi, che ha piegato la mia ostinazione. A Tiziana, che ha raddrizzato la mia schiena.

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Prologo Nonostante mi sia sempre piaciuto scrivere, mi sono ritrovato spesso, nella mia vita, a chiedermi perché mai uno dovrebbe scrivere un libro. La risposta più stupida ma più immediata che mi sono sempre dato è quella secondo la quale, se nessuno scrivesse, non ci sarebbe nulla da leggere. Questo mi ha sempre consentito di divincolarmi il più rapidamente possibile da quel dubbio, certo non esistenziale, ma non ha mai soddisfatto appieno la curiosità madre di quella domanda che ha continuato ad affacciarsi periodicamente nella mia mente. Tanto per essere chiari da subito, dirò che il quesito non l’ho mai risolto. Un bel giorno, però, la questione si è completamente ribaltata e tutto è cambiato. E’ successo una mattina, quando venne a trovarmi il Diavolo, un mio carissimo amico cui riconosco delle doti che a volte assumono i connotati del sovrumano e che quindi, non volendo scomodare alcuna divinità, rischiando magari di risultare blasfemo, ho deciso di definire così. In realtà non c’è nulla di mefistofelico in lui. Beh, quasi nulla. A pensarci bene, se dovessi immaginare Nosferatu tra gli umani, gli darei proprio le sue fattezze. Ad ogni modo, una delle caratteristiche distintive del Diavolo è la sconcertante semplicità con cui affronta questioni complicate, spesso complicandole ulteriormente. Così, proprio con questa semplicità, se ne andò lasciandomi alle prese con l’interrogativo opposto al precedente: perché mai uno non dovrebbe scrivere un libro? E’ facile capire come fino ad allora la mancanza di una risposta soddisfacente al primo quesito mi abbia impedito di prendere anche lontanamente in considerazione l’ipotesi di scrivere. E’ altrettanto facile capire perché ora, invece, in attesa di rispondere alla nuova domanda, io non possa far altro che riprendere un po’ delle

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mie righe, alcune presenti solo nella mia testa, altre già strimpellate senza criterio su qualche tastiera, e tentare di organizzarle in un libro che forse nessuno leggerà mai. Nessuno a parte il Diavolo, naturalmente. Lui ha il dovere di farlo!

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1 Ho sempre odiato correre. Ho sempre adorato lo sport. Ho praticato tutti quelli che mi sono capitati e a eccezione del basket, per il quale ho scarsissima predisposizione, li ho amati tutti, poco o tanto. Sono arrivato a maturare la convinzione che morirò su un campo di calcio o di tennis, oppure su una pista da sci. Ma ho sempre odiato correre. Tanto da arrivare a mettere a punto tecniche personalissime, nel calcio e nel tennis, che mi consentissero di giocare correndo meno possibile. Potete immaginare come il correre con l’unico obiettivo di continuare a correre, come avviene nel footing, nel jogging, nel running o in qualsiasi altra diavoleria con desinenza “ing”, sia per me attraente quanto una seduta dal dentista. Per essere sincero fino in fondo, devo aggiungere che ho sempre pensato che coloro i quali, fin da bambini, hanno manifestato una scarsa attitudine nei confronti del moto dinamico e coordinato, abbiano provato il gusto amaro della discriminazione subita per mano dei coetanei che spesso li spingevano ai margini dei loro giochi: “No, Filippo in squadra non lo voglio, è una schiappa!” Queste persone, perlopiù uomini, in età adulta hanno trovato il loro riscatto, impegnandosi in un’attività sportiva che richiede abnegazione e sacrificio ma nessuna “destrezza”. Quindi oggi Filippo, se non si è del tutto rassegnato all’emarginazione, magari trasformandosi in un serial killer specializzato in minori, dovrebbe aver collezionato vari brevetti da sub, oppure aver già preso parte ad almeno una maratona. In altri termini, vedevo la corsa, al pari del body building e del ciclismo, come una sorta di ripiego per chi si rassegna a sottoporsi a grandi fatiche, non potendo contare su alcun tipo di abilità.

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Ovviamente si tratta di una stupida generalizzazione che ho spesso usato come provocazione, ma che dà anche un’idea dell’idea che avevo della corsa, nonché la misura del fascino che questa potesse avere su di me. Ad un certo punto, però, mi è capitato di convincermi della necessità di fare qualcosa di più, per la cura della macchina biologica che mi è stata assegnata, non volendo ritrovarmi decrepito anzitempo. Inoltre sentivo il bisogno di riaccettare la mia immagine esteriore, per continuare a convivere con me stesso, dopo l’amaro e definitivo addio tra me e Annamaria. L’ennesimo, a dire il vero. Quindi, dopo essere tornato in palestra, aver smesso di fumare e aver adottato una dieta bilanciata (tutte cose che gli umani sono soliti fare quando si separano, per sentire di avere ancora delle chances) mi lasciai convincere dal Diavolo che ciò di cui avevo bisogno era proprio la corsa. Perché a quarantacinque anni la palestra potrebbe non bastare; perché la corsa spinge l’organismo a produrre endorfine che danno appagamento, euforia, energia e positività; perché la corsa ha tanti e tali effetti benefici sullo stato psicofisico da rendercene dipendenti; perché la corsa… D’accordo, correrò! In fondo per correre avevo bisogno solo di una striscia di mondo su cui infilare un passo dopo l’altro. Qualora l’esperimento non avesse funzionato, si sarebbe trattato di un processo totalmente reversibile. A dire il vero, avevo già da tempo nella mente l’idea di fare qualche corsetta, pensando così di smaltire o, quanto meno, non accumulare grasso nella ciambella che cinge la vita degli uomini della mia età. Così, un po’ come accade a certe donne che, di fronte a un ritardo di due settimane, cominciano a sbirciare negli scaffali di negozi specializzati in abbigliamento pre-maman, al primo, pallido proposito di iniziare a correre mi era già sembrato importante dotarmi dell’abbigliamento adeguato, trascurando però le scarpe e la loro importanza. Pensavo che un paio delle diverse che già avevo potesse servire allo scopo ma, nella mia assoluta ignoranza, stavo disobbedendo al primo comandamento del podista che, così come me lo hanno ripetuto in tanti, recita testualmente: “per correre, vestiti come vuoi, corri nudo se credi, ma bada di avere sempre delle scarpe adatte”. Mi piace figurarmi la scena in cui due signore, incrociando sul marciapiede un tizio che corre nudo, si danno di gomito scandalizzate: “Ma hai visto quello? Hai visto che cacchio di scarpe aveva?”

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Ovviamente il Diavolo, da maratoneta consumato, aveva il negozio giusto dove acquistare le scarpe adatte a me e non mi fu possibile discutere la sua decisione di accompagnarmi. Appena arrivati, il proprietario del negozio, un aitante trentenne dai capelli rossi un po’ radi (o piuttosto dal cuoio capelluto molto fitto) ma traboccante di endorfine, in quanto corridore, mi ordinò di togliermi le scarpe, di arrotolarmi i pantaloni fin sopra al ginocchio, di salire su un tapis roulant e di iniziare a correre, mentre una piccola telecamera riprendeva indiscreta da dietro ai miei talloni. Pochi secondi e, perentoriamente: “Stop! Sei un pronatore.” “Cominciamo bene!” pensai. Neanche il tempo di presentarci e quello già mi aveva impartito una serie di ordini e affibbiato un epiteto che non doveva essere niente di buono. Credo abbia letto nei miei pensieri, perché si affrettò ad aggiungere: “Leggero.” A quel punto vidi la mia immagine in uno specchio: giacca, cravatta, pantaloni alla zuava, scalzo e stinchi da merlo alla berlina. Pensai che, qualunque cosa significasse “pronatore”, mi si addiceva. Anzi, forse mi era andata di lusso. Così, con gli occhi bassi e senza discutere, comprai le scarpe più adatte del mondo, di una misura più grandi, e uscimmo dal negozio. Sì, perché il secondo comandamento dice che: “le scarpe da corsa devono essere abbondanti”, come aveva citato con tono serioso il negoziante, facendomi credere per un istante che intendesse darmene un paio da tre. Sapevo che al Diavolo tutto questo non sarebbe bastato. Appena sul marciapiede, iniziò a descrivermi l’importanza di visualizzare un obiettivo e, ai fini del raggiungimento dell’obiettivo stesso, di immaginarne i benefici, al punto di viverli come se fossero reali. Mi fece scivolare nella mano un foglio di carta con un programma d’allenamento per principianti, che iniziava con “corri 2 minuti” e finiva con “corri 10 chilometri”. Quello di arrivare a correre per dieci chilometri era senz’altro un obiettivo allettante, specialmente per uno che aveva sempre preferito perdere il treno, piuttosto che correre per dieci metri. Gli proposi di correre insieme i miei primi diecimila ma lui sapeva già che glielo avrei chiesto, visto che, con una prontezza innaturale e il tono fasullo da spot pubblicitario, mi rispose che era un’idea

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straordinaria e che, a proposito, avrei fatto bene a mettere per iscritto le sensazioni che immaginavo di provare nel tagliare quel primo, importante traguardo, fissando così sulla carta e nella mia mente l’obiettivo che realmente intravedevo al termine di una tale scarpinata. Feci notare al Diavolo che, per quanto pigro e mal disposto, non ero un totale neofita, in fatto di attività fisica, e che forse potevo iniziare con qualcosa di più impegnativo e avvincente di quell’alternanza di due minuti di corsa con un minuto di camminata. Ma lui, facendomi oscillare energicamente l’indice nodoso sotto al naso: “No. Il programma l’ho preparato apposta per te ed è esattamente quello che fa per te. Fa’ come ti dico. E metti per iscritto l’obiettivo che intendi raggiungere e perché vuoi raggiungerlo, descrivendo le sensazioni fisiche ed emotive che ti aspetti di provare quando correrai per la prima volta dieci chilometri. Funziona, vedrai!” Finì la frase gridandomela dietro mentre stavo già attraversando la strada. Agitai un braccio sopra la spalla per salutarlo.

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2 Scrivere avrebbe dovuto spingermi a correre. Finì che fu la corsa a spingermi a scrivere. Obbediente, dopo cena accesi il notebook e iniziai a scrivere qualcosa che pensavo avrei mostrato al Diavolo, prima o poi: “Le sfide mi sono sempre piaciute e quelle contro me stesso sono le sfide che preferisco. Voglio seguire la tua tabella e arrivare in sei settimane a correre questi maledetti dieci chilometri insieme. Perché fino a ieri lo consideravo una follia. Perché oggi penso che, se lo decido, posso fare qualsiasi cosa e niente mi può fermare. Perché voglio dimostrare a me stesso che è veramente così. Ma soprattutto perché voglio dimostrarlo a te, brutto bastardo! Perché lo so che, mentre mi spingi verso questa piccola grande impresa, spiegandomi che, se visualizzato correttamente, nessun obiettivo è irraggiungibile, in realtà sei convinto che non ce la farò mai, che sono troppo presuntuoso per non fare di testa mia, stravolgendo il programma di allenamento, e troppo incostante per non lasciar cadere la cosa a metà strada, se non prima.” E invece no! Domani si comincia e di buon ora. Fammi vedere ‘sta tabella! Volevo seguire scrupolosamente e umilmente il programma che avevo ancora nel taschino della camicia. In fondo, quello della corsa era per me un mondo totalmente nuovo del quale non sapevo nulla, a parte che l’unico modo omologato per la coniugazione dei verbi era l’imperativo: “togliti le scarpe, arrotola i pantaloni, metti per iscritto ecc.”. La scheda che avevo appena dispiegato non contravveniva a questa regola e per il primo giorno d’allenamento impartiva un secco “corri 2 minuti, cammina 1 minuto, ripeti 6 volte”. La lessi attentamente più volte e vi garantisco che da nessuna parte spuntava un “per cortesia” o un “se non ti dispiace”.

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Decisi di obbedire per la terza volta, quel giorno. Mentre puntavo la sveglia alle sei del mattino seguente, provai a immaginare quella corsa come una galoppata trionfante, fino a tagliare il fatidico traguardo dei primi diecimila con il dito alzato, con l’odore dell’erba falciata che mi riempiva i polmoni e una brezza primaverile a rinfrescarmi, per lenire quel vago affanno che immaginavo di dover provare ma che, mentre mi addormentavo, mi pareva dovesse essere dolce. La corsa mi parve una cosa dolce. Niente di più lontano dalla realtà. Appena il trillo della sveglia ebbe la meglio sugli acufeni senili che da tempo mi affliggono e cominciò a premermi sulle palpebre dall’interno, mi tornò in mente il motivo di quella levataccia e in un attimo l’immagine aulica sulla quale mi ero addormentato la sera prima assunse nuovi contorni e si arricchì di nuovi particolari. Per esempio, ora vedevo chiaramente qual era il dito che alzavo al traguardo. Risalii faticosamente la ripida parete rocciosa che separa la veglia dal sonno, ma non in tempo per arrestare la suoneria della sveglia che nel frattempo evidentemente aveva perso ogni speranza di riuscire a tirarmi via dalle lenzuola e si era ammutolita. Il cane aveva creduto in me ancora meno e doveva aver deciso da subito che si trattava di un errore, tanto che era rimasto nella sua cuccia senza neanche alzare lo sguardo nella mia direzione. E invece mi alzai. Con la convinzione che dopo una rapida visita al bagno e un bel bicchiere d’acqua mi sarei rimesso a letto, ma mi alzai. E mi vestii, anche! Infilai rapidamente, una sull’altra, due magliette rosso vivo di tessuto idrostop, dryfit, sweatproof e non so cos’altro, una a maniche corte e una a maniche lunghe. Indossai dei pantaloni neri, lunghi e attillati, smaccatamente running e di un tessuto elastico non meno titolato del precedente. Calzai le scarpe perfette, che solo allora mi resi conto che avevano il giallo come colore predominante, mi guardai allo specchio e lì per lì mi venne in mente il costume di un supereroe dei fumetti. Tentennai per qualche istante ma poi, dopo una rapida scansione mentale dei miei miti d’infanzia, non ebbi più dubbi: sembravo Paperinik. La differenza più vistosa, tra lui e me, risiedeva nel fatto che, mentre lui aveva la decenza di girare mascherato, io mi apprestavo a uscirmene bellamente a volto scoperto. Comunque, quell’abbigliamento era tanto ridicolo alla vista quanto confortevole al tatto, quindi decisi che andava benone. Solo, ebbi la

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premura di mettere sopra dei pantaloni della tuta, per andare dal portone alla macchina e viceversa, nonché di scegliere un luogo isolato per il mio debutto. Il galoppatoio a quindici chilometri da casa mi sembrò il luogo ideale. E’ scomodo da raggiungere ma, scendendo dall’auto, ci si ritrova come d’incanto nella brughiera scozzese, ai bordi della foresta di Sherwood. Insomma, un angolo di Gran Bretagna, con tanto di luci e aromi ad hoc, che non ha nulla a che spartire con i dintorni e dove, cosa più importante, alle sei e mezza del mattino non c’è nessuno che possa notare un pagliaccio che corre.

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3 Lasciai la strada principale e parcheggiai nel punto in cui una strada sterrata confluisce con altri tre viottoli di breccia bianca, in una piazzola su un angolo del campo gara principale. Si tratta di un’enorme spianata di prato ovale con alcuni ostacoli fissi di legno bianco, qualche pino ai bordi, alcuni tratti di staccionata, un gazebo dal tetto di paglia e un ponticello su un ruscelletto che corre a fianco del lato lungo dell’ovale. Dalla parte opposta alla piazzola di parcheggio, al di là dell’ovale, il terreno inizia a salire in una serie di collinette erbose, anch’esse disseminate di ostacoli di varia natura, fino ad arrivare a una foresta di querce. Provai a rievocare l’immagine dolce della corsa che mi aveva accarezzato la sera prima e mi dissi: “Potresti gentilmente correre per due minuti e poi camminare per un minuto, ripetendo l’operazione per sei volte, per piacere?” Feci partire il cronometro e iniziai a correre. Fu tremendo. Avevo il sole d’aprile alle spalle e un vento invernale di fronte, col risultato che mi sembrava di dare la schiena al camino acceso in una casa di montagna senza riscaldamento. Ero come in preda a una beffa della natura: l’aria mi sembrava talmente fredda da gelarmi i polmoni, mentre sulla schiena sentivo scendere il primo rivolo di sudore. E mentre sentivo le fauci disidratarsi a ogni passo, perdevo fiotti di liquidi dal naso e dagli occhi. Mi sentivo rimbalzare sul terreno ma il mio movimento non aveva niente di morbido né di elastico. La sensazione era piuttosto quella che potrebbe provare un tubo di piombo lanciato giù per una scogliera. L’orizzonte non faceva altro che sparirmi dal campo visivo, ora in basso, ora in alto, con un ritmo al quale il cervello, sbatacchiato nella scatola cranica, non riusciva ad adeguarsi, complice anche la

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lacrimazione che mi dava del mondo la stessa visione che se ne avrebbe guidando sotto un temporale con i tergicristallo rotti. Avrei abbandonato, se quel figlio d’un cane del cronometro avesse aspettato ancora un secondo, per darmi il permesso di smettere di correre e di iniziare a camminare per un minuto brevissimo, prima di tornare a correre per altri due minuti eterni. Sembrava che il mio orologio camminasse mentre correvo e corresse mentre camminavo, come se il suo programma d’allenamento prevedesse: “cammina 2 minuti, corri 1 minuto”. Il mio invece sembrava prescrivere: “corri 2 minuti, balla il twist 1 minuto”. Nel camminare, infatti, le mie ginocchia si piegavano e si distendevano, a prescindere dalla mia volontà e a dispetto di qualsiasi logica, in un movimento disorganizzato che non rispettava i tempi della camminata bipede. Folleggiavo in una serie di rimbalzetti, tra giulivi saltelli e accennate genuflessioni. Nella metà opposta del giro la situazione si ribaltò senza migliorare. Il vento mi gelava il sudore sulla schiena (incurante del dryfit e delle altre certificazioni) e il sole mi costringeva a battere le palpebre a un ritmo forsennato. I tergicristallo erano finalmente partiti ma stavano decisamente esagerando. Portai a termine le sei ripetizioni e finalmente, in buono stile Jerry Lewis, tornai alla macchina. Credetti che avrei continuato ad ansimare per il resto dei miei giorni. Le pulsazioni cardiache avevano aggiunto un rullo di batteria all’abituale fischio nell’orecchio sinistro e il fischio era diventato così acuto e potente che, vedendo alcuni cani da pastore avanzare verso di me, pensai che le due cose fossero collegate. Anche se per innestare la prima mi fu necessario spingere con la mano sul ginocchio sinistro, per vincere la resistenza del pedale della frizione, ero ancora intero. Malconcio, forse, ma intero e soddisfatto di me. Mi ero alzato presto per andare a correre, avevo fatto il mio dovere e ora mi attendevano doccia e colazione, anzi, prima la colazione e poi la doccia. L’euforia mi accompagnò per tutta la mattinata. All’una meno dieci, ora italiana, mi addormentai in videoconferenza nella sala riunioni del secondo piano. Ci sono persone che affermano di subire dalla caffeina, normalmente eccitante, l’effetto contrario. Forse a me risultavano soporifere le endorfine?

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Fatto sta che l’amministratore delegato interruppe con un po’ d’anticipo la videoconferenza con Stoccolma per la pausa pranzo e poi, presomi da parte, mi consigliò amichevolmente e con tanto di strizzata d’occhio di schiacciare un pisolino in macchina. Ero sul punto di chiedergli se avessi russato in Italiano o in Inglese ma decisi di non abusare della comprensione e della nobiltà d’animo che mi aveva riservato. Mi aveva visto assopirmi in ufficio e non aveva fatto una piega. Non credo che avrebbe dimostrato lo stesso britannico distacco, se avessi provato a metterla in burletta. E meno ancora se mi avesse visto zampettare in collant neri di prima mattina. Non credo proprio. Soprattutto non credevo che l’avrei passata liscia una seconda volta, perciò mi dissi: “Sii prudente, vacci piano con queste endorfine. Qualunque cosa siano.” Il pomeriggio scivolò via senza ulteriori incidenti e la sera, con l’ennesimo sforzo di volontà, andai in palestra, dove mi sembrò opportuno eseguire degli esercizi piuttosto pesanti per polpacci, cosce e glutei. Volevo irrobustire l’aspetto degli arti inferiori da trampoliere, se non altro per dare un senso ai tecnicissimi pantaloni running, mettendone alla prova l’accattivante elasticità, altrimenti del tutto inutile.

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4 Se avete mai provato a tenere un piede o una gamba immersi nell’acqua gelida, lasciando fuori, magari al tepore del sole, il resto del corpo, sicuramente avete chiaro che quello che a un tratto vi ha spinto a far riemergere l’arto con grande sollievo era un vero e proprio dolore. Un dolore diffuso di cui non era possibile individuare l’epicentro. Bene, è esattamente ciò che provai l’indomani, al risveglio. Non so dire se dovuta alla corsa, ai pesi o alla micidiale concomitanza delle due cose, ma quella che provavo era una netta sensazione di dolore su tutto il corpo dalla vita in giù. Anzi, dovevo averla già da un po’ quella sensazione, se, come ricordai di lì a breve, il cervello per tutta la notte non aveva fatto altro che proiettarmi in sogno le stesse immagini, nelle quali due o tre energumeni, a turno, mi prendevano a bastonate sulle gambe. Non ricordo con precisione l’evolversi del sogno ma a occhio e croce direi che non mandarono a vuoto un solo colpo, quei bastardi. Fui preso da considerazioni negative. Non ero più così certo di essere ancora intero. Infatti, almeno a giudicare dai segnali che ne ricevevo, la parte superiore del corpo e quella inferiore sembravano non appartenere alla stessa persona e, con un pizzico di vittimismo, ritenni una profonda ingiustizia nei miei confronti quella di farmi patire dolori muscolari così grandi per muscoli così piccoli. Per riuscire ad alzarmi e provare a deambulare avevo bisogno di individuare un aspetto che giustificasse almeno un minimo di ottimismo e lo trovai nel constatare che, perfino in quella situazione, il mal di schiena che per un paio d’anni mi aveva flagellato e da un paio di mesi ritenevo guarito sembrava guarito davvero. Ines aveva fatto un ottimo lavoro e con sole tre sedute. Non è quello il suo vero nome, ma sono talmente abituato a chiamarla così che non ricordo come si chiami realmente. So solo che è

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un’osteopata veramente in gamba, che con me ha ottenuto risultati eccezionali in breve tempo e per di più operando sempre con estrema delicatezza. Delicata nei movimenti, anche quando questi erano mirati a ripristinare l’assetto della colonna e delle articolazioni. Delicata nel tono della voce, nell’ indicarmi la cadenza giusta della respirazione, cosa che usava fare sussurrando dapprima un esplicito “inspira-espira”, poi semplicemente un accennato “in-es, in-es” da cui il nome che le ho dato. Quella delicatezza non quadrava proprio con l’idea dello scrocchiaossa che avevo in mente e inizialmente mi portò a temere di aver intrapreso l’ennesima, interminabile, inefficace terapia. Quindi, quando al termine della terza seduta Ines mi aveva detto: “Sono convinta che tu stia a posto e che non abbia più bisogno di me”, lì per lì non l’avevo presa benissimo e avevo avuto quasi l’istinto di annusarmi le ascelle per verificare che non originasse da lì la sua determinazione a disfarsi di me. Invece, esattamente dal giorno dopo, avevo ricominciato ad alzarmi dal letto e a camminare in avanti ed eretto, anziché piegato in due e di lato come un granchio, come ero abituato a fare nella prima mezz’ora di tutte le mie giornate degli ultimi due anni. Io non credo nelle magie né nei miracoli né nelle teorie vagamente esoteriche della nuova medicina alternativa, ma di una cosa sono certo: Ines mi aveva liberato da un annoso problema con cui pensavo di dovermi rassegnare a convivere. E’ possibile che la terapia non fosse altro che una preparazione a quella frase detta alla fine, che, proprio grazie alla serafica fermezza con cui fu pronunciata, ebbe il potere di convincermi di essere guarito. Quindi è possibile che quella frase rappresentasse l’unico, vero principio attivo della sua cura. In ogni caso, questo dubbio irrisolto e lo pseudonimo a cui non so sostituire il vero nome di battesimo fanno di Ines una figura misteriosa e mitologica, nella mia mente. Grazie a lei, ogni volta che ho un disturbo, penso che forse si tratta solo di una mia convinzione e che, se riesco a maturare la convinzione contraria, ne guarirò. Così quella mattina mi convinsi ad alzarmi, ma per maturare la convinzione di non avere le gambe dolenti mi ci vollero altri tre giorni. Nei rari casi in cui mi prefiggo un obiettivo concreto e mi metto veramente in testa di raggiungerlo, magari impreco e sbraito al

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presentarsi degli ostacoli, ma ho grosse difficoltà a darmi per vinto; ciononostante, ricordo perfettamente almeno un paio di circostanze in cui, quel giorno, mi dissi che probabilmente avrei mollato la corsa, mentre per il resto della giornata omisi il probabilmente. Ogni volta che mi sedevo, questa semplice operazione, se non preceduta da un’adeguata preparazione psicologica, mi strappava un gemito per il quale con alcuni mi sentivo in obbligo di spiegare, quasi scusandomi, che si trattava di dolori muscolari, dei quali fornivo anche le ragioni. Ad altri, coi quali ero meno in confidenza, lasciai invece la libertà di pensare che soffrissi di emorroidi in fase acuta. Tutto sommato, quelle non te le vai mica a cercare, vengono e basta. Quindi, per certi versi, mi pareva una condizione più dignitosa. I tre giorni di disagio che mi attendevano passarono lentamente e, di tanto in tanto, riesaminavo l’opportunità di perseverare nell’impresa a cui, in definitiva, mi ero soltanto avvicinato senza entrarvi realmente. Figuriamoci! Alcune delle cose che avevo sentito dire sulla corsa mi tornavano in mente alla rinfusa: “La corsa dà entusiasmo e gioia di vivere”, “induce la produzione di sostanze benefiche per lo stato psicofisico e perciò facilita il sonno e rende la mente più vigile”, “crea dipendenza”, “…in altre parole ci rende più felici ”. Nel tentativo di rispecchiarmi in tutto ciò, pensai che, in effetti, la fine del primo allenamento mi aveva dato gioia; in sala riunioni mi ero addormentato con grande facilità e, al pensiero di rincontrare in sogno i ceffi che mi randellavano le gambe, rimasi vigile per diverse ore, la notte successiva; le condizioni pietose in cui versavo dipendevano effettivamente dalla corsa e infine sì, ero sicuramente più felice. Ma rispetto a chi?

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5 In ufficio avevo alcuni colleghi con la passione del running, i quali, sapendo di quel mio avvicinamento alla loro passione, mi chiedevano, mi consigliavano, mi incoraggiavano come fedeli di una religione che prescriva il proselitismo. Fu proprio per colpa di questi calorosi inviti a entrare nel loro club e di questo loro accogliermi a braccia spalancate (che non mi sentivo di rifiutare né di deludere), se mi ripresentai un venerdì pomeriggio, vestito non meno ridicolo della volta precedente, nel grande prato del galoppatoio, pronto per la seconda seduta d’allenamento. Seduta? Ovviamente, se mi fosse venuto in mente uno sport in cui ci si alleni davvero da seduti, lo avrei barattato con la corsa senza pensarci un attimo. Giuro. Stavolta l’ambiente era tutt’altro che deserto. C’erano mamme con bambini, ragazzi che giocavano a pallone, passeggiatori con e senza cane al seguito, cavalieri e, ovviamente, corridori. Mi dilungai un po’ nelle operazioni di riscaldamento e, appena la folla mi sembrò diradata, sfilai la tuta, avviai il cronometro e partii. “Corri 4 minuti, cammina 2 minuti, ripeti 4 volte”. Sempre se non ti dispiace. Esistono teorie infinite sull’ora della giornata in cui è più indicato fare sport. Alcune di queste partono dal presupposto che esistano dei bioritmi quotidiani, diversi per ognuno di noi, oltre a quelli classici, a periodo più lungo. Altre sostengono che il momento della giornata più adatto all’attività fisica inizi per tutti alle sei del pomeriggio. Non ne so molto e quindi non ho un parere preciso in merito, però quel secondo allenamento, per quanto confortevole e rilassante al pari di un conato di vomito, rappresentò un miglioramento insperato rispetto al precedente. Per vari motivi. Innanzitutto, i segmenti destinati alla corsa erano di durata doppia rispetto ai due minuti della prima sessione, e questo aspetto, se da una

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lato garantiva una percentuale doppia di possibilità di lasciarci le penne, dall’altro cominciava a dare alla sfida una dimensione accettabile, quasi dignitosa. In secondo luogo, i due minuti di camminata, anch’essi di durata doppia rispetto alla prima seduta, si rivelarono abbastanza lunghi da riconsegnarmi alla successiva fase di corsa in condizioni molto simili a quelle di partenza, quindi quasi di riposo. Questo ebbe su di me un ottimo effetto psicologico, prima ancora che fisico. Terzo, il numero ridotto delle ripetizioni, passate da sei a quattro, mi fece sentire molto vicino all’agognato riposo per tutta la durata dell’allenamento, e anche questo fu un toccasana per lo stato emotivo. Quarto, comunque mi pareva di essere più ammortizzato e riuscii a concentrarmi sul ritmo dei miei passi e della respirazione, nel tentativo di trovare tra le due cose l’equilibrio che mi permettesse di dosare nel modo migliore le energie di cui disponevo, magari traducendo tale equilibrio in una velocità costante. Capii presto quanto questo fosse difficile ma trovai comunque un escamotage, almeno per mantenere la velocità di crociera. All’inizio dei secondi quattro minuti di corsa, notai che tra i pochissimi rimasti c’era una ragazza che correva a una velocità che mi parve abbordabile e, siccome mi sembrava che avesse una corsa piuttosto plastica e fluida, pensai che sicuramente era in grado di allenarsi a velocità costante. Così provai a sintonizzarmi sul suo ritmo, mantenendo costante la distanza, rimanendo dietro di lei. Ovviamente, questa sorta di moto solidale s’interruppe nel momento in cui scattò per me la successiva fase di camminata, giunta in verità meno agognata del solito, anche se lì per lì non ci feci caso. La distanza tra noi aumentò al punto che non mi era più possibile capire se la mia andatura, una volta tornato a correre, mi avrebbe fatto perdere o guadagnare terreno nei suoi confronti. Stavo per ricominciare a correre e mi trovavo a una ventina di metri dall’entrata in curva di quella grande, immaginaria pista d’atletica in erba su cui giravamo in senso antiorario, mentre lei stava uscendo dalla stessa curva, quasi simmetricamente alla mia posizione. Fui preso dalla curiosità e mi voltai alla mia sinistra per provare, nonostante la distanza, a scorgere i suoi lineamenti, ma non mi fu possibile.

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Feci in tempo solo a vedere che in quell’istante lei smise di correre e iniziò a camminare mentre il mio cronometro mi dava di nuovo il via e ripartii, chiaramente iniziando a riavvicinarmi. L’aveva fatto perché mi aveva visto distante e voleva che mi rifacessi sotto? E, se sì, perché? Oppure anche lei aveva ricevuto dal Diavolo una scheda personalizzata simile alla mia? Conoscendo le donne e soprattutto conoscendo il Diavolo e la sua capacità di arrivare ovunque, era decisamente più probabile la seconda ipotesi. Di sicuro, se se n’era accorta, non le dispiaceva l’idea di farmi da lepre. E neanche a me. Avvicinandomi, cominciai a soffermarmi con più attenzione su alcuni particolari del suo aspetto. Aveva una folta criniera di capelli mossi, quasi ricci, castani con una nota di rosso, credo naturale. Quanto meno quel colore, se naturale, si addiceva al colore della sua pelle rosata e molto chiara. Riuscivo a vederne un breve tratto tra le calze alla caviglia e i pantaloni al polpaccio. Il suo insieme cromatico e l’ambientazione evocavano l’immagine di un’irlandese e pensai che le sarebbe stato bene un bel paio d’occhi verdi. Non riuscii a notare di più perché, nel momento in cui tornavo pressappoco alla stessa distanza che ci separava al momento del mio “cammina 2 minuti”, quasi come se volesse liberarsi da quell’esame indiscreto, lei ricominciò a correre. E stavolta mi sembrò di dover spingere un po’ di più per mantenere invariato il distacco. La situazione si ripeté fino ai due minuti finali di camminata, che mi avrebbero riportato alla macchina, dove rinfilai i pantaloni della tuta e analizzai la situazione, prima di sedermi al volante. La respirazione e le pulsazioni si andavano normalizzando più rapidamente della prima volta. Insomma, a parte un leggero Parkinson alle rotule che continuavano ad andare su e giù, mi dissi che in generale era andata decisamente meglio. Solo che, a causa del solito, poderoso fischio nell’orecchio, dovetti ripetermelo a voce più alta. Era per l’orario decisamente più indicato allo sforzo fisico? Era perché l’organismo aveva già iniziato a reagire alle nuove sollecitazioni? O era perché durante l’allenamento mi ero concentrato su altro, distraendomi dallo sforzo ed evitando di aggiungere alla fatica fisica quella mentale? Forse tutti e tre questi fattori avevano contribuito all’inatteso, sensibile miglioramento.

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Ero preso da questi ragionamenti e stavo tentando di escogitare un sistema che, sfruttando questi aspetti, potesse rendere più semplici e produttivi gli allenamenti seguenti, ma decisi di rimandare quelle elucubrazioni, perché rappresentavano un’attività per la quale il cervello richiedeva quantità di zuccheri e ossigeno maggiori di quelle disponibili al momento. Estrassi dal cassettino il cellulare, già puntato sulla rubrica alla voce “Cardiologo”, per ogni evenienza, e nel mettere in moto vidi la mia lepre, sempre rigorosamente di spalle, salire su una monovolume verde e sparire nella direzione opposta a quella che avrei preso io. Non ero riuscito a vederla in faccia, quindi non avevo idea nemmeno della sua età. Trenta? Quaranta? Cinquanta? “Porca miseria!” pensai “Sta’ a vedere che ho tentato invano di raggiungere una sessantenne!” Mi rallegrai, pensando che non facevo lo scippatore. Non di mestiere. Comunque, decisi che per me era irlandese, giovane, atleticamente molto preparata e aveva un bellissimo paio di occhi verdi. Tanto nessuno, compresa lei probabilmente, mi avrebbe mai smentito. Inoltre stava facendo buio. Dei nuvoloni antracite si avvicinavano rapidamente da ovest e il galoppatoio era praticamente deserto. Così smisi di pensare a quelle sciocchezze e mi diressi verso casa, deciso a godermi la soddisfazione di aver portato a termine anche il secondo allenamento e a rimuginare sulla possibilità che avevo appena intravisto di edulcorare le mie fatiche. Mentre parcheggiavo sotto casa pianificai il fine settimana che stava iniziando: domattina palestra e domenica altra sgambata. E il mese prossimo? Olimpiadi? Vacci piano. Ma ormai ero euforico.

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6 Sapevo bene che l’intensità dello sforzo rappresentato da quegli allenamenti era lontana dal livello, raggiunto il quale, l’organismo comincia a trarre energia dal grasso, bruciandolo. Nonostante ciò, quella sera a cena decisi di concedermi qualche strappo e aggiunsi a petto di pollo e insalata una bella carbonara e un bicchiere di vino rosso, per i quali non provai alcun senso di colpa. Il risultato fu che prima delle dieci mi spensi come un cerino, abbandonando in un istante, e prima di giungere a qualsiasi conclusione, tutte le valutazioni degli eventi della giornata. Mi addormentai dolcemente e profondamente, con la sensazione che ogni cellula del mio corpo si stesse addormentando con me, nello stesso istante. Mi sembrò addirittura che anche l’orecchio sinistro avesse smesso di fischiare. Mi stavo chiedendo se non stesse per mettersi a russare ma non ebbi il tempo di rispondermi. Quel sabato mattina mi risvegliai animato da un’energia tutta nuova. Divorai la colazione e mentre mi davo il tempo per completarne la digestione, prima di consegnarmi spontaneamente ai pesi, avviai la lavatrice e la lavastoviglie e passai l’aspirapolvere. Tutte operazioni alle quali, volente o nolente, dovevo dedicare una fetta del fine settimana. Isolato dal resto del mondo per via della sinfonia degli elettrodomestici, tornai a concentrarmi sulla corsetta della sera prima e rilevai per la prima volta che la tabella degli allenamenti ne prescriveva soltanto la durata(t), senza fare riferimento alle distanze percorse(d), a eccezione dell’ultima sessione in cui si indicava la distanza(d) ma senza accennare al tempo(t), considerando sempre uno solo dei due elementi indispensabili per calcolare una qualsivoglia velocità(v). Quindi la formula v=d/t non era in alcun modo applicabile.

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Dando per scontato che non si trattasse di una dimenticanza da parte del Diavolo, era evidente che in quella fase la velocità fosse un parametro di nessuna rilevanza e che dovessi inizialmente abituare l’apparato respiratorio e quello muscolo scheletrico a sostenere uno sforzo di una certa durata e nulla più. Ma qualcosa non mi convinceva. L’allenamento più impegnativo che la tabella prevedeva prima dei dieci chilometri imponeva cinquanta minuti consecutivi di corsa. Quindi pensai che la previsione fosse che all’ultima seduta io sarei stato in grado di correre i dieci chilometri in cinquanta minuti o poco più. E se io avessi svolto tutta la preparazione correndo, per esempio, a una velocità di sette, otto minuti per chilometro? In questo caso, e volendo ipotizzare che io fossi in grado comunque di tenere una velocità costante, a prescindere dalla distanza, avrei avuto bisogno di correre per un’ora e dieci, un’ora e venti, prima di tagliare il traguardo dei diecimila, cioè ben venticinque minuti in più della massima durata sopportata fino ad allora. Poco più, poco meno. Forse non ce l’avrei fatta. Forse il Diavolo sapeva che sarei stramazzato al settimo chilometro, proiettando lui al settimo cielo. Provai a ripercorrere i lunghi anni della nostra amicizia per individuare un possibile motivo di rancore da parte sua, per qualche sgarbo del quale voleva vendicarsi anche a distanza di tempo. Ma non mi venne in mente niente. Non certo perché io abbia avuto sempre un comportamento ineccepibile, anzi. Piuttosto perché penso che di lui si possa dire di tutto ma non certo che sia rancoroso e vendicativo. No, c’era qualcos’altro che mi sfuggiva. In ogni caso mi convinsi ancor di più che, qualunque fosse la velocità alla quale andavo arrancando, era importante che questa fosse costante. Mi tornò in mente l’Irlandese. Quello di accodarmi a lei era stato un discreto stratagemma ma non era affidabile. Era impensabile che, a ogni allenamento, io potessi iniziare a correre solo dopo aver individuato la persona giusta da inseguire. Avevo bisogno di un altro genere di metronomo, ma quale? La musica? Come idea di fondo era sicuramente corretta ma non avrei sopportato l’i-Pod aggrappato da qualche parte e soprattutto non avrei sopportato la cuffia o altri aggeggi nelle orecchie. Inoltre correvo il rischio di sprintare sugli U2 e di accasciarmi su Michael Bublè.

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Però la musica avrebbe potuto rivelarsi utile a un altro scopo: mi avrebbe aiutato a distogliere l’attenzione dalla fatica, diminuendone il peso. Avevo queste tre questioni che mi giravano per la testa e non ne avevo risolta una. Anzi, andando in palestra ne aggiunsi una quarta: era il caso che lavorassi ancora sui muscoli delle gambe con i pesi oppure no? Il giorno dopo volevo tornare a correre e immaginavo quanto avrebbe potuto costarmi, se avessi passato un’altra nottata alla mercè dei tre aguzzini. D’altro canto pensavo anche che, se veramente volevo che l’organismo si abituasse a sostenere entrambe le sollecitazioni, non potevo fermarmi al primo, fallimentare tentativo. Decisi di riprovarci, pensando che la sgambata poche ore dopo i pesi mi avrebbe potuto aiutare a smaltire l’acido lattico, diminuendone l’accumulo. E così feci. La sera avevo la stranissima impressione che ci fossero delle palline da tennis nel materasso, perlopiù in corrispondenza dei glutei e della superficie esterna delle cosce, dove le sentivo premere con più forza. Questo non m’impedì comunque di dormire di un sonno profondo e la situazione non si rivelò così drammatica neanche al risveglio. Pioveva, quella domenica mattina. Non era una pioggia particolarmente intensa ma aveva una continuità che non prometteva niente di buono per il resto della giornata. Provavo un certo fastidio, al pensiero di dover rinunciare ad allenarmi per via della pioggia. Avevo provato, per la prima volta in vita mia, un pizzico d’entusiasmo nei confronti di un’attività da sempre detestata e sapevo bene che dovevo cogliere quell’istante fugace o sarei tornato nell’apatia, a pensare: “eh, sì, mi farebbe bene correre ma…” e giù sfilze di scuse e motivazioni validissime per non farlo. A pensarci bene, devo anche ammettere che quell’entusiasmo, evidentemente, non era sufficiente a farmi prendere in considerazione l’idea di correre sotto la pioggia. E ci mancherebbe altro! Poco prima delle quattro del pomeriggio, smise di piovere intensamente e iniziò a piovigginare a tratti e pensai che, se mi fossi cambiato e fossi uscito in tempi rapidi, magari sarei arrivato al galoppatoio mentre il cielo si andava rasserenando e avrei potuto sfruttare l’ultima ora di luce. Ebbi anche la brillante idea di portare con me il cane, così, nel peggiore dei casi, gli avrei assicurato la passeggiata e l’uscita non sarebbe comunque risultata inutile.

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E’ importante sottolineare che il cane che tengo in casa non è né un alano né un mastino ma semplicemente un bassotto. Femmina, per di più. Fin da quando ero bambino ho una passione viscerale per i cani. Per quelli veri, non per quegli animaletti più simili a sorci che a cani, che frequentemente abbaiano, anzi squittiscono con quella vocetta squillante che penetra nel cranio, disintegrando il sistema nervoso centrale. No, i cani di taglia piccola non mi sono mai piaciuti. a eccezione del bassotto. Il bassotto ha molto più del fumetto che del cane. L’espressione seria di chi si prende sul serio a dispetto delle proprie sembianze lo rende ancora più buffo e curioso. In più, quando abbaia, fa uno sforzo tremendo per emettere quel latrato baritonale, tipico di questa razza incredibile, come se questo potesse convincere avversari e intrusi di avere a che fare con una belva possente. Ma non è questo il motivo per il quale condivido l’appartamento con un cane. Va bene la simpatia, ma non mi sarei mai sognato di andare a cercarmi un impegno simile, se fosse stato per me. In realtà Tina, questo è il suo nome, doveva essere un regalo per una mia carissima amica che aveva da poco perso una femmina di bassotto di quindici anni, con cui era praticamente cresciuta e la cui scomparsa aveva rappresentato per lei una vera tragedia. Volevo che prendesse la cucciola con sé perché questa le occupasse la mente, non perché sostituisse la precedente. Ma lei non ne volle sapere e così, in un pomeriggio piovoso, me n’ero tornato a casa con trecento euro in meno nel portafoglio e un bassotto di tre mesi nell’impermeabile. Quello stesso bassotto che ora aveva sette anni e se ne stava silenzioso nel baule della mia macchina. Quando ero uscito di casa il tempo era davvero incerto e non sapevo neanche se mi avrebbe permesso di scendere dall’auto. Poi, mentre mi avvicinavo alla mia destinazione, il cielo si era alquanto ripulito e vagamente illuminato e io, preso com’ero a esaminare la situazione meteorologica, mi ero totalmente dimenticato di Tina nel bagagliaio, fin quando, nel parcheggiare, la sentii guaire per segnalarmi che non aveva intenzione di aspettarmi in macchina. Non spenderò troppe parole per dare un’idea della scena di cui mi resi protagonista, presentandomi al grande prato del galoppatoio, conciato in quel modo e con tanto di cagnolina al guinzaglio.

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Mi sembra però doveroso riportare che dal primo gruppo di ragazzi a cui passai a fianco si levò una bella risata collettiva. Ovviamente non ho idea del motivo del loro sghignazzare sguaiato né intendo azzardarmi a indovinare alcunché. Riporto solo che ci fu una risata al mio passaggio e che forse le due cose non erano correlate, ma forse sì. Liberai il cane dal guinzaglio mentre facevo finta di scaldare i muscoli. In realtà aspettavo di vedere andar via un po’ di gente che però era arrivata lì da poco, appena smesso di piovere, e sembrava intenzionata a farci buio. A proposito, quanto mi rimaneva di luce, un’ora? Forse qualcosa di più, forse qualcosa meno. Dipendeva dal diradarsi o riaddensarsi delle nuvole. Tornai a guardare in basso e mi accorsi che Tina si era allontanata di una trentina di metri per raggiungere un gruppo di cani, tutti pressappoco della sua stazza, che gironzolavano intorno a una giovane donna. Mi avvicinai incuriosito perché più li guardavo, più mi sembravano un piccolo branco di bassotti. Quando fui a pochi passi dalla donna, questa si voltò e si precipitò a giustificarsi: “Ho un allevamento, non sono pazza. Perché una che va in giro con nove cagnetti, tanto normale non deve sembrare.” Lì per lì mi ricordò Patty Smith. Magra, sulla quarantina, con la faccia ossuta e le labbra sottili, leggermente ripiegate all’ingiù sui lati; i capelli biondi, appena ondulati, lunghi e senza frangia, che, divisi esattamente al centro del cranio, le scendevano in verticale sulle guance fino allo sterno spigoloso. Con l’aggiunta di un laccetto di cuoio sulla fronte, sarebbe stata una perfetta figlia dei fiori. Immagine, questa, che strideva con l’intonazione nasale, vagamente snob, la quale a sua volta strideva con l’accento romanesco piuttosto carico. Indossava dei texani neri e jeans scoloriti e sopra s’intravedeva una maglietta bianca e scollata che si affacciava dal giubbotto di cuoio nero. Stavo per spiegarle che neanch’io ero pazzo, ma poi mi resi conto che non sapevo proprio da dove cominciare per sostenere che, nonostante il costume da supereroe e il cagnolino, non ero né suonato né depresso. Mi sembrò molto più semplice ammettere: “Io, invece, un po’ matto lo sono.” Ebbi la malaugurata idea di chiederle dell’allevamento e quella esordì dicendo che da diciannove anni allevava bassotti, soprattutto di taglia

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nana, a pelo lungo, corto, liscio, duro, cotonato, ossigenato e non so che altro. Poi mi disse che Birillo era uno splendido standard di razza, che Milly e Mimì avevano vinto vari titoli di bellezza, tra cui dei best-in-show, e che Drago, oltre a vantare svariati premi per bellezza e lavoro, era anche campione riproduttore (deteneva un record per numero di copule o era particolarmente abile nelle imitazioni?). In ogni caso, con un nome del genere, era lecito aspettarsi che fosse campione italiano di briscola e tresette, come minimo. A quel punto mi sembrò quasi un’insolenza imperdonabile il fatto che Tina si fosse impunemente infiltrata in quel raduno di campioni e, per mettere bene in chiaro come né lei né io avessimo alcuna pretesa, spiegai che dal mio cane potevo aspettarmi al massimo che vincesse un premio simpatia. Aggiunsi che però il fatto che a sette anni Tina fosse già in terza elementare, perché era un anno avanti negli studi, era per me motivo di grande soddisfazione. Patty Smith si piccò moltissimo per quell’ironia che credette rivolta a sminuire il valore dei trofei del suo allevamento e diede inizio a un’invettiva nei confronti di noi “allevatori fai da te” che, con la nostra superficialità, non facciamo altro che svilire il prezioso lavoro dei veri allevatori i quali, invece, assicurano all’umanità intera la conservazione della purezza delle razze canine. Era un fiume in piena: “Ecco, vede? Non si offenda, eh! Ma la sua, che stento a definire bassotta, ha le zampe posteriori troppo lunghe, non ha sterno e soprattutto non è per niente angolata. Dia retta a me, questo è il biglietto da visita del mio allevamento, siamo anche su internet. Se davvero le piace la razza, mi contatti, ché le faccio prendere io un cane come si deve!” Stavo per chiederle se facevano anche permuta dell’usato, ma poi non ne sarei uscito più. Per fortuna ci pensò Tina a togliermi d’impaccio. Di punto in bianco si lanciò in uno sprint mozzafiato che sul momento mi fece pensare che se la fosse presa per i commenti della donna. Poi però mi resi conto che si era lanciata all’inseguimento di un cavallo al galoppo con tanto di amazzone in sella. Strappai il biglietto da visita dalle mani di Patty Smith, ringraziandola, e mi lanciai anch’io all’inseguimento.

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Una cavallerizza sul suo destriero al galoppo blando, inseguita ventre a terra da un bassotto senza sterno, inseguito a sua volta da Superpippo che fischiava come un forsennato. Una scena difficile da immaginare e ancor più difficile da descrivere. Mentre correvo e fischiavo all’indirizzo del cane che sembrava diventato sordo, pensai a quanto mi sarebbe stato bene un bel mantello nero svolazzante. Altro che Zorro! Poi, mentre mi rendevo conto che stavo di nuovo correndo, guardai meglio in direzione dell’amazzone, per capire se si fosse resa conto del duplice inseguimento che aveva scatenato, e mi parve che non se ne curasse affatto, anzi, forse non si era nemmeno voltata. Mi accorsi però che la criniera, la forma delle spalle e la sagoma della schiena sembravano proprio quelle dell’Irlandese. Anche il colore degli occhi era lo stesso immaginario verde di due giorni prima. Come due giorni prima impossibile da scorgere. Sì, quasi certamente si trattava della stessa persona. e io la stavo inseguendo di nuovo ma stavolta alla massima velocità, anziché a velocità costante. E’ probabile che tra le due non ci fosse una grande differenza e forse si trattò di una semplice casualità. Fatto sta che, nel correggere il passo dopo aver posato il piede su una sporgenza del terreno, sentii il polpaccio destro contrarsi in un crampo difficile da giustificare, con un centinaio di metri di corsa. Andai avanti per una ventina di metri, improvvisando un hip hop molto ritmato, prima di sedermi a terra intonando un maestoso canto gregoriano. Provai a tirare con le mani la punta del piede verso di me ma, siccome non riesco a toccarmi le punte dei piedi senza piegare le ginocchia, si rivelò un tentativo inutile. Alla fine mi rialzai in piedi e con la pianta del piede a terra e la gamba distesa indietro cominciai a spingere il ginocchio verso il suolo e pian piano sentii il polpaccio che si distendeva, con mio enorme sollievo. Rimasi in quella posizione fino a quando Tina tornò indietro con la lingua di fuori, in una smorfia che sembrava un luminoso sorriso. Non beffardo, magari rivolto a me e alla mia posizione ridicola. No, no, era proprio un sorriso radioso. Sembrava che volesse manifestare la sua gratitudine nei miei confronti per averla portata in quel luogo magico, dove si era concessa il lusso di inseguire un cavallo e di liberare in quell’inseguimento tutta l’energia di cui erano capaci le sue zampe posteriori, troppo lunghe

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per lo standard di razza ma troppo corte per tenere il passo dell’equino. Piuttosto, almeno lei era riuscita a vedere in faccia l’Irlandese? E l’Irlandese si era accorta di quello strano individuo che correva, fischiava e poi si dimenava a terra, ululando frasi (spero) incomprensibili? E, se sì, lo aveva identificato come lo stesso che le correva alle calcagna due sere prima? E lo aveva segnalato al più vicino posto di polizia? Il sole, ormai parzialmente oltre l’orizzonte, illuminava le nuvole da sotto e sembrava che qualcuno stesse per rovesciare una cassetta d’arance sul galoppatoio e sui miei quesiti. Era tardi. Il fine settimana stava lasciando il posto alla fine della settimana, che è una cosa completamente diversa. Tornai alla macchina decisamente amareggiato. L’allenamento che comandava “Corri 10 minuti, cammina 5 minuti, ripeti 2 volte” non aveva avuto luogo, nonostante l’euforia e la determinazione dei giorni precedenti. Ancor più amareggiato era il mio tono quando, aprendo il portellone del bagagliaio, avevo invitato Tina a salire in macchina: “ Dài, salta su. Trecento euro, mi sei costata. E manco angolata, sei!” Angolata o no, mi pareva chiaro che i miei allenamenti e le sue passeggiate non potessero far parte delle stesse uscite. Per più d’un motivo. Mentre tornavo a casa, ripensai all’Irlandese e a tutte le domande che mi ero posto sul suo conto. In fondo tutta quella curiosità era assolutamente ingiustificata. Poi ripensai anche a Patty Smith, a quello strano atteggiamento per cui, se le davo del lei, si prendeva la confidenza di darmi del tu e, se mi accordavo al suo tu, riprendeva le distanze con il lei. C’erano alcuni aspetti del suo carattere che stentavo a decifrare. Non sapevo dire se si trattava di una persona distratta o se era semplicemente poco interessata agli altri e meno ancora a ciò che questi pensano o dicono. Eppure si era precipitata a farmi sapere che aveva un allevamento e non era una squilibrata che se ne andava in giro con nove cagnolini. Quindi era apparentemente attenta e interessata nei confronti del prossimo e della sua considerazione. Si era anche preoccupata, eccome, di mettermi a conoscenza del suo giudizio sugli allevatori superficiali e sui mostri fuori standard che questi generano, per via degli accoppiamenti scriteriati.

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Mi chiesi se valutava allo stesso modo anche gli umani. In verità ero e sono tutt’ora convinto che tanto io quanto Tina rappresentiamo dei perfetti standard di razza, al pari del suo meraviglioso Birillo. Si tratta solo di capire di quale razza.

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7 Quando ero bambino avevo due autentiche fissazioni: il calcio e la Nazionale di calcio. Nonostante io abbia fatto tutte le elementari dalle suore e abbia maturato centinaia di ore di catechismo, che oggi potrebbero essere paragonate a un master e mi varrebbero svariate certificazioni in materia, non ho mai imparato a memoria il Credo. Tanto che quando ero a messa, nel momento in cui i fedeli erano chiamati a recitare tutti insieme e ad alta voce quella preghiera che mi pareva interminabile, per non correre il rischio di essere ripreso da qualche suora o di deludere i miei genitori, improvvisavo un vero e proprio playback, muovendo le labbra a caso, senza emettere alcun suono. Quando nella chiesa c’era poca gente e il mio trucco rischiava di essere scoperto, recitavo l’inizio del Credo fin dove la memoria mi sosteneva, poi mi facevo improvvisamente mistico e in uno slancio di pia devozione nascondevo il volto fra le mani giunte, biascicando frasi senza senso ma imitando la cantilena che invece avevo ben salda nelle orecchie. In compenso ero in grado di recitare a menadito la formazione titolare di Messico ‘70: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Bertini, Rosato, Cera, Domenghini, De Sisti, Boninsegna, Rivera e Riva. Mi veniva la pelle d’oca ogni volta che la ripetevo e sognavo di farne parte anch’io, un giorno. Ma non come tanti bambini che già allora sognavano di fare i calciatori. Io sentivo che quello era l’unico futuro possibile, per me. Quando, all’età di undici anni, alcuni miei compagni di classe mi dissero che erano aperte le iscrizioni alla scuola calcio del mio paese e che stavano per andare a iscriversi, corsi da mio padre per chiedergli il permesso di seguirli. Io e la mia famiglia abitavamo in campagna, qualche chilometro fuori dal paese, e non potevo pensare di raggiungere il campo sportivo per gli allenamenti e tornare a casa autonomamente. Perciò era

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indispensabile che ottenessi non solo il permesso ma anche un impegno da parte dei miei genitori. Mio padre, che non ha mai avuto passione per lo sport, ritenendolo anzi una cosa molto stupida, mi rispose seccamente: “No. Devi pensare a studiare.” Io ribattei che si trattava di due mezzi pomeriggi a settimana, più la partita la domenica mattina o il sabato pomeriggio, ma lui, inflessibile: “Sono già troppi. E poi, se ti facessi male, rischieresti di saltare la scuola. A pallone giocherai d’estate.” Gli feci notare che d’estate non c’erano campionati da disputare e lui concluse: “Allora vuol dire che non farai mai campionati.” E così fu. Continuai a dare calci al pallone ogni volta che potevo: da solo contro un muro, con mio fratello maggiore, due contro due a una sola porta, nelle sfide tra diverse classi alle medie e al liceo, in un torneo universitario, con i colleghi, a cinque, a otto. Ma sempre a livello amatoriale, spesso improvvisato, e comunque ho sempre giocato a pallone, mai a calcio. Ritengo superfluo aggiungere che non sono mai stato un fenomeno, ragione per la quale, soprattutto oggi a quarantacinque anni suonati, se voglio giocare con continuità, partecipando a un torneo, due sono le possibilità che ho a disposizione: essere il responsabile di una squadra o essere l’organizzatore del torneo. Quindi sono anni, ormai, che mi dedico a mettere su squadre di calcio a otto, aggiungendo via via nuovi elementi che, condividendo lo spogliatoio, familiarizzano tra loro fino a comporre una non virtual community tale da fare concorrenza a Facebook. Mi occupo dell’iscrizione della squadra, delle convocazioni, delle divise e, per garantire la disponibilità di queste ultime, addirittura del servizio lavanderia. Questo genere di impegni mi assorbe talmente tanto che, a un certo punto, quello che era lo scopo primario, cioè giocare, ha finito col passare in secondo piano. Così ogni benedetta settimana c’è una sera in cui, uscito dall’ufficio, vado al circolo, preparo la lista da consegnare all’arbitro, raccolgo la quota per l’affitto del campo, distribuisco le divise e, se conto un numero abbondante di presenti, di tanto in tanto mi siedo in panchina in giacca e cravatta, come un vero mister. Quello dell’allenatore, in verità, è un ruolo che non mi ha mai entusiasmato, ma oramai per me l’importante è vedere che tanti amici,

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più e meno giovani, condividono con me la passione per questo sport e sono soddisfatto così. Il mercoledì successivo all’allenamento abortito, fui rapidissimo nel disbrigo di tutte le pratiche per la messa in campo della squadra e, anziché sedermi in panchina, lasciai a un mio amico l’incarico di raccogliere le maglie a fine partita e mi precipitai a casa. Mi cambiai più lesto di Fregoli e poco prima del tramonto stavo già pestando l’erba umida del galoppatoio. Avevo deciso di non riprendere l’allenamento saltato la volta precedente e di passare al successivo, visto che i due erano praticamente identici, con l’unica differenza che il secondo, rispetto al “Corri 10 minuti, cammina 5 minuti, ripeti 2 volte”, accorciava gli intervalli di camminata, portandoli a due minuti. Una rapida occhiata alla spianata ovale rilevò la presenza di una coppia di ragazzi sulla trentina che correvano affiancati in senso orario, a passetti corti e lenti, entrambi un po’ giù di ritmo e un po’ su di peso; un siberian husky che portava al guinzaglio una coppia di mezza età e, in un pianoro adiacente alla pista ovale, un uomo vicino ai sessanta, dal fisico decisamente atletico, che stava eseguendo delle ripetute di quaranta, forse cinquanta metri, probabilmente per migliorare sulla velocità. Mi fermai a guardarlo per qualche istante e mi resi conto che quello correva sul serio. Aveva un passo rapido ed elegante ed ebbi la sensazione di coglierne, nonostante il completo nero dal collo alle caviglie, la contrazione dei muscoli che a turno intervenivano nel movimento, conferendogli un aspetto decisamente potente. Invidiabile. L’aria era grigia e umida e tirava una leggera brezza da ovest. Svestii la tuta, annodandola a una staccionata, come farebbe un cow boy con le briglie del cavallo, per impedire che il vento la soffiasse via. Avevo le ginocchia fredde e rigide, quasi dolenti, e in più quell’odore di erba bagnata istigava più a un tè davanti al fuoco che alla corsa campestre. Partii cercando un’andatura leggermente più lenta del solito, in attesa di scaldarmi un po’. Per tenere la mente occupata in pensieri diversi da quello della fatica, appena arrivato a quello che a occhio e croce mi parve il mio regime abituale, diedi un’occhiata al cronometro per capire in quanto tempo percorrevo un giro completo. Secondo più, secondo meno.

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Giravo in circa sei minuti. Naturalmente non conoscevo la distanza percorsa in un giro e quindi, di nuovo, non avevo dati sufficienti per calcolare la velocità. Ma al momento non era importante. Mentre eseguivo diligentemente i due minuti di camminata, calcolai a spanne che avrei terminato l’allenamento nei pressi dell’uscita dall’anello, quindi in prossimità della zona in cui avevo annodato la tuta e parcheggiato l’auto. Meglio così, visto che, sempre a occhio, avevo calcolato che avrei finito quasi a buio fatto ed ero rimasto da solo, a correre nel galoppatoio. O almeno così credevo. In realtà, poco prima che ripartissi, fui sorpassato dall’Irlandese che, spuntata da chissà dove con evidente ritardo, teneva un’andatura piuttosto sostenuta, come se la sua tabella (ma ne aveva una?) le prescrivesse di percorrere una certa distanza; faccenda questa che, col buio che incombeva, doveva sbrigare alla svelta. Fui combattuto tra la tentazione di seguirla a pari velocità, sottoponendomi a una prova più impegnativa, e il desiderio di temporeggiare, magari invertendo il senso di marcia, pur di togliermi la curiosità di vedere che faccia, che età e soprattutto che colore di occhi avesse. La curiosità di verificare la mia capacità di tenere quell’andatura per dieci minuti fu più forte. Decisi di inseguirla e mi sintonizzai sul suo ritmo, nel momento in cui la distanza fra noi era di una trentina di metri. Sentii che potevo tenere il suo passo, anche se mi sentivo sull’orlo di una crisi di crampi. Provai a distrarmi, cercando di cogliere qualche particolare in più sul conto di quella che ormai consideravo la mia lepre personale. Era vestita su per giù come la prima volta: k-way blu, pantaloni di cotone elasticizzato grigio azzurro fin sotto al ginocchio, capelli sciolti come sempre. Le calze stavolta erano più corte, appena visibili sopra al bordo della scarpa, dove si manifestavano in una striscia rosa fucsia. Le gambe erano senza dubbio atletiche, più robuste che grosse, e sotto ai polpacci torniti si vedevano ben staccati due garretti da cavallo. Stavo per esaurire i miei secondi dieci minuti di corsa. Avevo spinto più del solito e sentivo che le gambe andavano quasi da sole. Decisi di provare a raggiungerla e superarla, completando, se necessario, un giro in più al massimo della velocità che potevo permettermi in quel momento. Al diavolo la tabella del Diavolo!

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Ero quasi arrivato in corrispondenza della staccionata vicino all’uscita, quando presi questa scriteriata decisione. Feci una specie di saltello, come a scandire il momento in cui operavo il cambio di velocità, e lanciai lo sprint. Vi ricordate che le scarpe da corsa, per essere davvero adatte, devono essere abbondanti? Ecco, io invece l’avevo completamente dimenticato e stavo correndo come se avessi ai piedi un qualsiasi paio di scarpe, banalmente e squallidamente della mia misura. Ma non era così. Fu colpa di quello stramaledetto numero di troppo, se la punta del piede destro impattò violentemente con la base di un ciuffo d’erba, facendo impattare violentemente e a più riprese il resto del corpo con la nuda terra. Avvenne tutto in non più d’un secondo, ma la mia mente dilatò il tempo ed ebbi l’impressione di continuare a cadere per diversi minuti, durante i quali mi riproponevo di rialzarmi immediatamente, non appena avessi ripreso la cognizione del su e del giù. Ebbi la sensazione di aver fatto almeno tre capriole, accartocciandomi sul mio baricentro, tante furono le volte che sentii le ginocchia e le mani sbattere al suolo e che vidi il mondo venirmi contro la faccia. Alla fine atterrai sul mento e mi fermai. Istintivamente balzai in piedi di scatto, come certi portieri di calcio che si tuffano troppo lentamente per bloccare il pallone che finisce in rete, ma si rialzano così velocemente da inveire contro i compagni prima ancora che il pubblico sugli spalti abbia iniziato a esultare. Con la stessa rapidità con cui mi ero rialzato e in un unico movimento, voltai le spalle al punto in cui ero caduto e mi avviai verso la staccionata, come a dichiararmi estraneo all’accaduto: “non ero mica io, quel cretino stramazzato nel fango”. Non mi voltai più verso la spianata. Sentivo il mento pulsare all’impazzata. Mi dava la sensazione che lo si potesse vedere da lontano gonfiarsi e sgonfiarsi come la gola delle rane. Mi rinfilai la tuta come se niente fosse e ci fu una tale unità di tempo tra rovinosa caduta, resurrezione e vestizione, che un osservatore attento avrebbe potuto dedurre che si trattasse di un modo tutto mio di festeggiare la fine dell’allenamento. Non ero mai caduto di faccia prima d’allora. Mi sembrò spaventoso e incomprensibile. Mentre tornavo a casa in macchina mi venne da ridere e pensai solo allora che l’Irlandese era rimasta a correre da sola al galoppatoio dopo

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il tramonto. Per quanto tempo? Forse contava sulla compagnia di quell’unico, impavido corridore rimasto con lei sull’anello, incurante del buio? E come l’aveva presa quando questo si era invece rivelato uno sciatto pusillanime, fuggito a casa al calar delle tenebre? Si era accorta del mio capolavoro? In ogni caso, volendo vedere il lato positivo della situazione, a parte la sensazione di avere il mento di un altro, non avevo altre ammaccature né escoriazioni e soprattutto, dopo la doccia, secondo quello che ormai era per me un rito, avrei potuto depennare un’altra riga dalla tabella d’allenamento: “corri 10 minuti, cammina 2 minuti, ripeti 2 volte, ruzzolati come un verme e vattene a casa”. FINE ANTEPRIMACONTINUA...