ciclo di epica sportiva antica fabrizio corselli

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O O LIMPICHE LIMPICHE Ciclo di Epica Sportiva Antica Fabrizio Corselli Edizioni Mondogreco

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OO L I M P I C H EL I M P I C H E C i c l o d i E p i c a S p o r t i v a A n t i c a

F a b r i z i o C o r s e l l i

E d i z i o n i M o n d o g r e c o

Olimpiche

Celebrazione poetica

Olimpiche (Versione E-Book) – Fabrizio Corselli Copyright 2008. Seconda Edizione Mondogreco.

In copertina: il Diadumeno di Policleto.

Il Volo, la Profondità e la Salvezza dalla caduta

Elogio della scultoreità poetica

“Nell'imitare Pindaro si vola e si cade come Icaro”. Così Orazio ammoniva coloro che avessero imitato con troppa presunzione e spavalderia lo stile del poeta tebano. Un monito che nel tempo si estese anche a quei traduttori e linguisti che avessero tentato di scardinare senza umiltà e rispetto il suo linguaggio labirintico, denso di metafore e metonimie, per non parlare di quelle associazioni di idee inaspettate ed improvvise che ingloriosamente portano il nome di “voli pindarici”, ma che voli non sono, quasi come un paio di orecchie d'asino a commemorarne il profetico insuccesso al pari di Icaro (il termine “volo” viene così ad identificarsi come una sorta di dono e dannazione allo stesso tempo); uno stile unico ed

inconfondibile che avrebbe incenerito qualsiasi ingenuo tentativo di copiarne la poetica controversa. Ma, se da un lato è attestata tale impossibilità nell'imitarlo dall’altro è pur vera e fatta salva la possibilità di instaurare ancora un vivo rapporto tra la dimensione scultorea ed il testo poetico, prescindendo da ogni canone stilistico precedente e suggendone con dovuta parsimonia la concettualità ad essa sottesa. Così, legandoci al concetto di aletheos (non-oblio) che lo stesso Pindaro esaltava con grande vigore, la poesia si trasforma ancora una volta in arte del non-oblio. Gli stessi poeti corali esaltarono per tale situazione la loro indispensabilità, senza di loro non sarebbe stato possibile divenire un uomo esemplare (aner agathos) in quanto essi erano arbitri dell'aletheos: con la parola del poeta, l’aner agathos lo diventava a pieno titolo poiché egli non poteva essere riconosciuto come tale dal momento che rischiava sempre di subire dei rovesci di fortuna che avrebbero cancellato le sue imprese se non adeguatamente commemorate. La poesia celebrativa in questa maniera fissa i suoi canoni e le sue strutture, il suo modo di essere scritta, affondando le proprie radici nel mito e nel concetto della metafora scultorea, dal momento che le due forme d'arte risultano essere più intime di quanto si possa pensare: lo scultore ed il poeta scolpiscono una misura (concetto che Simonide ben evidenzia nel suo carme a Skopas) 1. Con la stessa enfasi del poeta corale, bisogna vedere le strofe come blocchi di marmo squadrati apparentemente non giustapponibili tra loro, una perpetua costruzione di un monumento eretto alla gloria dell'oggetto celebrato, la cui instabilità apparente - denotativa del senso dell'incompiuto, dell'indefinito dell'Arte - in virtù dell'arte poetica e dell'esuberanza dell'ornamentazione partorisce un prodotto organico carico di tensione dialettica ossia di forza di legame tra le diverse strofe, intese nella loro più alta accezione d’unità ritmico - melodica e nucleazione ideativa, una vera e propria esplosione simbolica attraverso l'innesco dirompente del traslato e delle diverse figure retoriche. Si aggiunga ulteriormente all'interno di ogni testo lo sviluppo poetico del concetto di “drappeggio” scultoreo, non più inteso nella sua perspicua referenzialità di insegnamento da parte dell'arte «intorno al vestimento delle nudità delle figure e sulle pieghe dei vestiti» ma

come riverbero della parola sulla parola, un addossarsi dell'una sull'altra, in sostanza una propaggine concettuale che nel proprio metaforizzarsi si comporta al pari di piccole pieghe che «nascono con dolce moto dalle pieghe più grandi e si perdono di nuovo in esse con nobile libertà e dolce armonia del tutto». Una cosmogonia semantica quanto figurativa che trova la sua culla iperborea col mirabile esempio platonico «di quei Sileni, messi in mostra nelle botteghe degli scultori, che gli artigiani costruiscono con zampogne e flauti in mano, e che, quando vengono aperti in due, rivelano di contenere dentro immagini di déi 2». Un’ascensione tensoriale verso il Sublime che scorre lungo le venature poetiche non del marmo ma attraverso le tinte chiaroscurali della metafora testuale, assorta in un dinamico gioco di forze e contrappesi connotativi che preservano la poesia dalla sua inesorabile caduta 3. Una bellezza nascosta che il poeta eterna nel ridiscendere quelle viscere significative della poesia attraverso le proprie anse testuali come l’Orfeo cantore nell’Ade 4. In codesto luogo d’apparente grigiore, dove ciclicamente vige il senso dell’etereo, dell’incompiuto e del non definito, quali caratteristiche fondamentali di una instabilità necessaria attraverso cui l’arte rivive e si rinnova, prende piena forma e si realizza il nucleo ermeneutico della propria salvezza. Un percorso, questo, irto di pericoli e insidie che farebbero la felicità del filologo o del critico nella veste di argonauta, conteso non da un bivio bensì da un trivio fluviale nelle dirette figure isotopiche dei fiumi infernali Lete, Stige e Flegetonte; dei tre soltanto i primi due asservono alla mirabile funzione d’obliare la mente di quella povera anima-lettore, preparandolo ad una necessaria dimenticanza e svuotamento semantico, sintomatico di un pieno annullamento di ogni forma di prevenzione o luogo comune dinanzi al testo poetico, ma soprattutto di fronte alla superficialità posta nei confronti della molteplicità accettiva della parola. Soltanto un’ostinata e consapevole subtilitas estetica a salvare chi s’aggira nel regno incolore di un “Ade” più che mai rappresentativo di quell’incapacità umana di comprendere ciò che va oltre le cose. Non una Persefone o un Aidoneo dei quali soggiogare la piena volontà, né una fiammeggiante ruota d’Issione da arrestare affinché s’avveri quella condizione necessaria che vedrebbe il poeta nella veste di orfico “contemplante” dinanzi ad un oscuro abisso. Qui, il poeta vestirà i panni di un’inedita Euridice, cinica e crudele nel rendere consapevole chi s’addentra nell’oscurità più tetra della metafora e dell’allegoria, di quella illusione di cui si nutre ogni anima artistica e che viene solamente percepita con fuggevole sguardo («ciò che piace al primo sguardo, cessa di piacere un momento dopo: quello che uno sguardo passeggero ha potuto raccogliere, un occhio attento lo disperde, e il belletto sparisce. Tutte le grazie acquistano la loro durata mediante lo studio e la riflessione, e si cerca di penetrare più profondamente il piacevole nascosto. Una bellezza seria non ci lascerà mai soddisfatti e contenti» come lo sconforto del figlio d’Eagro nel non sentire dietro di lui l’immagine della propria amata). Nella rilevazione di tale bellezza, in cui «si crede di scovare continuamente nuove attrattive» e che diviene sommo principio ciclico della sua immortale grandezza, il limite tra il fuggevole (il cosiddetto “colpo d’occhio” attraverso cui si eleva l’essenza dell’arte) e la contrapposta profondità d’analisi (che di contro distrugge la bellezza) va pur sempre mantenuto, facendo fede all’identificativo senso del mito orfico, di questa incapacità umana di adeguarsi alle leggi meccaniche della natura e che qui vengono sostituite da una più ferrea legge scritturiale soggiacente alla sprovvedutezza del lettore ingenuo, il quale voltosi indietro, estingue per sempre l’illusione della migliore interpretazione possibile del testo. Ma il lettore non è uno solo, e così il senso di quella stessa collettività che ha contraddistinto la poetica tirtaica, in cui i valori dell’orgoglio e del coraggio non appartengono più all’individuo

ma alla comunità - qui intesa parimenti come pubblico di fruizione -, più che mai costringe adesso «il poeta alla rinuncia di sé per un ideale superiore» (come lo è quello per la patria): un tipo di strutturazione poetica che non presuppone trionfalismi o l'eccessiva esaltazione dell’oggetto elevato o ancora del superfluo (come forma d’abuso nei confronti del più strenuo lettore al pari di una violenza), ma la trattazione di temi che tengono conto anche della «miseria dei vinti», di quelle situazioni che pur non appartenendo ad una situazione di per sé “alta”, una volta dilatate attraverso la scultoreità celebrativa della parola, adergono alla gloria sempiterna e si vestono della più nobile e pura dignitas tipica della figura eroica (ogni cosa potenzialmente è soggetto all’obliante potere dell’aletheos; vedasi l’esempio di Achille o della “disgrazia” di Laocoonte) 5. I templi crollano e Icaro cade inesorabile per essersi esposto troppo al Sole, così anche la luce del Sublime diviene troppo pretenziosa e difficile da sostenere per tutti quei poeti che s'accostano ad essa senza umiltà e serafica devozione, prospettando loro lo stesso destino del figlio di Dedalo. Tra tali insuccessi ed eventi nefasti, la poesia rimane ancora in piedi con la sua nobile fierezza poiché non v'è nudo scalpello per l'artista che la partorisca con il più puro degli afflati compositivi, in quanto unico strumento di genesi diviene la parola poetica, più solida e granitica dello stesso blocco di marmo, più leggiadra ed agile di quelle ali illusorie che decretarono la caduta di un mito. Ciò che realmente sottrae il poeta celebrativo al suo funesto annientamento è proprio la consapevolezza di quella caduta, a differenza della presunzione e dell’inconsapevolezza di Icaro, poiché l’avvicinarsi alla luce più pura del Sublime che si configura con l’agognata ricerca dell’ineffabile altresì accolta con piena coscienza dall’artista, viene superato con un inteso sforzo prometeico 6 che ben s’addice alla monumentalità espressa nelle proprie opere celebrative, per di più elevandolo al di sopra di una posizione che lo vedrebbe nei panni dello sconfitto, di chi accoglie inerme il decreto destinale degli dèi. Poeta è ancora colui che sa rubare alla divinità Arte il fuoco del Sublime, pur essendo consapevole della propria natura mortale poiché attraverso la parola del non-oblio e con l'aiuto della metafora scultorea non più avvinta al quel solido piedistallo che la condannerebbe alla staticità lirica, egli supera tale limite, “sconfiggendo” oltremodo la Morte 7.

Note al Saggio 1 Come ben si sa, i poeti corali e Pindaro nella fattispecie, conferirono alla poesia la principale funzione di fissare nel tempo le azioni ispirate dal grande valore. «A sostenere l'arte del poeta sta anche la mobilità della parola non scritta, della parola “detta” che si diffonde come patrimonio di canti, rivivendo nel presente e nel futuro sulla bocca degli uomini nelle varie occasioni della vita comunitaria. Nel proemio della quinta Nemea Pindaro afferma con orgoglio: Non sono un facitore di statue, / non produco figure che stanno / sul piedistallo immobili, / ma sopra ogni nave, ogni barca, / salpa, o dolce canto, da Egina / annunciando che Pitea / il figlio possente di Lampone / vinse la corona nel pancrazio a Nemea. Proprio sul piano dell'efficacia comunicativa» - dopo avere in un primo momento esaltato l'intima unione con la metafora scultorea, adesso «il poeta dichiara la propria superiorità sullo scultore: le statue trasmettono il loro messaggio solo a chi le vede, ma la parola poetica vola rapida su tutti i mari e

tutte le terre. Un primato della parola sul marmo che sarà più ampiamente discusso da Isocrate nell'Evagora (73-4) con l'argomento che l'immagine figurativa è statica, mentre il discorso circola nella conversazione delle persone sensibili alla gloria. Una maggiore portata comunicativa, dunque, nello spazio e nel tempo, rispetto alla immobilità dell'effigie marmorea che, accompagnata dall'iscrizione commemorativa, il vincitore ai giochi poteva farsi erigere a ricordo della vittoria agonale. Anche l'articolata elaborazione formale del canto che consente, rispetto alla statua di marmo, una dettagliata caratterizzazione del laudando e della gara, vale a spiegare il maggior prestigio dell'epinicio nella celebrazione della vittoria atletica». Cfr. Le Pitiche, Milano, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, terza edizione Ottobre 2000. 2 Cfr. Platone, Simposio, a cura di Giovanni Reale, Milano, 2000, R.C.S. libri. 3 S'intende il rischio della banalità d'uso del linguaggio figurato. Riguardo all'allegoria Winckelmann dice: «ogni idea diviene più forte se è accompagnata da una o più idee, come nelle comparazioni, e tanto più forte, quanto più lontano è il rapporto in cui queste stanno con quella; poiché là dove la loro somiglianza si offre spontaneamente, come nel paragone della pelle bianca con la neve, non nasce alcuna meraviglia... Quante più cose inaspettate si scoprono in un dipinto, tanto più esso ci commuove; ed entrambe le cose esso le ottiene tramite l'allegoria. Essa diviene come un frutto celato tra le foglie e i rami che è tanto più piacevole quanto più inaspettatamente lo si trova; il più minuscolo dipinto può divenire il massimo capolavoro, a secondo della sublimità della sua idea». Cfr. Johann Joackim Winckelmann, Pensieri sull'Imitazione, a cura di Michele Cometa, Palermo, Aesthetica Edizioni, 2001. 4 Il mito: figlio d’Eagro (secondo altri d’Apollo) e della musa Calliope, fu allevato da Lino ed istruito nel canto, e ricevette dal divino Musagete una lira a sette corde, alla quale il mitico cantore ne aggiunse altre due; le stesse muse gli insegnarono a suonare lo strumento, in modo da sortire mirabili effetti: sì meravigliosa era la musica che ne traeva dal divino dono, mentre ammansiva le belve con un semplice suono profferto, i sassi diventavano sensibili, addirittura movendosi, ma non soltanto animali selvaggi, e ancora alberi, oggetti inanimati sulle pendici dell’Olimpo venivano incantati, che per meraviglia e beltà prodotte lo seguivano senza sosta. Orfeo visse in Tracia all’epoca degli Argonauti che accompagnò nella loro spedizione alla conquista del vello d’oro, e subito dopo il suo ritorno (durante il quale egli fu protagonista di leggendari prodigi come il placare le onde del mare il tempesta e l’animo afflitto dei propri compagni), si insediò qui definitivamente. Incantate dalla sua voce, dono della madre Calliope, le ninfe lo seguivano ed erano tutte innamorate di lui, ma fra loro egli scelse, proprio in Tracia, la giovane e graziosa Euridice, figlia di Nereo e Dori. Le nozze non tardarono a sopraggiungere, ma il fato fu più lesto nella sua ineluttabile risoluzione. Un giorno, il pastore Aristeo, innamorato anche lui di Euridice, avendola incontrata in una campagna nei pressi della Valle di Tempe, iniziò a rincorrerla con l’intenzione di rapirla e possederla. La giovane sposa fuggì, allontanandosi dalle mire malefiche del pastore ma nel correre tra le erbe, fu morsa da un serpente velenoso e morì dopo pochi istanti. Inconsolabile e disperato per questa perdita, Orfeo discese nei regni della morte, viaggiando per la casa di Ade, armato solo della sua voce e della lira fidata, con le quali si spinse oltre le proprie possibilità, arrestando la Ruota di Issione, ammansendo Cerbero e persuadendo Plutone e Proserpina

affinché gli fosse restituita la sposa amata. Gli fu difatti concesso di tirarla fuori dal quel luogo buio e tenebroso, purché si fosse astenuto dal guardarla in viso prima che avessero incontrato la luce del sole. Orfeo ottemperò alla condizione imposta fino alla soglia degli inferi; ma egli poiché non percepiva il passo della sua adorata e temendo l’inganno di Proserpina, si volse per guardarla, stavolta il tempo necessario per assistere nuovamente alla sua scomparsa tra le profondità degli inferi. Allora, egli ritornato nel mondo della luce, non smise un istante di piangere la moglie perduta, denigrando ogni altra donna le si parasse di davanti. Così tale atteggiamento sprezzante e oltraggioso nei confronti delle baccanti Ciconie (appartenenti alle donne della Tracia), fin troppo esasperate, le portò a vendicarsi nella maniera più barbara che si potesse addire ad una menade devota a Dioniso (altre varianti vogliono la stessa divinità del vino come diretto carnefice di Orfeo, poiché quest’ultimo invece di onorare Dioniso, dall’alto del monte Pangeo ogni mattina si alzava presto per inneggiare Elio, ossia Apollo; terribile affronto questo da sopportare per una divinità orgogliosa come Erifo): lo fecero a pezzi presso Deio in Macedonia, dispersero le sue membra e gettarono la testa nel fiume Ebro, da dove essa raggiunse il mare e trasportata dalle onde sull’isola di Lesbo. Qui poiché continuava a parlare, e spergiurare contro Apollo, fu da Apollo stesso fatta tacere per sempre. Le Muse, invece, contrite del forte dolore per aver perso un tale miracolo dell’arte, raccolsero le sue membra e le seppellirono a Libetra, ai piedi del monte Olimpo. Al contrario, le menadi prese ancora dalla furia instillata da Dioniso, non nell’atto di officiare la divinità stessa a loro devota ma più vicina ad una sorta di furia omicida, tentarono di purificarsi nel sangue di Orfeo presso il fiume Elicona; il dio fluviale, inorridito da tale spettacolo, si ritirò nell’Oltretomba, riemergendo in un secondo tempo col nome di Bafira. Anche lo strumento per eccellenza di Orfeo, la lira, fu portata e custodita presso il tempio di Lesbo, riconoscendo alla città il ruolo primario che ebbe in Grecia nel campo della musica e della poesia. 5 Cfr. Marina Cavalli , Lirici greci, poeti elegiaci, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, prima edizione, 1992. 6 Il termine “prometeico” inteso come “aspirazione struggente”, inteso come tensione verso l’infinito. Tale forma espressiva s’identifica con quell’aspirazione verso il più e l’oltre, che non raggiungendo la propria meta, per quanto possa essere vicina, si risolve immancabilmente in un desiderio per l’impossibile. E’ qui che tale situazione sfocia e ritrova la sua coerenza nel desiderare il desiderio (il bello per il bello), una ribellione ed atto di sfida conscia del proprio esito. L’incapacità del superamento del finito dimostrataci dall’artista, dona maggiore impeto e forza d’elevazione ad una condizione specifica che va sempre più collimandosi con la forza tensoriale del bello verso l’indefinito, verso quella forma di incompiuto che conferisce necessaria instabilità per la propria sopravvivenza: è proprio attraverso questo sforzo che il poeta si riscatta dalla sua imminente caduta al pari di Icaro, cosciente che l’avvicinarsi a quell’infinito che rispecchia ciò che non può esser espresso tramite le parole (l’ineffabile), lo salverà da ogni dannazione dell’essere. Da qui, si riafferma il concetto di vita come “agon”, una continua competizione dell’esistere che si raccorda con l’infinito superamento del finito, coincidente con una battaglia mai conclusa per la conquista della propria umanità. Ma qui si è parlato finora di caduta come insuccesso, ben diverso dal concetto di caduta come principio del sublime. Per l’appunto, verrà dato un primo preambolo legandoci al concetto di diletto di Burke, usufruendo della ottima presentazione di Giuseppe Sertoli, per poi

arrivare al concetto vero e proprio. [Burke… attribuisce al terrore un tipo particolare di piacere. Non un «piacere positivo» (pleasure) ma – diremmo con Kant – un «piacere negativo» che egli chiama «diletto» e che inerisce alla distanza che separa il soggetto terrorizzato dall’oggetto terrorizzante. Il sublime terrorizza perché evoca una minaccia alla conservazione del soggetto, ma nello stesso tempo diletta perché è posto sufficientemente lontano da non costituire un effettivo pericolo. «Quando il pericolo o il dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto, e sono soltanto terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono piacevoli, come riscontriamo ogni giorno»… attraverso il terrore il sublime viene collegato alla sofferenza e, al limite, alla morte. «Le idee di dolore, malattia, morte», scrive Burke, «riempiono la mente di forti emozioni di orrore», e tali emozioni sono le più forti di tutte le passioni perché attengono alla sopravvivenza stessa del soggetto, alla sua self-preservation. Ciò che, terrorizzando, appare sublime, è ciò che evoca la morte e ne fa presentire gli effetti (la presenza) nel momento medesimo in cui salva la vita al di qua di essa. Il diletto del terrore – del sublime – è prodotto da questa vicinanza-distanza dalla morte. Al limite, il vero sublime è la morte stessa]. Edmund Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di Giuseppe Sertoli e Goffredo Maglietta, Palermo, Aesthetica Edizioni 2002. Ma adesso, quel limite viene sostituito con quello della caduta. Un limite che non presuppone un superamento, ma il suo raggiungimento e perpetuo manifestarsi. Né recinzioni o titubanze, poiché quella stessa «rinuncia di sé» (il sacrificio, il dare tutto se stesso, liberandosi da quello stesso principio di auto-conservazione che limiterebbe l’individuo), porterà il poeta ad abbattere ogni terrore o limitazione sul suo agire, scardinando la dimensione del diletto (qui non più individuato come «sollievo di una distanza» che separa il volo dall’imminente caduta ma come «fremito di una prossimità») in modo da comprimere ogni vicinanza-distanza con il suo oggetto agognato, divenendo un tutt’uno con esso: l’avvicinarsi al fuoco del sublime fino a diventare egli stesso fuoco, fondersi con il proprio principio. La caduta stessa diviene l’origine del proprio comporre, trovando la sua necessità in un perpetuo cadere ispirativo (un principio che trova forza nella sua disfatta; tale situazione è assorbita mirabilmente dal concetto di ineffabile). 7 Del resto, l’atleta, oggetto della celebrazione della lirica epinicia, ottenendo il Cleos (la gloria sempiterna) con l’apposizione del cotinos (corona d’ulivo) sulla sua testa da parte dell’alitarco, avrebbe sconfitto la Morte. L’imperitura fama era una condizione del soldato, era possibile ottenerla soltanto in guerra. La competizione, in quanto “agon”, metteva le due situazioni sullo stesso piano (quello agonistico - sportivo e quello militare); cosa che invece nell’approccio prometeico rimane irrisolta per definizione.

IL CICLO DI OLIMPIA

“IL RESPIRO DELL’ETERNITÀ”

POESIA AGONALE

L ’ EL ’ E P I N I C I O I N B R E V EP I N I C I O I N B R E V E

Gli epinici erano odi celebrative per i vincitori dei giochi panellenici. Grande importanza essi rivestivano all’interno di quel costume greco, in particolar modo quello dell’aristocrazia dorica, che esaltava il primato sull’avversario e l’eccellenza fisica. Il valore di tali gare non si esauriva nel semplice agone ma andava oltre la competizione (athlon), dando adito a feste religiose di grande richiamo, e di conseguenza l’incontro di quasi tutta la Grecia (panegyris); in questa maniera, i vincitori ricevevano grande visibilità oltre a incarnare i canoni di bellezza ed esemplarità della stirpe, quale concreta espressione dell’ethos greco. Ed è per questo che l’atleta andava eternato non solo tributandogli le giuste onoranze, attraverso figure plastiche da parte degli scultori ma anche attraverso i cosiddetti epinici o canti di vittoria: il poeta di tale genere poetico, il quale si ergeva al di sopra della stessa concezione scultorea, attaccandone la troppa fissità diffusiva, ben sapeva che la fama del vincitore era a lui legata in maniera indissolubile, dal momento che un rovescio della sorte avrebbe cancellato nel tempo ogni sua azione, se non adeguatamente commemorata; il poeta di epinicio diviene così “poeta del non-oblio”. Una volta terminata la stesura, il testo era affidato al coro che li eseguiva al ritorno del vincitore (non era raro che un epinicio venisse eseguito nel luogo dell’agone). Tra i maggiori esponenti dell’epinicio abbiamo Simonide e Bacchilide di Ceo, e infine Pindaro, con il quale tale genere ha raggiunse il suo acme.

PP R O E M I O R O E M I O OO L I M P I C OL I M P I C O

A PA P I N D A R OI N D A R O

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

A Pindaro Dai dodici cerchi d’indomito fuoco, adusta la meta infiamma d’ogni puledro oltre il solingo e polveroso vallo i musi torti dalla spumeggiante bruma. Sin dalla settima soglia di pietra circuita, pindarica l’ode tra le membra s’insinua dei cavalli sicani, poiché adesso Chirone che del re degli dèi la nascita adorna in duplice fasce, il vanto aggioga ai carri d’un impareggiabile e valente auriga. Così discende i grani sabbiosi di Narciso il figlio eletto, dalle gote istoriate per aver dell’istmico trionfo saggiato le tinte celesti. Allora in un kantaros, la sua fama non si depositi tra i vermigli flutti e i sedimenti scogliosi, come anche una sola goccia arenata e dispersa tra i bordi altresì i manici di due ampi crateri che la gloria appanna con facile ebbrezza; così nell’antico ed eloquente gioco del kottabos solo i residui del vino sono lontanamente aspersi come strali d’olimpica rabbia sulla posta distanza, mentre del proprio agone glorioso, il poeta corale, saetta di antichi miti e rovine, i vetusti resti, appartenenti ad un atleta dal serto congiunto.

EE L O G I O D E L L A P I T T U R A L O G I O D E L L A P I T T U R A V A S C O L A R EV A S C O L A R E

DD A L L E A L L E AA N F O R E N F O R E PP A N A T E N A I C H EA N A T E N A I C H E

PP I T T U R A I T T U R A VV A S C O L A R EA S C O L A R E

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

Da un'Anfora Panatenaica

Elogio della pittura vascolare

Con il caduceo in mano, il fiero artista elleno del ciglio e del colore avvince i sensibili tratti all'arancione e al nero, in un'anfora tinte sì forti, poiché adesso il tenace Hermes, dal vello albino, nudo e con candore alato, liberi la tela da una prigionia che l'infinito ancor tiene in vita. Allorché, tra i bianchi rivi di un orizzonte che la lode disconosce e ancor più sublima tra le fasce vermiglie e gli sconfinati flutti, come spume d'Afrodite, lievemente disciolte, s'incunea la fertile macchia in un porto sicuro. Del resto, Castore la tempesta non acquieta in fasci cromatici o ali d'iridato manto ove la singola e diafana vela ivi si squarcia con ira funesta di olimpio decreto, mentre Morfeo, sonnambulo altresì pago asperge sulla fatica e sul capo di ogni atleta fiori odorosi e chiome dall’aureo intreccio.

Da un’Anfora Panatenaica

Della pietra di Abadìr, la pelle di capra sulla quale l'umile artista incide e solca con olio e fili di lana, il nervoso tratto, annoda al tamburo di Rea, il fragile senno, poiché della sola e semplice Arte pittorica, nessuno interroga alcun divino responso. Così il tempo ingoia, al pari del dio Crono l'estro edace di un giovane apprendista, ogniqualvolta, nero fluente scorre il fiume dell'Oblio in alvei dalle bianche spume e sì allontana il remo dalle sponde impervie. Allora, che l'artista mai disperda il vigor dell'illusione, che tardo condannò Urano alla cruda disfatta altresì olimpio inganno, poiché sublime l'opera nell'animo s'attarda senza scuoter di una pietra gl'attesi indugi.

Sulla Scultura

Si desta dal sonno colui che nel buio Tartaro, sconta la dura pena, per mani e piedi avvinto, altresì legato a una fiammeggiante ruota, il cui eterno e ciclico ardore si spegne in ceneri mortali. D'Issione è la colpa d'alimentare dei lunghi cicli di tormentate gioie, le speranze di colei che al sole lo spirto sublima; sua la colpa se dal Caos informe, l'Erebo si desta a incontrare della Notte, il Giorno e l'Etere, onde ricacci del più oscuro grembo del cosmo le sanguinanti ferite in cui la luce partorirono le Furie, del Lapìta, vendicatrici. Al suono della cetra delle Muse eliconie, il divin Musagete del fulmine il cammino arresta, dipingendo con gioia alare sulle labbra di una torbida battaglia il sorriso e l'incanto, e così fatto, come il dio della guerra, a Zeus perfino odioso, che in fraterna essenza a sé lega la Pallade Atena, di un giovane atleta il vigore ai cavalli aggioga, mentre l'egìoco fato, in suo onore, brandì l'asta e lo scudo scosse. Infrange delle olimpiche mura ogni singola pietra il Discobolo trionfante, di laudi obliato, cosicché nel voltare del disco le molteplici facce rifletta quell'ardore d'Issione che di Néfele volse l'umido spirito all'astro nascente.

II N V O C A Z I O N E A I N V O C A Z I O N E A I PP O E T I O E T I CC O R A L IO R A L I

LL O O SS P I R I T O D E L L A P I R I T O D E L L A CC E L E B R A Z I O N E E L E B R A Z I O N E OO L I M P I C AL I M P I C A

Esortazione di un poeta agonale

A tutti voi poeti, io mi rivolgo, tra aurei serti ed elogi di bianco oleastro, come ben s'addice il tono ai cori ordinati e monodici plausi; ai soli intenditori io mi espongo, umile o forse cordiale, più di quanto manifestarlo possa un solo citaredo o auleta in tutta la patria, perché a lungo si conservi della gloria di Olimpia un solo stadio o metro di qualsivoglia specie, sia esso nel semplice conoscere il morso quadrigo dei furenti cavalli prossimi alla meta agognata, sia esso nel duro morder la polvere e il gloios lucente di un pugile elleno dal robusto braccio, nella figura di Diagoras o Acusilao suo figlio. Del resto, miei valorosi opliti dall'ingegno armato, la cui cadente panoplia soggiace al proprio polso d'impavido astante in una guerra dalla falsa tregua, compito d'obliata sorte è il nostro canto agonale, perché dello sconfitto o del vile, mai s'accinga il digiuno tra le pieghe di un disonore agl'olimpi sì caro.

KK L E O S L E O S –– L L A A GG L O R I A D I L O R I A D I OO L I M P I AL I M P I A

II N V O C A Z I O N E N V O C A Z I O N E OO L I M P I C AL I M P I C A

OO L I M P I C O L I M P I C O FF U O C OU O C O

Olimpico Fuoco introduce attraverso serrati riferimenti mitologici l’ardore e lo spirito delle manifestazioni panelleniche, procedendo con progressioni sistematiche quasi di ellittica natura referenziale. Ciò deriva da una prima sezione strofica che si apre con il mito di Prometeo, sintetizzato in soli tre versi, in cui tale “ardore” si attenua nella seconda strofa semplicemente con l’enunciazione dei termini “cenere” e “polvere”; termini attestatori della conclusione di un incendio, di un fuoco divampato con tanta furia e vivacità. Il tutto reso eterno e continuativo dalla determinazione temporale di “ancora”. In seconda istanza, il fuoco si trasforma in luce, chiamando in causa il parallelismo con Eos, la Vergine dell’Alba, la cui luminosità si sovrappone e coincide con la gloria luminosa della vittoria olimpica (anche in riferimento alla lunghissima durata di alcune discipline che potevano raggiungere il sorgere del sole, alimentando le leggende sulle invulnerabilità di diversi atleti, rapportata alla loro resistenza fisica che costringeva l’avversario all’abbandono: è un caso quello di Milone di Crotone).

Olimpico Fuoco

Di un bianco oleastro, armonioso il gambo dei cavalli spartani il nitrito infiamma al pari di Prometeo dall’adusta fiaccola quando il ratto fu carpito per virtù olimpia tra catene e livori di una tortura indigesta. Cenere e ancora polvere lente si spargono lungo i sentieri di un dorico ippodròmo altresì nel raggiungere di caotiche mete i mirabili e sempiterni confini, poiché in tali distanze, colui che da lontano scaglia frecce d’argento e aurei canti, di ogni atleta annida il viso tra i duri laterizi d’indomita e friabile roccia sabbiosa. Da quell’orizzonte che la disfatta separa dalla gloria e che l’oblio sottrae alla veglia, sua sorella Eos, incantevole tal si desta, spargendo del proprio rubicondo drappo il sonno e la fatica in un auriga valente. Così, arde e si consuma l’animo olimpio all’approssimarsi dell’alba, la cui luce gloriosa, dalle rosee dita e dal manto solare s’innalza sul podio e trainata sul cocchio dai nitrìdi Lampo altresì Fetonte mordace, poiché, in Emera ed Espera ella non si trasforma quando il mattino risveglia in codesti atleti l’ardore e la febbre di un’adorna vittoria.

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

OO L I M P I C O L I M P I C O SS E R T OE R T O

In Olimpico Serto, l’euritmia testuale e la sua dimensione eulogica si dipanano e si sviluppano al pari della corona d’ulivo che apre la prima strofa, avvinta poi, in un secondo tempo, alla celebrazione del poeta corale (...poiché in trecce e grovigli sciolte cadendo, / più non avvinca la mia quiete alla lira/ di natur tetracorde, altresì di solinga speme). La tessitura al pari della trama di Penelope che rievoca la vicenda di Troia, viene prolungata dal giudice per eccellenza della questione, nella figura di Paride; così s’infiamma e s’accende la cresta di fuoco nel parallelismo con il tedoforo, annunziando con largo anticipo tale pratica moderna secondo l’ottica profetica di una sorta di hysteron proteron retorico. La tempestività della vicenda troiana e del portatore della fiaccola olimpica viene concessa con serrata dilazione cronologica dal terno strofico che introduce velatamente il Ratto di Ganimede (Così come strale di olimpica vetta / s’innalza il calice intinto al proprio trionfo / di colui che il cuor fu ratto per virtù eterna…). Si chiude l’ode con un inno al trionfo della città di Olimpia, preservandola da ogni sorta di contaminazione e disfatta.

Olimpico serto

Aulica e ancor più ellenica una foglia il proprio petalo, pasciuto e sazio, alla sponda dirompe, il gambo armonioso, fregiato e percosso con chiome di aurei crini, poiché in trecce e grovigli sciolte cadendo, più non avvinca la mia quiete alla lira di natur tetracorde, altresì di solinga speme. Così come strale di olimpica vetta s’innalza il calice intinto al proprio trionfo di colui che il cuore fu ratto per virtù eterna, e giunge per man e oltre l’estremo d’un canto e di un serto di complice lode, una cresta di fuoco che al dimandar di una battaglia il diverbio, algido, corrode d’un maestro e giudice eletto dall’empia e divin natura di un superbo diniego. Così di Olimpia la virtù mai conobbe l’oblio e la disfatta, sì, gl’allori e non gl’affanni tali da inchiodar di ogni umana creatura, il giogo immortale.

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

L ’L ’ A G O N E O L I M P I C O E A G O N E O L I M P I C O E LL A O C O O N T EA O C O O N T E

“Il maestro mirava alla somma bellezza, accettando i condizionamenti del dolore fisico. Questo in tutta la sua violenza deturpante, non si lasciava conciliare con quella. Egli lo dovette perciò mitigare; dovette ridurre le grida in sospiri; non perché il gridare tradisse un’anima volgare, ma perché stravolge il volto in modo sdegnoso. Perché si immagini di spalancare al Laocoonte la bocca e si giudichi. Lo si faccia gridare, e si osservi. Era una figura che suscitava compassione, perché esprimeva insieme bellezza e dolore; adesso è divenuta solo una brutta, ripugnante figura dalla quale volentieri si volge lo sguardo, perché la vista del dolore suscita dispiacere senza che nel contempo la bellezza dell’oggetto sofferente riesca a tramutare questo dispiacere nel dolce sentimento della compassione”. (da Laocoonte di Gotthold Ephraim Lessing)

Laocoonte e l’Agone olimpico

Chiusa è la bocca oltre velenose spire avvolte al pugno paterno, mentre di Etrone e Melanto sublime il grido s’annoda al quieto silenzio di chi, muto, il dolore sopporta con nobiltà d’eroe. A lungo ritorte le membra e le nodose serpi nelle figure di Porcete e Caribea, serpenti, sì marini nell’arbitrio di colui il quale agita il vigor del roboante tridente presso la Troade. Così, tra le promache fondamenta del tempio nel quale una nascita, impura, il viso oltraggia di colei le cui gote son enfie a dispetto di un cervo, tardiva e lenta una sola lacrima di reo seguace scivola e s’incrosta lungo la piega marmorea ogniqualvolta di due creature immortali tace alla fine, come in tragedia, il luttuoso giro, poiché tra i lembi sottili e smossi di una pietra preziosa di ordita rugiada, l’anima s’attarda di un poeta, insensibile alla morte altresì ignara. Così il taciturno e fiero atleta si libra finanche al vento finché della meta agognata, bianco il veleno intorpidi il muscolo e altrettanto i polsi la spira offuschi della vittoria adorna ogni illusione, poiché quella stessa meta è anche stretta tra i volumi di due contendenti come viscidi cappi al collo, sì torto, ancor più divaricati al robusto braccio della contesa; né denti o mani affilate, avvinti alla carne nemica nel confortar dell'agone, l'eccellenza fisica e il primato su di un giovane imberbe, alla paura altresì ignaro, chino e in guardia, pronto a sferrare l'indomito attacco, né occhi ardenti fra i tralci vermigli del tramonto a nutrir con lancia scossa, la gloriosa fiamma, ma solo volteggi improvvisi e canti inattesi, nel lodare di uno spettatore l'amor patrio, al quale un dolore tanto lieve la compassione non mai funesta con pietà d'olimpio;

e la corona di duro olivo ancor più le tempie stringe indurite dal venefico castigo di una sorte avversa tra i palmi di colei che le ali spiega sul nudo traguardo. Scolpisce un sospiro, tra gli sguardi di Laocoonte come trama silvestre allo scuotere della esile fronda, mentre avversa di Poseidon ciò che algido scuote la crosta lungo sentieri mai calcati da aurei cavalli. Oltre un tumulo, nella quiete sembianza di una statua, spoglio del proprio strumento, quale nudo scalpello, tre volte stringa e forgia, Polidoro, il crine adonio tra le armoniche note e sillabe della propria creta, come Policleto dal poderoso e stanco giavellotto, la benda discioglie al suo portatore tra ampie lodi; e seppure ad egli cede la gamba destra, la propria gloria non disperde tra gli spalti o le vie, ove pubblici i plausi e gli onori tengono per sempre in vita le gesta di un eroe; così nel volger la testa stravolta tra soli due corpi lungamente attoniti e del silenzioso oblio, paghi, di Penteleo la materia prima in loro prende forma. D’altronde anche del vincitore, il busto vien scolpito intero, qualora di un’ombra il fato pur sempre agiti nel cuore di una nike alata, l’inatteso stordimento. Oltre il traguardo e l’affannoso percorso, si eleva l’Aurora al di sopra delle proprie terga perché di Antifate e Timbreo ancora si propaghi l’effuso tormento, oh dolce virtù inespressa di uomo esemplare, dal quale ogni animo elleno, lento mai si disgiunga per paura di vedersi sul podio o sull’altare, sconfitto e vile.

II N T R O D U Z I O N E A I N T R O D U Z I O N E A I GG I O C H I I O C H I EE R E IR E I

CC A N T O A N T O VV I R G I N A L EI R G I N A L E

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

Introduzione ai Giochi Erei

Tra le ampie fasce di fiori odorosi e ghirlande dal bianco serto, s'apre come strale d'olimpica vetta l'ira funesta e la gioia di Era madre altresì regina di tutti gli dèi avversi nell'osservare di una nascita il deliquio ferace, dalle proprie virginali ancelle sparso e conteso tra giardini d’oro e boscosi germogli dei Campi Elisi. Ora, colei che in Stinfalo alcun passo concede se non in profferto dono e sì dall'aureo seggio forgia vendette tra l'egìoca fiamma di aspre contese come punta d'oplitica lancia nello scudo di bronzo infitto e nel corpo morente, di Zeus le fughe amorose non condanni al pari della dura roccia di Sisifo, reo, la cui morsa in eterno l'infamia alimenta. Ilizia, anch'essa onorata, le proprie figlie addestra alla cura e a quel nudo rispetto dei circoli fioriti, quand'ella le nascite approva con profumo di asperso miele e rivi ambrati dalle indomite sponde; allorché di ogni madre, tale nume tuteli il fertile seme e l'amor di un primogenito figlio, la cui vita agli déi tutti, l'invidia, sempre desta in ricordo di Crono vorace.

PP O E S I A O E S I A AA G O N A L EG O N A L E

VV I T T O R I A D I U N I T T O R I A D I U N CC R E T E S ER E T E S E

In Vittoria di un Cretese, l’apertura strofica enfatizza con ampio respiro il tema combinato della corona d’ulivo (simbolo per eccellenza della manifestazione olimpica) e del canto che poi ascende al pari del vento mistico di Eolo. Codesto “moto eolico” (riferito infine a canto) si stempera e si oscura nella complessa immagine evocata della terza strofa, ossia di questa ode che si diffonde tra le anse e le pieghe armoniose del tempio, tra l’architrave (febea ogiva) e tutti i suoi elementi architettonici, investendo anche diversi momenti della giornata (vermiglia cariatide, definisce la statua profusa del colore arancione dell’orizzonte che su di essa viene proiettata). Subito dopo, il parallelismo che corre con il pentagramma (tra reti di atona gabbia) chiude l’organico strofico con il ritorno al tema dell’elemento fogliaceo. Ma in salto si passa con fugace richiamo alla connessione con il mito di Dioniso e dei Delfini, prospettando in verità al lettore la visione di una parete della città cretese, su cui sono raffigurate scene di nuoto di alcuni cetacei. L’ode si chiude con un inno a Dioniso (qui, Erifo), sortendo un fitto incrocio concettuale con le proprietà del delfino e quelle dell’atleta olimpico (seppur il nuoto non viene contemplato come disciplina sportiva delle Olimpiadi greche).

L’Orgoglio di Olimpia

Vittoria di un Cretese

Dai bianchi oleastri, semplice cinta è la fronte e la corona di un olimpico atleta al pari dell’eroico serto che mai conobbe dimora per sorte avversa, ma ancor più di apio e di mirto tenue istoriato da un agone trionfo. Così, come all’esordio altresì alla deriva, disperso è l’eolico canto a vele spiegate di sciolta cadenza, tra reti di atona gabbia, mentre s’appresta a spirar in perìptero moto d’una ritorta ogiva, il sensibile tratto. S’innalza di Olimpia l’euforica fiamma a inondar con tristiche lingue di fuoco l’architrave e la vermiglia cariatide, di Delfi il tripode sacro, e ancor più della Pizia, dal vaticinio di dura pietra, lo sguardo intinto alla sanguigna offerta. Così, dalla gonfia prua di un intrepido squarcio discioglie colui che si nutre d’erica due sole note, a solcar dell’onda marmorea il mutabile e fluido parto d’enfasi agreste; Un sol cetaceo dall’aureo vello e così perpetuo adesso, infrange dell’olimpica barriera di robusta pietra l’orfica spuma appena avvinta al mosaico in duplice e stretto abbraccio. Allorché Erifo, del tirso unico tiranno, di un osservatore la pace e il sonno concilia, poiché del nuoto di un docile delfino, s’insinui il ricordo lento e salace tra le provate membra di un vittorioso atleta.

PP O E S I A O E S I A AA G O N A L EG O N A L E

CC A L L I S T O E A L L I S T O E II L L TT I R O C O N LI R O C O N L ’ A’ A R C OR C O

Questa sezione come in Vittoria di un Cretese, elogia una disciplina sportiva che non rientra nel computo delle attività svolte nella Grecia antica, ed esattamente il tiro con l’arco. L’apertura strofica vede uno dei miti più delicati e allo stesso tempo drammatici della mitologia greca: protagonista è Callisto, abitante di Nonacride, catena montuosa dell’Arcadia, uccisa per mano di Zeus in relazione all’inganno ordito da Era, sua moglie. Tale sviluppo del paradigma mitico, come bianca propaggine di un chitone, si riverbera su codesto tessuto concettuale, incontrando l’enunciazione della disciplina sportiva del tiro con l’arco nell’intreccio con la difficoltà del tiro dalla lunga distanza, poiché qui maggiore è il rischio di errare. Un monito, alla fine, che tenga lontano l’atleta dall’imitazione della vicenda di Callisto, qui pari a quella di Icaro in rapporto alla celebre frase di Orazio («nell’imitare Pindaro si vola e si cade come Icaro»).

Callisto e Il Tiro con l’Arco

Si sparge nell’aria il profumo silvestre di Callisto arciera, seconda ad Artemide guerriera altresì di cervi casta protettrice; così di nonacrina virgo il dardo alato trafigge rovi, foglie, alberi e muschi di decorato ricamo, finché d’una creatura dal cronide ed impuro giro incontri l’infausto e non concupito dono d’amore. Ma colei che in Stinfalo ha sì propria dimora e ancora della bellicosa Atena, le proprie armi concede in un dì di festa ad onor del bello, di contro al fato nulla per lei mantiene intatto. Tale è l’olimpico decreto; Che di un arciere l’attenta e gelida mano non si perda tra le fitte trame di una ghirlanda tessute e ordite con dovizia di Làchesi parca, poiché temibile la mira dalla lunga distanza, con inganno al pari di Chera amorosa e pronta quand’ella disperde di una fiera le calme membra, così nel proprio percorso le piume abbandona nell’osservare di Icaro la funesta e inattesa caduta di un volo al Sole disciolto con vile arroganza.

HH I P P O I I P P O I AA T H A N A T O IT H A N A T O I

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

II N V O C A Z I O N E A N V O C A Z I O N E A MM I R T I L O E I R T I L O E GG L A U C OL A U C O

In questa sezione, si profila al lettore una sorta di invocazione con una ben precisa funzione apotropaica in riferimento alle due figure mitologiche di Mirtilo e Glauco, con attenzione al primo perché il suo spirito lasci le terre di Olimpia, rendendo così possibile l’attuazione della manifestazione sportiva. Un’invocazione che si sviluppa e si esplicita nell’intento di allontanare, in qualsiasi forma, eventi negativi e azioni degli Dei dal momento più temibile e spettacolare della corsa col carro, ossia l’aggiramento della meta. Si supplicano oltremodo i due “terrori dei cavalli” (Tarassippo) in segno di augurio perché gli atleti non subiscano la stessa beffa che il fato riservò loro (l’uccisione di Mirtilo ad opera di Pelope e la morte di Glauco ad opera delle proprie cavalle, infuocate dalla rabbia di Afrodite per il mancato accoppiamento delle stesse).

Invocazione a Mirtilo e Glauco

Di Mirtilo, l’ombra più non calpesti i floridi campi di un’antica città gloriosa, che di un fiume ora separa luci e tenebre, amori e vecchi affanni al pari di Persefone furente e rabbiosa, altresì collerica, quando al di sotto di un caliginoso alveo, insieme a colui che le bestie aggioga alla nodosa cetra, la visibile meta condanna di Euridice. Allorché il bel Glauco, anch’egli terrore dei cavalli, col sottile bacio di Afrodite adorno, laceri nitriti infuria ed alimenta come fiamma d’odio che la carne, lenta, sì morde tra le fucine dell’orrido Efésto. Così tuona lo zoccolo e la roboante asta di un olimpico atleta, mentre di Atena osserva lo scuotere della pròmaca lancia, poiché sull’altro piatto disgiunto di Lybra s’insinui il vanto della misura e della forma; ma si flette e s’attorcia l’inquieta briglia sul lato destro d’un polveroso vallo, finché si rovescia e s’inclina la sottile ruota di un agile carro quadrigo, da Arcesilao trainato altresì ammansito con tremor di polso.

Così, alla pari, funesto saetta il crine adonio lungo la lira tetracorde di un poeta corale, a frenar con egìoco carme ed elegia mesta l’impeto e il fuoco di bestie dal divino ingegno, poiché come di Enomao, il puledro è avvinto a colui che l’animo guerriero sempre desta tra i campi d’insigne ed infuocata battaglia. Il cuoio morde l’abile Psaumis di Camarina e ancora Hàgesias dal vaticinio celeste, perché al di sopra della meta elevando criniere e imbracature dal vello lucente, il trionfo si consegni ad un solo vincitore. Per molto tempo nell’aria, la polvere s’attarda come profuso incenso tra le solide mura di Delfi quando la Pizia sé interroga sul potere dell’onfalo perché il fato si disveli tra le membra dei cavalli achei, ancor più ellenici nell’amor di patria. Chi allora potrà del nero e ardente Bucefalo il cui nome, furioso impera in una terra lontana, del bianco Pegaso alla fonte Ippòcrene devoto, e ancora di Areion dal possente eroe al galoppo, domarne il fervore oltre i fasci del tramonto? Del resto, alla curva, improvviso il terrore s’aggira oltre le ombre della fossa dell’Ade, giacché degli stessi aurighi, Mirtilo e Glauco, mai più si risvegli il ricordo di un inganno voluto ed ancor più tessuto dall’olimpica sorte.

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

OO D E D E II P PP P O D A M I C AO D A M I C A

Nell’Ippodamica, i versi e le relative figurazioni sembrano rincorrersi in fuga, come lo sono i cavalli “irrequieti altresì impennati” mentre sono condotti al sacrificio. Calmati ed ancor più domati con un semplice stemperamento sintattico, la quiete dei versi si sfibra all’interno di due volumi asimmetrici, mantenendo la stessa figurazione dinamica, diffratta in due consecutivi temi mitici: il primo dei due, ha per oggetto la fluenza delle pieghe marmoree dell’architrave del Tempio di Zeus a Olimpia (in relazione alla guerra tra Centauri e Làpiti), al quale Fidia scultore diede il suo apporto; il secondo, la “veemenza” della caduta di Apollo e Artemide (alla nuda castità un cervo condanna) ad opera di Era, riproponendo contestualmente la nascita dell’isola di Delo. I versi proseguono la loro struttura ad anelli concentrici con il tema centrale dell’architrave fino all’epilogo della poesia, eccezion fatta per la sentenza finale, che ha per oggetto il trionfo dell’auriga.

Ode Ippodamica

Irrequieti altresì impennati i cavalli dai profili marmorei, come arieti al sacrificio condotti, dal ruvido panneggio d’un architrave spumeggiano con anima viva, finché oscilla e s’increspa in molteplici pieghe di scultoreo mare fra i petali d’un fiore d’acanto al quale Fidia artefice, vita e materia imprime, ancor come onde immote di frastagliata irruenza giacché della sommersa Delo i fraterni scogli infranse lì, ove Febo Apollo, dal bell’arco d’argento alla nuda castità, un giovane cervo, tuttora condanna. Essuda, adesso, da un lacero nitrito del carro quadrigo l’estasi e il silenzio di un centauro nemeo, onde il moto prorompe in sovrumana quiete, mentre armoniose e ritorte della verginale sposa Ippodamia, le passioni si dipartono in terre avverse. Volgesi la testa affranta alla mano Lapìta, accasciando in quadrivi di stelle le membra cadenti; preso dal viso ricurvo alla testa insonne il destino, e ancor più il fato il braccio sorregge, ponendo alla promiscua battaglia una sola fine quando in morbida cadenza di ogni marmo la turgida vena, presto, si dissolve. Di quella stessa pietra sanguina ogni singola ferita poiché degl’ultimi superstiti riconduce Plutone il furor di un’ombrosa sconfitta; Afferra l’auriga vittorioso il cuore dello stadio olimpio, ove singulto ansima il quadruplice carro alla luce di una vittoria che la gloria regge sempiterna.

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

DD O D E K A D R O M O SO D E K A D R O M O S

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

Dodekadromos

Tardo, suo aggioga il sereno drappeggio l'auriga valente, oltre una meta lontana d'acuto terrore ancor più d'ammansita gloria, ogniqualvolta, sciolte le briglie, all'aere dona sudore, polvere e tenera sabbia altresì morsa tra i docili ed indomiti spalti di un ippodromo ove funesti, gli spiriti maligni tutti avvelenano di Mirtilo, nobile automedonte, l'eredità crudele. Tarassippo, dei cavalli più che temibile orrore, egli è invocato tra lodi e canti di poeti agonali perché la propria terra mai si volga e si desti nel lasciare impuniti coloro che aspra contesa ad Enomao mossero per man della propria figlia. Ora, circonfuso dall'onda, il temibile scoglio con dodici giri avvinto altresì di bava circuìto dai prodi ippocampi nella sua più tetra tempesta al pari di spumeggianti creste di nero corallo, benevolo, scuote le placide membra e la veglia dei cavalli spartani finanche provati nel corpo e nell'amor di patria, tra fiere lusinghe ed elogi di coloro che il non oblio, sì a lungo venerano con auree parole e casti doni di muse eliconie, perché di ogni singolo atleta, lento si sfami il glorioso digiuno tra i fasti di un complice serto d'olivo, di apio forse ancor di mirto più audace. Con me non si accanisca allora, il divo Castore, di tempeste superbo paciere, a volte più vorace nell'innalzare tra polverosi turbini e pietre rosse i timori di ogni città greca, quando sul podio il proprio campione o alcuna bestia s'azzoppa, perché più nero ancora, il vessillo di una gara al di sopra si erge del garrese del fulvo Areion d'Heracles cavalcatura fidata altresì compagno di guerra, o di Xanto, devota guida d'Achille.

Contratto è il muscolo e la mandibola possente del cavallo di Pelopion, dal vittorioso passato, quando la meta da vicino agogna come un dio greco, geloso e d'invidia ricolmo, contro ciò che ogni mortale, nemico eterno, reo possiede più d'ogni altra cosa splenda sulle alte cime. Contratta è quella redine che lungamente avesti da Poseidone, di tutti gl'olimpi fiero scuotitore di terre e di rivi fra i bianchi recinti di Teti; così, a lungo del dio del mare l'ira non si placa tra piedi di bronzo e auree criniere, più folte, dei propri destrieri, quando all'onda sussurra di ogni creatura marina il concitato passo. E a tal richiamo come alito di oscura tenebra emerge e s'innalza lungo quei campi ossidati dall'odor di arrugginiti scudi e solide lance, lo spirito di Seio, alquanto temibile creatura di mole mai udita, con incedere fiero e truce, e manto purpureo altresì splendida criniera, nel morder ferace dell'eroe imbelle i fianchi. Sotto gli sferzanti colpi di un morso ben reso, dapprima, levasi la cinghia da sotto il carro finché della propria ruota il distacco fugace presto, s'insinui e si elevi tra i solchi della terra come aratro avvinto allo sguardo di un'aquila, perché mai di Gordia, il nodo sempre stretto si disciolga attraverso profezie ed illusioni nell’acclamare l’atleta, re per un solo giorno. Per un solo attimo, il muso al dolore si torce e quantunque lo zoccolo, adusto s'infiammi nel doppiare una meta che il volo non assicura con chiara tenacia a chi le ali troppo innalza come Icaro sperduto tra gl'ampi fasci radiosi di una gloria a lui sempiterna convulsa, così con grande coraggio, tra mito e leggenda, al pari di Antiloco, e di Nestore suo padre, maneggia l'esperto auriga i suoi tre campioni nell'aggirar l'ultima sponda di codesto fiume in piena, nel ricordo di Crisopelea arcade.

Ma, al volgere di un ultimo stadio equestre ove limpido si disvela il fato avverso, alla sinistra del carro, bifida la verga furente presto s'abbatte sul dorso reclino come saetta del cavallo udendo i sordi scalpitii e muti nitriti, mentre al vallo, il fuoco di un'olimpica vittoria erutta e fluido s'incendia come fiume fluendo nelle fosse del buio Tartaro, ciclico nel ravvivare dei morti l'insperato ritorno a quella luce fioca che i cantori, all'ombra, come Orfeo condanna; Del resto, al solenne atleta più nulla è dovuto quand'egli sul campo di guerra per sempre giace disteso, con il cimiero da un fil di lama trafitto, poiché dopo la caduta, ineluttabile s'appresta il sole a sparir dal volto di colui che l’eccessiva vergogna consuma tra i fantasmi di una vile sconfitta.

HH E R O E I AE R O E I A

A MA M I L O N E D I I L O N E D I CC R O T O N ER O T O N E

LL A A LL E O N T ÉE O N T É

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

A Milone di Crotone

Come alte colonne ionie che han di basamenti forme irregolari, così di quei pesanti lottatori l’equilibrio vacilla oltre i confini di un’alba la cui fatica ancor disconosce e tace finanche la luce di un pallido sole che solo Febo Apollo tien desto lungo le foglie di bianco oleastro per celebrare le molte corone mortali. Fra i peripteri labirinti d’un antico tempio elleno superba, Eos del proprio carro avvinto al cielo vermiglio solleva gl’ampi timoni nel guidare Lampo altresì Fetonte verso i lidi d’un grigio porto di mare, poiché così, dispersa la luce tra le oscure ombre di un bel corpo scolpito nel pentelico marmo ridona del proprio tragitto il giusto vigore quale austera e imperturbabile cariatide, cedendo al lontano Cleos quell’imperituro peplo di giovane atleta che nella sua beltà si trasforma. Ed è proprio così che il valente Milon di Kroton della propria leonté adorno, come fiero oplita dal grande coraggio, invincibile si erge su quel campo di guerra che di gloios lucente famelico si nutre e altresì della punta d’una lancia ebbro si disseta sopendo tra i fasci del Crepuscolo la diuturna gloria. Egli che ciclico e d’innumeri vittorie agonali ben ha trasformato la propria fama in opulente dote nel condurre imperterrito eroiche gesta contro altrettante città limitrofe quale Sibari focosa, ponendo virtù celate di guerriero e di bronzeo scudo al di sotto delle tenebre d’una spada arrugginita onde la meta tra cenere e polvere rossa, ivi s’assesta e ancora tra ossidate valli di digiuna empietà resa. Lui, che di selvatiche bestie e fiere dal vello irsuto ahimè divenne oggetto di scherno e finanche prigioniero presso una timida quercia silvestre che tombale sepolcro orsù si mostra in virtù della propria sete d’immortale atleta.

A A EE P E N E T OP E N E T O ,,

VV I N C I T O R E N E L I N C I T O R E N E L SS A L T O I N L U N G OA L T O I N L U N G O

Creature d’un giorno,

che cosa è mai qualcuno

che cosa è mai nessuno?

Sogno di un’ombra l’uomo

(Pyth. 8; Pindaro)

A Epeneto, vincitore del Salto in lungo

Leva le cinghie ai suoi polsi dolenti madidi appena nel librarsi in volo l’ingenuo Ikaros, come il pugile stanco si libera dal giogio delle brutali formiche nell’aver condannato il proprio avversario a una nuova patria ove la virtù più non dimora, come dello stanco atleta placasi il gloios lucente sul suo robusto avambraccio nel raggiungere alte vette. Spicca il gran salto dai bei monti cretesi, un colpo di ala e il suo fato si arresta fra grigie ombre così come in ogni athlon la gloria, lenta indugia fra le sabbiose pieghe di uno stadio insorto. Alto si eleva Epeneto fra le molte creature d'ampie ali adorne, dispiegando le altere in maestosa stretta, fra una battuta e l’altra, come colui che solca le olimpiche frontiere nelle vesti di un’aquila; poiché ratto è il successo al pari di Ganimede, servo, e divin coppiere degli Dèi, nell’ottenere di Ebe l’invidia e alla stessa stregua, del vinto, l’amor non corrisposto: paura sul nero volto di ogni padre al pari di Dedalo, il cui ingegno infuoca d’Efesto l’ardente rancore, ma avverando di Naucrate l’infausto annuncio. Lieve si scioglie sul proprio corpo quel cosparso unguento nella forma di cera d’api come un atleta in fasce, il quale lo strigile maneggia al pari d’una ruggente spada, nello sconfiggere di se stesso tenebre e irrisolti indugi.

È così che del vincitore prossimo alla meta quale recinto di sabbia nella figura dello skamma più non viene cinta la testa con il mirto e l'apio fresco, poiché aptero è il trionfo di un fallace traguardo per coloro che inseguono di un’obliata scia campestre l’imminente approdo. Solo un tonfo d'ali, al di là del bater alberga fra nuvole dal vermiglio drappeggio, come quando a un nemico finanche si lancia l’assedio oltre i fasci del tramonto: Affamato è quel becco di rapace mortale, onde le profondità disvela di tal mondo nascosto fra i bianchi scrigni d’un olimpico giaciglio, coprendo il corridore di eterno la distanza; proprio di quella volta celeste, egli scorge ogni limite innalzando l’umana creatura al rango d'immortale. Ma l'eccesso di sé la propria anima brucia al pari di livree ornate dalle fiamme, poiché oltre quel sole che appena scalda i rami del bianco oleastro, si placarano di Fetonte le tese membrane, sempre più fitte come raggi di luce consumate fra i nembi; Cadono dunque le piume da un cielo variopinto nell’attender del nemico la lungimirante resa. Trenodico quel lutto fra creature d'azzurro, paghe del caduco silenzio. Di Nike, le cartilagini ora son sospese in volo fra una nivea bruma che lo stesso Aimophoros dirada con far di chi la meta più non discerne oltre polverosi valli quali atoni cimiteri pien di carcasse.

Taciturna la caduta tra le braccia di ninfe dal nudo vello, per il figlio di colui che un toro albino finanche accordò alla dolce Pasifae. Taciturna la caduta su un nudo terreno di cenere adorno per colui che ancora la sete di potere e fama incendia nelle cavità d’un Averno profondo; ma altresì miope il sole d'Icaro finanche scova tra quei fitti fogliami le sue spiegate membra, come il raggio di luce d’una sconfitta illumina le sue tinte abissali con un pubblico plauso. Di ogni efebo in gara tale volto s'adombra nel duplice riflesso d'un lago di cui Muse furono cieche guardiane; così, alla pari, d’un atleta l’animo s’attarda nel grigio riverbero di quello stesso plauso le cui note citeree più non appartengono a un melodico strumento, bensì d’un lutto riecheggia la sciagurata elegia funesta.

PP O E S I A O E S I A OO L I M P I C AL I M P I C A

TT R I O N F OR I O N F O

Come quando germina il fuoco nel cratere di colui che ne annienta e ne forgia, l’estinta e duttile fiamma, così diverge la lingua di Efesto verso le sponde di Istmia altresì Olimpia a ingravidare di ogni singolo atleta e citaredo il fluido nettare d’aureo oleastro, mentre del carro eliconio con le divine Muse, d’elegiaco ardor in volto, mai più si disgreghi l’armonica ruota.